Il secolo che muore/Capitolo XIX

Capitolo XIX

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Capitolo XIX.

LE SIGNORE ED I SIGNORI.

Parve all’Elvira (e lo notai) avere omesso cosa d’importanza grave, alla quale si era ripromessa riparare quanto prima poteva, e volendo che la dimenticanza non la sorprendesse la seconda volta, fece un nodo al fazzoletto, e per giunta si punse il pollice mancino: di fatti con tante cautele non se ne scordò più; sicchè nel primo momento che rimase sola con Amina le disse:

— Adesso, Nina mia, occorre che bruciamo tutte le lettere che ci siamo scritte: dove hai tu le mie?

— Le ho qui allato.

— Ed io pure le tue; ma non basta; tu mi hai da scrivere una lettera alla liscia, dove esposta prima la disgrazia del portafogli accaduta a Como, mi tratterrai della crescente cupezza di Omobono, [p. 350 modifica] della sua paura di cascare in mano alla giustizia, e finalmente della sua disperazione; calcherai sopra il suo proponimento di ammazzarsi, e tu pure, per l’amore grande che gli porti e per lo stato in cui il tuo mal passo ti ha ridotta, avere risoluto tenergli compagnia nella morte come già gliela tenesti in vita; questa lettera nuova riporrò nella busta dell’antica, procurando che la data della marca postale corrisponda a quella della lettera, e bisognerà pure che ci abbiano fede, e chi gliela nega provi il contrario.

Nè queste sparvierate femmine sperimentarono le Provvidenze loro inani, imperciocchè appena giunte a Milano ecco entrare loro in casa un topo insinuante e rodente, cioè il questore, ovvero il cancelliere criminale... insomma uno di quelli che vanno attorno per città e per ville a raccattare gli escrementi che si lascia dietro il delitto, per portarli al tribunale a concimarvi la giustizia.

Le donne sonavano accordate più dell’arpa del re Davidde: spedirono persona svelta a Como per pigliare odore delle cose, e trovarono che le informazioni corrispondevano a capello; però da questa parte giudicarono spediente interrompere i lavori di ricerca, almeno per ora.

Seguitando un altro filone, il tribunale prese a instituire indagini sottilissime su i libri delle ragioni Omobono Boncompagni e C, e Omobono Onesti, e [p. 351 modifica] apparvero, come veramente erano, ai più svegliati ragionieri laberinti veri da non venirne a capo nè manco col filo di Arianna. Dai libri della ditta Boncompagni e C. resultava avere essa somministrato a quella Onesti somme da prima non esorbitanti, e con queste la ragione Onesti aveva impreso operazioni regolari nel modo, quanto lucrose nel fine; di un tratto si vede una vera fiumana di valori irrompere dalla prima nella seconda ditta, nè si giungeva a capire bene a quale scopo: guadagno l’Onesti non ci aveva fatto su; pareva piuttosto che i negoziati conchiusi con cotesti valori fossero per interesse altrui; di vero non si mescolavano con le altre operazioni particolari alla banca Onesti; donde si poteva conchiudere che i danari versati dalla banca Boncompagni e C. servissero ad acquistare recapiti sopra le piazze estere, e dopo acquistati alla medesima si consegnassero; e stando le cose come si supponeva, appunto non si capiva il motivo di ricorrere a seconde mani, e astenersi da cambiare direttamente da sè: all’ultimo la fiumana avvertita diventa la cascata di Niagara nella cassa dell’Onesti, avvenuta di un tratto, o a pochi giorni di distanza scritta da mano diversa di carattere; e di questi ultimi valori non si ha altro discarico, eccettochè nella fuga dell’Onesti, nella immersione del portafogli nel lago, e per ultimo nella fine miserabile del giovane Omobono. [p. 352 modifica]

Per ottenere un po’ più di lume fu pensato mettere le mani addosso al Nassoli, ma questi, fiutata l’aria, prese il largo, e non riuscì a trovarlo. E perdio mai erasi allontanato costui? Di che cosa aveva a temere? Veramente non era stato partecipe degl’illeciti guadagni, ma consigliere di non poche marachelle egli fu, e le aggiunte su i libri della ragione Onesti erano pure fatte da lui, epperò non si giudicava netto come una tovaglia venuta mo’ di bucato; ed anche pensando come il dubbio e l’errore sieno due campanelle messe agli orecchi del genere umano, e come i giudici per chiarirsi dieno subito di mano all’arnese della prigione, reputò prudente riparare in luogo sicuro. Il Nassoli, come altra volta fu dichiarato, era filosofo adoratore di due cose: dell’Ordine e del Buon esito; badava al fine riuscito a bene; tutt’altro era metodo: pari agli eroi di Omero, per lui non correva differenza tra valore aperto e frode: o se mai distingueva, preferiva la frode, a mo’ di Ulisse e di Diomede; e così il furto dei cavalli di Reso, l’altro del Palladio e il tradimento di Sinone pari in merito alla difesa delle navi greche assalite dai troiani: di uomini siffatti possediamo copia adesso; fra questi il Thiers scrittore e attore plaudente sempre ai felici; se fanno il tomo, ed ei lor suona le tabelle dietro. La fede del Nassoli, posta da lui nel vecchio Omobono, dopo la prima stincatura rimase [p. 353 modifica] incrinata; la ristagnava alla meglio, ma al primo urto si ruppe, come suole, sul saldato. Non aveva preso in uggia il procedere di Omobono come delittuoso, bensì come disordinato; giudicava i delitti stonature in orchestra; egli avrebbe atteso con uguale devozione a che Cristo si trovasse in mezzo l’altare come la carruccola in mezzo della scala; con pari diligenza badato che i sei candellieri sopra l’altare, come le scale su la forca, si trovassero equidistanti tra loro. Con la virtù egli non ci aveva pratica, ma, per quel poco che glie ne avevano detto, quel suo trovarsi spesso in balia dell’entusiasmo gli dava uggia; il male gli si mostrava più positivo e da farci sopra fondamento maggiore, quindi, a mo’ che i santi eremiti per ispirazione divina si recarono nei deserti della Tebaide, egli s’incamminò difilato nel convento dei gesuiti a Brusselle; quivi chiesto del generale, gli fu risposto ch’egli era a Roma, ma che volendo avrebbe potuto parlare col padre provinciale, che sarebbe lo stesso. Il Nassoli, cui l’andata a Roma lì per lì non garbava, soggiunse che volentieri: ammesso pertanto al cospetto del provinciale, espose candido le vicende della sua vita, implorando essere ricoverato nel convento come in fìdatissimo porto; il provinciale lo respinse reciso; ma l’altro riprese ch’egli non intendeva già mangiare a ufo alle spalle del convento; avrebbe versato nella cassa dell’Ordine [p. 354 modifica] ventimila franchi, unico frutto della lunga fatica; e siccome uscendo alquanto dal solito metro volle calcare un po’ troppo su l’ultima parte del suo discorso, il generale ne arguì: dunque ei ne tiene in serbo almeno altri ventimila; onde, mutato subito registro, gli domandò che cosa sapesse fare; e l’altro ingenuo rispose: un po’ di tutto. Allora il provinciale proseguendo:

— Ma voi sapete come noi, seguaci veri di Gesù, pratichiamo sopra tutto il precetto: chi si umilia sarà esaltato, e per necesse la prima prova che chiede ai suoi alunni è l’umiltà, massime da voi, che non potreste essere accettato che per converso; e non oltrepassare giammai gli ordini minori cominciando dall’ostiario.

— E ostiario che è?

L’altro glielo disse, e il Nassoli soggiunse: sia. Nella giornata dunque egli consegnò nelle mani del padre provinciale i ventimila franchi e fu gesuita.1 Richiesti riscontri su lui da Milano, gli [p. 355 modifica] ebbero a capello conformi al suo racconto, ond’egli subito venne in fama di sincero. Preso possesso della carica, incominciò dal sonare le campane con esattezza maravigliosa, sia per l’ora, sia pei tocchi, sia pel suono; cani in chiesa non se ne vide più uno; serviva le messe preciso di voce e di tempo; le ampolle piene di acqua e di vino sempre al medesimo livello senza scattare una linea; le pilette colme tutti i dì di acqua santa; lustrava come specchio il pavimento; nella gloria del quadro di san Luigi Gonzaga i ragnateli non si attentarono più impancarsi in compagnia degli angioli; la beata Vergine Maria ebbe a confessare non essersi mai trovata pulita come allora; i santi Ignazio da Lojola, Francesco Xaverio, Stanislao Kostka si maravigliarono di sentirsi spazzolati con tanto furore; la chiesa dei gesuiti di Brusselle, giudicata sempre un gioiello di lucidezza, adesso poi toccava la cima; il Nassoli, che mutato nome aveva preso [p. 356 modifica] quelle di Lissona, anagramma di Nassoli, fu visto una volta arrampicarsi come scimmiotto su per certe corde, onde assettare un lembo di festone dispaiato col lembo pendente dall’altra parte; egli usciva puntuale, puntuale rientrava; misurati sempre il cibo e la bevanda; nè di un minuto differiva l’andare a giacersi, nè di un minuto affrettava il levarsi; con lui in casa potevano buttarsi fuori di finestra gli orologi: non mai impaziente, non disforme da se mai, sicchè il provinciale, dopo averlo considerato sottilmente per di dentro e per di fuori come sanno osservare i gesuiti, esclamò: egli è gesuita nato! Allora gli commise certa ragione di conto, che fece presto e bene, comecchè fosse suo mestiere; così di mano in mano fu messo dentro alle segrete cose, dove rimase stupito dell’ammirabile congegno dei concetti, dell’armonia delle pratiche, dell’efficacia dei modi di acquistare l’altrui, conservare l’acquistato, ricuperare il perduto, che ei fu per andarne in visibilio: e sebbene nelle vene, piuttostochè sangue, sentisse gocciolarsi olio di merluzzo, pure rimase vinto dall’entusiasmo, imperciocchè un giorno, esaltato, si gittò pentito e contrito ai piedi del padre provinciale e gli chiese a un punto perdono per avere dissimulato e licenza di versare in cassa gli altri ventimila franchi rimastigli.

Il padre provinciale, senz’abbaco, aveva fatto [p. 357 modifica] i conti giusti... egli lo assolvè senza tante invenie, dicendogli come Cristo all’adultera:

— Va’ e non peccare più.

Ma subito dopo, riprendendo le parole, aggiunse:

— Però badate; se tenete in serbo altra moneta, quando vi venga voglia confessarvene, voi sarete con pari indulgenza perdonato.

I tribunali di Ninive avrebbero più facilmente trovato Giona in corpo alla balena che quei d’Italia un uomo inghiottito da un convento di gesuiti; però dopo infinite ricerche sempre invano, i giudici posero l’animo in pace di poter ripescare il Nassoli; il quale sotto il nome mentito più tardi venne a Roma, e credo che ci si trovi anche adesso; tuttavia ci vive desolato, considerando come le faccende della compagnia decadano maledettamente; colpa, e lo dice, della passione, che agitando il cervello di alcuni padri ha scombussolato l’ordine antico; niente di troppo; lo zelo è vizio; tutto al suo punto; adagio quando hai fretta: abbaco e compasso compongono il suono e il canto delle sinfonie gesuitiche: amore, odio, vendetta, perdono, dare e pigliare, tutto vuolsi tagliare alla debita lunghezza come le ugna e i capelli: per ora gli danno poco ascolto e gli appongono nientemeno che lo Spirito Santo in persona là dove dice: «ogni cosa ha la sua stagione... tempo di uccidere e tempo di sanare... tempo di [p. 358 modifica] guerra e tempo di pace.»2 Ma egli risponde: Sta bene; badate che lo Spirito Santo ha taciuto di un altro tempo, che se non adoperiamo giudizio ci sta addosso, ed è quello di romperci il collo. — I furori erotici egli saprebbe sanare col nenufar e la canfora, ma contro ai bellicosi si trova corto a partiti; intanto non rifinisce mai di ripetere come una gazza addomesticata: — Ordine, padri miei, ordine; coll’ordine noi venimmo a capo delle più ree fortune; coll’ordine mantengonsi le monarchie ai tempi nostri; — e comecchè ogni giorno più gli si vada illanguidendo la speranza di rimettere i cervelli a sesto, pure ci si attacca con l’agonia del naufrago: dove questa speranza gli venisse a mancare, egli pregherebbe Dio di farlo morire e convertirlo in un orologio a pendolo per misurare il tempo, finche la eternità sua madre non l’affoghi nel caos con tutti i mondi attaccati al collo.3

Il commesso Carpoforo, debitamente chiuso in prigione, fu interrogato; ma costui, che scottato dall’acqua calda aveva appreso a tremare della fredda, non diede in tinche nè in ceci; non sapeva niente di niente, perchè il principale amministrava da sè la cassa, e quanto a scritture senza dubbio le [p. 359 modifica] teneva egli; ma poco innanzi della partenza il signor Omobono avergli ordinato consegnasse i libri della ragione al computista Nassoli, e questo aveva fatto; di ciò potersi chiarire ogni uomo gittando solo una occhiata su i libri, i quali sul fine palesavano che una mano di carattere diversa dalla consueta aveva scritto le partite; da questo in fuori non ci fu da spillare altro, ed il processo rimase in asso.

Succede nelle procedure criminali come nelle navigazioni transatlantiche, dove se ti favoriscono i venti etesi ti conduci a volo nel porto destinato; se all’opposto ti coglie la bonaccia, la nave per lunghi mesi dorme sopra l’Oceano che dorme; e poichè i giudici credono fermamente che queste calme giudiciali non rechino ingiuria ad alcuno, così non si fanno scrupolo di prolmigarle: in vero, o come lo imputato potrebbe giustamente desiderare quiete e sicurezza maggiori di quanto ne gode prigione? Quivi la voce del creditore non arriva a dargli molestia; quivi non lo angustia la moglie; gli stridi dei suoi figliuoli non lo assordano fin là; il padrone non si bisticcia con lui nè pel fìtto della casa, nè per le ore del lavoro, nè pel salario; le carrozze non lo investono per davanti, le tavole da pane dei fornai per di dietro, gli ombrellai possono fallire, i calzolai impiccarsi, i sarti chiudere bottega; nessuna cura per nutrirsi; tutto li dentro è pagato. Oltre la carcere, si conosce un altro luogo [p. 360 modifica] anche più sicuro di quello, ed è la fossa; posta anche questa in mano al giudice; ma egli la serba per le feste solenni; il pane quotidiano della giustizia è la carcere.

Il vento etesio sorse e si levò da Nervi. La pretoressa facilmente indulgendo alla smania materna, di vedere le sue creature vestite con garbo, fu sollecita a chiamare il più rinomato sarto di Nervi e ordinargli una muta di vesti co’ fiocchi pei suoi bambini. Il sarto non ci andava di buone gambe, come quello che la conosceva più povera di Giobbe, ma siccome la sapeva altresì proba e discreta femmina, si attentò ad arrisicare; da un lato lo trasse la sete del guadagno, dall’altro il pensiero che, trattandosi di panno ordinario e da estate, la batteva in poco. Il sarto fece gli abiti e li portò. Io renunzio a descrivere la beatitudine della madre: agguantò uno dopo l’altro i suoi scimmiotti per lavarli, e con la promessa del vestito nuovo lasciaronsi fare: il sarto, coadiuvato dalla pretoressa, gli indossava ai fanciulli; la madre si struggeva per la contentezza; gli parevano tanti dogi; eglino stessi rimasero un momento attoniti di tanta magnificenza: un momento, che indi a breve tornarono a tempestare peggio di prima. Il sarto, vista la mala parata, cavò subito il conto fuori di tasca, e premesse non so quali parole circa la malignità dei tempi, le strettezze della sua borsa, i mirifici vantaggi del [p. 361 modifica] riscuotere e del pagare subito, conchiuse col supplicare la donna a saldarglielo sul tamburo; ed ella anzi con piacere; andata pertanto a prendere il biglietto delle cinquecento lire, glielo sporse dicendo: pagatevi e rifatemi il resto.

Alessandro Tassoni, volendo dare ad intendere nel suo poema di un furbo matricolato così esprime: l’oste, che era guercio e bolognese; eppure il nostro, che aveva ambedue gli ocelli diritti e nacque a Genova, per accortezza gli avrebbe dato ai cento passi venti di giunta; quindi è che avvertita la grossa somma e la facilità di alienarla, toltosi delicatamente il biglietto nei pollici e negli indici delle mani, lo sbirciò per davanti e per di dietro, lo sperò di contro al sole, e poi incurante che alla pretoressa avessero a comparire bugiarde le jparole testè pronunziate da lui circa alla propria penuria, cavato fuori del suo portafogli un biglietto legittimo della Banca Nazionale Sarda, prese a istituire fra i due biglietti tale un confronto minuto e sottile, che Dio ve lo dica per me: facile gli fa sincerarsi della falsità del biglietto oifertogli; allora verdemezzo le domandò:

— O da chi ha mai avuto voscià cotesto biglietto?

