Il secolo che muore/Capitolo XX
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Capitolo XX.
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Se uno era il martello, l’altro si poteva dire la incudine; quegli la corda, questi il sapone; il primo cincischiava, l’altro ragguagliava: anzi, a pensarci su, avrei giudicato il difensore della legge meno assai terribile del giudice, imperciocchè il procuratore regio co’ capelli a Medusa, i gesti da Medea sul punto di trucidare i figliuoli, e la voce da Tisifone, che infellonita dalla diuturna repulsa ti entra in casa col conto del delitto in mano a chiederti il soldo in moneta di galera a vita, spaventa l’animo dei giurati, i quali temendo comparire al cospetto delle loro mogli trasformati in bestie feroci, fanno la gatta di Masino, le quale, come si sa, chiudeva gli occhi per non veder passare i topi; mentre il giudico con voce in bimolle e faccia da compieta ti riassume il dibattimento, così che parti udire il frate cercatore, il quale dopo il: sia laudato Gesù Cristo, levatosi il cappuccio, si raccomanda che tu gli metta il soldo nel bussolo: — non importa poi che il soldo del frate porti testa di rame, mentre quello del giudice fa testa di ossa e di carne.
Però Fabrizio, quel dì prima della udienza, si trattenne in fraterno colloquio col presidente delle Assise: del primo noti la sembianza e i sensi; del secondo no: parlando egli chiarirà l’animo suo; quanto a forme fisiche te lo schizzerò, come soglio, in quattro tratti: se invece di abbottonarsi calzoni, panciotto e giubba per davanti, ei se li fosse abbottonati per di dietro, tu non ti saresti accorto qual fosse il verso più nobile di cotesto uomo; bianca la faccia e oleosa come pomata di semi freddi, e da una tempia all’altra orlata di una frangia di capelli bianchi, più che ricciuti, intricati a mo’ di bioccoli di lana non iscardassata; il naso stranamente largo gli scendeva giù pel viso e gli dava fisonomia di montone; simili in tutto alle sembianze che puoi osservare negli antichi bassirilievi messicani; opperò la bocca gli si apriva quasi sotto la gola: immaginati un miscuglio di agnellaccio e di pesce cane:
— Ma certo, io sono con voi, commendatore, su la necessità di dare lui esempio da servirò al paese; ma caro mio, diciamolo tra noi, come si fa? Questi benedetti borghesi non calpestano forte il delitto per timore di stiantarsi le scarpe; così il presidente; e il regio procuratore di rimando più dottamente:
— Costoro, allorchè hanno detto: i buoni costumi fanno le buone leggi, immaginano avere scoperto l’America: mi fanno proprio ridere; cotesto si trova scritto sopra i boccali di Montelupo; ma quando i buoni costumi hanno da venire di là da giudicare i vivi e i morti, sono le leggi, sono i giudicati e le pene che valgono a risanarli infermi, e li ripescano annegati.
— Voi dite unicamente, commendatore: e’ non ci ha caso; proprio così.
— Ma con qual cuore piglieremo noi queste gatte a pelare, se mentre da un lato ci stacchiamo le spalle dal posto per ordire un braccio di buon costume, altri te ne disfà una pezza: nei nostri tempi le Danaidi non sarebbero state condannate mica a riempire la botte senza fondo, bensì a vendicare la pubblica morale.
— Massime poi quando gli esempi pessimi ci vengono da... bocca, chetati! da chi non ci dovrebbero venire, o che riparo ci possiamo mettere noi?
— Che volete che vi dica? E’ pare che il teatro di questo mondo abbia ad essere corredato della reggia, della prigione, del tribunale, del tempio, e via discorrendo: e osserverò per giunta, che ai popoli non sembra sia fin qui venuta in uggia la vecchia commedia, perchè invece di fischiare re, preti, giudici e carcerieri, li pagano. Basta; per me sempre più mi confermo nelle mie massime; ho fede nella perfettibilità degli uomini, ma credo che fino alla consumazione dei secoli saranno stimate come meritano le buone serrature.
— Commendatore! Seneca potrebbe parlare come voi; ond’è che io, essendomi tolta buona e cara moglie, per sollievo della mia vita, me la tengo custodita sotto una campana di cristallo e non la mostro ad anima viva.
— Come! Voi avete preso moglie? Voi?
— Sicuro eh! che credete?
— Io non credo niente; solo nei vostri piedi... alla vostra età...
— O quanti anni credete voi che io abbia? Io ne conto sessanta finiti.
— Per marito novello non mi paiono pochi.
— Massinissa di ottantasei anni generò Metimnato, lo racconta Plinio: voi, che siete sì dotto, lo dovreste sapere.
— Ebbe un figliuolo; non ci è contrasto; anzi la storia naturale ci dimostra come le mogli dotino di figli più volentieri vecchi mariti di settanta anni, che giovani di venti.
— Giusto, ve lo diceva anch’io.
— Però, perdonatemi, presidente, io devo dolermi con voi, per non avermi chiamato a parte della vostra contentezza; evidentemente voi non mi annoverate nella eletta dei vostri amici.
— Tutt’altro, caro commendatore, tutt’altro; non ve ne arrecate, ho praticato in un modo con tutti; e mi sono fatto a dire: o che ha premere altrui se ho preso moglie? Mandandoglielo a dire, o non è lo stesso che chiamarli a casa perchè te la vengano a vedere? Di qui visite, contro visite e visite poi; ognuna di queste getta una voglia nell’orecchio della moglie, e il seme delle voglie nel cervello delle donne si sviluppa più fecondo del seme delle pulci dentro le loro gonnelle, sicchè in capo a un mese (te la do lunga) la fanciulla pudibonda, che ti venne in casa da saperti appena pronunziare in tre pezzi un sì o un no, che ti ricusò una veste di alpacas come troppo costosa, avrà parole più di un leggìo, appena si chiamerà contenta ai velluti, alle trine, alle piume di uccello di paradiso. Io intendo che la mia moglie stia in casa, e non legga altri libri che il cuoco piemontese; la ignoranza costa nulla e fa buona comparsa, mentre la scienza spianta la famiglia. Rammentatevi di Eva, finchè si mantenne ignorante, passeggiava ignuda che non pareva fatto suo: appena ebbe gustato il frutto della scienza chiese un vestito.
— Scusate se troppo mi attento, la vostra signora è ella giovane?
— Sicuro! Diciotto anni appena: quando compri, compra giovane, m’insegnava mio padre; non vi ho detto che la presi per sollievo della mia vecchiezza? Se l’avessi tolta attempata avrei dovuto servire lei, mentre sta a lei servire me. Dal convento me la trassi in casa, di casa esce per andare alla messa, ogni quindici dì me la conduco a passeggiare in carrozza su la via del Camposanto, e sempre meco; visite proibite come le pistole corte; eccetto i parenti la sera per giocare a tombola: per ora ella si occupa di brigidini; più tardi attenderà ai figliuoli...
— Ai figliuoli più tardi? Adesso ai brigidini?
— Già! Voi me lo domandate in certa maniera che mi pare mi canzoniate. Gua’! ognuno si governa secondo il suo capriccio, nè io vi riprendo se voi praticate in modo diverso dal mio. Alla prova si scortica l’asino, ma io ho veduto tornare senza gambe e senza braccia più spesso quelli che vanno alla guerra, che quelli che stanno a casa.
— Non è vero, e veruno lo avrebbe a sapere meglio di voi: quante volte nella mollizie dell’ozio, cugini, cognati e talora congiunti più prossimi ti hanno viziato la moglie?
— Ah! è vero; massime cugini... ah! i cugini sono i coccodrilli del santo matrimonio.
— Nè basta; quante volte la donna, nella rilassatezza della quiete domestica, corrotta a grande agio, ingenuamente scellerata, propinò il veleno nel cordiale che ministrava a bere al marito infermo?
— Ah! la mia mi dà tutte le mattine che Dio mette in terra un bicchiere di acqua mescolata col siroppo di tamarindo del dottore Erba.
— E quante e quante la moglie ti ha soffocato a mezzanotte col capezzale, su cui avevi fino a quell’ora posato il tuo capo a canto al suo!
— Fin qui a vero dire non mi ha soffocato veruno, ma la è cosa da pensarci... e ci penserò.
