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capitolo xix. 353


nata; la ristagnava alla meglio, ma al primo urto si ruppe, come suole, sul saldato. Non aveva preso in uggia il procedere di Omobono come delittuoso, bensì come disordinato; giudicava i delitti stonature in orchestra; egli avrebbe atteso con uguale devozione a che Cristo si trovasse in mezzo l’altare come la carruccola in mezzo della scala; con pari diligenza badato che i sei candellieri sopra l’altare, come le scale su la forca, si trovassero equidistanti tra loro. Con la virtù egli non ci aveva pratica, ma, per quel poco che glie ne avevano detto, quel suo trovarsi spesso in balia dell’entusiasmo gli dava uggia; il male gli si mostrava più positivo e da farci sopra fondamento maggiore, quindi, a mo’ che i santi eremiti per ispirazione divina si recarono nei deserti della Tebaide, egli s’incamminò difilato nel convento dei gesuiti a Brusselle; quivi chiesto del generale, gli fu risposto ch’egli era a Roma, ma che volendo avrebbe potuto parlare col padre provinciale, che sarebbe lo stesso. Il Nassoli, cui l’andata a Roma lì per lì non garbava, soggiunse che volentieri: ammesso pertanto al cospetto del provinciale, espose candido le vicende della sua vita, implorando essere ricoverato nel convento come in fìdatissimo porto; il provinciale lo respinse reciso; ma l’altro riprese ch’egli non intendeva già mangiare a ufo alle spalle del convento; avrebbe versato nella cassa dell’Ordine