— O che importa a voi saperlo?

— A me? Nulla; purchè voscià me lo baratti.

— Perchè ve l’ho da cambiare? [p. 362 modifica]

— Eh! per un pettin de ninte... perchè gli è falso.

— Falso!...

— Falsissimo; scià mii qui; scià mii qua; confronti, paragoni... e tante ne disse e tante ne aggiunse, da persuadere Pirrone.

— Ed ora? sospirò la povera donna, che si sentì venire la pelle d’oca, e non si potendo sostenere in piedi cadde sopra una seggiola.

— Ecco, soggiunse il sarto, un empiastro ci è, che rimedio non lo posso chiamare; io mi ripiglierò i vestiti per ora: a lei darò otto giorni per venirli a ritirare e pagarli; se passato questo tempo io non la vedrò venire, procurerò venderli a conto di voscià, e voscià mi rifarà la differenza tra il costo di fattura e il prezzo che ne avrò ricavato.

Non fiatò la povera madre; e animosa il doppio di quando si fece ad agguantarli per vestirli, ecco ora gli acchiappa per ispogliarli. La sventura, più che per proprio peso, noi troviamo grave per la debolezza dell’animo nostro; alla povera donna scoppiava il cuore come per morte; il solo sforzo ch’ella durava per non prorompere in pianto le avrebbe meritato la corona del martirio; ma gli uomini queste cose non sanno vedere, nè possono: Dio, licenziato dai cieli come un servitore infedele, senza neanco un zinzino di ben servito, è dispensato da vederle: quindi, sentire a quel modo oggi si giudica [p. 363 modifica] sciupìo di virtù, come notarlo sciupio di tempo. Mirabile a dirsi! Quei demoni incarnati dei figliuoli della pretoressa stavano muti e immobili; veri pulcini che sentono aliarsi sopra la cornacchia. Alla pretoressa non sovvenne la maniera di pagare il conto; tuttavia non mancò di recarsi al sarto per compensarlo della differenza coi risparmi che in una settimana aveva potuto fare su le spese di casa: figurarsi! raschiare sul tosato. Gli avanzi consistevano in cinque lire, e la differenza batteva in venti. Il sarto, indovinando la desolazione della povera donna, si senti venir su come una flatulenza di buon cuore, che lo spingeva a donarle il resto, ma l’afferrò quando stava per uscirgli dalla labbra, e respintala addietro la trasformò in queste altre parole:

— Per le rimanenti quinze lie, voscià non la si stia a invegendòu... me le daròu... quando potròu.4

Anco a quel modo per un genovese non fu poco; e qui pure metterei pegno che se gli angioli custodi usassero sempre, l’angiolo del genovese glielo avrebbe registrato a credito; in difetto dell’angiolo glielo noto io. Gua’! ognuno ha i suoi gusti, chi raccatta mozziconi di sigaro per le strade, chi croci [p. 364 modifica] da cavaliere per le Corti; io le buone azioni da per tutto dove le trovo.

La pretoressa informò del duro caso il marito, il quale sbatacchiato da un insulto nervoso di onestà voleva subito ragguagliarne il prefetto, ma la prudenza lo tenne per le falde e lo consigliò a non mettere il campo a rumore; molto più che i tristi avrebbero trovato materia da malignare nelle cinquecento lire accettate dalla moglie, e di un bruscolo farne una trave; e dacchè i deboli diventano per necessità astuti, deliberò aspettare la sera e far venire una pulce nell’orecchio al prete; e così avrebbe adoperato se il prete per la subita fortuna non fosse salito a petulanza insopportabile, in cotesta sera, cresciuta a dismisura a cagione della sorte che lo favoriva a goffo, onde il pretore, indispettito dentro ma placidissimo in faccia, gli sparò a bruciapelo queste parole:

— Ma sapete, don Macrobio, che novità corrono? Ve le dirò addirittura senza farvi tanto penare; i biglietti di Banca sbraciati dalla marchesa con la pala e’ sono tutti falsi.

— Fandonie! fandonie! Guardate, scarto tre carte...

— Eh! caro mio, per questa volta dubito che la voce pubblica riporti il vero... certe informazioni recapitate all’ufficio...

— Astii, pretore mio, soliti astii... datemi carte. [p. 365 modifica]

— Le informazioni giunte all’uffizio hanno tanto fondamento di vero, che io per debito di magistrato mi troverò costretto a farne inquisizione presso coloro che so averne ricevuti.

Don Macrobio diventò bianco come la candela, che, datagli ai funerali, spegneva appena accesa; depose le carte sul tavolino esclamando:

— Pretore, su queste cose non si scherza.

— Dico da senno io, e mi vennero partecipati i segni onde conoscerne la falsità. Anche senza confronto, ogni uomo, per poco che ci badi, se ne accorge facilmente; se poi si mette sott’occhio il falso ed il legittimo, ne ottiene la prova, per così dire, palmare.

Allora don Macrobio si rizzò su con tale impeto di rabbia, ch’ebbe a rovesciare tavola, lume ed ogni altra cosa; di rincorsa a casa, dove brancolando mise le mani sopra i biglietti ed aguzzò gli occhi per osservarli; ma questi, imbambolati, gli negavano l’ufficio; quindi prese il partito di tornare alla pretura, dove esaminati con maggior quiete i biglietti, il prete dabbene sentì cascarsi il cuore nelle brache di seta.

Tuttavia, per iscaponirlo affatto, mandò pel sarto, il quale, mediante il confronto minuzioso delle differenze, senza pietà ridusse il cuore del prete in un torsello, che la Crusca insegna essere: «il guancialetto di panno o di seta dove le donne [p. 366 modifica] conservano i loro aghi o spilletti, ficcandoveli per la punta.»

Don Macrobio non morì, ma non rimase vivo; di un tratto, spiccato un salto, butta via la callotta di capo, pesta i piedi, si dà dei pugni nella tonsura, e aggirandosi per la stanza come colto da subito furore, tira moccoli da far venire giù tutta la Corte celeste; il pretore, la pretoressa, i cittadini là convenuti a giocare e la serva; i bimbi che dormivano, desti dal diavolio, si buttano giù da letto ignudi come Dio li aveva fatti e corrono dietro a don Macrobio strillando da disperati. Cotesto parossismo nel prete fu trotto di asino; sgonfiò in breve, ed accosciatosi giù prese a nicchiare come donna partoriente: tanto bene da lui era imitato cotesto piagnisteo, che la signora Caterina, moglie dello speziale di faccia alla pretura, sospettando davvero che qualche donna si trovasse alla pretura co’ dolori del parto, andò di corsa pel medico, il quale, taroccando a sua posta, seguitata la Caterina, rinvenne pur troppo il prete, il quale si era sgravato con gran dolore di due biglietti bianchi della Banca Nazionale Sarda e di cinque gialli. Anche il medico cominciò a sbadigliare, non perchè potessero trovargli il biglietto datogli dalla marchesa, il quale ormai chi sa in quante mani era passato, ma si perchè temeva di entrare in qualche ginepraio; però cheto come olio. Le sera stessa la [p. 367 modifica] vedova locandiera col locandiere Luigi Bigi, avvisati dalla fama, che va di notte anche senza lanterna come di giorno, gementi e piagnenti ed anche schiamazzanti, comparvero alla pretura, dove, dopo tre diluvi di parole inutili, quando tutti diventarono afonici, deliberarono andarsene a letto: domani farebbe giorno; e il governo non sarebbe il governo, ma il prete se la prese con Dio, e disse che Dio non sarebbe Dio se prima non costringesse la marchesa a barattargli i biglietti falsi in altrettanti buoni, e poi con le sue sante mani non la impiccasse ad un albero di fico per un piede.

Tu, amico lettore, non avrai per certo messo nel dimenticatoio il questore, amico del Faina; caso mai tu te ne fossi scordato, richiamalo a mente, perchè hai da sapere com’egli fosse pure amico di Egeo, e questi due, legati insieme con ben altri nodi, esercitavano fra loro da tempo remotissimo il cristiano precetto, una mano lava l’altra: e se avessero bisogno di lavarsele spesso, Dio sa. Ora, certa sera che Egeo stavasene sfiaccolato a casa senza sapere che farsi dell’anima sua, gli fa annunziata la visita del cavaliere questore, il quale, dopo le strette di mani e i saluti e gli augurii di uso, gli disse:

— Egeo, di’ su, che di quel curaçao da far [p. 368 modifica] vedere un sordo e sentire un cieco, te ne avanzerebbe un gocciolo?

— Sicuro che ne ho, perchè egli forma parte essenziale del mio viatico nel pellegrinaggio in questa lacrymarum valle.

— E i sigari trabucos li hai finiti tutti?

— Invece di Avana possiedo Manilla da resuscitare un morto.

— Ebbene, vada j)er Manilla e pel curaçao; fa’ portare gli uni e l’altro e barattiamo due chiacchiere insieme.

Portata questa roba, licenziato il servo, chiusa bene la porta, bevuto il primo bicchierino e manomesso il secondo, tra un buffo e l’altro di fumo del sigaro, il questore disse:

— Sotto sigillo di confessione, io ti confido che il tribunale sta per ordinare rigorosissime perquisizioni presso tutte le persone che ebbero attinenza col Boncompagni e con quel poco di buono dell’Onesti, essendosi chiarito com’essi da tempo remoto abbiano posto in commercio una quantità piuttosto sgangherata che grande di biglietti falsi della Banca Nazionale Sarda...

Egeo proruppe in un oh, lungo e roco...

— E temo forte che da questa perquisizione non andrai esente ne manco tu.

— Io! E com’entro io in questi venticinque soldi? [p. 369 modifica]

— Ecco, buona somma di questi biglietti è stata spesa dalla famosa marchesa X, che tutto il mondo sa essere molto cosa tua.

— Passò quel tempo Enea... abbiamo rotto paglia da parecchi mesi.

— Sì, ma nel verbo dei giudici il tempo è sempre presente... dunque da’ retta... se per caso ti fosse rimasto in casa taluno di questi biglietti, bruciali addirittura; potrebbero servirti da tiro a quattro per menarti diritto ai lavori forzati... capisci?

— Capisco; ma con costoro da parecchi mesi non ebbi affari, e pochi furono quelli che ci feci per lo addietro... e accidenti a quello che mi andò diritto! Biglietti di loro io non ho mai posseduto nè possiedo.

— Tanto meglio; ma allora, o perchè di rame mi sei diventato in faccia di ottone?

— Io? Perchè, a dirtela, ho paura che una persona alla quale sono attaccato, adesso, comunque innocentissima, possa trovarsi nelle peste.

— Ho mangiato la foglia; tu capisci che io mi sono condotto qui per giovare a te ed agli amici tuoi; usa prudenza, e non ci siamo visti.

— O che nascemmo ieri?

— Va bene, ed ora ti lascio, che a me da fare non manca mai; e si alzò per andarsene.

Egeo mentre lo accompagnava col candelliere in mano, lo interrogò sbadato: [p. 370 modifica]

— E questa perquisizione per quando tu giudichi l’avrebbe a venire?

E l’altro, non parendo il fatto suo, rispose:

— Chi ha tempo non aspetti tempo: domani potrebbe essere tardi.

Egeo torna a dietro di rincorsa, va al banco, ne tira fuori quanti biglietti si trova a possedere; li riscontra; quelli del Boncompagni non aveva tocchi, erano dugento da mille; i proprio suoi sommavano a cento: esaminati con diligenza e postili a confronto gli pareva impossibile di aver preso quel granchio; ma sì, anche le civette impaniano; divise pertanto i fogli reprobi dagli eletti, li guardò, li riguardò, tornò a guardarli ancora; poi, soprammessa la gamba destra alla sinistra, e quella agguantatasi con le mani incrocicchiate sul ginocchio, dopo alcuni sospiri incominciò a dire:

— Di tanti valori, di tante azioni, obbligazioni di strade ferrate, di tanti biglietti che ti facevano corona, eccoti quasi solo, o Egeo. E almeno di tanto si chiamasse paga quella baldracca della fortuna! Ma no; ella non è contenta se tu con le proprie mani non trucidi questi Isacchi, questi figliuoli della tua tenerezza. Saturno dicono si mangiasse i figli per regnare, ma io non ho mai appetito regni e non appetisco, perchè anche nel mestiere di re comincia a entrarci troppo osso e la carne non vale il giunco. Medea ammazzò i figliuoli, e raccontano lo facesse [p. 371 modifica] per vendetta, ma per me non ebbi mai lite con Giasone, anzi con alcuno. Dicono altresì che il Padre Eterno s’incaponì di pagare col sangue del suo figliuolo un debito non suo alla sua giustizia; ma posto anche da parte che qui dentro io ci vedo chiaro come in un forno, io non ho debiti con le giustizie divina nè umana. E ripensandoci su, Egeo, o non potresti scansare in qualche fondo di cantina questi biglietti infedeli per ricondurli in tempi migliori a rivedere le stelle? No; da’ spesa al tuo cervello, Egeo, e persuaditi che ti stanno intorno alla vita come i cani a quella di Scilla; sarebbero fantini di mangiarti anche le ossa: ormai è finita per te; fintanto si trattava girare attorno al codice criminale, io faceva buono; anche babbo buon’anima me lo lasciò detto morendo: «Egeo, basta mantenersi onesto fino alla porta della galera», ma adesso bisognerebbe sfondare tre o quattro articoli del prelodato codice criminale, e ciò non mi quadra; non già perchè mi dieno fastidio cotesto litanie di articoli, che con una ditata io sono capace di sfondarne più che non fa di cerchi impannati il saltatore col capo, ma sì perchè io corro il rischio d’incontrarmi di là dal foglio muso a muso con qualche cane mastino di procuratore del re. Egeo, datti pace, bisogna che tu ti butti di buzzo buono con un sasso al collo nel canale dell’onestà; o, se ti garba meglio, impiccati per disperazione all’albero del [p. 372 modifica] galantuomo... Qui, declinato il capo sul petto, meditò; rilevandolo poi dopo alcuno spazio di tempo riprese: eppure non mi vuole abbandonare quell’altra baldracca della speranza, la quale mi va zufolando nell’orecchio che una volta o l’altra farà cessare la fortuna, sua sorella, dalle vendette: anche Anteo, per ripigliare le forze, ebbe a battere il pattone sopra la terra... no, il paragone non mi garba, che la patta non gli valse, e all’ultimo gli toccò morire soffocato... piuttosto mi persuade quest’altro: Colombo con piccole caravelle scoperse un mondo; Laperouse ed altri persero sè e i vascelli senza levare un ragnatelo da un buco: coraggio! non è tramontato il mio astro!

Accatasta fascine e legna sottili nel caminetto, e risoluto arde su quelle i dugento biglietti bianchi; severo in sembiante, aspettò che le ceneri si spegnessero e poi si assise dirimpetto a loro; se in cotesto punto gli fosse comparso qualcheduno davanti per domandargli che cosa avrebbe dovuto rispondere al pretore Sestilio, non ci è dubbio che egli, senza singhiozzi, gli avrebbe detto a imitazione del fiero romano: «riferiscigli che hai veduto Egeo sedere su le ceneri di dugentomila lire di biglietti falsi della Banca Nazionale Sarda.5 [p. 373 modifica]

Spente per bene le ceneri, furono con diligenza raccolte da Egeo e gittate da lui nella latrina, posto dove nella moderna nostra civiltà danno fondo più spesso figliuoli illegittimi che biglietti falsi.

— Ed ora, abbottonandosi l’ultimo bottone del soprabito, disse: Egeo, andiamo a fare un’opera di carità — e con questo egli intendeva recarsi presso la Elvira, per avvertirla che caso mai si trovasse a possedere biglietti procedenti dalle banche degli Omoboni, nonno e nipote, non istesse a gingillarsi, li bruciasse addirittura, se pure non voleva trovarsi a guai. Se a questo atto lo spingesse tutta carità non credo, perchè gli amori di Egeo e della Elvira fossero stati di quelli che cominciano a graffi e terminano a morsi. Recatosi pertanto a casa Elvira, gli fu detto ch’ell’era uscita: trovarsi sola in casa la signora Amina, di salute mal ferma.

— Fa lo stesso, soggimise Egeo, e se ne andò difilato nella camera di Amina, la quale rinvenne giacente su di un lettuccio pressochè al buio; domandatole come si sentisse, rispose:

— Male, Egeo, male.