La causa criminale che doveva in cotesta mattina agitarsi davanti la Corte di assise si versava in un caso di adulterio, singolarissimo se altri fu mai. Efisio, Gavino e Artemisia erano tre giovani dispari per pochi anni fra loro: di bellezza uguali: loro vide insieme il dì nascente, loro vide il tramonto folleggiare insieme pei fioriti sentieri della vita: a cui li vedeva parve vedere tre angioli, e tali erano davvero per bontà e per leggiadria: l’uno all’altro aveva insegnato a sillabare il verbo amo sopra il medesimo abbecedario. Venuti poi alla età nella quale l’amore si colora, come l’erba ch’esce dalla terra per virtù del sole, per tutti si tinse in una medesima grana; e quando l’albero di Amore da un punto all’altro ingrandì trionfale, accolse tutti e tre sotto le sue fronde, tutti e tre nudri co’ primaticci suoi frutti; insomma voi avete a figurarvi tre boccette piene dello stesso elixir di Amore. Quando Efìsio era presente, Artemisia lo amava più di Gravino; all’opposto preferiva Gavino se Efìsio si trovava lontano. Ma poi venne tempo in cui la natura d’accordo co’ genitori d’Artemisia urgevano la fanciulla, ognuno a modo suo, s’intende, a eleggere fra’ due il marito; ella, che semplicissima era, rispose che non si voleva stare a confondere, li avrebbe sposati tutti e due; ma la mamma le fece comprendere discretamente, come i legislatori, a istanza massime delle donne, avendo proibito la poligamia sotto severissime pene, non avevano potuto senza pericolo di contradizione permettere la poliandria. Artemisia allora stette irresoluta; non dava in tinche nè in ceci; se a sorte ella si fosse trovata in mezzo a due vagli di biada, piuttostochè a due giovani amati, ci era caso che si rinnovasse in lei il fatto dell’asino di Buridano, che non si sapendo decidere cascò morto di fame;1 ma ella non si sentiva punto disposta da natura a lasciarsi morire d’inedia, anco a rischio di renunziare alla gloria di trovarsi un giorno assunta in cielo, con un giglio di purità in mano grosso quanto un cero pasquale. Ora la bilancia sta in bilico; un grano basterà a farla traboccare da un lato piuttostochè dall’altro: una mezza serqua di centinaia di migliaia di lire che Efisio si trovava a possedere, in grazia della liberalità di uno zio, pesarono, come dovevano pesare, più di un grano nella bilancia; Artemisia pertanto andava moglie ad Efisio.
Simile accidente non mutò in nulla gli affetti e nemmeno le usanze di vita di queste tre amabili creature, eccettochè a sera inoltrata bisognava pure che Gavino pigliasse commiato dai dolci amici; ma il mover lento tutti e tre verso l’uscio di casa, — ma il trattenersi lungo sopra la soglia, — ma il frequente accompagnarlo giù fino al portone di strada, facevano incerto il giudizio se rincrescesse più a lui andarsene, ovvero agli altri lasciarlo andare.
Artemisia e Gavino presumerono troppo delle proprie forze, piuttosto non avvertirono nulla, sicchè un giorno si trovarono ad avere saltato il fosso, con bene altre scuse del Menebrea quando minacciò di volerlo saltare; perciocchè farono dei nostri amanti complici, o meglio provocatori, gli anni, la stagione, l’ora, la memoria dello antico affetto o la pietà del nuovo.
Procedendo poi, come succede, con meno discrezione che non avrieno dovuto, attesa la comodità grande del trovarsi insieme, accadde quello che doveva accadere...
Efisio comprese in un attimo la fortuna avergli apparecchiato davanti tre partiti, e non più: primo, correre difilato al Naviglio, e a capo in giù precipitarvi dentro, ma se ne rimase per parecchi moti e tutti lodevoli, tra i quali capitalissimi questi: che correndo un sido da cani, avrebbe trovato l’acqua troppo fredda, ed egli temeva i reumi; e che bisogna pensare almeno due volte alle cose che da una volta in su le non si possono fare; il secondo stava nel pensiero ch’egli doveva o con ferro, o con laccio, o con veleno precipitare innanzi tempo creature umane dentro il sepolcro; e per giunta chi? Artemisia! la luce degli occhi suoi; anzi, pure dell’anima. Gavino! Il primo volto sul quale egli posò gli occhi con coscienza di amore? Solamente a pensarvi non aveva pelo sul corpo senza stilla di sudore; consisteva il terzo nel tuffarsi nello studio di uno avvocato, e ci si tuffò.
Mentr’egli, quasi sempre fuori di sè, esponeva l’atroce caso, lo avvocato, tirando su fino al quarto cielo del suo cervello una presa di tabacco, mulinava fra sè: oggi è giorno di gala; uno scandalo, un guadagno, una occasione strepitosa a sbraciare la mia fama prossima a spegnersi sotto la cenere; egli è come se mi capitassero addosso tutti di un picchio Pasqua di resurrectio, giovedì grasso e ceppo di Natale
- quod faustum sit. Però mi passo da dire come egli la ferita di Efisio medicasse con l’acqua forte e l’arsenico, e fasciasse con le spine: di lettere degli amanti infocate così che scottavano le dita ce n’era un subisso; d’indizi, amminnicoli precedenti, concomitanti e susseguenti, un flagello; e che s’indugia più? Mano ai ferri.
E dalla bottega dello avvocato Tami ecco uscire la più famosa querela di adulterio che sia stata mai vista da poi che mondo è mondo. Ora tra il volere e il non volere, il cruccio dell’offeso di non vedersi comparire davanti a misericordia gli offensori e la peritanza di questi ad andarci, tra il supremo fastidio di Efisio, che lo persuadeva a tornare indietro, e lo struggimento dello avvocato, affinchè precipitasse avanti, siamo alla porta co’ sassi; eccoci al giorno del dibattimento.
Metto pegno che se Efisio avesse convitato i suoi concittadini ad un banchetto per porli a parte di qualche sua contentezza non ne avrebbe annoverati tanti, nè si scoppiettanti di allegria, come adesso erano venuti spontanei a far falò della sua miseria; le donne soprammodo dell’altissima e della bassissima vita; le due plebi si toccano.
Ecco qua, è ammannita ogni cosa; qui giudici del fatto e giudici del diritto; da un lato il gladiatore reziario della offesa, dall’opposto il gladiatore scutato per la difesa; entrambi avvocati, che si mostrano i denti: promettono morsi da cani; tanto meglio, con la mostra di cotesta ferocia verrà temperato il sangue troppo indolcito alle signore per la pratica indefessa delle opere di carità corporale e spirituale. Gl’istrioni hanno indossato le vesti, secondo la parte che ognuno sostiene; i giudici copersero il capo col berrettone, che rammenta lo spegnitoio del senso comune; un collaboratore del Gazzettino Rosa, al quale il direttore del Diavolo domandava la differenza che corre tra i berrettoni e le pentole qual sia, ha risposto: questa; nelle pentole le rape bollono per di sopra, nei berrettoni dei giudici bollono per di sotto. Le comparse stanno pronte; aspettano tutti con impazienza, e dubito forte che se il Cristo, il quale pende sul capo al presidente, non tenesse inchiodate le mani, le schioccherebbe anch’egli, onde precipitare gl’indugi. Attenti! I sonaglioli hanno dato il segno dietro le scene... si alza il sipario...
Il presidente comincia dal movere le consuete domande ad Artemisia...
— Ti piace? Non ti piace? — Rassomiglia un gatto d’Angora spaventato. — No, una picciona. — Neè anche, una rapa monda. — Chetatevi, linguacce, non vedete che la è rossa come una ciliegia. — Ecco, la è una bella fetta di grazia di Dio. — Magnifico pezzo di carne. — Ma che cosa trovi di bello in lei, che gonfi i bargigli come tui tacchino? domanda dispettosa la droghiera al marito; e questi brevemente risponde: Quello che non ho mai trovato in te.
— Silenzio! salta su a strillare un usciere, che alle vesti e agli atti ti dimostra che le cavallette sono penetrate anche nel campo della Giustizia.
Il presidente non aveva potuto cavare una parola di bocca ad Artemisia, la quale piangeva, piangeva, piangeva.
Davvero nè più bella nella sua decadenza, nè più vereconda nella colpa deve essere stata di lei Eva quando comparve al cospetto di Dio; per confessare la verità, io non mi ci trovavo, ma me lo immagino. Il presidente allora si voltò a Gavino, giovane di forma nobilissima e d’ingegno non meno, e ne pur questi potendo reggere al groppo degli affetti che gli mossero assalto, seppe rispondere con altro che col pianto.
La è finita. Lo scrittore ha scambiato il tribunale in un mulino e i giudici in macine, che per virtù di pianto devono macinare la giustizia. Di diluvi universali ce ne fa uno nel mondo, e n’ebbe a bastanza. Povere fantasie! E poi come si fa a far piangere un uomo?
signori, faccio loro assapere come io non immagini nulla. Dante Alighieri fu levato a cielo meritamente perchè indusse Paolo a tacere e a piangere. mentre Francesca raccontava la prima radice del suo affetto al poeta; parve ed è un tratto di gentilezza sublime; e badate, che Dante proprio quel pianto immaginava col suo cervello, perchè gli è certo che ei non si trovò nello inferno a udire Francesca come io non mi trovai nel paradiso terrestre a vedere Eva; e se io narrai che Gavino pianse, egli è perchè il dabben giovane sparse lacrime amare e non per sè; bensì per l’amata donna, la quale in grazia sua adesso si trovava travolta in cotesto obbrobrio, e per lo amico, che avrebbe difeso a prezzo della propria vita, e pure aveva ferito nel cuore... Vicende umane!
Il presidente, timoroso che il tribunale diventasse un lago, si decise interrogare Efisio; Efisio era il marito; di forme alquanto meno leggiadro degli accusati, e questo non gli poteva giovare, ma più che tutto gli nocque essere poeta. Poeta, marito, tribunale e società moderna la è roba che messa insieme disgrada il sacco romano dei parricidi. Egli non pianse, però la voce gli tremolava flebile, a mo’ del ventipiovolo annunziatore di pioggia imminente; e il bello fu che, invece di rispondere al presidente, egli s’indirizzò alla moglie con gesti e sembianti ispirati, favellandole queste amorose parole:
— Dimmi, ti aggirai io con inganni? Ti feci forza pur col pensiero, affinchè tu mi preferissi all’amico diletto? Tu venisti a me con passo armonioso come una voce. Amore fu che ti condusse al mio seno, battendo le ale dove si riflettevano i gaudi senza fine molteplici dei cuori innamorati. Amore, dopo averci condotti al talamo, spense, agitando più forte l’ale, le tede che ardevano dintorno, poi le distese sopra e ci coperse a guisa di padiglione, e se di tratto in tratto le scosse, ei lo fece per piovere sopra i nostri spiriti sogni felici, nella maniera stessa che le farfalle testè prese piovono una forfora di oro sopra le dita di cui le tiene prigioniere...
