parti del suo corpo, come creditori arrabbiati dello attendere lungo, si presentano a un tratto per farsi pagare i vecchi conti, si voltavano al vizio onde li sollevasse dalle sequele dello abuso ch’ei ne aveva fatto: aggiungi che nei casti amplessi maritali egli aveva non già sorbito, ma tracannato il veleno sifilitico; e se più breve fu in lui la infermità che sfilaccicò la vita della sua moglie, non per questo ci la provava meno spasimosa: appena ne sentì i morsi, mandava pel curato, il quale venne sì, ma con un viso che pareva Longino. Tosto egli prese a gettargli nell’anima tali e tanti terrori da fare rizzate i capelli, non che ad altri, al Biancone di Piazza; per un pezzo continuò il tristo gioco del gatto col topo con lui, finchè un bel giorno, ficcategli le granfie in corpo, lo costrinse a lasciargli con amplissimo testamento quanto si trovava a possedere, il quale si giudicò oltre il valsente dei quattrocentomila franchi senza vincolo di sorta alcuna, comecchè corresse fra loro la condizione tacita che la eredità si avesse a dividere in tre parti eguali, di cui una avesse a servire pel suffragio dell’anima sua, l’altra per quella di Amina, finalmente la terza pel povero innocente tradito da tutti, e per giunta morto senza sacramenti. Anzi negli ultimi giorni della sua vita provava consolazione grandissima a contare col curato quante messe, quanti uffizi e quante esposizioni del venerabile sarebbero toccate