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capitolo xix. 395


di pace trovano per lo più nello accordo di spogliare un terzo.

Dopo un attendere lungo, un bel giorno la Camera di consiglio giudicò tutti i detenuti aversi a riporre in libertà per mancanza di prove; quanto all’Omobono Onesti, lui spento, spenta l’azione penale. Questa notizia non fece caldo nè freddo, e tutti poterono tornare inavvertiti nel consorzio umano, come i ranocchi dalla ripa rituffansi nel pantano. Innanzi però di aprire la porta del carcere alla Elvira, la costrinsero ad accettare per patto ch’ella si sarebbe spontaneamente confinata sotto nome mentito in qualche remota terra di provincia, dove l’avrebbero mantenuta, e poichè ella capì che reluttando gliene poteva incogliere peggio, piegò la testa e si ridusse a Gavi, nell’Appennino Ligure; le tenne dietro il Merlo, delle tante accuse appostegli di questa unico innocente. Qual vita costà menassero, io volentieri mi passo raccontare: nella medesima guisa che i gravi tendono perpetuamente al centro, Elvira ogni giorno più precipitava verso lo stato che gli uomini appellano abbrutimento, con espressa calunnia delle bestie, di cui ogni specie vive da pari suo. Nè tabacco, nè acquavite, nè vino bastavano a sollevare la tetra noia: invece dei bei discorsi come i pastori di Virgilio costumano, si alternavano sbadigli da fendersi le mascelle. Le persone dabbene li fuggivano, i ribaldi si peritavano