— Scusi, signor querelante, ma quanto ella ha detto non fa al caso...
— Non fa al caso? Signor presidente, che diavolo dice? Al contrario, gli è proprio il casissimo... ella mi ha rotto...
— Io non rompo nulla.
— E lo lasci sfogare, esclamarono taluni dal banco dei giurati.
— E lo lasci sfogare, ripeterono molte voci in platea, massime femminili.
E il presidente chiotto chiotto si aggomitolò come un istrione fischiato.
— Ed ora dove sono rimasto? esclamò Efisio stropicciandosi a più. riprese la fronte...
— Alle farfalle, gli ripeterono tre voci o sei dalla platea.
— Silenzio! torna a strillare l’usciere.
— Io non avrei mutato, proseguiva il poeta, il mio talamo pel trono di Dio; noi ci ricingemmo, Artemisia ed io, con le nostre braccia stretti come dentro un cerchio incantato dove non poteva entrare l’affanno, donde non poteva uscirne la felicità.
— Capisci, zuccone, che cosa significa volersi bene? Questa volta a dire così non fu la droghiera, ma Agata, la seconda moglie di Ambrogio, mercante all’ingrosso di formaggi lodigiani, la quale per imprimerglielo bene nella memoria gli pestò il piede destro, dove aveva un lupinello al dito mignolo. Il povero Ambrogio vide le stelle a mezzogiorno, e non potè trattenersi tanto che non gli uscisse di bocca un: per Dio! che rintronò tutta la sala con grande scandalo dell’uditorio.
— Si cerchi chi ha bestemmiato e gli si faccia sgombrare la sala.
I giandarmi non trovarono o non vollero trovare il signor Ambrogio; dalla sala non uscì alcuno, ed Efisio continuò:
— Come l’ape immersa nelle foglie della rosa non si accorge della tempesta che si forma sopra il suo capo, così io, tuffato dentro la voluttà, non sentiva i passi dello infortunio che si avvicinava; viveva sicuro che l’Amore lemme lemme mi avrebbe scavato la fossa con la più soave delle sue frecce — ahi! quanto è lieve ingannar chi si assicura — di un tratto io me la sento piantata nel cuore. Artemisia! Artemisia! In che t’increbbi? Non mai nocchiero speculò sì arguto l’orizzonte per accertarsi sicuri gli auspicii della navigazione, com’io contemplai la tua fronte, onde sperderne la nuvola più leggera che la tenesse adombrata; ed io sovente ti riprendeva per trovarti sospirosa e sola; ond’io me ne andava in cerca di Gavino, perchè la tua malinconia sollevasse, e riempita la coppa della esultanza domestica, noi la libavamo in tre; bella ogni musica, ma sopra le altre accetti i trio, come quelli che noi cantavamo in tre, pigliando maraviglioso diletto nel mescolare le nostri voci insieme; in tre rincorrevamo le farfalle sul prato; odoravamo in tre la cardenia colta su le aiole, in tre (bene inteso coperti dei debiti indumenti, vulgo mutande') rinfrescavamo negli estivi ardori le nostre membra nel ruscello: e quando mi chiamavano altrove le cure dei campi, Gavino, in che mani affidava Artemisia, se non nelle tue?
Qui fu udito un bisbiglio confuso di voci, le quali avendo potuto distinguere avrieno sonato così: — Matto da catena, tu ti sei andato a cercare col fuscellino il male come i medici: se questo non è aguzzarsi il cavicchio sul ginocchio, che altro sia non saprei: va’, ti stanno meglio che le tre corone al papa: vorrebbe il resto, ed ha a rifare un tanto: mandatelo a rimpedulare il cervello. — Efisio stava in procinto di farsi una sconcia stincatui-a, se per fortuna non gli capitava di vedere la sua donna che, in atto dolce di pietà e di amore, volgeva al cielo le mani giunte implorando un po’ di refrigerio a tanto strazio. Accadde che anche Gavino in quel medesimo punto sogguardasse Artemisia, e tanto ne rimase percosso, che di subito cessato il pianto, con voce tra acerba e angosciosa così trafisse Efisio:
— Ahi! sciagurato! Come ti regge il cuore affliggere così divina creatura? Dovevi piuttosto ammazzarla, e me con essa.
A Efisio presero a tremolare le palpebre; gli parve gli mancasse il pavimento sotto le gambe; la parola gli rimase attaccata alla gola, tese singhiozzando le braccia verso gli oggetti della sua tenerezza, e subito dopo cadde come fulminato sopra la sedia.
Fabrizio, pauroso che dalla maglia rotta gli scappasse il pesce, si affretta a sorgere in piedi, e chiesta ed ottenuta facoltà di dire, così prese a parlare:
— Fra i nequissimi, pessimo il delitto di adulterio; quindi i romani, di cui le leggi furono meritamente salutate la ragione scritta, lo punirono con pene troppo più severe dell’omicidio e del furto; invero il ladro ti ruba cosa che tu puoi recuperare, puoi rifare, alla peggio te ne puoi astenere, ma l’adultero ti strappa il cuore della moglie, la reputazione di casa, la sicurezza della famiglia, e tutto questo perduto non puoi riacquistare, o farne a meno. E il derubato argomento di compassione, uomini pubblici e privati si affrettano a sovvenirlo ed a consolarlo; all’opposto il coniuge tradito deridono tutti, e se qualche pietoso vorrebbe pure confortarlo, non sapendo come trovare il bandolo della matassa lo lascia su l’arcolaio. Il tradito teme del pari la pietà e il disprezzo; qualunque aura, sia pure di primavera, gl’inciprignisce la piaga; in ogni discorso sospetta una punta per lui; gli pare che tutti lo ammicchino; le allusioni remotissime gli cacciano il ribrezzo addosso: odia la religione mosaica, perchè ad ogni piè sospinto ci si parla di corni; cornu salutis, cornu fortitudinis tuæ; nè meglio gli talenta la cattolica, che ha il cornu epistolæ; da per tutto per lui larga messe di beffe; nelle orchestre trova il corno; nei fiumi il corno; negli eserciti corna; le are dei Numi non ti offrono asilo per queste, perchè anche gli altari hanno le corna. In terra la Natura, in troppe cose scarsa, fu liberale di corna agli animali; e chi non li ha se li procura. I francesi tutti, ma in antico; nei medi tempi, i guerrieri più cospicui. A Mosè le donò Dio come insegna di divinità; a Giove Ammone i sacerdoti le tributarono, e a Bacco; leva gli occhi e mira su in alto assunto fra le stelle il corno di Archeloo, donde pare che versi su la testa dei mortali copia infinita di benedizioni; e la luna dove la lasci? Non ti consola dal cielo con le sue amabili corna? Nello stesso alvo materno l’utero ti abbraccia con le sue corna. Giù nello inferno, ornamento ed arme, mostrano i diavoli le corna; da qualsivoglia lato tu ti volga, non può fare a meno che tu non inciampi in corni.
Rispetto a omicidio, la è chiara che questo non ti lascia senso alcuno dei mali, mentre l’adulterio ti arde col fuoco dell’inferno che brucia e non consuma. Mi gode l’animo affermare che anche ai tempi dei romani come ai tempi nostri, qui tra noi, le pene più acerbe vennero emanate da re e da imperatori. Romolo punì lo adulterio con la morte; in odio all’esecrato misfatto, Augusto Cesare pubblicò la legge Giulia, che condannava i colpevoli alla emenda, allo esilio in isola deserta, allo verghe e fino alla castrazione!...
Moto di orrore su tutti i banchi.
Il Tebro inorridì, il Pado e il Reno, |
Fabrizio non lo bada e non lo cura, e prosegue imperterrito:
— I figli nati dall’adulterio insanabilmente bastardi: incapaci di succedere ai padri: appena diritto agli alimenti. Disposizione squisitamente civile conservata nel nostro codice. Di fatti, havvi un animale domestico, il quale rimpiatta la sua lordura sotto la cenere, e l’uomo vorrà essere meno del gatto per drappellare la colpa come una bandiera vinta al palio? Nè a Roma solo, ma per tutto il mondo, re, quantunque barbari, palesarono salutevole severità; Sesostri informi, re d’Egitto, che ordinò gli adulteri si sepellissero vivi; Diacmo re di Scizia, la propria figlia, colta in adulterio, fece seppellire viva; Temas dei tenedi, pure risparmiando al suo figliuolo tanto atroce supplizio, non lo volle meno morto. Insomma, i re imitarono in questa come in moltissime altre cose il modello di Dio, il quale da ogni suo perdono volle sempre esclusi gli adulteri; anco sant’Agostino lo dice. I popoli stessi, quantunque lontani da rappresentare l’immagine di Dio, e seguire i suoi santi precetti, pure non mancarono di provvedere alla esterminazione dell’abominevole delitto; tacerò dei parti, non parlerò degli arabi, nè dei messicani, nè di altri popoli, così del vecchio come del nuovo mondo, mi giovi rammentare soltanto i battas, tribù nell’isola di Giava, i quali condannano il peccatore ad essere mangiato cotto o crudo, a scelta del marito. L’offeso convita al pranzo espiatorio parenti e amici; legasi il colpevole a un palo; gl’invitati si accostano, ed ognuno di loro, secondo il grado di dignità, si taglia il tocco che gli gusta meglio; primo di tutti, già s’intende, il marito, il quale si piglia come più appettitosa la parte dell’adultero dietro l’orecchio, e un’altra che non importa dire.