Di fatti molte cause di tristezza l’erano cascate addosso tutte di un groppo; prima la feroce cupidità della Elvira che, richiesta di partire la spoglia del tradito, proruppe in escandescenze, urlando che a lei sola toccava sopportare le spese di casa, a lei spandere danaro per tenersi bene edificati i vecchi [p. 374 modifica] amici, procurarsene dei nuovi o mettere il bavagliolo ai nemici; e poi di che cosa aveva ella bisogno? Ogni cosa che desiderava, lì stampata; galanterie, delizie, fantasie chiedesse e domandasse; non le mancava neppure il latte di gallina: aggiungi che ora le conveniva starsene in casa, farsi dimenticare, non mettersi in vista della gente; e di queste e di altre simili ragioni chiamava giudice il Merlo, il quale, da quel furfante matricolato che egli era, le approvava tutte e ce ne appiccicava di suo. Cotesto erano gocciole grosse, nunziatrici dell’acquazzone, sicchè Amina a dritto poteva dire: il mal mi preme e mi spaventa il peggio: i servi ogni dì la curavano meno; passava intere giornate senza vedere anima viva: già era venuta a tale, che per sospetto non avria mangiato nè bevuto, se non fosse stata la paura di morire d’inedia. A questa prima causa teneva dietro la infermità di cui andò un tempo fieramente travagliata, la quale, comecchè fosse comparsa guarita per virtù del fosfato di mercurio e di altri farmachi del pari violenti, le serpeggiava insidiosa nel sangue e di tratto in tratto le annunziava la sua presenza, ora trafiggendole le ossa in prossimità delle articolazioni, ed ora stirandole i muscoli dolorosamente; più che tutto le dava spasimo la cefalea notturna, mentre la luce le pungeva le pupille: oltre l’angoscia fisica, principiava a impadronirsi di lei un’allucinazione precursora del [p. 375 modifica] rimorso, ed era che, mentre la memoria dei particolari della morte di Omobono in lei illanguidiva, uno solo cresceva, per così dire, a scapito degli altri; e consisteva negli occhi di Omobono, quali ella li vide quando gli sollevò le ciglia per accertarsi se fosse morto, — fisi, con le pupille contratte, senza coscienza di sguardo e non dimanco terribili, oh! quanto terribili! — Cotesti occhi non se li poteva levare dinanzi; nel giorno sempre di faccia a lei, e in mezzo alla tenebra le comparivano più distinti che mai: la solitudine l’atterriva e la compagnia la spaventava, per tema non le scappasse di bocca qualche esclamazione rivelatrice delle sue colpe.

Tutto giorno avviene che ci vediamo sovente apparire davanti la persona alla quale pensavamo qualche minuto prima; forse ciò avviene perchè la precorrano gli effluvi noti ai nostri sensi, che emanano da lei, oppure per tal altro dei tanti segreti della natura che non ha ancora palesato alla scienza: fatto sta che Amina aveva pensato e pensava ad Egeo quando gliene annunziarono la visita.

Entrando nella stanza, così al buio, egli investì dentro una sedia, e parve con suo poco gusto, perchè tirò giù un sagrato da dì delle feste; quindi, stropicciatosi alquanto la parte offesa, prese a dire:

— Ed ora ci è venuto di Francia anche il costume di stare al buio come gli operati della cateratta? [p. 376 modifica] E pazienza al buio, ma sola, e’ ci è da far morire per la tristezza un morto...

— Ah! buona sera. Egeo; vi ringrazio di non avermi dimenticata; giusto in questo punto pensava a voi.

— Amina, non è facile dimenticarti dopochè ti abbiamo conosciuta; ma a ciò diamo di frego; veramente io non veniva per te, bensì per la Elvira; molto mi preme parlarle; e ora do v’è ita? Come le bastò il cuore di lasciarti qui sola?

— Oh! a lei basta l’animo per bene altre cose — ed avendo il cuore pieno, non si potè trattenere di sfogarsi con Egeo; però delle cause della sua malinconia tacque la seconda e la terza, e della prima confessò quanto credè spediente, accomodandolo alla sua maniera: delle insidie mortali a danno dello sventurato Omobono, del proprio corpo avergli fatto la via pel sepolcro, dei biglietti rapiti... insomma della truce tela di delitti ordita dalla libidine di avere nè anco un motto; invece si distese nella infelice passione che l’aveva traviata, e con arte mirabile toccò della poca generosità usatale dall’uomo troppo amato... e tuttavia dello averla ridotta in tale stato lo perdonava e gli pregava pace; entrava a dire della convivenza con la Elvira, diventatale ormai insopportabile: avere conosciuto a prova come cotesta perversa la raccogliesse per giovarsene ai suoi fini, ed oggi aborrirla, o perchè ella avesse conseguito [p. 377 modifica] il suo scopo, o perchè non la reputasse più idonea a procurarglielo; lasciarla in abbandono; non obbedirla i servi, talora deriderla, fra poco l’avrebbero maltrattata, forse peggio... e qui la sua voce sonava pianto, imperciocchè quello che diceva pur troppo temesse.

Egeo sentì i vestigi dell’antica fiamma, che a modo suo l’aveva amata. Gli fosse cotesto amore uscito dal naso, dal petto, o dai piedi, come gl’indiani credono che le diverse coste derivassero dalle varie membra del Dio Brama, fatto sta ch’ei lo provò un giorno, e adesso ancora, sotto molta cenere, ne trovava le tracce; perciò le diceva:

— Amina, da’ retta: tu, e non lo negare, mi hai trattato peggio dell’animale ch’è tanta parte nelle mortadelle di Bologna, sicchè non mi avrebbe da parer vero di agguantare la occasione pel ciuffo di vendicarmi di te; ma no; io ti volli bene e te ne voglio;

Anche infedel ti amai;
Ed or che sei tradita,
Le braccia io ti apro e voglio
Renderti soglio e onor,

come canta Percy nell’Anna Balena; dunque veniamo al grano, come diceva l’ebreo Marini; della mia vita ho risoluto fare una fine; mi è saltata addosso la fantasia di pigliare domicilio nel paese magno della quiete eterna, ma adagio adagio... con tutti i comodi... in bussola. Tutto provai, [p. 378 modifica] meno la parte del galantuomo: ebbene, proviamo anche questa; non fosse altro per erudizione. Alle corte, se tu acconsenti, io ti levo di qui e ti conduco presso la mia parente a Locamo, per ricrearti: poi ti sposerò, o non ti sposerò, come ti garberà: io la rimetto in te. Avverti bene, ricco io non sono più, ma da vivere lo raccapezzerò sempre; a sfoggi dunque non ti ci aspettare; tutta volta da questa vita ci usciremo un po’ meglio vestiti di quando ci siamo entrati; perchè, mira, Amina, io non so chi fossero i maggior tui, ma metto pegno che tu devi avere ereditato qualche cosa meno di venti milioni.

— Egeo, e quando vorreste mandare a esecuzione la vostra proposta? domandò Amina stendendogli la mano.

— Per me, anche subito.

Allora Amina si levò risoluta e si fece nella camera da letto, donde dopo brevi istanti uscì vestita, col cappello in capo, e disse a Egeo:

— Andiamo. Bada anche tu, e pensaci bene per non avertene a pentire poi, da queste vesti che mi cuoprono in faori io non possiedo altro nel mondo; venendo a te sarebbe follia che io pretendessi amore eletto e puro; saranno norma alla nostra convivenza le parole del poeta:

Egli mi amò per le sventure mie,
Ed io l’amai per la pietà che n’ebbe.

[p. 379 modifica]

— Andiamo, soggiunse Egeo, mi tengo per avvisato; il peggio passo è quello dell’uscio.

Elvira tornò a casa tardi; l’accompagnava il Merlo, avvinazzati entrambi; ella straviziava in sala con principi e marchesi; egli in cucina co’ servi; ella aveva giocato al faraone, egli a briscola; ella aveva vinto, egli perso, però gli era entrato il diavolo in corpo; mentre Elvira stava per andarsene in camera, i servi la informarono ch’era venuto il signor Egeo, il quale aveva condotto seco la signora Amina; al che ella osservava: — E’ va pei suoi piedi, la vedovanza l’è venuta in uggia; sta bene, andate a dormire; e tu, furfante, marcia in camera, e prima di coricarti risciacquati la bocca.

A cui di rimando il Merlo:

— O sai che nuova c’è? Io non ci voglio più venire. In pubblico mi tocca a stare fuori di carrozza col cocchiere a cassetta; in casa a letto con te; o insieme da per tutto, o da per tutto separati; io te l’ho detto per la terza volta, e tu non la vuoi capire.

— Ed io per la quarta volta ti avverto che il tuo destino mi sta in cima della mia scarpa diritta; va’ là, buffone, marcia a letto.

Un pipistrello ricoperse con le ale cotesto osceno [p. 380 modifica] rimescolamento, che amore non si potrebbe dire senza offesa anche dei figli della Venere terrena.

Quando Elvira si vide il giorno dipoi comparire davanti Egeo, diede subito mano al suo agaiolo per cavarne gli aghi più acuti per trafiggerlo; ma egli, o non sentendo, o non curando coteste punture, le favellò così:

— Amina, come sai, ha lasciato la tua casa a cagione delle sevizie con le quali tu avevi preso a tribolarla,

— Non è vero nulla... ella ingratissima... ella disamorata...

— Risparmiati il fiato, o adorabile Elvira, per quando sarai arrivata all’articolo mortis, perchè io so appuntino dove e come te ne sei lavata la bocca; ti è bastato fino l’animo di dolerti ch’ella ti aveva screditata la casa! E di ciò, se ci pensi un momento, devi essere maravigliata anche tu. Siamo onesti, come disse il Ricasoli: tu te l’appropriasti come arnese adattato ai tuoi interessi; ora che tu li hai fatti lo butti via. Gua’! Che ti ho a dire? Tu sei nel tuo diritto, e certo non sarò io quegli che ti biasimerà; tiriamo un frego su questo e non perdiamo più tempo. A quest’ora Amina si trova a Sesto Calende, donde pel Lago Maggiore si condurrà a Locarno; nella notte scorsa venne ospitata in casa Sebergondi, dove certo la passò più innocentemente di te; ma ciò non rileva. Io venni qui per [p. 381 modifica] dirti che dalle vesti che la coprono in fuori ella non si è portato altro: ora, ti domando io, ti pare egli decoro lasciarla uscire così ignuda da casa tua?

Elvira, per cotesto parole, si senti punta nel suo orgoglio, che di bontà e di convenienza ormai non si aveva a parlare con lei; onde alquanto risentita rispose:

— Se la sguaiata non se ne fosse partita insalutato hospite, avrei atteso a provvederla del bisognevole.

— Oh! via, di questo non la incolpare; fui io che la persuasi ad assentarsi così, per risparmiare ad ambe le parti una separazione che, forse a torto, io dubitai non si sarebbe effettuata senza qualche amarezza.

— Basta, io te la crederò come tu me la conti; qualche po’ di danaro se l’avrebbe pure a trovare.

— Ne anche un soldo per far cantare un cieco.

— E sarà; la è tanto sprecona.

— Non l’hai creata, bensì tirata su ad immagine tua.

— Ecco, un quaranta... un trentamila lire io gliele regalerò; con queste e col profìtto che caverà dai suoi talenti potrà tirarsi innanzi discretamente.

— E così per lo appunto disegna di fare, ma danari non ne vuole.

— Non vuole danari!

— No; ella teme che le abbiano a portare [p. 382 modifica] gura; mi prega solo dirti tu le sia cortese di mandarle la roba sua: ora tu contentala in questo: dei quattrini parleremo più tardi fra te e me.

— Si accomodi come le aggrada; torna domani e troverai i suoi bauli allestiti.

— Chi ha tempo non aspetti tempo, cuor mio; io non ho da fare niente, e tu, a quanto sembra, nemmeno; riponiamo subito le sue robe nei bauli; io glieli spedirò immediatamente a Locarno, e cosa fatta capo ha.

Elvira assentiva: chiamati il Merlo e gli altri famigli di casa, si diedero a empire bauli di ogni maniera vesti, calzature e cappelli di Amina; la Elvira ci aggiunse roba di suo, e non poca; nè vesti sole, ma dorerie e gioielli altresì. Dato fine alla faccenda, Egeo disse:

— Or ora vado a spedirli, sicchè ci è caso che la roba arrivi a Locarno prima di lei; ma e tu non le scriverai nulla?

— Che le ho da scrìvere, io?

— Mira! Caase d’inimicizia tra voi non ce ne avrebbero ad essere; forse un cotal po’ di gozzaia, che importa a te come a lei levare di mezzo; fai una cosa, scrivile sol due righe di biglietto.

— Io abbassarmi davanti a lei? Jamais.

— Ma che abbassare! Che abbassare! Tu hai da scriverle da protettrice, alla grande; ecco, presso a poco così; e disse il come. [p. 383 modifica]CAPITOLO XIX. 383

Allora Elvira si pose a pensarci su, e dopo alquanti minuti di riflessione conchiuse:

— Andiamo via, i consigli di Figaro ci sieno di norma; e sedutasi al tavolino scrisse:

«Tutta cara Amina,

Apprendo da Egeo la tua partenza per Locarno: quanto questa tua risoluzione mi peni, io non ti dirò; ma tu sei donna di subitanei consigli, e a Dio piacesse che come subiti fossero sempre buoni: ma di ciò basta. Avrei voluto assegnarti centomila lire (quando temeva che le potessero venire accettate, disse quaranta o trenta; adesso, sicura che non le aveva a dare, sbracciava a uscita), ma Egeo mi dichiara che tu rifiuti recisamente danari, ferma nel proposito di sopperire ai tuoi bisogni col frutto del tuo lavoro; quantunque ciò mi sappia un po’ di superbia, pure io lodo, e faccio voti che la Provvidenza ti secondi. Ad ogni modo ti avverto che, in qualsivoglia caso, come la casa ti saranno aperto le braccia della tua benefattora; tu non picchierai mai invano alla porta del mio palazzo, nè mai invano ti richiamerai al mio cuore. Sii felice come ti auguro e rammenta qualche volta chi ebbe affetto di madre per te. — Elvira

In poscritto le annunziava la spedizione della roba; ce ne aveva aggiunto qualche po’ della sua, che la pregava a tenere in memoria di lei.

Egeo prese la lettera, assumendo il carico dello [p. 384 modifica] invio, e, domandata licenza di allontanarsi alquanto per curare il trasporto dei bauli, disse a Elvira non si movesse di casa, sarebbe in breve di ritorno, averle a dire cosa di suprema importanza per lei. Coteste parole buttate là valsero a mettere sottosopra lo spirito della mala femmina, per la vecchia ragione che chi porta la coda di paglia teme sempre che gli pigli fuoco: quando Egeo dopo un’ora tornò, sebbene in vista comparisse tranquilla, pure ella in cuore tremava; appena lo vide, ridendo di un suo riso alla trista, gli disse:

— Ebbene, qual tu ne vieni a me, colomba o corvo?

— Elvira, non corre tempo da scherzi; ti parlerò schietto e succinto; dimmi, ti si sarebbero a caso attaccati alle mani biglietti di banca di provenienza Onesti o Boncompagni?

— Che discorsi mi fai? urlò Elvira, e con vicenda assidua ora avvampava in faccia ed ora impallidiva come per morte. Ah! me lo porgeva il cuore che Amina ti avrebbe messo su... Calunnie... tutte infamie... lo giuro su l’onore mio... su l’anima...

— Elvira, per l’amor Dio, non mettiamo tanta roba a sovvallo; calmati. Amina, non mi ha parlato di niente; io lo arguiva dalle folli spese che fai.

— O che credi il mio tempio così venuto in ira agli Dei, che lo abbiano disertato tutti i devoti?

— Io invece penso che un devoto ti sia rimasto, [p. 385 modifica] non però di quelli che offrono, bensì degli altri che accattano.

— Sei un insolente, esci dal mio cospetto.

— Ti servo di cuore; ma ti avverto prima che i biglietti spesi da te sono falsi, che la giustizia sta dietro a cercarne la traccia, che è in pelle in pelle a perquisire te, me e chi sa quanti altri: se ne possiedi e non vuoi trovarti a guai, bruciali; altro non ho da dirti, e ti bacio le mani.

Ecco la occasione porgermi il ciuffo, perchè io, aperto lo armadio delle similitudini, ne sciorini almeno un paio, incominciando dal fulmine, dall’albero e dal pastore; ma non ne farò niente, stringendomi a dire che Elvira, appena Egeo fa uscito, corse affannata a tirare il cordone del campanello; se nonchè giunta a mezzo della stanza il Merlo mise fuori il capo dall’uscio aperto dicendo:

— Non ti scarmanare, eccomi qui.

E siccome ella pigliava a narrargli il successo per filo e per segno, egli la interruppe con queste parole:

— Tira via, che ho sentito tutto dal buco della chiave.

