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prefazione lxiii

aver egli potuto menare così spesso e largamente quel suo inesorabile coltello sulle parti infette senza intaccare qualche volta anche le sane; non è credibile che in tanto arruffio e confusione di versi da disgradarne i responsi scritti sopra le foglie della Sibilla Cumea, abbia sempre saputo trovare il bandolo, e rimettere ogni cosa al suo primo posto. Io intendo che si possa e forse si debba, anche non curando l’autorità dei codici, metter le mani su quei passi degli antichi autori, dove i marroni degli amanuensi e le interpolature dei chiosatori sono evidenti, perchè non reggono al senso comune: ma dove non c’è questa necessità; dove si tratta soltanto di migliorarne l’ordine e la dicitura, e di far parlare li scrittori piuttosto come piace al lettore, che come sta scritto; quando uno a ciò non abbia da farsi forte dell’esempio di qualche antico e stimato codice; l’innovare mi sembra un atto poco lodevole, e fui per dire una temerità. Si predica tanto contro i corruttori degli antichi testi: e questa smania di mutare e correggere non conduce forse allo stesso effetto? Ci narra, è vero, il valente Critico di essere stato a ciò spinto da un «vecchio esemplare senza titolo, da lui comprato pochi anni prima e poi dimenticato; del quale l’aspetto squallido e muffoso avendo un giorno mosso la sua curiosità a leggerlo e confrontarlo coi testi che alla giornata si hanno comunemente per buoni, ritrovò in esso il Poeta satirico non solamente