La nostra storia racconta come, a questo punto della orazione di Fabrizio, dei gentiluomini quivi raccolti, un terzo temè sentirsi staccare gli orecchi, due terzi avvantaggiati guardarono i vicini per vedere dove avrebbero dovuto mettere i denti, caso mai il costume dei battas si avesse a trapiantare fra noi.
In questa, ecco due dei soliti uscieri cavallette saltare uno presso il presidente, l’altro presso il procuratore regio, e ad ognuno di questi consegnare un plico: nella sopraccarta di entrambi si leggeva scritto a caratteri da speziale: preme; però ambedue lo aprirono di botto. Fabrizio, appena ebbe scorso il suo, balenò della persona, chiuse gli occhi, di livido si fece cenerino, e per poco non diede di un picchio sopra la terra; pure con isforzo mirabile di animo e di corpo si tenne, ripiegò tutto tremante il foglio e se lo ripose nel seno.
Il presidente lesse il foglio come sorbiva il caffè bollente, a centellini; letto che l’ebbe lo rivoltò sottosopra considerandolo in ogni sua parte, e siccome gli occhiali per la precipite china del suo muso montonato gli erano scesi fino alla punta del naso, levò in alto la lettera tenendola aperta con ambe le mani; in su pure rivolse il muso e gli occhi, poi si piegò a levante e la rilesse, finita la lettura, voltò persona, muso e ogni altra cosa a ponente e lesse da capo; e poichè parve che nè anche questo punto cardinale avesse virtù di capacitarlo, ripose tutto a mezzogiorno e lesse per la quarta volta... Ci voleva tanto a capirla! Allora chinò il capo sul petto in sembianza di fiat voluntas tua. La udienza rimase sospesa.
Dopo un’ora tornava Fabrizio a ripigliare l’accusa, ma eheu! quantum mutatus ab illo, non mica ch’ei rimettesse uno scrupolo della sua asperità; all’opposto, la crebbe, ma la voce gli negava il consueto ufficio, si sentiva spossato, sicchè inerti gli pendevano giù le braccia; andò avanti a modo di orologio a cui si sia rotta la catena. Dopo avere esposto come nella sola Francia, secondo le statistiche dell’anno passato, Vl’adulterio avesse prodotto sette avvelenamenti, cinque assassinii, due incendi, cento divorzi, quattordici amniazzamenti di mogli e di amanti da mariti oltraggiati, disse constare del delitto: non impugnarlo gli accusati colla voce, confessarlo col rossore e col pianto. Lodevole certo il pentimento, ma di questo, tardo venga od issofatto, non si appaga la società offesa; di una cosa sola dolersi, ed era trovare la legge troppo mite in simili casi; tuttavia punite, signori giudici; certo la pena dal nostro codice sancita contro l’adulterio non preverrà la rinnovazione di questo delitto; pure il mondo sappia che per voi non andrà invendicato; punite, e poichè nel caso nostro il codice non può essere una scure, sia una verga di ferro. Tanto da voi chiedono morale religiosa e morale civilo, e tanto vi persuade la salute delle vostre famiglie o di voi; ricordate i loro doveri alle mogli, insegnateli alle figlie col terrore; pertanto l’ufficio della regia procura fa reverente istanza affinchè i prevenuti siano condannati ai termini dell’articolo 486 del codice penale.
L’avvocato di Efisio, quando toccò a lui, parve uno dei barberi, che saltato di sopra il canapo voglia vincere il palio di riffa, senonchè il cliente, agguantandolo con ambe le mani per la toga, gli comandò fieramente aggrondato:
— Stia zitto! o lo strozzo.
— In saldo del conto? Ma, caro bene, nel suo interesse, ella comprende, che qualche cosa ho pure da esporre...
— No, niente.
Allora l’avvocato, non potendo contrastare alla volontà di Efisio, così ricisamente manifestata, si levò con voce di zanzara e disse:
— Il querelante se ne rimette alla saviezza del tribunale.
Ora vuoisi sapere come i prevenuti, stando ostinati a non volere farsi difendere, il tribunale si trovasse costretto ad assegnar loro l’avvocato; elesse un rompicollo, e certo scapestrato egli era per eccellenza, ma vispo, immaginoso, e per giunta di cuore ottimo: come tutta questa roba in un avvocato? Cari miei, anche i gatti giovani paiono gentili.
Pertanto egli cominciò con uno esordio, che parve fratello di quelli co’ quali il celebre Vacca preludiava alle amputazioni delle gambe della povera gente: — Signori, egli diceva, sebbene intorno all’esito della mia operazione io non nutra dubbio veruno, pure, quando la è andata bene, voi vedete che questo povero diavolo rimarrà sempre con un membro di meno; in fatti il giovane avvocato tale dava principio alla sua arringa:
— Dubiterei della giustizia, dubiterei dell’onesto e del decoro, dubiterei del cuore e del cervello vostro, illustrissimi giudici, insomma io dovrei dubitare di troppe cose, se adesso la minima incertezza mi turbasse circa l’assoluzione dei miei clienti; ma ahimè! questa è una di quelle cause dove anche vincendo si perde; dacchè accusatori e accusati dove troveranno più i mutui aifetti ond’erano sì lieti? Dove le gioie domestiche? Dove la pace dell’anima? Spento il fuoco, non troviamo altro che cenere. La stima scambievole è un cristallo preso al bersaglio. Amore trovò nel suo nido i serpenti come Ercole, ma come Ercole non li seppe strozzare. La fama, il delicato ermellino che preferisce la morte a patire la sua pelle maculata, tu l’hai affogata sotto un monte di obbrobrio. Chi fu il mal cristiano che ti mise la torcia in mano perchè tu incendiassi la tua casa? Chi ti armò del coltello col quale sgozzasti la tua felicità? Quali furie t’invasero? In che ti parvero rei questi cari capi? In che cosa peccarono? Quali le prove? Io rabbrividisco considerando come nella mancanza assoluta di ogni amminnicolo si mettano in campo come argomento di delitto il pudore, la verecondia, le lacrime degli accusati. Dunque pel difensore della legge la meraviglia di sentirci iniquamente apposta una colpa sarà prova di colpa? Prova di colpa il dolore che invade l’anima nostra vedendoci feriti da mano caramente diletta? Lo sbigottimento di comparire in pubblico con sembianza di reo, l’amarezza infinita che allora s’insinua in tutte le fibre del nostro essere, pel regio procuratore costituiscono indizi di reato; e se tali egli ha i segni della colpa, o m’insegni, di grazia, quali saranno per lui i segni della innocenza? Se pallore e tremore attestano mala coscienza, dove vi salverete, o giudici; dove mi salverò io; dove voi, signor difensore della legge? Siì, voi? Perchè qui, teste, alla presenza mia, di tutti, orribilmente vi tramutaste in viso e tremaste per tutta la persona. Veniamo a mezza spada: Signore, di che cosa incolpate voi queste persone dabbene? Del trovarsi spesso insieme? Chiedetene ragione all’accusatore Efisio, il quale si faceva a cercare premuroso il nostro Gavino, della prolungata assenza lo rampognava; a casa volente o repugnante lo conduceva. Di amarsi l’un l’altro? Oh! la novità cotesta per lo accusatore Efisio! Non aveva partecipato egli, promosso e approvato cotesta divina trinità di amore?
Se l’amore è delitto pel pubblico ministero, e se egli si sente immune da tanto misfatto, me ne rincresce per lui, perchè s’ei solo non si troverà impiccato, ed anche solo ei si troverà nel mondo. Di essersi scritte lettere piene di dolci desiri? Qual maraviglia! Si amavano, e dovevano trattenersi dal ripetersi in prosa e in rima ciò che mille volte si dicevano al cospetto del marito? — Ricordatevi come per queste anime elette un tempo Amore fu una strada maestra dove esse camminarono di conserva spensierate e liete; di un tratto ecco pararsi davanti a loro un bivio; il tronco a destra menava al matrimonio; il sinistro alla disperazione. Efisio ed Artemisia infilarono a destra, e ce li seguitò l’Amore, finchè incontrato l’Imeneo, gli raccomandò i giovani ad averne buona cura, e costituitolo procuratore in rem propriam corse dietro a consolare il povero Gavino. In quattro salti lo avrebbe raggiunto Amore, se non si fosse trattenuto per via a scaricare la faretra delle frecce e a spegnere la fiaccola dentro al ruscello; pure lo agguantò, si mise a sedere con lui sopra l’erba, e prese nello sue le mani di lui, gli disse:
— Non mi ravvisi? Io sono sempre Amore, quantunque abbia spento la fiaccola e buttato via le quadrella. Io mi trasformo; ma sono Amore in sembianza di padre, di fratello o di figlio; — quanto a marito non è pensiero mio, tocca a Imeneo...