— E se hai sentito, adesso che pesci pigliamo?

— Ci devi pensar tu; tu li hai da friggere e tu infarinali.

— Rammentati che a tavola ti ci sei messo anche tu. [p. 386 modifica]

— Sicuro, eh! che dovrei servirti gratis di coppa e di coltello?

— Ma non meniamo il cane per l’aia: se ci trovano con questi biglietti falsi temo che entreremo in un bertovello serio.

— Ora che ci penso, ma sai, padrona, che sei curiosa; finchè i biglietti riputavi buoni dicevi sempre io; adesso che li sai falsi parli in plurale.

— E chi ti dice che io li stimo falsi?

— E allora che smanie sono le tue? Tienteli e goditeli.

— Ma se fossero falsi?

— E allora bruciali.

— Si fa presto a bruciare, e poi come tiriamo innanzi?

— Se ti scomoda bruciarli, e tu non li bruciare.

— Vedi, Merlo, quest’altro mi dà noia... ne ho spesi tanti e a tanti gli ho dati, che a dire di no sarà lo stesso che negare il paiolo in capo.

— Senti, se la duri così ti avverrà come all’asino, che non sapendosi risolvere tra la biada e il fieno da che parte incominciare, morì di fame.

— Ecco, io avrei pensato a schermirmi così: li piglierei quanti sono, li porterei subito fuori di casa e porrei in deposito presso qualcuno de’ tuoi amici.

— E se la giustizia glieli trova?

— Quando ho detto tuo amico, ho voluto [p. 387 modifica] indicare persona che un delitto più non sarà quello che la manderà in galera.

— Ci è del buon senso in questo tuo discorso, pure devi considerare ch’è sempre l’ultimo grano quello che dà la balta alla bilancia: epperò io opino che senza mancia nessuno vorrà incaricarsi del deposito: d’altronde ogni fatica merita premio.

— Quanto a questo non ci trovo a ridire: promettigli un terzo, la metà...

— Generosa come un ladro.

— Giusto, a proposito di ladri, ma pensiamo un po’ al risico che il tuo amico ci porti via sacco e radicchio.

— I ladri non rubano ai ladri... che poi sia sempre così non vorrei scommettere; pure affermo che i ladri fra i ladri si trovano più rari che fra voi gentiluomini i galantuomini.

— E questa perla di ladro l’avresti sotto mano, Merlo?

— Non uno, ma tanti da fartene un vezzo.

— Ebbene, va’ in camera; to’ qui la chiave del segretario; prendi tutto il portafogli e diamo sesto a questa faccenda, che mi scotta le dita.

— Tu la vuoi far bollire e mal cocere, o non ti parrebbe meglio rimandarla a stasera?

— No... il cuore mi dice che abbiamo tardato anche troppo.

Il Merlo andava e tornava col medesimo [p. 388 modifica] fogli arraffato da Elvira a Nervi sotto la finestra del morente Omobono; però smagrito come un infermo messo nell’ospedale a mezzo vitto senza vino. In questa la cameriera tutta sottosopra irrompe nella stanza. annunziando:

— Signora... tre signori domandano di lei.

— Fateli entrare...

Erano belli ed entrati secondo la usanza vecchia degli sbirri classici, i quali comparivano in tavola senza prezzemolo. Il Merlo fu agguantato come il gatto col lardo nelle granfie. Allora accadde, come suole, di chiacchiere un diluvio, e, come suole, le ragioni dette agli sbirri furono un monte, e questi, secondo il consueto, non rifinivano di assicurare essere affaruccio da nulla, cose da accomodarsi in un fiat; e al Merlo arrangolava a ripetere:

— Ed io come ci entro? Se mi hanno trovato il portafogli in mano, egli è perchè la mia signora mi ha ordinato portarglielo dalla camera in salotto. che non doveva obbedire io? Me ne rimetto a lor signori, specchi della vera disciplina... prima di mancare alla obbedienza lor signori, mi hanno detto, ammazzerebbero il padre.

— Ma sicuramente, rispondevano gli sbirri, è chiara a luce meridiana, con un bocconcino di schiarimento alla questura vedrà che lo rimettono in libertà sul tamburo.

— Lo crederei! [p. 389 modifica]

— Favorisca, signora, intanto diceva il più galante degli sbirri, offrendo il braccio alla Elvira; ma questa, punta lì per lì nell’orgoglio, respingendolo fieramente, domandò:

— E dove, in grazia, pretendete menarmi?

Il poliziotto, a sua volta sgraffiato, avanzò subito le punte degli artigli e rispose con ipocrito sarcasmo:

— Scusi, madama, mi pareva averle detto alla questura, dove il signor questore l’aspetta per procurarsi il piacere di fare la sua conoscenza.

— Aspettate tanto che il cocchiere attacchi la carrozza.

— Oh! la non si stia a disturbare, ci ho provvisto io; la non dubiti che ogni cosa procederà con decoro.

Di fatti non una, bensì due carrozze trovarono ammannite a piè dell’uscio, e quando Elvira, adagiatasi in una, chiamava il Merlo perchè andasse a sederle allato, il poliziotto offeso nella sua dignità le avvertiva:

— Lei, signor maestro di casa, si compiaccia accomodarsi col suo portafogli in quest’altra carrozza che ci si troverà più alla larga.

La questura non toccarono nemmeno: diritti come fusi in prigione; l’una dall’altro divisi; entrambi in prigione. Il portafogli, dopo che ebbero riscontrato i biglietti, sigillarono e consegnarono al [p. 390 modifica] giudice istruttore, che stese la confessione libera del Merlo appartenere tutti cotesti oggetti alla marchesa sua signora padrona, e gliela fece sottoscrivere insieme a due testimoni superiori a qualunque eccezione, il confessore e il dottore delle carceri; questi medico del corpo, quegli medico dell’anima dei prigionieri.

Nell’ora stessa che perquisirono la casa di Elvira, altri poliziotti compivano la medesima faccenda nelle case del defunto Onesti e di Omobono Boncompagni, ed in tutte qualche cosa pescavano; in casa dell’Onesti torchi, colori, carte ottimamente apparecchiate per falsare i biglietti, pietre litografiche, tavole di rame, bulini, pennelli: uno armamentario intero da fabbricante di cedole false; presso il Boncompagni, nelle stanze di casa nulla, e neppure nel banco: su in soffitta pezzi di ferro antichi e sconnessi, di uso non determinato; qualche punzone di carattere inglese, ed un marchio assai male condotto, rappresentante l’arme dell’Inghilterra. Qualche benigno questore (ed i questori sono benigni tutti, come possono attestare quanti li ebbero in pratica) avrebbe di punto in bianco sospettato che, dopo essersi ingegnati a falsare le cedole di Banca inglese, ne avessero deposto il pensiero.

Ora le ruote del processo, lungamente ferme, ripigliano a girare con celerità maravigliosa; anzi, si sarebbe detto che da qualche mano arcana [p. 391 modifica] venissero unte; e quanto più si accostavano al fine, più turbinavano veloci. Di un tratto, quando uomo se lo aspettava meno, ferme da capo di stianto. come ciò?

Ecco: gli affini di Elvira, al solo udire rammentarla, strabiliavano, i congiunti si sentivano venire addosso i sudori freddi; per verità, e lo notammo, a lei non erano mancati gli esempi materni e nè i paterni avvertimenti, ma sempre invano; ella era proprio ramo tagliato da madre natura dall’albero del male; la perversità aveva rovesciato a panieri i più maligni dei suoi influssi sopra di lei; ribalda nacque, come velenosa la vipera. Se ammazzata alla cheticliella, avvelenata, o meglio annegata col sasso al collo per non tornare più a galla, nessuno dei suoi si sarebbe fatto vivo, qualcuno, all’opposto, avrebbe portato il voto alla Madonna; ma ora non per lei, bensì per sè trepidavano; il nobilissimo loro casato adesso correva rischio, dopo passata la trafila di un processo infame, mettere capo alla galera, e questo li scottava. Se gli affini fossero stati sicuri che i tribunali avrebbero condannata la donna sotto il nome dei congiunti, non se ne sarieno dati per intesi, e così del pari i congiunti nel caso inverso; però grande turbava tutti il sospetto i loro nomi uniti avessero a figurare sopra i registri dello ergastolo, quindi strinsero lega per cavarne la Elvira ad ogni costo; così vediamo sovente nelle classi [p. 392 modifica] privilegiate, che ciò che per amore non si fa, per paura d’infamia si effettua.

Di un tratto però la Elvira provava il giudice istruttore, di can mastino, barbone: non più ringhiava, non più mostrava i denti: scodinzolava; in breve ei seppe cattivare l’animo suo: allora le partecipò come Amina, alle interrogazioni giudiciali, avesse risposto: dei biglietti di banca ella sapere nulla, nè mai averne avuti; forse, ma non lo poteva affermare, non era fuori del probabile che Omobono buon’anima, oltre il portafoglio cascato nel lago di Como, ne avesse un altro; e per ciò verosimile che la signora Elvira, entrandole in camera mentr’ella versava in gravissimo pericolo di vita, avesse trovato il portafogli e tenutolo; e non senza perchè, avendo la buon’anima non una, ma più volte promesso solennemente di costituirle dote proporzionata al suo grado, che per opinione comune si aveva per isterminato. La signora marchesa Elvira per senso di dovere, come per attitudine fisica inettissima alla fabbricazione di biglietti falsi; tanto potere giurare e giurarlo. Ora il giudice istruttore persuadeva Elvira a pigliare la testimonianza ordinata a favorirla, tale e quale, e a servirsene di falsariga per adattarci sopra la sua confessione; pensasse che veniva ad escludere il dolo dal fatto dell’appropriazione del portafogli e dall’altro dello spandimento della moneta falsa; pel [p. 393 modifica] resto lasciasse almanaccare gli avvocati. Il tedio del carcere, le impedite sfrenatezze nelle quali la Elvira irrompeva alla stregua degli anni declinanti, ed anche perchè si vedeva venire meno ogni altro uncino dove potersi attaccare con qualche speranza di buon esito, la indussero ad accettare il partito e a metterlo in pratica.

Rispetto al vecchio Omobono, ci volle il diavolo per ridurlo a termine di ragione; fieramente di tutto si lamentava e di tutti; i suoi costituti erano querimonie e imprecazioni perpetue; avere accolto al suo seno di padre parenti, amici, di ogni maniera infelici, e tutti avergli deposti nel cuore nidi di aspidi; peggio di ogni altro il proprio sangue; il suo nipote avere falsato i biglietti, egli averne per milioni e milioni empito la sua cassa; nè potersene accorgere egli, perchè inesperto a conoscerli, come quello che non amministrando la cassa non li aveva in pratica: unico e di piena fiducia, capace a trovare il bandolo della matassa arruffata, il Nassoli, ma sparito ad un tratto, non avere lasciato traccia dietro di sé. Cotesta parve acqua grossa, ed era, ma passò per la doccia; tuttavia faceva mestieri rinvenire un capo espiatorio, e per ventura non mancava; quello del tradito giovane Onesti, il quale presentava due qualità uniche all’uopo, era assente e morto.

Nonostante ciò, fa reputato savio consiglio [p. 394 modifica] sostare, affinchè le ardenti passioni dei creditori sboglientissero, i quali co’ pugni chiusi, i denti stretti, irti i capelli e stremenziti come il Flaxman disegna gli spettri degli eroi greci comparsi ad Ulisse giù nell’inferno, stavano ad aspettare che i prigionieri uscissero di carcere per iscorticarli di santa ragione; ed anche perchè la gente, assuefacendo l’occhio alla cosa, o dimenticandola nel turbinio giornaliero delle vicende umane, non levasse troppo scalpore a vederli prosciolti.

Ed i presagi, come ordinariamente avviene, si verificarono, dacchè nei fallimenti i tocchi nell’interesse si avventano sul fallito a nugoli e schiamazzanti peggio dei corvi sopra la bestia morta; ed un convento intero di monache non varrebbe a ripetere le letanie delle bestemmie e delle maledizioni che escono loro di bocca; ma poi il nugolo si dirada, che qualche stella cadente si stacca a sua posta dal cielo mercantile per precipitare anch’ella nel fallimento; il tempo cicatrizza la piaga; e quando ormai si sono adattati a perderli tutti, se mai avvenga di ricuperare un terzo, non parrà loro perderne i due terzi, bensì guadagnare un terzo, e, se ti piace, farai loro deliberare un voto di ringraziamento ai ladri.

I bisticciamenti fra spogliati e spogliatori in commercio arieggiano agli screzi che corrono fra gl’innamorati; si rappattumano presto; la causa [p. 395 modifica] di pace trovano per lo più nello accordo di spogliare un terzo.

Dopo un attendere lungo, un bel giorno la Camera di consiglio giudicò tutti i detenuti aversi a riporre in libertà per mancanza di prove; quanto all’Omobono Onesti, lui spento, spenta l’azione penale. Questa notizia non fece caldo nè freddo, e tutti poterono tornare inavvertiti nel consorzio umano, come i ranocchi dalla ripa rituffansi nel pantano. Innanzi però di aprire la porta del carcere alla Elvira, la costrinsero ad accettare per patto ch’ella si sarebbe spontaneamente confinata sotto nome mentito in qualche remota terra di provincia, dove l’avrebbero mantenuta, e poichè ella capì che reluttando gliene poteva incogliere peggio, piegò la testa e si ridusse a Gavi, nell’Appennino Ligure; le tenne dietro il Merlo, delle tante accuse appostegli di questa unico innocente. Qual vita costà menassero, io volentieri mi passo raccontare: nella medesima guisa che i gravi tendono perpetuamente al centro, Elvira ogni giorno più precipitava verso lo stato che gli uomini appellano abbrutimento, con espressa calunnia delle bestie, di cui ogni specie vive da pari suo. Nè tabacco, nè acquavite, nè vino bastavano a sollevare la tetra noia: invece dei bei discorsi come i pastori di Virgilio costumano, si alternavano sbadigli da fendersi le mascelle. Le persone dabbene li fuggivano, i ribaldi si peritavano [p. 396 modifica] visitarli; allora il Merlo, per non morir di noia, propose procurarsi la patente per la rivendita dei tabacchi e dei sali, e piacque; e tanto si dimenarono con le mani e co’ piedi, che l’ottennero. Apersero pertanto bottega in mercato, dove non mancando frequenza di trecconi e di vetturali, la bisogna avrebbe potuto camminare pei suoi piedi, se la Elvira e il Merlo non avessero da per loro consumato la metà delle provviste; allora trovarono un altro partito, e ci aggiunsero il giuoco: dopo l’un’ora di notte, chiusa la porta, illuminati appena da una lampada fiunosa, e con carte luridissime si davano a spellicciarsi scambievolmente a maccao, a toppa, a goffo e ad altri giuochi plebei, comecchè noi non sappiamo giuoco nobile che sia: ladri sempre, non era da supporsi che deponessero gli istinti rapaci sopra la soglia: non l’avrebbero fatto entrando in chiesa, figuratevi se lo volessero fare entrando in bottega al Merlo! però non passava notte, che Dio metteva in terra, che non accadessero fiere riotte con accompagnatura di pugni, seggiolate e legnate ed altra simile confettura: certa notte, fra le altre, il Merlo attaccò lite con Sandraccio, uomo fino dalla sua nascita destinato a morire su la forca come il cappone in pentola. Sandraccio, colto sul punto che rubava la carta, con un pugno mandò a terra la lampada, e grancita una manata di quattrini se la diede a gambe; il Merlo, [p. 397 modifica] infellonito, salta fuori di bottega, e piglia a rincorrerlo, e via via tanto che lo arriva sul canto della piazza, quivi gli mette una mano sopra la spalla, e con la bocca trovandosi presso ad un’orecchia di lui, di una zannata gliela strappa mezza: il nibbiaccio, ridotto a mal partito, cacciava urli, che per morte non avria potuto maggiori: sopraggiunsero due giandarmi, i quali, come suole, diedero lì per lì torto ad ambedue; ma il Merlo perfidiava a voler dire la sua ragione, e intanto la ubriachezza e lo affanno non gli permettevano di spicciare parola, sicchè uno dei giandarmi, non avendo tempo da perdere, mise faori le manette, ultima ratio dei giandarmi; al quale argomento non mostrando volersi arrendere il Merlo, i giandarmi gli strinsero vie più i panni addosso per persuaderlo; non fu niente di niente; due cotanti intorato, il Merlo caccia fuori il coltello, e ne passa da banda a banda il braccio sinistro al giandarme, il quale, senza dire un fiato, cava a sua posta la rivoltella, e gli spacca il cranio come un melogranato. Accuse, processi, discorsi da un lato e discorsi dall’altro, ma è stabilito che ai giandarmi non si può mai negare ragione, massime quando hanno torto; il nostro giandarme, avendo ragione, stentò alquanto più a farsela fare; per allora l’assolverono; dopo alquanto spazio di tempo lo licenziarono, avendo conosciuto i suoi superiori che veramente costui menava un tantino troppo lo [p. 398 modifica] mani: gli si contavano tre ammazzati e dieci feriti nello esercizio della sua nobile professione.

