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capitolo xix. 363


sciupìo di virtù, come notarlo sciupio di tempo. Mirabile a dirsi! Quei demoni incarnati dei figliuoli della pretoressa stavano muti e immobili; veri pulcini che sentono aliarsi sopra la cornacchia. Alla pretoressa non sovvenne la maniera di pagare il conto; tuttavia non mancò di recarsi al sarto per compensarlo della differenza coi risparmi che in una settimana aveva potuto fare su le spese di casa: figurarsi! raschiare sul tosato. Gli avanzi consistevano in cinque lire, e la differenza batteva in venti. Il sarto, indovinando la desolazione della povera donna, si senti venir su come una flatulenza di buon cuore, che lo spingeva a donarle il resto, ma l’afferrò quando stava per uscirgli dalla labbra, e respintala addietro la trasformò in queste altre parole:

— Per le rimanenti quinze lie, voscià non la si stia a invegendòu... me le daròu... quando potròu.1

Anco a quel modo per un genovese non fu poco; e qui pure metterei pegno che se gli angioli custodi usassero sempre, l’angiolo del genovese glielo avrebbe registrato a credito; in difetto dell’angiolo glielo noto io. Gua’! ognuno ha i suoi gusti, chi raccatta mozziconi di sigaro per le strade, chi croci

  1. Le parole del dialetto genovese sonano così: voscià, vostra signoria; mii, miri; pettin de ninte, cosa da nulla; ivegendòu, confondersi; quinse lie, quindici lire, ecc.