Ed egli parlava di Dio, imperciocchè se taluno vi sostiene la esistenza di più Amori, non gli date retta; amore è tutto un etere; la differenza non istà nella sostanza affatto, bensì nel diverso grado del calorico. Ed ecco per qual guisa Gavino di amante si trasformò in fratello di Artemisia, ed Efìsio se ne compiacque: — me ne sarei compiaciuto anche io.
Le lettere accennano forse ad occulti ritrovi, od alludono a fatti che la pudicizia non può udire senza recarsi le mani su gli occhi? No davvero; amore tramandano sì, ma come i fiori il profumo e i rosignoli il canto. Io avrei tenuto cotesto lettere preziosissime come semenzai di buoni esempi da approfittarmene alla occasione, e il procuratore regio ci trovò delitti: gusto depravato! Io ci avrei adattato le strofe di una canzone di amore, egli ci vorrebbe adattare gli articoli del codice penale: voglie fradice! Ecco che cosa vuol dire essere procuratori regi. A me basti affermare, senza tema di venire smentito, che cotesto lettere nulla in sè contengono che dia appiglio alla turpe accusa. Ma che vide? Che cosa mai vide lo accusatore Efisio? Lo dica una volta: ma no... non dica nulla, egli lo ha già detto. Vide abbracciari e baciari; niente più, niente meno. Io innanzi tratto potrei opporre allo accusatore Efisio: tu sei testimone unico, opperò testimone nullo, etiamsi papa aut imperator fuisses; tuttavia io non voglio fargli torto: sta bene, abbracciaronsi e baciaronsi; ma o non li vedeva tutti i giorni adoperare così? Non sono cose ovvie, anzi desiderabili tra fratello e sorella? Se mi opporrete che tra baci e baci ci corra, e che altro è baciarsi alla presenza del marito, ed altro quando viaggia su le ferrovie romane, risponderò che toccava allora al signor Efisio accompagnare la sua concessione col regolamento, come i nostri cari piemontesi costumano; il regolamento avrebbe distinto il giorno dalla notte, la compagnia dall’assenza; anzi, ora che ci penso, avrebbe fatto meglio a mettere l’argomento in musica, indicando piano, pianissimo, andante, allegro, crescendo, e tocca via. Quanto poi a buona morale e alle altre tutte sperpetue di cui il pubblico ministero, tra i fulmini ed i tuoni della sua eloquenza, ha minacciato la società, io vo’ ch’ei sappia che amore alto, veemente e sincero non nocque mai all’umano consorzio; ben gli nocque l’amore ipocrita; l’amore sensale che va in traccia di un sacco con una donna, l’amore ragioniere che tiene un libro in mano invece di arco, e la penna dietro gli orecchi invece del turcasso dopo le spalle, l’amor notaro; questi e non altri gli amori tarli che han roso le fibre intime della moderna società. Alla Maddalena fu molto perdonato perchè aveva amato molto; e santa Teresa ci ha fatto sapere essere il diavolo immensamente infelice, perchè non poteva amare... ha ella capito, signor regio procuratore? E Gesù crocifisso per virtù di amore non istaccò le braccia di croce, onde stringersi al seno la dilettissima santa Caterina da Siena? E se non reggeva il chiodo di fondo a tenerlo fitto pei piedi, chi sa fin dove si sarebbero spinte le cose. Dunque, l’egregio magistrato difensor della legge guerreggi i forti, stermini le frodi, ammazzi gli omicidi, ma lasci in pace l’amore.
La Dio mercè i miei clienti sono tali che non hanno mestieri scuse; e bandisco con fronte sicura che la bella onestà non si scompagnava mai da loro: pure, siccome gli uomini gravi hanno da cogliere ogni occasione per difendere la causa della pubblica morale, piacemi rammemorare un fatto che a molti, forse anche al pubblico ministero, basterebbe il cuore infamare per colpa, se amore, gratitudine e religione non lo avessero consacrato virtù. Favete auribus, porgetemi tutti gli orecchi. Correndo la metà del secolo decimoterzo, sotto il pontificato di Gregorio IX, il conte di Gleichen, combattendo per la fede in Palestina, cadde prigione e fu ridotto in ischiavitù. Ora avvenne che, mentre egli stava lavorando nei giardini del Sultano, la figlia di questo gli ponesse gli occhi addosso, e consideratone il decoro della forma e la severa venustà del sembiante, forte si accendesse di lui. Siccome in cotesti paesi volere (almeno in cose di amore) è potere davvero, ella per segreto messaggio lo fece sare ne avrebbe procurato la fuga, semprechè seco se la menasse e la togliesse per moglie; ma il gentiluomo, di coscienza netta, le mandò per risposta: più. che volentieri, ma non poterlo fare, trovandosi già moglie: la quale cosa udendo la saracina, disse: ciò non tenga, che il cuore di un uomo a più mogli può bastare. Contenti loro, contenti tutti! Saliti in nave, dopo prospera navigazione giunsero a Venezia; donde il conte, per quietare certi suoi scrupoli, mosse a Roma, e quivi presentatosi al papa gli narrò a parte a parte l’amorosa storia. Gregorio commosso lo assolvè, e poi gli spedì la dispensa di tenersi le due donne col santo timore di Dio, a patto che la saracina si convertisse alla fede cristiana. Ora, aggiunge la storia, tale e tanta fu la contentezza della contessa di ricuperare il marito, che qualsivoglia condizione le parve accettabile; nè mai rifiniva di accarezzare la sua benefattrice. La saracina non ebbe figli, e se ne consolò amando di amore materno quelli della rivale. Al castello di Gleichen mostrano anche adesso, a cui lo vuole vedere, il letto dove queste care creature dormivano insieme: ebbero sepolcro comune nella chiesa dei Benedettini a Petersbourg; e il conte superstite alle due donne compose il seguente epitaffio, che ci fece incidere sojpra:
«Qui giacciono due donne che amaronsi fra loro come sorelle e me come fratello. Una abbandonò Maometto per seguitare il suo sposo, e l’altra si strinse al seno la rivale che glielo riconduceva. Uniti co’ vincoli dello amore e del matrimonio, avemmo un solo letto nuziale in vita, come abbiamo in morte un sepolcro solo.»
Successe un’accompagnatura di singhiozzi; taluni giurati, paurosi di perdere il decoro, finsero soffiarsi il naso per celare le lacrime: anche le donne si sentivano commosse, ma non lo diedero a divedere, parendo loro non senza pericolo cotesto esempio; massime adesso, che non essendo più il caso che i mariti andassero a combattere contro i credenti in Maometto in Palestina, ci cascava come il cavolo a merenda; e questo osservava con molta sagacità la signora Agata, la quale aggiungeva, che se la quistione della poliandria poteva fino ad un certo punto sostenersi come non anche esausta, quella poi della poligamia, per giudizio dei savi universale, doveva considerarsi attentato contro tutte le leggi divine, umane e cattoliche.
Il nostro bizzarro avvocato capi esser giunto il momento di battere sul ferro caldo, sicchè con voce malinconica e non pertanto abbrivata esclamò:
— Tanto mi piacque dire per dimostrarvi come non sieno sempre delitto le azioni in sembianza delittuose, nè sempre virtù le opere apparentemente virtuose: la mia difesa non ha mestieri ipotesi, nè scuse, nè commozioni, nè affetti; giustizia intera invoco; un millimetro meno io la disdegno. — Efisio! ...
Efisio diede un salto come un puledro a cui scaricano una pistolettata rasente agli orecchi per avvezzarlo al rumore.
— Efisio! Io non ti sono amico, quantunque io chiuda nel petto un giovane cuore e mi senta poeta quanto tu; io non ti sono amico, ma va’... io ti compiango. Io vorrei potere condurti adesso al camposanto...
— Oh! Sentiamo anche questa!
— Io vorrei poter costringere i morti ad obbedirò ai miei comandamenti, per dir loro: — Sorgete e rispondete: amereste voi tornare in vita a patto, aprendo le braccia ad un amico della vostra infanzia, questi vi rispondesse urlando: indietro, le tue braccia stritolano peggio delle mascelle del coccodrillo? Ovvero desioso di deporre un bacio su i labbri della donna del tuo amore, questa fuggisse via strillando: i tuoi baci uccidono più presto della peste bubbonica? Quanti mi state ad ascoltare, dite, vi garberebbe tornare alle vostre case per dimorarci soli più che nel sepolcro? Alle vostre ville per udirvi solo l’eco delle vostre pedate, come se la solitudine pigliasse cotesta voce per ischernirvi? Chi vorrebbe vivere unicamente per sentirsi morti? Non speranza di figli. Non conforto di cui teco partecipi i dolori e le gioie. Veruno ti bagnerà le labbra riarse dall’agonia, veruno ti chiuderà le palpebre, o ti dirà il vale estremo. Per me gioco la testa contro un cocomero, che i morti con la gargana del deputato Massari2 risponderanno ad una voce: — Lasciateci in statu quo, intendiamo e vogliamo rimanere morti. — Eppure questa è la vita che ti sei fatto, o Efisio. Se ti fossi conciato come Origene propter regna coelorum, io lo sopporterei con pazienza, ma ridurti, come hai fatto, la vita in vetri rotti per camminarci su scalzo la via dell’inferno, questa io la giudico tale una rabbia contro di sè, che ogni altro tormento mi comparisce un ninnolo...