Elvira (caso non raro nè strano) prese a delirare pel giandarme omicida, che acuto solletico le diede il sembiante terribile e il corpo atticciato, nèe il giandarme trovò il tornaconto a rinnovare il caso di Giuseppe ebreo, lasciandole il suo tabarro in mano: durò breve il contubernio; al giandarme non piaceva andare in armento, però dirizzava l’ale in altre regioni, non senza avere fatto prima domine repulisti in casa dell’amica del cuore; l’Elvira, tutta sottosopra, ricorse alla pretura, ma o non la crederono o non le diedero retta: allora non le sovvenendo altro conforto, nè volendo, nè potendo forse ritrarre il piede dal tristo cammino, prese ad allogare più che mai i molesti pensieri nell’acquavite. Sovente la raccattarono per le strade in deplorevole stato, rotta il mento e la fronte, tutta sanguinosa o intirizzita dal freddo; portata all’ospedale per morta, si riebbe sempre; ma anche per lei una volta le furono buone mosse, che stramazzata briaca nel canto di una via; le si rovesciarono addosso le braci del caldano che portava, onde arsero le vesti e le carni di lei; la mattina la rinvennero cenere: — uscita di grembo alla natura terra innocente, ci tornò terra scellerata; ma scellerata o no, ella è tutt’una; anzi essendo il vizio crapulone, chi sa che la sua terra non contenesse elementi più idonei al [p. 399 modifica] laboratorio della natura, che la terra costretta alla compagnia della sobria virtù. — Parrebbe che a scavare tutte queste cose l’uomo ci avesse ad essere condotto come un condannato alle miniere, ma no; egli si arrangola per sapere e far sapere cl’è una bestia, e va su i mazzi a pensare che la sua figlia leverà gli occhi al firmamento per richiamare la memoria di lui morto, invece di cercarne la traccia fra i lumbrichi del terreno guasto. E’ sono gusti!

I parenti dell’Elvira provarono per la morte di lei maravigliosa contentezza, però non la palesarono, paurosi di rimuginare la cloaca; in segreto ne fecero baldoria; dove e come morisse lo seppero pochi: tuttavia rimane in certo mondo memoria di lei come della più bella e più abietta creatura che sia comparsa fra noi a dare l’ultimo sfregio su la faccia della nobilea italiana.

Omobono, uscito di prigione con fronte più invetriata delle maioliche di Luca della Robbia, ricomparve in Borsa, abbordando disinvolto or questo, or quello dei suoi conoscenti. Guai al banchiere caduto! Il sodalizio loro è compagnia di lupi, uniti per divorare: quando taluno resta ferito, gli altri gli saltano addosso per divorarlo; nè certo ci è da fare le maraviglie, che finisca in odio un amore che nei giorni più lieti si nudriva con dolci messaggi di protesti, conti di ritorno e precetti a pagamento. Non giovava pertanto scansarlo, nè [p. 400 modifica] voltargli le spalle; per guardature bieche non si sgomentava costui; con disgustosa famigliarità poneva a tutti le mani addosso, lasciando il segno nero anche su la veste nera; non gli riescendo co’ vecchi archetti a pigliare più uccelli, prese ad arcare; dapprima chiedeva cento per avere dieci, ma si ridusse presto a domandare dieci per ottenere uno: e ciò nonostante questo rigagnolo in breve si seccò; allora fu visto di via in via rovistare, a mo’ che i cani fanno per le spazzature, in traccia della sua figliuola; cerca, fruga con cervicace insistenza, alla fine la rinvenne; orribile a vedersi, le comparve davanti: sozzo nelle vesti e nel corpo, artigli le mani, il volto non più umano, le scarpe a ciabatta, sdrucite sul tomaio, sicchè seminava, come si suol dire, le dita; la palandrana per lungo uso lustra, sforacchiata, in brindelli, quasi bandiera che si fosse trovata a molte battaglie contro la miseria; il cappello ad ogni sussulto levava in alto il cucuzzolo... pareva la scatola del frate cercatore quando entra in casa al contadino, e la sporge col saluto: sia lodato Gesù Cristo, lusinga al nasso e lusinga alla religione della massaia; ma se era orribile a vedersi, troppo più era ad udirsi. Egli ghignando si congratulò con Isabella, che la sua fortuna le concedesse il lusso di beneficare la giovane cieca; cosa di ottimo augurio, dandogli sicurezza ch’ella potesse adempire il dovere di compensare il padre [p. 401 modifica] che si era quasimente spropriato per lei, e che il suo figliuolo aveva assassinato: alle corte, pensasse a mantenerlo, e bene, altrimenti avrebbe ricorso ai tribunali per farla condannare a passargli la prestazione alimentaria. La povera donna con mani e con cenni lo supplicava a tacere, onde le sue parole non contristassero il cuore della infelice giovane; ma costui ringhiava più stizzoso che mai.

— Che importa a me di colei? Veniamo al gloria patri... vai d’accordo a somministrarmi gli alimenti?

— Padre, vi darò quello che posso.

— Parole equivoche... frasi ministeriali: tu hai a pigliare per misura non la tua potenza, bensì il mio bisogno; d’altronde volere è potere; l’ha detto anche il Lessona.

— Sentite, padre mio, venite, noi stenteremo purchè stiate bene voi.

— No davvero; io non intendo di starmene in compagnia; le oche vanno in armento, le aquile volano sole... hai capito... vogliono essere quattrini... piglierò anche carta; però meglio sarebbero contanti.

— Non urlate, per carità; non mi fate scorgere nel casamento... oh! che vergogna! che vergogna! Eccovi tutto quello che possiedo — e Isabella rovesciò le tasche sul tavolino.

— E che sono eglino cotesti soldi? Non mi [p. 402 modifica] bastano pel tabacco — pure si mise a contarli — trenta... trentuno, trentadue, trentatrè... quanti gli anni di Cristo; — dopo averli intascati soggiunse: — Vo’ vedere se ne liai altri, e fattesi dare le chiavi, frugò armadi e cassettoni, ma non rinvenne altro: allora, infellonito di trovarli vuoti, si volse alla figliuola e le domandò:

— E della bella roba che avevi, che ne hai tu fatto?

— Padre mio... la miseria...

— La miseria! Vallo a contare ai morti... come puoi sostenere la miseria, se ti trovi capace di aprire in tua casa un ricovero di mendicità?

Isabella per se avrebbe sopportato ogni cosa, ma udendo umiliare così la povera cechina, cominciò a venirle meno la pazienza; ventura fu che di un tratto frullasse per la testa a quel tristo di andarsene, e:

— Orsù, disse, io non vo’ entrare nei fatti vostri; domani tornerò a mezzogiorno in punto... e bada a farmi trovare i miei trentatrè soldi... per ora, s’intende... perchè tu devi bene ficcarti nella mente che trentatrè soldi ad un uomo par mio non possono bastare.

Dio solo, che li vide, conobbe i dolori della desolata per sopperire alle improntitudini di cotesto uomo: anch’ella provò le sue ore di passione, che fanno sudare acqua e sangue: non bastando [p. 403 modifica] l’arrovellato lavoro notturno e diurno a racimolare i trentatrè soldi ad Omobono e a provvedere il cibo a due persone, se condannava al digiuno: e siccome la povera cieca non avrebbe sofferto nutrirsi mentr’ella si struggeva d’inedia, il suo cuore di donna e di madre le suggerì, un pietoso inganno, il quale fu questo: mentr’ella sedevasi a mensa con la cechina, batteva del cucchiaio in fondo alla scodella, e recatoselo allo bocca, con le labbra mandava il suono di chi sorbisce materia liquida; e così dando ad intendere che mangiava, incoraggiava Eufrosina a saziarsi senza sospetto.

Ormai ho risoluto di non incomodare più gli angioli con le mie similitudini, però che mi accorgo che anch’essi stanno in bilico di dare la capata nella bottega del rigattiere, ma io credo (e quest’altra è roba che nella bottega del rigattiere non capiterà mai) che solo Gesù, in un trasporto divino, avrebbe saputo trovare così gentile atto di amore.

È facile immaginare come non corressero troppi giorni che la fatica incomportabile e lo scarso nutrimento condussero Isabella a tale, che appena poteva reggersi in piedi; sovente non vedeva gli oggetti interi, all’opposto, la più parte annegati nel fuoco; le frizzavano i nepitelli di cocente ardore; non più bianca la congiuntiva degli occhi, bensì chiazzata di sangue, e tuttavia si fece coraggio per istrascinarsi fino al mercato a procacciare quel [p. 404 modifica] po’ di vivere per la giornata: comprò non so che erbaggi ed una libbra di riso, non badando, come quella che era sbalordita, ai soldi che aveva in tasca: comprò anche un pane, ma quando fu sul pagarlo si accorse avanzarle due soldi soli: avvampò di vergogna, e rimettendo il pane sul banco, parlò tutta tremante:

— Scusate, mi sono dimenticata di portar meco i quattrini per pagarlo.

Senonchè la fornaia, sbirciandola in volto, si accorse che s’ella stava male in tasca, doveva trovarsi peggio in casa; onde le fece ressa a pigliarlo, lo pagherebbe a comodo; e la Isabella, dopo alquanto schermirsi, pensando che in casa non ci era pane, lo pigliò e le disse grazie, nella pienezza del cuore.

Anche questa sarebbe stata un’azione degna che Dio ne pigliasse ricordo nel suo taccuino, per ricompensarla nel giorno del giudizio, ma poichè la moderna filosofìa ci ha portato via il giorno del giudizio e Dio, la fornaia si chiami saldata dalla contentezza che provò, non mi attento affermare maggiore, ma quasi uguale a quella di vederselo pagare.

La Isabella, salite le scale con lena affannosa, depose la spesa sul tavolino di cucina; guardò nell’armadio, e recatasi la boccetta dell’olio in mano, si fece a sperarla di contro all’aria; visto che [p. 405 modifica] conteneva tanto rimasuglio di olio da condire il riso alla Frosina, parve respirare, ed esclamò:

— Anche per oggi non istenterà, la meschina. Allora, tolto il coltello, si pose a trinciare l’erbe; quando l’aspettava meno, ecco comparirle davanti il padre Omobono, che sempre beffardo le domandò:

— Ebbene, i miei trentatrè soldi li hai tu ammanniti?

— Oh! padre mio, mirate un po’ che cosa mi sia riuscito raccattare per vivere la giornata... ed anche il pane l’ho avuto a credenza; e come sfinita si lasciò cascare su di una seggiola.

Il volto, l’atto e la voce di lei facevano testimonianza com’ella pur troppo avesse parlato il vero; per la qual cosa non parve aria ad Omobono insistere sopra il denaro, ma posta mano sul pane, sul riso e su gli erbaggi, il pane si cacciò sotto il braccio e il rimanente in tasca, poi volse imperturbato le spalle per andarsene.

— E noi con che camperemo? gli guaiva dietro Isabella; ed egli, di su il limitare di casa, di rimando:

— Un giorno di digiuno fa bene all’anima ed al corpo; quella preserva dal peccato, questo dalla indigestione — e scomparve.

Isabella, che fino a quel punto non aveva avuto balìa di levarsi da sedere, ecco sentire una fiumana di sangue avventarlesi alla faccia; i nervi irritati impartirle inusitato vigore, e assorta in piedi lo [p. 406 modifica] rincorse e lo raggiunse a mezzo la prima scala: qui gli pose la mano al petto e gli disse:

— Rendimi il cibo di quella povera creatura.

Omobono, visto il balenare degli occhi della donna, la rigidità della membra e il coltello che per caso l’era rimasto nelle mani, ebbe paura; feroce ad un punto e codardo come sempre accade tra i vili; quindi si affrettava a renderle tutto piagnucolando:

— Ed io con che mangio?

Isabella brandi il coltello, ed egli atterrito saltò giù sul pianerottolo, non tanto presto che Isabella gli potè levare il pane di sotto al braccio, e tagliatolo gliene porse mezzo dicendogli:

— Con questo voi non potete morire. Al tempo stesso, avendo ricuperata la minestra e gli erbaggi, aggimigeva: e se volete la minestra, aspettate che sia cotta.

— All’inferno te e la tua minestra; all’acquavite come ci rimedio? E così favellava, perchè costui aveva fatto assegnamento su mezzo pane e sul riso per rinvestirli in tanta acquavite.

Prego il lettore a riscontrare la osservazione che sovente ho fatto per mio uso, cioè che l’acquavite pei ribaldi tiene il luogo d’Ippocrene pei poeti: dalla prima i tristi cavano gli estri del delitto, imperciocchè anche ai perduti quel rompere la legge metta un zinzino di scrupolo, ed un zinzino più quelle di natura; dopo avere eccitato gli estri del [p. 407 modifica] delitto, fa da calmante al rimorso, il quale taluno morde come la vipera e tal altro come la zanzara, ma tutti morde.

Il dì veniente, inevitabile come il destino, si presentava Omobono, e lo avvertivano invano la sua figliuola giacersi inferma; che premeva a lui se la passione e lo stento l’avevano obbligata a starsene a letto. Volle passare ad ogni modo, e di su l’uscio della camera prese ad interrogare:

— E i quattrini?

— Non ce ne sono, rispose la inferma.

— E da mangiare?

— Neppure.

— Questo vedremo, e andò a sincerarsi rovistando ogni cosa in cucina ed i più riposti nascondigli di casa; allora tornò in camera alla figliuola, dove gli occorse a capo del letto la immagine della Madonna; era una copia di quella del Sassoferrato, che ha il mesero tirato giù su gli occhi e le mani bellissime in atto di preghiera, così leggiadramente soave a vedersi, che devoti e non devoti volentieri le fanno di berretta col saluto: Dio ti salvi Maria piena di grazie;6 guardatala alquanto, Omobono favellò:

— Oh! che gingilla costei che non ti aiuta? E [p. 408 modifica] poichè ella o non può, o non vuole aiutare te, la sforzerò ben io ad aiutare me.

E staccatala dal muro la portò via, strillanti invano e reluttanti le donne. Omobono, nascostasi la tela sotto il palandrano, a scanso di scandali se ne andò difilato a venderla a Neftali rigattiere, il quale dopo un gran battagliare di parole gliela pagò due franchi; costava cinque volte più la cornice, e pure Neftali, comprata appena, se ne penti; temè qualche mal tiro di Omobono; stava proprio su i pruni, onde prima di mezzogiorno si disfece di cotesta mercanzia pericolosa. L’acquistò per dodici (e l’ebreo, come di rubrica, giurò per vita sua che gliela dava a scapito) una generosa devota; cosa ordinaria a incontrarsi, imperciocchè queste due qualità accordino insieme come il suono e la voce. La generosa, tornata a casa, levò da capo del letto una vecchia immagine della beata Vergine, e ci sostituì la nuova; poi le accese il lume, — e questo parve ordinato, perchè la ci avesse a vedere; poco dopo ci tirò sopra una tendina, — e questo evidentemente perchè non ci avesse a vedere; contradizioni umane, che si svelano da per tutto, anche al capezzale del letto delle generose.

Volle ventura che la portinaia, non vedendo scendere per tutto il giorno la signora Isabella, dubitasse che si sentisse male, e si appose; saliì, ed entrata in casa si accorse a un tratto della [p. 409 modifica] desolazione delle donne, onde si profferse amorosa di sovvenirle giusta la sua possibilità. Isabella, non respingendo il soccorso che Dio le mandava, levò di sotto al guanciale dov’ella posava il capo una bellissima trina, e la porse alla portinaia, pregandola gliela portasse a vendere a qualche signora; da ebrei rigattieri, per amore di Dio, no; del prezzo ricavato in prima pagasse il fornaio, che le aveva fatto credenza del pane; del rimanente — e questo le susurrò negli orecchi — provvedesse brodo e alimenti leggeri per ricreare la povera Eufrosina; quanto a sè non importava, ormai sentiva avere messo il piede sul cammino della morte, e niente allettarla a tornare indietro. — La portinaia non le rispose niente; solo col dito le accennò la giovane cieca; — come per dirle: fatevi coraggio per lei. La buona donna ebbe avvertenza a tutto. La Isabella, tostochè la vide uscita, si recò il vivagno del lenzuolo in bocca per reprimere i singhiozzi, e le lacrime le inondarono la faccia; — perchè ella pianse? Ah! le venne in mente che cotesto trine orlarono l’accappatoio che coprì i suoi figli quando li inviava al battesimo. Tanto ormai del suo sangue non vestiranno più alcuno!