Qui chinò il capo sul petto e ce lo tenne alquanto; j)0Ì, rialzatolo, a un tratto esclamò:
— Eppure a tanta ruina tu potresti riparare con una sola parola. Dopo il Creatore a te solo è concesso con una parola ricondurre la luce dove hai chiamato le tenebre, ripopolare di stelle il firmamento per tua colpa abbuiato; una parola... una sola parola, e il lago tornerà a riflettere gli azzurri sereni del cielo. Che ti arresta? Dubiti forse del tuo perdono? Io mi ti offro mallevadore che la tua Artemisia, che il tuo Gavino ti perdoneranno; ti perdoneranno, perchè è bello per l’uomo pronunziare almeno una parola della lingua di Dio, e questa parola è perdono... Va’, Efisio, tu sei perdonato a patto che tu ti possa perdonare.
— Poffare Dio! esclamò Ambrogio, gli avrebbe a rifare anche il resto?
— Ma sicuro, riprese Agata, l’ha fatta penar tanto quella poverina.
Vuolsi credere che se Fabrizio, ovvero il presidente, avessero avvertito le capestrerie dell’avvocato, non l’avrieno sì lungamente lasciato ruzzare fuor di briglia; ben per lui che, pari a due boa ingronchiti dal freddo, costoro non davano segno di vita.
Diverso da essi Efisio, scappa su a modo di un diavolo di saltaleone senza che il suo avvocato fosse a tempo di reggerlo, e volto al banco degli accusati con parole tronche esclamò:
— Maledetto il giorno in cui apersi il cuore alla gelosia. Maledetta l’ora che dubitai di voi. Maledetto l’uomo, che invece di raumiliarmi, mi aizzò: annullo la mia querela; confesso che fa proprio il diavolo (e senza badarci accennava all’avvocato) che mi trasse dinanzi a voi, illustrissimi signori: questo valgami di scusa, e perdonatemi...
Chi lo chiamò matto, chi savio.
Al signor Ambrogio, che brontolò caninamente: con me la non sarebbe andata a finire così. Agata gattescamente rispose: — Smetti da fare il Nerone; ad altri grugni, che non sei tu, le donne hanno fatto la barba e il contropelo. Altri altre cose; ma il popolo, il quale li per li rimane tocco dal lato generoso delle azioni umane, senza troppo squattrinarla pel sottile proruppe in bravo, pestò i piedi, sbatacchiò una contro l’altra le mani fino a schiantarsele.
Il presidente, a tenore del paragrafo secondo dell’art. 487 del codice penale, ebbe a dichiarare prosciolta l’accusa contro i due incolpati; pareva mordesse le parole per dimezzarle; ma tanto e’ furono capite e con suo infinito rovello applaudite.
Efisio si accostò di scancio, a mo’ che camminano i granchi, alla moglie e all’amico, e stese loro ambo le mani; questi gli si avventarono al collo e si abbracciarono in tre, non ignudi, ma vestiti, eppure belli a vedersi come le Grazie di Canova, quantunque di bellezza diversa.
E Fabrizio e il presidente come rimasero eglino? Fabrizio come il re Erode delle marionette; sempre strabuzzati gli occhi, irti i capelli, il pugnale brandito per ammazzare, ma tutto questo insieme con lui attaccato a un chiodo; quanto al presidente, ti sarebbe sembrato il cugino del montone involuto per le corna ai cespugli del monte Mora, in aspettativa di essere sagrificato in vece di Isacco sopra l’altare del Signore.
A cui non preme sapere la fine dei giovani amanti, salti pure venti righi o trenta, che senza essi:
può star la storia e non sarà men bella;
chi poi sentisse diversa voglia dia retta, che mi spiccio in due remate. — Gravino, senza farne motto ad anima viva, di subito scomparve; si arrolò soldato, combattè le patrie battaglie sempre eroicamente e sempre sventuratamente, colpa non sua, bensì di coloro che dal cravattone e dalla insolenza in fuori nuli’ altro ebbero di soldato; per ultimo una palla di cannone gli portò via ambedue le gambe: dopo aver sofferto inenarrabili angoscie e tentennato un pezzo fra la vita e la morte, parve volerla scampare. Artemisia ed Efìsio, appena lo poterono fare senza pericolo, da Brescia lo trasportarono a casa, donde non s’è più mosso: dire che Artemisia ed Efisio quivi gli prodigarono cure di madre e di padre sarebbe poco. Gavino è diventato un culto per loro; non lo lasciano mai solo; le più sere i coniugi gli tengono compagnia intorno al letto; il dottor Taberni, quando va a visitarlo, butta da parte il suo concio ligure e il suo concio parlamentare, e vi si trattiene fino al tardi: in capo alla settimana qualche altro amico non manca; Gravino ha trovato modo di moversi e fa da scritturale ad Efìsio; lo tiene bene informato e lo dirige in tutti i suoi negozi, sia agricoli, sia commerciali. Da due mesi Artemisia, non lo dà per sicuro, ma crede di essere incinta; di qui un dire inesausto, un mulinare a perdita di vista sopra
gomento sì caro: intanto hanno messo in sodo che, figlio o figlia stia per uscire fnori, Artemisia l’allatterà; e spoppata la creatura le sarà balia Gavino, che la tirerà su secondo il tempo istruendola in tutto quello ch’ei sa, compresa la trigonometria, Gavino è sempre lieto di quella gioia parata che tiene l’anima in perpetua primavera; e’ pare che siasi dimenticato di avere posseduto un giorno un paio di gambe, o finge: fatto sta che a cui sta per movergli parole di consolazione gli tronca le parole di bocca: credetemelo, io ho trovato la felicità giusto in quel punto che voi reputaste essersi da me perduta per sempre.
Il presidente mogio mogio tornossene a casa; appena ebbe messo il piede nel portone chiamò:
— Candida? — Alla qual voce rispose una maniera di grugnito dallo interno di un casotto immondo e fetido, che era ad un punto sala, camera e cucina, e di tratto in tratto anche inevitabile bottega di ciabattino, marito della Candida. Sul davanti del casotto si apriva una finestra munita un giorno di vetri, oggi di foglio unto e di ragnatela Ora, siccome dal grugnito in fuori non usciva altro dal casotto, il presidente, facendo del cuore rocca, e’ introdusse il capo e vide. Che vide mai? Candida, che stesa a pancia all’aria su di una cassa si faceva guanciale del capo del suo marito, aggomitolato sotto alle spalle di lei; ed ecco come sta la cosa.
Questa coppia elettissima di sposi, vincolata co’ più stretti nodi del comune amore per l’acquavite, sovente si trovava briaca nel medesimo tempo da non poterne più; sicchè invece di badare per altrui, aveva dicatti di badare a se stessa. Gl’inquilini, dopo averla minacciata più volte di licenziarla, l’ammonirono che cotesta volta erano buone mosse, e se avesse mancato poteva baciare il chiavistello: allora si stringe in conferenza per provvedere al caso, e deliberò darsi la muta con questa ragione, che il marito si ubriacherebbe il giorno e la moglie rimarrebbe sana, la notte all’opposto; fare insomma uno accordo contrario a quello di Febo con Febea, dove questa prese a splendere la notte e quegli il giorno. Ora, siccome il presidente tornò a casa nelle ore in cui il marito aveva diritto di starsene briaco e la moglie il dovere di mantenersi ad occhi aperti, accadde ch’egli trovasse la Candida supina sopra la cassa, riposata sul marito convertito in guanciale.
— Candida, ripetè il presidente; ed ella senza moversi:
— Lustrissimo! In che posso servirla? Comandi, in che posso obbedirle? Per lei mi metterò in quattro ed occorrendo in sei. E non si moveva.
— Zitta! non isvegliate il marito.
— Per questo poi! Non si sveglierebbe ne anco se gli angioli del giudizio si allentassero a sonare le trombe.
— Candida, prosegue il presidente, voi sapete che state sotto la mia speciale protezione.
— Fin qui non me n’era accorta, risponde sbadigliando ed allungando le braccia la donna.
— Come non ve ne siete accorta? le tre lire al mese non ve le do io? le cinque lire di mancia per Pasqua di ceppo ve le dà il re di Prussia?
— Allegri, ci è da scialare. Oltre queste quarantuna lira l’anno, è più facile che mi caschi sul capo un tegolo dal tetto, che in tasca un soldo da casa.
— Be’! be’! Quello non fu fatto si farà: intanto a voi questo cavurrino.
— Due franchi! Tigna! mormorò la Candida; ed egli:
— Candida, voi avete a dirmi... ma innanzi ditemi se date mente a quelli che entrano ed escono di casa, perchè dal luogo dove ve ne state a pancia all’aria dubito forte che voi li possiate vedere.
— Lustrissimo! ella s’inganna, perchè se vorrà entrare qua dentro e mettersi sulla cassa a pancia all’aria come me, e come me col capo ritto appoggiato al mio marito, riscontrerà da sè che si può ottimamente vedere tutti quelli che entrano e che escono.
— Lo dite voi, e basta; dunque via, ditemi quali le persone che mi vengono a trovare in casa quando io sono fuori.
— O questo non entra negli obblighi del perfetto portinaio.
— Fatecelo entrare...
— Lustrissimo, il portinaio ha da spazzare le scale, accendere il lampione, avvertire che veruno porti via nulla, andare per la balia quando pigliano i dolori del parto a qualche signora del casamento, o per lo speziale se venisse la colica a vostra signoria illustrissima; questo e non altro è il vero compito del portinaio.
— Dunque voi non badate a chi entra nè a chi esce, nè vi curate sapere dove va, nè perchè va?
— Chiedo scusa, lustrissimo, anzi ci badiamo e ci arronziamo per sapere dalla Mecca alla Seria.
— E tutto ciò per vostra erudizione, senza volerlo dire a persona?
— Chiedo scusa, lustrissimo, lo ridiciamo bene e meglio.
— E a chi lo riferite voi?
— Lustrissimo, al lustrissimo signor questore.
— Al questore! esclama il presidente dando di un passo in dietro; ma voi qui dunque fate la spia?
— Come sarebbe a dire? Spia! Noi siamo martiri oscuri che ci sagrifichiamo all’ordine pubblico. Spia! Noi custodi pagati con moneta di disprezzo della sicurezza pubblica; quando voi dormite, noi vigiliamo per voi; noi siamo gatti battezzati per servizio della società; noi meritiamo meglio di lei, ed è «chiaro, perchè, mi fa la finezza di sapermi dire qual differenza passa fra noi e voi altri? Per me non ci vedo che questa, che noi pigliamo gli uccelli e i magistrati li pelano e gli arrostiscono. Il nostro premio in questo modo è piccolo, ma Dio ci ricompenserà nell’altro a misura di carbone... almeno questo è quanto ci assicura il lustrissimo signor questore, quando si schermisce dal crescermi la mesata. Dunque la non mi confonda, lustrissimo, e non mi distorni da dare a Cesare quello ch’è di Cesare e a Dio quello ch’è di Dio, vale a dire: a lei ciò che spetta come inquilino, a lire quarantuna l’anno, al questore quanto gli spetta per la sua mesata.
Dopo queste parole, la donna candida torna a sdraiarsi sul guanciale marito e nega rispondere ad altro. Il presidente si caccia su per le scale arrovellato, pensando alla temerità della polizia, che si attenta ficcare il naso fino in casa di un presidente della Corte di assise. Si sa, il vasaio porta invidia al vasaio.
Il presidente sonò piano; lo squillo del campanello parve una gocciola; ma Bibbiana, destra, aperse subito l’uscio con la catena traverso, donde il padrone le fece cenno, mettendo l’indice diritto sul naso, di stare zitta. Entrato in casa, con voce e garbo di congiurato le mormorò negli orecchi:
— Seguimi, senza che veruno ti scorga, nello stanzino dei panni sudici.
— Domine! O non potrebbe sceglisr e meglio; ha ella posto mente alle pulci?
— Ho pensato a tutto. Entra.
— Eccomi entrata.
— Chiudi l’uscio.
— Eccolo chiuso.
— Bibbiana, tu hai da sapere che il pane che tu mangi è mio.
— Lo so.
— Ti piace rimanere al mio servizio?
— Sì signore.
— Or bene, sai che tu devi fedeltà al tuo padrone?
— Sì signore.
— A ciò pensa che ti obbligano tutte le leggi umane e divine che si versano sopra la servitù.
— Sì signore, ma faccia presto, che ho lo stracotto al fuoco, e se mi trattiene troppo si attacca al tegame e piglia il bruciato.
— Assumo tutto sotto la mia responsabilità.
— Sì, ma intanto lo stracotto piglia il bruciato.
— Dimmi, Bibbiana, in nome del tuo Dio, quando sono fuori vengono gente in casa?
— Sicuro che ce ne viene.
— Ce ne viene? E molte?
— Piuttosto di parecchie; e certo più di quelle che ne vorrei io, perchè mi tocca andare su e giù dalla cucina all’uscio come le secchie al pozzo.
— E chi sono? con chi parlano?
— Con la signora, perchè la si figuri se cercano me!
— E la signora dove le riceve?
— In sala, in salotto...
— E nella camera da letto?
— Qualche volta anche nella camera da letto.
— E chi sono? Chi sono? urlò il presidente fuori di sè, pestando i piedi.
E Bibbiana accivettata, senza punto scomporsi, rispondeva:
— Oh ecco, il fornaio, il vinaio, il macellaio, il canovaio, il pastaio, il calzolaio...
— Altri?
— Il cappelaio, il sarto...
— Altri?
— Il vetturino...
— Altri? Altri?
— Sì, tutti gli altri che hanno credito con lei, che sono stanchi di aspettare, che minacciano citarla al tribunale; e dicono di vostra signoria roba da chiodi, ed anche strapazzano la signora; la quale, poverina! ci patisce e non fa altro che piangere, e sovente l’ho udita fra i sospiri lamentare: — Quanto era meglio che io mi mantenessi ragazza, innanzi di avere a soffrire tante mortificazioni!
— E non ci viene altri? Proprio altri?
— O santa Vergine, e chi altri ci avrebbe a venire?
— Lo puoi giurare?
— Lo posso giurare e lo giuro su questa croce benedetta — e messi gli indici della mano traverso l’uno all’altro, li compose a croce e quella baciò con molta compunzione; ma di un tratto, come se l’avesse morsa la vipera, strillò: — Ora che ci penso su, la mi dica, signor padrone, a che proposito ella mi ha fatto tante domande? Che forse dubiterebbe della onestà della sua signora? Già, questo è ciò che guadagniamo noi altre donne pigliando mariti vecchi; avvilite, tenute in prigione e per di più sospettate... Ma la sua signora la è roba sua, ed ella la può insudiciare come le garba; rispetto alla mia reputazione è un altro paio di maniche...
— Bibbiana! diamogli un taglio.
— Ah! vostra signoria- mi ha preso per una pollastriera? Anche questo toccava sentirsi dire alla figliuola di mia madre...
— Bibbiana! buttiamo carte al monte...
— A me? cui il conte Mercato confidava le figliuole, ond’io gliele menassi a confessione e a messa...
— Bibbiana! chetati.
— A me? in carne ed ossa, alla quale il marchese Piazza, dando in custodia la signora marchesa sua moglie, disse: — Bibbiana, io ho più fede in te che in un battaglione di bersaglieri. A me?...
— Finiscila, Bibbiana!
— Che eletta dama di compagnia alla baronessa Scala, vagheggiata dal duca Cordonata, dopo averne fatte più di Paris a Vienna per andarle a fagiuolo, si ebbe a metter giù dalla impresa esclamando: è tempo perso, finche la difende quella maledetta colubrina di Bibbiana la fortezza non si piglia...
— Ho capito... ho capito... ho capito.
— E se ha capito mi risarcirà del danno fatto al mio onore, perchè, prima Dio, sono donna onorata...
— Che cosa è questo diavolio? E chi è che tarocca qui dentro? si udì ad un tratto per di fuori tra dolce e severa; — verdemezza.
— Gesù mio! la padrona!
— Nina mia, non ti rimescolare; voleva farti una burla... una sorpresa... Bibbiana mi ha guasto l’uova nel paniere...
E in questo fu aperto l’uscio: pur troppo era stata profetessa Bibbiana, imperciocchè le miriadi di pulci nate, cresciute ed educate là dentro, non potendo emigrare come i poveri irlandesi per le lontane contrade di America, stavano pensose dei loro destini, quando la Provvidenza n’ebbe pietà, e mise in capo al presidente di andare a chiudersi insieme a Bibbiana nello stanzino dei panni sudici. Vi lascio considerare il terribile assalto, e se le pulci sopra coteste due vittime espiatorie vendicassero in un minuto ben mille offese; padrone e serva comparvero al cospetto della presidentessa a littera neri.
— Salva! salva! gridò questa scappando via; ed i rimasti l’uno l’altro guardando, et vedutisi conci a quel modo, proruppero in tale scoppio di risa da schiantare i travicelli del palco.
Lo stracotto andò bruciato, la minestra prese di fumo, ogni cosa in malora. Bibbiana, liberata che fu dalla invasione dei demoni, andò per ordine del presidente a provvedere alla osteria Nazionale un pranzo troppo migliore del suo, e il presidente, riscattato anch’egli, mercè le pietose cure della moglie, e manibus inimicorum suorum, scese in cantina a prendere due bottiglie di nebbiolo; e tutti insieme, in festa e in giolito, fecero un pranzo, in paragone del quale quello delle nozze non gli poteva legare le scarpe; perchè, per più allegria, vollero a tavola con loro Bibbiana, a cui la bizza della sua reputazione come uno starnuto l’aveva presa, e come uno starnuto se ne andò via.
Bibbiana beveva quanto due padrone, e il presidente quanto tre Bibbiane, pure con due bottiglie di nebbiolo e due litri di Monferrato ognuno dei nostri personaggi aveva a bordo la sua salutifera portata; ed ecco, quando meno ci si pensava, saltare in testa a Nina la fantasia di voler sapere la cagione della clausura del suo marito con Bibbiana nello stanzino dei panni sudici: di parole se ne fecero un monte, da taluna delle quali fingendosi impermalita Bibbiana, si volse al presidente con la procacia che partecipa il vino e così gli disse:
— Tanto più poi importa che la signora rimanga informata, qaanto che il trovarci chiusi dentro lo stanzino le dia plausibile motivo a formarsi un sinistro giudizio intorno alla mia onestà; e la reputazione, signor presidente, capisce, preme più della vita... per noi altre serve, se ci toglie la reputazione, che cosa ci resta?
— La reputazione, masticò fra i denti il presidente, e volto alla consorte le favellò:
— Nina, tu sai che di calunnie al mondo non fu mai penuria; vedi, anche alla beata Vergine, che fu quel giglio di castità che tutte le generazioni conoscono, toccò a sopportarne delle bigie e delle nere; ma oro non piglia macchia. Ecco, non so quale ribaldo, mentre io presiedeva l’udienza, mi fece consegnare una lettera...