A notte affannosa succede giorno pieno di ansietà, imperciocchè le donne aspettassero da un punto all’altro la visita di Omobono col cuore del condannato che messo in cappella attende il carnefice [p. 410 modifica] che venga per lui; con maraviglia pari alla contentezza egli non comparve; ed ecco come andò la cosa. Che Omobono fosse quasi una spugna tenuta per tutta la sua vita in molle nella malignità lo sappiamo; ora, a cagione delle avversità e dell’acquavite, la sua malignità, per così dire, si era immalignita: si era fatto un orologio di cui i minuti, le mezze ore e le ore segnavano i dolori arrecati altrui; se gli bastava il coraggio, sarebbero stati delitti; si contentava seminare ceci per le scale, perchè taluno le ruzzolasse, o vetri per le strade, onde chi va scalzo si tagliasse; si dilettava introdurre sassolini nelle serrature, onde l’operaio la mattina perdesse tempo ad aprire la bottega, e spazientito bestemmiasse il santo nome di Dio. Soleva dire, che se le bestemmie fossero stati fiori, ne avrebbe colto tutti i giorni un mazzo per offerirlo a San Gaetano padre della divina provvidenza!

Ma a costui erano soprammodo odiosi i fanciulli; lo agitarsi di questo sciame strepitoso e irrequieto pei vari giochi della infanzia lo faceva arricciare peggio di un istrice che veda il cane; così non ci era dispetto che loro non facesse; se li sorprendeva a sollazzarsi alla buchetta, egli con le proprie mani la riempiva di terra; se alla settimana, ed egli ecco cancellarne i segni dei vari compartimenti co’ piedi; era il flagello dei maschi e delle piastrelle, perchè quante gliene capitavano nelle mani tante [p. 411 modifica] scaraventava lontano; nella spagnoletta il meno che si potevano aspettare era vedersi con un calcio sparpagliati i soldi fitti per taglio in terra; onde i ragazzi, appena lo vedevano dalla lontana scantonare, gli urlavano dietro:

— O maligno! O vecchio maligno!

Egli allora, tutto indracato, volgendosi li minacciava col pugno, ed essi, quantunque per la tardità delle membra costui non li potesse rincorrere, pure spuleggiavano; ma indi a breve raggruppavansi più infesti di prima, e agli schiamazzi aggiungevano i fischi. Ora accadde che Omobono, per essersi la sera innanzi ubriacato di acquavite, si levasse tardi, e più scorrubbioso del solito; gli pareva gli tenessero un bottone di ferro infuocato su lo stomaco; aveva la bocca, per così dire, motosa: camminava per le vie svagolato e brontolando vanità maligne; fortuna volle che gli venisse fatto di passare per certa via, dove parecchi giovanetti giocavano alla palla, e come avviene rimase bollato; costui schizzò veleno, ghermì la palla, trasse fuori un coltellino, e sbuzzatala ne disperse il ripieno. Se i fanciulli si arrapinassero a vedersi sagrificare sotto gli occhi a quel modo l’amata palla, immaginatelo voi: per me giurerei che tanto non patì Agamennone per la figlia Ifigenia, lui presente svenata su l’ara di Diana.

Gli urli di vecchio maligno e i fischi andarono [p. 412 modifica] alle stalle, e bisogna confessarlo, volò anche qualche sassata; Omobono non si rimase con le mani a cintola, e raccolti anch’egli alquanti ghiaiottoli, rispose per le rime, donde ne nacque una sassaiola nelle regole, l’èsito della quale però non poteva esser dubbio, perchè, oltre a trovarsi Omobono solo contro a tutti, i suoi colpi come quelli di Priamo contro lo scudo di Pirro erano tela sine ictu, mentre i sassi dei fanciulli fendevano l’aria sibilando come vipere in amore: dopo lungo battagliare, ecco un sasso coglie in pieno l’occhio sinistro di Omobono e glielo spacca orribilmente; costui per lo atroce spasimo stramazza e si avvoltola per terra; i ragazzi spulezzano; le guardie di sicurezza accorse raccattano Omobono semivivo, e lo trasportano semivivo all’ospedale; e questa fu la causa ond’egli in quel giorno non tribolò con la sua presenza la povera Isabella.

La infermità fu giudicata pericolosa, la cura lunga; ne uscì con un occhio di meno, e più che non era deforme a cagione di una margine cavernosa sempre sanguinolenta; siccome durante la malattia e nella convalescenza spesso diede prova di vaneggiare, fu. deciso accomodarlo in certo ricovero di mendicità nella Liguria, dove io lo vidi.

Stava solo dentro una stanza che prendeva luce dall’alto, e tutti i compagni d’infortunio lo fuggivano peggio della moria; colà grugnando logorava [p. 413 modifica] i suoi di a sfilacciare vecchi cavi. Chiamato a nome non rispose; mi posi fra la luce della finestra e lui per tentare se il buio subitaneo valesse a moverlo, e non tentennò. Interrogato il custode intorno ai costumi di lui e alla qualità del lavoro che faceva, mi rispose:

Cotesto suo capo è una pentola che spicca sempre il bollore della iniquità, con questa ragione, che le gallozzole di mano in mano spariscono in una galla sola, ch’è quella del furto. Quante volte ha occasione di andare nella sua stanza da letto, tante ci porta dentro un lucignolo piccolo o grande, e lo nasconde dentro le materasse, ovvero nel saccone; in capo alla settimana noi andiamo a cavarlo e lo riportiamo al magazzino; e’ pare che non se ne avveda, però che il lunedi cominci da capo. La sfilacciatura ch’ei fa serve per calafatare i bastimenti; ad altro non è buono.

Allora il mentecatto, piegando il collo sopra la spalla sinistra e sbirciando traverso di sotto in su, proprio a mo’ della iena, brontolò:

— Non tutta... non tutta; buona parte ne vende costui ai funaiuoli, perchè la mettano in mezzo ai cavi, che i funaioli furfanti quanto lui danno per nuovi.

Io proruppi in un solenne starnuto per fare le viste di non sentire; ma guardando di scancio vidi la faccia del custode tinta in verderame. [p. 414 modifica]

Un tempo furono gli altari asilo contro la giustizia umana e la giustizia divina; oggi contro la umana non contano più, ma contro la divina si cercano sempre, e si cercheranno ancora per lungo secolo; imperciocchè si mantenga grande il numero di coloro a cui giova una religione che ti agguanta l’anima e te la foggia a maestro, dove da un lato ti si registrano a d’abito le colpe e dall’altro a credito i suffragi, offrendoti comodità di metterti da parte un po’ di viatico pel viaggio del paradiso, o alla più trista di saldare i tuoi conti; quindi non importa nè anche dire con quale e quanta furia Amina si attaccasse all’altare, e per converso con quanta furia i sacerdoti si attaccassero a lei; scarafaggi che sotto l’altare pongono il covo. La donna si peritava a mettere nel bucato della confessione tutti i panni sudici dell’anima sua, e per altra parte la serpentavano i preti non isperasse salute se non travasava la sua anima intera nell’anima del confessore; forse, se avesse potuto persuadersi, se avesse avuto pegno in mano che dopo la confessione fosse cessata la vista dei due occhi appannati dalle pupille contratte, ella avrebbe rotto il diaccio; ma no; qui incerto il guadagno, la perdita del mettere a parte una terza persona dell’orribile segreto sicura. [p. 415 modifica]

Però, compiacendo alla naturale sua disposizione ed ai conforti del confessore, desiderò in prima mettere a fìl di squadra il suo stato dirimpetto ad Egeo. Il confessore sempre lì a limarla, che per celebrare il santissimo sacramento del matrimonio bastava, e ce n’era di avanzo, la sola cerimonia religiosa; ma ella non dandogli torto, pure lo supplicava a consentire che si facessero le cose in regola ai termini della legge; però i preti, addentata che abbiano per un orecchio l’anima del cristiano, non lasciano presa così facilmente, onde il confessore insisteva:

— Ma veda, la è chiara come il sole di luglio che regna in tutto Babele; legislatori e leggi, mentre rifuggono dal fine peggio che dal sangue di vipera, ecco qua spianano le strade e ci spingono la gente. O la mi faccia la finezza di dirmi che cosa predica aborrire questa società matta? Il materialismo; e sta bene, perchè questo è morte di ogni eccelsa aspirazione, e fa le anime immortali sorelle alle ranocchie nel pantano. Ora, mi dia retta, questi grulli, per conseguire il loro scopo, che mi fanno? Allontanano dai matrimoni, nei quali tanta parte ci entra di bestia, ogni concetto di sacramento, che solo vale a nobilitarli: ma le pare che bastino a consacrarlo la lettura di alcuni articoli del codice civile fatta da un coso che sbadiglia e fa sbadigliare, a patto però che sia fasciato della sciarpa [p. 416 modifica] dai tre colori? Dopo ciò, o che trova ella di strano che altri, alla derrata del diavolo aggiungendo la giunta infernale, insegni ai popoli il matrimonio consistere nel mescolarsi in amore alla spartita di due creature di sesso diverso? I galli, secondo i nuovi dottori, soli maestri da preporre allo insegnamento del matrimonio e dei suoi doveri. — A queste aggiungeva altre ragioni, ma l’Amina dura.

Proprio il giorno antecedente a quello del matrimonio davanti il sindaco, Amina tenne ad Egeo questo discorso:

— Caro Egeo, il Signore, che ha veduto in segreto la vostra carità verso me, povera, derelitta, ve ne vuole ricompensare in palese... e qui raccontava essere provvista con bene duecentocinquantamila lire di capitale; volere accomunarle con lui con questa ragione, che di ogni loro bene si facessero donazione irrevocabile inter vivos.

Ad Egeo parve sentirsi inondato da capo alle piante di contentezza; un vero bagno di giubilo; ma siccome nel fonte stesso del piacere sorge qualche cosa di amaro che ne intorbida le acque di un tratto, una nuvola gli passò davanti gli occhi. La nuvola sorgeva dal dubbio: — e se fossero falsi! — Ma a rimettergli il cuore in corpo sovveniva la donna dicendo: legittimi essere i biglietti, averli esaminati ella stessa più volte; li riscontrasse anch’egli; e avvertisse che da lei potevano adoperarsi [p. 417 modifica] in buona coscienza, perchè il defunto marito glieli aveva assegnati per dote.

Mentiva; ma da un punto all’altro di vermi non si diventa farfalle, e questo le diceva anche il confessore, che ogni dì le faceva una predica, e talora dopo il pasto un’altra.7

A Egeo poco premeva, anzi punto, chiarire se Amina mentisse, moltissimo poi se fossero buoni i biglietti di banca; ella glie li portò; egli prese a esaminarli parte a parte, e poi nell’insieme; niente sfuggì alla sua molta pratica in materia: per ultimo con un sospiro, che tenero gli partiva dal cuore, esclamò:

— O benedetta tu sia fra tutte le donne, i biglietti non sono falsi; però. Amina, pensa che mettendo io in comunione solo cinquantamila lire, mentre tu ce ne poni duecentocinquanta, ciò darebbe luogo a Dio sa quanti sospetti, che ci potrebbero turbare la pace domestica... forse peggio... tu hai buon giudizio, e vorrei tu mi capissi: a scanso di fastidi, ecco, io figurerei costituirti la dote di centocinquantamila lire, che tu poi faresti soggette alla donazione, e [p. 418 modifica] siccome io godo sempre opinione di ricco, ciò non farebbe specie. Per tua sicurezza iscriveremo nei nomi tuo e mio nel gran libro le ventuna o ventiduemila lire di rendita, a patto che non si possa alienare senza il consenso di ambedue.

La donna assentiva; stipularonsi i contratti; il matrimonio civile si celebrò; e finalmente le due colombe furono congiunte davanti l’altare del Signore da un sacerdote quasi innocente quanto loro, il quale per di più li benedisse.

E codesta benedizione sembra che sopra la infermità latente dell’Amina esercitasse la virtù della rugiada sul cespite dell’erba inaridita; perchè appena ella tornò a casa le si manifestava nella gola un bruciore insopportabile; crescendo lo spasimo mandarono pel medico, il quale tostochè l’ebbe esaminata fece ritirare il marito col pretesto di visitarla nelle parti segrete del corpo, ma in realtà per dirle spiattellatamente:

— Signora Amina, mi duole averle a dire che vostra signoria è minacciata di lue sifilitica della peggiore qualità; prima di tutto si separi di letto dal suo signor marito, ed anche di camera; in quanto a me, mi studierò medicarla con i rimedi indicati dall’arte salutare, e spero riuscire a guarirla; solo la prego ad essere obbediente alle mie prescrizioni.

In questa guisa il giorno che vide stringere il [p. 419 modifica] nodo delle due belle anime fu testimone altresì della separazione dei corpi.

Terribile fu il processo della malattia, che per me giudico avvelenamento; e non mica portata fra noi da remote contrade per la trafila degli spagnuoli, o dei francesi, ma sì messa nel mondo con le sue benedette mani da Dio: sicchè fra le altre delizie il genere umano dovrebbe essergli obbligato anco di questa.8

Nella sciagurata la infermità consumò implacabile i suoi tre stadi; se talora davanti alla potenza dei medicamenti parve arrestarsi, e’ fu come poca acqua in fiamma, la quale invece di spegnerla la divampa. Apersero la marcia le ulceri, a cui tosto si aggiunsero ascessi infiammatori e virulenti, scrofole e dolori nelle ossa in prossimità delle articolazioni; ma supremo affanno le arrecava lo spasimo nei capelli, che presero a cascarle in tanta copia da trovarne quotidianamente sparso il guanciale e piena la cuffia. Durante la notte pativa strazi d’inferno, ora guaiva come colta dalle doglie del parto, ed ora strideva come se le trafiggessero il cuore; le stava nella fronte inchiodata la cefalea notturna, e sempre dinanzi agli occhi, sia che li tenesse aperti o chiusi, le pupille appannate e contratte del morto [p. 420 modifica] Omobono... sempre... ahimè! sempre; e siccome ella fantasticando, si dava ad intendere che tra coteste pupille e la sua visione intercedesse qualche spazio, poneva nel mezzo la mano per nasconderle; vani conati! che coteste pupille appannate e contratte, non fuori, ma dentro la fronte gliele aveva dipinte il rimorso.

Impensierito dei progressi del male, il medico curante, sentendosi venir meno il coraggio, persuase consulti, e si aggiunse alla cura medici che andavano per la maggiore: allora sì che ricomparve il caos nella magnificenza della confusione: chi prescrisse bagni sulfurei e chi iodici; altri, Dio ne liberi da bagni: frizioni mercuriali soltanto. Da un lato dieta rigorosa, dall’altro ha da mangiare bocconi ghiotti, e vino del buono, e lo ha detto il Faloppio.9 Il confessore, che si trovava presente al consulto, non potè trattenersi da esclamare: — anch’io faccio così, e me ne trovo benone.

Uno dei medici, con aria ingenua, soggiunse:

— Come! Anche lei si cura la lue in cotesto modo, reverendo?

— Che lue? Io mi curo in cotesta maniera lo stomaco, la lue lascio intera a lei, eccellentissimo.

Proseguendo i medici a contradirsi, taluno suggeriva tagliassero i capelli alla inferma e col [p. 421 modifica] sapone glieli lavassero, tale altro non si toccassero; solo con molta cura si nettassero; chi li voleva coperti; chi scoperti: con quattro voti contro tre rimase vinto il partito della fumigazione. Posero la malcapitata a sedere sopra una sedia, e sotto questa collocarono un lume alimentato a spirito di vino, il quale infocava una lastra di porcellana messa orizzontalmente sul lume, e quivi spargevano ad ardere fino a due grammi di cinabro: coprivano inferma e sedia per via di cappa d’incerato disposta così, che non lasciasse adito a svaporazione; a quel martirio la facevano durare quindici minuti o venti; però cessarono di corto, imperciocchè ogni volta che tentavano lo esperimento ce la cavassero più morta che viva.

Ne i medici soli si erano moltiplicati intorno al letto della inferma, bensì preti, frati e di ogni generazione beghine; i primi non sapevano di altri rimedi che non fossero messe, tridui, novene, e così via; le altre, pur confessando la virtù di tutte queste cose, a cui aggiungevano quella dei rosari alla beata Vergine della Cintola, consigliavano, ammannivano e di celato ministravano all’Amina brodi di serpi e vino dove avevano annegato rospi... ella poi beveva disperatamente ogni cosa, tanto agita i petti mortali la rabbia della vita!

Tuttavia il morbo procede a bandiera spiegata: adesso tutto il suo corpo si cuopre di eruzioni [p. 422 modifica] puraulenti, massime negli occhi e nelle membra riposte; il sangue dà volta come il vino sotto la sferza del sollione; la sifilide si avventa alla gola, e quinci e dal naso emana in copia una materia viscosa di formidabile fetore più tristo di quello dell’ozena. Ora l’uno, ora l’altro occhio, e sovente ambedue le s’infiammavano nelle iridi, nelle orbite e nei globi, per cui la luce la punge e il buio non la solleva; molto più che le pupille appannate e contratte del morto le stanno attaccate alle palpebre quasi bocca di amante s’incolla alla bocca dell’amante.

Veramente non ci era mestieri occhio medico per conoscere che la morte veniva avanti a gran giornate; tuttavia occhio di confessore in simili faccende non teme confronti; e poi i segni della prossima fine concorrevano tutti; prima di ogni altra cosa la quantità dei medici; il continuo contendere di parole, e talvolta d’ingiurie fra di loro, senza che alcuno sapesse che pesci pigliare; in fine il flagello dei medicamenti; comode da notte, tavole, tavolini, canterani, inginocchiatoio ingombri di bocce lunghe, piccole, mezzane, di ogni dimensione, insomma tante che più non possiedono canne gli organi della chiesa dei Cavalieri di Pisa e della cattedrale di Siviglia; il mercurio faceva pomposa mostra di se, sotto tutte le forme e con tutti i colori; qui avanzi di pillole di etiope, ovvero ossido mercuriale nero, colà reliquie di deutossido rosso, più oltre di calomelano [p. 423 modifica] biaìnco, e non mancava lo ioduro giallo. Lo preparazioni metalliche furono tentate tutte, e invano; il platino o l’argento, e soprannmmodo l’oro in pillole, ovvero mercè frizioni sopra la lingua; i medici, disperati, si erano spinti fino ad amministrarle bevande di sublimato corrosivo, rimedio giudicato eroico per modo, che a ragione può dirsi l'Achille della morte. Anche il dottor Tenca con la caterva dei suoi medicinali ci rimase sbancato. Allora non parve al prete tempo di starsi con le mani a cintola: quindi, avvertiti i servi che andava a confessare per l’ultima volta la signora, epperò non entrasse persona, nè anco il marito, aperse con fracasso l’uscio, si pose di faccia alla morente con sembianza minacciosa; dopo parecchi istanti con tali parole l’assale:

— Donna, la morte ti batte alla porta di casa; peccatrice, io non voglio avere su l’anima la perdizione della tua anima. Io ti leggo nel cuore; tu non hai confessato tutti i tuoi peccati; fin qui le tue confessioni furono tanti sacrilegi. Tu hai dubitato della misericordia di Dio, e Dio vendicandosi ti nega la sua misericordia; perchè io vo’ che tu sappia, maggiore ingiuria non potersi fare a Dio, che mettere in dubbio la sua bontà. Tu certo non leggesti nei libri di santa madre Chiesa, bensì unicamente libri profani, e pure, se tu avessi voluto, avresti eziandio da questi raccolto insegnamenti [p. 424 modifica] lutari per l’anima tua, come appunto Sansone levò il miele dalla gola della bestia feroce: e forti dulcedo; l’esempio dell’ira del Signore che leggesti nella Ildegonda di Tommaso Grossi è vero, vero come il Vangelo, vera la mano lunga lunga, nera nera, che calava giù dal cielo del letto, e buttati via dal guanciale il crocifìsso, dai piedi la stola, e abbrancato l’infermo alla strozza, lo strangolava; veri i demoni saltati sul letto a graffiargli il crisma dalla fronte; vero il doloroso trasporto dell’anima alle fiamme dell’inferno su le spalle ai demoni; preci non valsero, non assoluzione di sacerdoti, Renzo Brancaleone di San Vittore andò dannato nel fuoco penace, dove sono rabbia, disperazione e stridore di denti, per avere taciuto in confessione un solo peccato. Dunque confessa il tuo, approfittati di questo istante che ti concede Dio nella sua infinita bontà; non ci è tempo da perdere, scegli tra Dio e il diavolo, tra l’inferno e il paradiso.

La donna infelicissima, presa così a soqquadro mentre il suo spirito errava sul confine ultimo della vita e sentiva ventarsi in faccia il soffio ghiacciato della morte, fu invasa da ineffabile terrore; tutte le piaghe del corpo le si riapersero e pianse lacrime di sangue — proprio di sangue spremuto dalle ulcere che aveva intorno agli occhi; tremola più che foglia di autunno in procinto di staccarsi dall’albero, con voce rantolosa svelò al confessore l’atroce insidia tesa [p. 425 modifica] ai danni dell’infelice Omobono; e giunte le mani, con gli occhi levati al cielo, stette come persona che attenda il colpo di grazia; ma con sua maraviglia somma, non meno che con sollievo, la voce del prete, lasciato di un tratto il suono del serpentone, assunse quello soavissimo del plauso, e le diceva: Dio stendere così larghe le braccia da ricoverare bene altre colpe che non erano le sue, a patto però ch’ella con attrizione e contrizione dei peccati commessi si pentisse e con fermo proposito deliberasse di non commetterne più. (e qui il prete si prendeva evidentemente gioco della moribonda). Tuttavolta, il sacerdote proseguiva, il pentimento solo non bastava alla espiazione delle colpe; occorreva lo accompagnassero i suffragi, i quali non solo avrebbe dovuto ordinare per l’anima sua, ma troppo più per quella del tradito defunto; la quale uscita, sua mercè, da questo mondo senza sacramenti per colpa sua, andò perduta... forse; che un solo sospiro di contrizione basta a placare l’ira di Dio; e vuoisi credere che questo sospiro gli sia uscito dal cuore; ma quanti secoli di purgatorio prima di purificarsi! Nè manco lo scritturale del debito pubblico saprebbe scrivere tanti numeri. Dunque presto si ponesse mano a fare un bel testamento di ogni sua sostanza in pro della pia casa di ***, con l’obbligo della celebrazione quotidiana di messe, e uffici altri divini in capo ad ogni mese e ad ogni anno. La donna [p. 426 modifica] rispose: magari! ma temere assai poterlo fare con efficacia a causa del contratto di donazione scambievole celebrato col suo marito Egeo.

A questa inopinata notizia il nostro prete fece greppo come fanciullo a cui il gatto abbia sgraffiato una mano, pure, avvezzo ai colpi di vento, non si diede per vinto e chiese del contratto, e Amina, che lo teneva sotto il guanciale, potè porgerglielo senza indugio; il prete, presolo, volto alla inferma soggiungeva: — si desse coraggio; non disperato il suo stato affatto, e ci volesse per sanarla anco il miracolo, pensasse che come non sarebbe il primo, così non si avrebbe a giudicare l’ultimo operato per intercessione della beata Vergine e dei suoi santi avvocati in paradiso. Amen. Verso sera tornerebbe a visitarla, intanto trattenesse il pensiero in pie meditazioni.

Impaziente poi di uscire per la ragione che sto per esporre, e non rimanere soffocato dal fetore iniquo, irruppe con passi frettolosi fino alla porta, ma qui risensando tornò a comporsi, piegò il collo, atteggiò il volto a compunzione e aperse l’uscio. I servi, quale turandosi il naso e quale tenendoci sotto ampolline e fazzoletti intrisi in acque odorose, gli mossero incontro per domandargli: Come va? Come sta?

Ed egli:

— Ahimè! Laborat in extremis, orate pro ea, orate fratres; stasera verrò ad amministrarle la [p. 427 modifica] estrema unzione, perchè quanto alla eucaristia non ci è da pensarci nemmeno.

E se ne andò: se ne andò per recarsi a saetta volante dall’avvocato meglio tenuto in pregio della compagnia di Gesù; il nostro lettore già deve essersi accorto come il curato, quantunque non fosse ascritto de jure alla prelodata compagnia, pure le fosse addetto: e il mondo va pieno più che non si crede, anzi dirò di avanzo, più che non si ha la codardia di confessare, di satellizio siffatto; di satelliti di gesuiti vanno ingombri il parlamento, i consigli provmciali e municipali; nelle scuole non mancano e nella curia; e, duro a significarsi, non mancano in casa, e tu, che leggi, forse ti trovi del gesuita in corpo più che non pensi, imperciocchè tu mangi del gesuita impastato nel pane, lo bevi confuso nel vino, lo respiri nell’aria: per me propongo addirittura eleggere re d’Italia il padre Becker gesuita, dopo Vittorio Emanuele s’intende, e semprechè il principe Umberto se ne contenti, dacchè non vorrei mi apponessero l’accusa di sovvertire l’ordinamento presente delle cose e la monarchia della Casa di Savoia.

Questo reverendissùno avvocato meriterebbe essere descritto per la sua persona, costumi e modi suoi, con il suo studio altresì ed i suoi conunessi; ora mi menerebbe troppo in lungo; lo farò un’altra volta. Il confessore pertanto, succinto e preciso, gli [p. 428 modifica] espose il suo bisogno: considerasse se per via di testamento potesse buttarsi all’aria il contratto di donazione che gli porgeva; se sì, ammannisse tutto, testamento, notaio e testimoni; tornerebbe poco prima delle ventiquattro, e partì. L’avvocato senza indugio si mette all’opera, legge, rilegge, torna a leggere; spezza frasi e periodi, li riconnette, li confronta nell’insieme, li esamina separatamente, leggi consulta e commentatori; entra e giravolta nel laberinto - non mica quello di Creta, bensì l’altro della giurisprudenza, in mezzo al quale s’incontra, non il minotauro, che per quello si sente dire fu mezzo uomo e mezzo bestia, bensì una bestia intera. Tanto cotesto contratto, tutto bene considerato, gli parve avere ad essere messo in terzo co’ nodi di Salomone e gordiano.

Puntuale come... il vizio delle similitudini, ch’è un vizio come gli altri e peggiorando invecchia, il viaio, dico, delle similitudini quasi mi aveva spinto su l’orlo di paragonare la puntualità del prete con quella degli orologi pubblici, che tutti i giorni gli orologiari rimettono e tutti i giorni vanno peggio; puntuale dunque, il prete comparve nello studio del giureconsulto, il quale con faccia da de profundis clamavi, tostochè lo vide, gli disse:

— Ah! padre mio, cattivo nuove; io ci ho provato tutti i grimaldelli della legge sofisticata e della giurisprudenza cavillata, ma e’ non ci è verso per [p. 429 modifica] aprirlo: il contratto sta, e mettersi a cimento di farlo annullare dai tribunali tornerebbe lo stesso che dare del capo nel muro, e lor signori devono astenersi da saputare contro vento, perchè, massime ai tempi che corrono, vi ritornerebbe in faccia.

Il nostro prete, all’udire questa sentenza, lanciò un’occhiata al cielo, che parve un tiro di schioppo ad ago; tuttavia, ricompostosi, indi a un attimo disse:

— Gua’! bisogna rassegnarsi ai divini voleri, — e se ne andò via senza pur torre comiato dall’onesto curiale. Passò di rincorsa dalla sagrestia, dove presa la teca dell’olio santo prosegui fino alla casa di Amina. Le parole di lui, messo appena il piede sul limitare dell’anticamera, furono queste:

— È anche viva?

— Viva, rispose un medico, che giusto in quel punto usciva da visitare la inferma, anzi in apparenza più sollevata che non fosse mai da parecchi giorni in qua.

— o come può darsi questo?

E l’altro: — Già, tutti gli infermi all’appressarsi della morte pare che si riabbiano; ma non è perciò che sembra ricreata la signora: ella le stazioni del suo calvario ha compito tutte: già accadde la tumefazione delle ossa; la cangrena di queste, ovvero la necrosi è incominciata; le guancie le Pendono giù flosce; i muscoli furono presi da paralisi; respira [p. 430 modifica] appena; la sua laringe ha perduto le parti solide che ne formano, per così dire, lo scheletro; i brani necrosati di tratto in tratto gitta fuori tossendo; ora riesce facile a intendere, che cessando in lei la potenza di- espellere taluno di cotesti brani di carne fradicia, o il catarro sifilitico, che le si condensa nella gola, ella può da un punto all’altro rimanere soffocata; sicchè la causa più prossima di morte per lei non sarà la sifilide, bensì l’asfissia: ciò può accadere adesso, o fra un minuto, o fra ore: ma fino a domani non potrebbe andare. Già Venere, secondo il costume vecchio, non ismesso mai, ha incoronato la sua vittima; voi potrete osservare la fronte della misera donna cinta da una tempia all’altra di ulcere dolorosissime.

Così è, le care rose, onde l’Amore inghirlanda i suoi devoti, dove vengano tocche da taluna delle inique Veneri, o pornea, o schenide, o pandemia, o etaira, perdono le foglie, e diventano spine in paragone delle quali paiono soavi gli artigli delle Furie.

Il prete, dopo avere avvertiti i circostanti che lo lasciassero solo con la moribonda, imperciocchè intendeva riconciliarla con Dio, li chiamerebbe per amministrarle la estrema unzione, entrò in camera, e a colpo d’occhio conobbe come nello indugio stesse il pericolo, onde reso a costei il contratto di donazione, favellò: [p. 431 modifica]

— Pur troppo, di qui non si può cavare seme da seminare grano di suffragio; ma a voi non possono mancare mezzi da sopperirci, comecchè in minima parte; dove tenete i vostri ornamenti? Ori, gemme e simili? Vi fia meritorio convertire tutti questi arnesi di peccato, suggeriti dal demonio per la perdizione delle anime, in opere intese alla saluto dell’ anima. Poca cosa sono, ma Dio che misura il valore dell’offerta non dal pregio di quella, bensì dalla intenzione dell’offerente, ve la segnerà a credito nel giornale dov’è scritto il bene e il male: volete darmi a questo scopo libera e spontanea i vostri ornamenti preziosi?

La donna si provò a parlare, ma facendole fallo la voce accennò col capo affermativamente: allora il prete cacciò le mani rapaci per cantere e cassette, tutto arraffando, e tutto nelle bolge della sua tonaca affondando; non gli parve caso di perdere tempo a esaminare quale fosse buono e quale falso, li scevrerebbe a comodo; — come rispose la buon’ anima dell’abate Arnoldo circa all’ammazzare in fascio cattolici ed eretici a Bezières: «ammazziamoli tutti, poi il Padre Eterno a tempo avanzato cernirà i buoni dai cattivi.»

Intascati i gioielli, il prete soggiunse: Qualche biglietto di banca voi ve l’avreste pure a trovare?

Ed ella assenti con un lieve cenno del capo; altro non potè significare; allora egli fruga e rifruga, [p. 432 modifica] rovista, rifrusta, metti sottosopra ogni cosa, e trova tra biglietti grandi e piccoli otto bellissime mila lire, che ripose dentro un abitino della Madonna del Rosario fatto a modo di tasca, che portava appeso al collo.

Ciò fatto, da capo il prete, improntissimo come un prete, aggiunge: Se avete altri oggetti di oro o di argento non vi lasciate scappare la bella occasione di fare un magnifico affare, voi li mettereste a cambio in paradiso alla ragione del mille per uno.

Ma essendo venuta meno nella donna la balìa di assentire, ella tacque; ond’egli conchiuse: chi tace acconsente, e continuò ad arraffare: da prima prese una stoppiniera di argento, poi un cucchiaio e un campanello, il quale per sospetto che squillasse agguantò pel battaglio, e insinuò nelle tasche dei calzoni; avendo visto poi a capo del letto un angiolino con la piletta nella mano sinistra e l’aspersorio nella dritta, tutto bene inteso di argento, così gli rivolse la parola: Creatura celeste, tu hai finito il tuo compito, e qui adesso tu stai come lo imbuto dopo la vendemmia. Levando le ciglia in su ecco occorrergli una lampada di argento appesa davanti alla immagine della Madonna, ed un crocifisso della medesima materia inchiodato sopra una croce di ebano... vero patibolo di lusso, e mormorò: dove trovi la ragione medesima di giudicare, tu pronunzia la medesima sentenza; e così brontolando tira [p. 433 modifica] innanzi una seggiola, ci monta sopra, stacca la lampada, ne cava il lampioncino di vetro, dove ardeva galleggiante su l’olio il lucignolo, dipana le catenelle intorno al guscio della lampada, e giù tutto in tasca. Anche questa è fatta; ora tocca a te, Cristo. Tu sai, mio divino Redentore, se io voglia o possa dividermi da te. Tu hai salvato me dalla servitù del demonio, ed ora intendo renderti la pariglia salvando te dall’obbrobrio di questa casa; e strettolo nelle gambe lo cacciò nelle tasche del suo tonacone a capo in giù come ci danno ad intendere che fosse crocifisso san Pietro a Roma, dove egli non capitò mai. All’ultimo, passato e ripassato lo sguardo da per tutto, a mo’ che il barbiere costuma il rasoio sopra le gote dell’avventore per farci la barba e il contropelo, conobbe essere tempo di levare le tende: per la qual cosa attorse un bioccolo di cotone intorno a un ferro da calza, e lo tuffò per fare più presto nell’olio da lumi del lampioncino; chiamate poi le beghine e le serve in camera prese a menare il ferro col bioccolo unto per la fronte della moribonda a mo’ d’imbiancatore che scialbi una parete: dalla fronte in fuori altro non unse, essendone dispensati i preti dai sacri canoni in caso di contagio. Profferite ch’ebbe così alla lesta le parole sacramentali della estrema unzione, aggiunse con voce di usciere che intimi lo sfratto:

Proficiscere anima christiana. [p. 434 modifica]

E siccome l’anima cristiana pareva che non avesse furia ad andarsene, egli disse fra sè: poichè non se ne vuole andare ella, facciamo una cosa, me ne andrò io; e se ne andò.

Rimasero le pinzochere a frigolare salmi; ma indi a poco l’insopportabile fetore le cacciò via. Finche non furono uscite di casa tacquero, ma appena messo il piè su le scale, apriti cielo! Un pissi pissi vorticoso di discorsi di tutti i colori, un fuoco artifiziato di maldicenza da far paura; senonchè tutti i vari discorsi si confusero di corto in uno solo, in quello del giuoco del lotto. In primis fu proposto giocare una quaderna, e votarono pel sì alla unanimità; e non fu difficile, perchè, quantunque devote, avessero talora saltato la messa, non mai il giuoco del lotto; nell’accordarsi su i numeri s’incontrò l’osso; udito hinc et inde il flagello delle opinioni diverse, parvero prevalere queste. Ecco, notava una bigotta, bisognerebbe cavare la giocata degli anni della sua vita bene spesi al servizio di Dio; ella ne contava ventisette, dunque dividiamo prima, due e sette; ora moltiplichiamo, due via sette quattordici; dunque propongo due, sette, quattordici. — O che sia benedetta, si cucia la bocca, saltò su a dire un’altra, ma le sballa proprio da pigliarle con le molle; io... io ho trovato il bandolo; dov’è il libro dei sogni... che numero fa la stola? Quanto fa crocifisso? — Gesù mio, che mi tocca a udire! miagola la terza beghina, o [p. 435 modifica] che il crocifisso è un sogno? I numeri non si hanno da rilevare dai sogni, bensì da casi che sono cascati veramente sotto occhi aperti. A monte il libro dei sogni, miriamo un po’ in altri libri quanto fo Venere, Amore e... — Lei svagella, signora Girolama, sarebbero quattrini buttati nel Naviglio; o che non sa che la Fortuna si è fatta cristiana? Ella si recherebbe a scrupolo di bazzicare con quei figuri degli Dei dell’antichità, che in fine dei conti erano tanti demoni. — Che la Fortuna sia stata battezzata in duomo, io non l’ho sentito mai dire; ci crederò se mi porta le fedi. Intanto veda qua, dei giorni della settimana cinque sono consacrati da lei ai demoni: lunedi a Diana, martedì a Marte, mercoledì a Mercurio, giovedì a Giove, venerdì a Venere, che non sempre per lei fu il diavolo; il sabato al Dio degli ebrei; la domenica sola al nostro Signore. O sa che cosa ho da dirle, signora Paola? — Che cosa, signora Girolama? — Che i suoi discorsi mi puzzano di zolfo. — E i suoi di scemo.

Si separarono: ognuna giocò da se; persero tutte; una ne rovesciò la colpa su l’altra: unione acre nelle vecchie la devozione; si potrebbe definire la pellagra dell’anima.

Il curato, affrettando il passo, è giunto senza intoppo fino alla sala d’ingresso, ma qui fu che mi cascò l’asino; egli vide schierarglisi centra in acie ordinata Egeo, il questore suo amico e due guardie di pubblica sicurezza. Il questore, senza tanti [p. 436 modifica] amminnicoli, secondo la usanza dei tre quarti e sette ottavi dei questori, messa la mano sul braccio al prete (già si sa che nei questori, come in ogni altro membro della polizia, tra mano e lingua corre parentela strettissima, sicchè alla lingua non riesce parlare se la mano non agguanta: nelle costoro orazioni la perorazione tiene il posto dell’esordio) gli disse:

— O reverendo, o che va nel deserto a sagrificare al Dio di Abramo?

— Mio buon signore, che dice mai?

— Dico che il troppo leggere il Testamento vecchio gli ha fatto venire il capo grosso. Adesso a lei pare d’essere diventato un ebreo.

— Io!

— E di pili crede questa casa terra di Egitto, Faraone il signor Egeo; di fatti, ella, come gl’isdraeliti, si parte di qua col buono e col meglio della casa... oh! non vede che di petto a lei uno idropico non c’è per nulla? La si compiaccia passare in quest’altra stanza.

— Ma con chi ho l’onore di parlare?

— Col questore di polizia.

— Scusi, io non ho niente a fare con lei.

— Ma sono io che ho da fare con vostra signoria reverendissima.

— Rifiuto recisamente.

— In questo caso, guardie, ammanettate costui [p. 437 modifica] come ladro colto in fìagrante e trasportatelo a piedi alla questura.

— Obbedirò per forza.

Il prete di pallido diventò giallo; le passioni dei preti non conoscono altri colori; le tinte del loro arcobaleno circoscritte a due; tinta di odio e tinta di paura; giallo di burro e giallo d’uovo; entrambi andati a male.

— Come le pare, ma obbedisca.

— Però protesto.

— Quanto vuole; favorisca.

Il prete entrato nella camera a parte, sempre infellonito, ma vedendosi capitato in male branche, così favellò:

— Signor mio, noi non siamo usi a saccheggi nè a piraterie; la buon’anima della signora Amina, non potendo disporre altrimenti delle sue sostanze, a me suo confessore consegnava spontanea certi oggetti di sua pertinenza, onde io ne disponessi a seconda della sua intenzione; anzi, poichè senza offesa del segreto sacrametale, questo posso palesare, per erogarli in suffragio per l’anima sua, e per quella di un altro defunto, del quale avrà forse... senza dubbio contezza il signor Egeo. — E qui gittò di traverso un’occhiata ad Egeo, che parve un colpo di lesina. — Ora io domando, signor questore, se il suo governo, non contento di tribolare i vivi, astia che sieno sollevati dalle pene anche i morti! [p. 438 modifica]

— Signor curato; innanzi tutto le ricorderò che il mio governo è anche il suo, e poi che egli veglia perchè i cittadini tutti osservino le leggi. Qui in casa il padrone è il signor Egeo; e voi, lo giudico dalle vostre parole, non ignorate il contratto intervenuto fra la sua consorte e lui. E quando ciò non fosse, chi vi dà il diritto di entrare nelle case dei cittadini, col pretesto di religione, per isvaligiarle? Come mi proverete che la signora Amina vi donava quanto eravate in procinto di portar via?

— Il mio carattere sacro non basta?

— Passò l’usanza.

— Allora io non devo nò posso invocare altra testimonianza, quando anche non avesse a Dio spiegate l’ale...

— La bell’alma innamorata, continuò cantarellando il questore. — Bravo reverendo, ma bravo, la ci va fino di Lucia di Lamermoor...

Ma il reverendo, quasi sdegnoso di servire di bersaglio ai motteggi plebei del questore, soggiunse con molta dignità:

— Ecco che io depongo quanto mi fu dato liberamente, protestando però davanti agli uomini e davanti a Dio del sacrilegio commesso sopra la mia persona.

— Eh! reverendo, vi risponderò come un dì rispondevano i vicerè di Sicilia a quelli che li minacciavano ricorrere a Dio e al re per le loro angherie; [p. 439 modifica] Dio è in alto e il re lontano; però quanto ha fatto non basta, bisogna che adesso estenda la sua compiacenza a farsi frugare dalle mie guardie, le quali nello esercizio di questa parte penosa del loro ministero uniranno, vostra reverenza non ne dubiti, uniranno alla solerzia ogni possibile riguardo.

— Come, ardireste mettere le mani su l’unto del Signore?

— Poi ci laveremo le mani col sapone.

Il curato tremava di rabbia e di paura; l’abitino gli pesava al collo; onde rivolto ad Egeo, con piglio che parve terribile ed era codardo, esclamò:

— Ah! siete voi, signor Egeo, proprio voi che volete si strugga nel fuoco penace il meschino di cui gli occhi appannati dalla morte stavano perpetuamente innanzi alla vostra defunta? Voi che esponete agli ultimi oltraggi un sacerdote di Dio?

— Ma io... rispose Egeo esitando. E il prete mascagno chiappa la mosca a volo e rincara la posta...

— Or bene, io vi ammonisco, e riponetelo bene nella mente, che non passerà l’anno che voi vi raccomanderete a mani giunte perchè accetti e porti all’altare di Dio la offerta che gli contrastate adesso: prima che scada un anno vi cito a comparire innanzi la Corte di assise del paradiso, per rendervi ragione del vostro iniquo operato...

— O a me non tocca? domanda il questore.

— Di voi e dei pari vostri non si occupa Dio... [p. 440 modifica] nè il diavolo; oggi m’insolentite per ordine del padrone; domani, se il padrone ve lo comanda, mi bacerete le mani; voi non avete diritto all’odio altrui; qualcheduno, per mera generosità, potrà disprezzarvi. Adesso, signor Egeo, fatemi frugare come un borsaiolo.

Egeo, per cotesto parole, sentì smuoversi dentro; lo prese il tremito e balbettando pregò l’amico questore lasciasse andare in pace il curato: anzi stette in forse di pregarlo a ripigliarsi la roba che affermava avergli dato l’Amina, ma non ebbe il tempo, perchè il curato, tiratosi il mantello su gli occhi, appena n’ebbe agio, come uno spettro, sparì.

— Ouf! sospirò egli a petto dilatato, appena si fu chiuso nella camera della sua canonica, sono stato a un pelo di passare per occhio; tamen, anche per questa volta san Pietro non ha calato la rete in mare invano; e tratti fuori della tasca dell’abitino della Madonna del Rosario i biglietti di banca, li ripose in compagnia degli altri con arti non migliori acquistati.

Singolare poi fu quest’altro, che Egeo, quantuntunque non fosse Filippo e molto meno il Bello, pure per lui il curato fu Giacomo Molay, e la citazione di lui per comparire innanzi che finisse l’anno al tribunale prese a trottargli pel capo; la sua fantasia si accese pensandoci su; all’ultimo la sua salute ne rimase alterata: muscoli, nervi, ossa e le altre [p. 441 modifica] parti del suo corpo, come creditori arrabbiati dello attendere lungo, si presentano a un tratto per farsi pagare i vecchi conti, si voltavano al vizio onde li sollevasse dalle sequele dello abuso ch’ei ne aveva fatto: aggiungi che nei casti amplessi maritali egli aveva non già sorbito, ma tracannato il veleno sifilitico; e se più breve fu in lui la infermità che sfilaccicò la vita della sua moglie, non per questo ci la provava meno spasimosa: appena ne sentì i morsi, mandava pel curato, il quale venne sì, ma con un viso che pareva Longino. Tosto egli prese a gettargli nell’anima tali e tanti terrori da fare rizzate i capelli, non che ad altri, al Biancone di Piazza; per un pezzo continuò il tristo gioco del gatto col topo con lui, finchè un bel giorno, ficcategli le granfie in corpo, lo costrinse a lasciargli con amplissimo testamento quanto si trovava a possedere, il quale si giudicò oltre il valsente dei quattrocentomila franchi senza vincolo di sorta alcuna, comecchè corresse fra loro la condizione tacita che la eredità si avesse a dividere in tre parti eguali, di cui una avesse a servire pel suffragio dell’anima sua, l’altra per quella di Amina, finalmente la terza pel povero innocente tradito da tutti, e per giunta morto senza sacramenti. Anzi negli ultimi giorni della sua vita provava consolazione grandissima a contare col curato quante messe, quanti uffizi e quante esposizioni del venerabile sarebbero toccate [p. 442 modifica] per anima; non rifiniva mai di raccomandare al curato, badasse bene che la ripartizione si facesse giusta; ogni avanzo si applicasse sempre all’anima del povero innocente. Ricordare Omobono non si attentava; solo, in extremis ebbe il coraggio di susurrarne il nome nell’orecchio al prete.

— E soprattutto, egli disse, vi raccomando Omobono, anche prima di me.

Le quali parole fornirono argomento al prete, ogni volta in seguito gli veniva fatto favellare di lui, di uscir fuori con questa scappata:

— S’egli si fosse trovato alla passione di Gesù Cristo, poteva darsi il caso ch’egli ci presentasse la parte del buon ladrone.

E per rendere a tutti la dovuta giustizia, il curato non bruciò il pagliaccio' a quelle anime poverine, imperciocchè se si mostrava scarso con esse a uffizi e a esposizioni, di messe ne spedì loro a bizzeffe, tutte asciutte e ben condizionate, uscite dalla sua fabbrica, e per maggiore precauzione celebrate tutte da lui.

Ancora eresse un monumento a Egeo, di marmo di Carrara, però ravaccìone; e, come stato un dì professore di rettorica, di sua mano (doveva dir tosta, ma io so ch’ella non ci ebbe che fare) gli [p. 443 modifica] compose l’epitaffio in latino: stette un pezzo fra due se ci avesse a incastrare l’integer vitæ, scelerisque purus di Orazio, ovvero l’insignis pietatis vir di Virgilio; alfine vinse Virgilio, ed Egeo di Gorgonzola resta raccomandato ai posteri per le medesime qualità che, secondo quello ci racconta Virgilio, ornarono Enea Troiano.




Note

  1. Veramente non senza cerimonie solenni vengono ammessi i gesuiti laici: certo non saranno mica uguali per tutti; quelle che praticarono per la recezione del conte Macharty, del cardinale duca di Talleyrand Périgord e del principe di Croi, grande elemosiniere di Luigi XVIII, trovo descritte nelle Mémoires d’un Jésuite. Entrato il ricevendo nella sala delle Conferenze, lasciasi a meditare sopra un libro contenente le massime della Compagnia. Quindi va alla cappella, dove confessa essere informatissimo di quanto sta per fare, e volere rimanere attaccato alla Società di Gesù. Il capo levasi, va all’altare, piglia una lettera sigillata; la bacia tre volte; poi ordina al recipiendo spoglisi il vecchio uomo, e si purifichi, diengli l’assisa di Gesù Cristo. I purificatori lo spogliano, lo ungono di olio santo in capo, alle mani, al petto, lo esorcizzano, lo coprono col manto gesuitico e, purificato che sia, il capo gli consegna la lettera del generale di Roma, che lo ammette; prima di leggerla ha da giurare il segreto, renunziare alla famiglia, sagrificare moglie, figli, genitori, congiunti, amici, ecc., per la salute della santa Compagnia; allora gli mettono al collo l’abitino da portarsi sempre; poi lo sottopongono ad umiliazioni d’ogni maniera, baciare i piedi altrui, sedere in terra, apprestargli sozza mensa, ecc.; per ultimo conferenze frequenti e lunghe col capo.
  2. Ecclesias., c. 2, n. 3, 8.
  3. Voltaire definisce il gesuita: animale che si leva la mattina alle quattro, si corica alle nove, dopo avere recitato tutto il giorno le litanie dei santi. Mémoires d’un Jésuite, p. 7.
  4. Le parole del dialetto genovese sonano così: voscià, vostra signoria; mii, miri; pettin de ninte, cosa da nulla; ivegendòu, confondersi; quinse lie, quindici lire, ecc.
  5. Quel buon uomo di Plutarco nella vita di C. Mario racconta: «Mario alla fine singhiozzando rispose: riferiscigli che veduto hai Caio Mario ramingo sedere sopra le rovine di Cartagine.»
  6. Questa Madonna incisa da molti si conosce in commercio: venite ad me omnes, venite tutti da me. Davvero può risparmiarsi gl’inviti.
  7. Così Lucrezia Borgia, quando la paura dello inferno prevalse in lei. La marchesana di Gonzaga lasciò scritto in proposito: «tanto era sitibonda (di ascoltare le prediche) che non istando contenta di un solo predicatore, duoi predicatori udire voleva; uno la mattina, e l’altro il dopo pranzo, ma eziandio induceva quelli a recare in iscripto molte devote dottrine da quelle udite.» Sempre così; i frantumi di tutti i naufragi vanno a morire sopra la spiaggia.
  8. Il professore Ricord soleva aprire le sue lezioni con questo dettato: «Dieu créa le ciel, la terre, les animaux, l’homine et les maladies vénèriennes».
  9. Comedat res bonas, bibat vinum praestantissimum laeve, et, si potest haberi, suavissimum.