— Lettera! Dov’è questa lettera? Dammela subito...
— Essendo anonima, non mi pare le si dovrebbe fare l’onore di pigliarne contezza.
— Su, dammela, la voglio...
— Dategliela...
E a questo modo strillando, Nina stava a destra e Bibbiana a sinistra del presidente con le mani uncinate rasente agli occhi, da mettere lo spago in corpo a bene altro uomo animoso che il presidente non era.
— Tranquillità, ordine; abbasso le mani... con la moderazione si viene a capo di tutto: ecco la lettera, e trattasela di tasca la porse alla sposa.
Il decoro della mia storia mi toglie la facoltà di riportare tale quale il tenore di cotesta lettera; basti saperne il sugo. Nina, ella accusava, spasima pel cugino Gabriele, e Gabriele delira per Nina; ogni volta che il presidente sta inchiodato alla udienza, Gabriele va ad annunziare alla Nina a quanti dì viene san Biagio, la quale piega il capo e dichiara: fiat voluntas tua; ed ora, ora che in tribunale si tratta una causa di adulterio, Nina e Gabriele ammanniscono altra materia, affinchè i giudici non si perdano in iscioperi. Bibbiana, more solito, regge il venti.
Il presidente, sbirciando come la Nina, mano amano che tirava innanzi con la lettura, si faceva in viso di tutti i colori dell’arcobaleno e all’ultimo minacciava cascare in sincope, si affrettò a sostenerla susurrando:
— Cuor mio, non ti affannare, raglio di asino non arrivò mai al cielo; io ti accerto che non ci ho mica creduto... ohibò! Ti giuro... ti giuro sul... che non un momento ho dubitato di te, luce dell’anima, madre, figliuola, gatta, perla di questa povera anima mia...
— Goffredo (poichè, e lo doveva avvertire prima, il presidente si chiamasse come il pio Buglione), voi mentite, ci avete creduto benissimo — e dubitato di me.
— No, in coscienza... ecco... tu mi mortifichi, Nina...
— E vi siete avvilito... orrore! fino a chiudervi nello stanzino dei panni sudici per tirare su le calze a Bibbiana...
— Brava! Per lo appunto così; la signora ha mangiato la foglia per aria.
— Ebbene, sì, ho dubitato, facendo croce delle braccia al petto, belava pietosamente il buon Goffredo, ma anche a san Pietro Gesù Cristo ebbe a rinfacciare: homo paucae fidei, quare dubitasti? e tuttavia lo perdonò; e tu, Nina, non vorrai perdonare al tuo Goffredo? Tutta la colpa è di Amore, che volle generare la gelosia.
La donna, ristatasi alquanto sopra di se, favellò in questa sentenza:
— Pur troppo bisogna perdonare, perchè se mi taglio il naso m’insanguino la bocca: ormai tocca a noi altre donne fare da uomini: dunque acconsento mettere una pietra sopra la cosa, ma ad un patto.
— Bene; ti do carta bianca, che tu sia benedetta... mi sottoscrivo a tutto — e intanto che con la bocca diceva così, tremava in cuore pel sospetto del cugino Gabriele; onde immaginate voi s’egli ebbe a cascare a pancia all’aria quando sentì la Nina a dire:
— Il patto è questo, che voi andiate subito... stasera, a trovare il cugino Gabriele e gli dichiariate senza tanti amminnicoli, che nè solo, nè in compagnia si attenti mai più. capitarmi in casa.
— Quanto a solo, scusi veh! signora, mi sembra una grulleria, perchè o quando mai il signor Gabriele si è attentato visitarla solo? Ci avrei dovuto essere anch’io.
Come vedete, Bibbiana, per raccattare le maglie, valeva un Perù.
— Quello che non ha fatto potrebbe fare, rincalza Nina con maravigliosa disinvoltura; sicchè lascia andare l’ambasciata com’io l’ho detta, che le precauzioni non sono mai troppe: tanto devo al decoro di questa casa, all’onore del marito, e soprattuto alla mia dignità.
— Ma Nina mia, osserva il presidente raggiante colme la luna piena quando sorge dai colli della Brianza, così, su due piedi... ma come si fa a dare lo sfratto a Gabriele, che in fin dei conti gli è meglio del pane, che si piglia a morsi e non grida nè manco: ohi! Festoso.... servizievole, eccetera; tu lo conosci a prova; sarebbe peggio il rimedio del male; figurati lo supposizioni... non so se capisci? Pensa alle lingue delle tue nemiche, o no... pensa piuttosto a quelle delle tue amiche. E vedi, Gabriele stesso, a ragionare, se ne avrebbe a male e rovesciarsi e mettere il campo a rumore. Abbi pazienza, Nina mia, ma in questo non ti posso servire. Quanto a raccomandargli che non venga a visitarti solo, lo approvo e ci sto; perchè anco il giureconsulto Bartolo, che fu quasimente un santo padre della nostra scienza, soleva avvertire sua moglie: sola cum solo non præsumitur dixisse: Ave Maria præterquam clericus fuisset; sed a præsumptione ista cave, Bartolina mea, ma in compagnia, poi, mi sembra ch’ei si potrebbe ammettere.
— O ammetterlo per tutto, o per nulla; io non intendo ragioni; recisamente, assolutamente voglio che in questa casa non metta più piede... e voi glielo dovete andare a dire subito.
— Eh! precipizio... o non sarebbe meglio pensarci fino a domani? La notte porta consiglio.
— Non posso, non voglio e non devo; caro mio, su la reputazione non si transige.
— Ecco, entrò di mezzo Bibbiana, se i padroni lo permettessero, io vorrei dire la mia.
— Di’ su, Bibbiana.
— Ecco, nei piedi loro io mi governerei così: messo in sodo che avvertire il signor Gabriele a non presentarsi in casa solo sarebbe grulleria, perchè non ci è venuto mai, e la proibizione potrebbe fargliene nascere la voglia, prima lo metterei a parte della cosa, che mi sembra giovane prudente e da fìdarcisi, e poi lo pregherei a non frequentare di giorno casa nostra, nè anche in compagnia di parenti; quanto alla sera continuasse a favorirci secondo il solito, due volte la settimana, per accomodare la partita al signor presidente.
— No signora; nè di notte, nè di giorno, nè solo, nè accompagnato.
— Ma via, signora, non s’incocci sul feroce; parrà che con quel suo cugino ella ce l’abbia a morte: la si lasci persuadere, pensi alla partita de’ tre sette del padrone... ed abbia viscere di carità.
— Tu sei una tigre ircana... dunque per lo interesse della tua reputazione tu mi ammazzeresti la partita dei tre sette come Medea trucidò i suoi figliuoli...
E così bisticciaronsi un pezzo, finchè a mediazione della Bibbiana fu stipulato un trattato, in virtù del quale rimase stabilito: 1° il cugino Gabriele non verrebbe a visitare di giorno la signora, nè solo, nè accompagnato; 2° gli si concedeva l’ingresso nella casa del presidente soltanto la notte, in compagnia dei congiunti, e ciò per l’unico fine di accomodare la partita dei tre sette al padrone, ed occorrendo la calabresella, ed anche la briscola.
Asmodeo, ridendo, appose il suo sigillo a cotesto convegno, facendolo registrare debitamente al protocollo degli atti maritali, che si conservano nello archivio di casa del diavolo. Il presidente, contento come una pasqua, si fregava le mani dicendo:
— Tutto è bene quello che finisce a bene: la va sempre a un modo; quanto più appaiono le matasse arruffate e meglio si ravviano: del passato io sono chiaro, dello avvenire sicuro; da ora innanzi, da qual parte mi entrerà il sospetto in corpo? Io per me non ce lo vedo.
Il povero uomo credè avere provveduto ai casi suoi meglio di colui il quale, pauroso che il diavolo gli entrasse in corpo, dentro gli orecchi si cacciò cotone intriso nell’olio santo, tra i denti prese un crocifisso, per ultimo, tiratesi giù le brache, si mise a sedere a mo’ di semicupio in un catino di acqua benedetta, esclamando in atto di sfida:
— E adesso staremo a vedere da che parte mi entrerà in corpo il maligno?
Il povero uomo aveva dimenticato i buchi del naso. Nina, Gabriele e Bibbiana, quante volte si trovavano insieme, non rifinivano ridere alle spalle del presidente Goffredo.
— Com’è andata? L’hanno assoluta?
— No.
— L’hanno condannata?
— No.
— O dunque?
— Il marito l’ha perdonata.
— Oh! vigliacco; in premio del suo perdono, io, sua moglie, gli avrei sputato in faccia.
— Tu?
— Io.
— Eppure egli è si dolce cosa perdono; hanno perfino affermato a udienza sul testimonio di un vescovo svedese essere il perdono la parola unica rimasta sopra la terra dello idioma che Dio prima favellò all’uomo.
— E tu, Fabrizio, che avresti fatto? Avresti perdonato?
— Qui non ci entra perdono; se tu ci pensi un poco, ti persuaderai che non ha luogo perdono: difatti, la proprietà è un furto, non già soltanto rispetto alla terra, bensì anco rispetto ai frutti che produce; e che sieno cresciuti co’ miei sudori non rileva, e che bastino a me solo ne anco importa, mentre o che questo si può dire circa la donna? La mia moglie che è? Una sorgente di acqua, a cui ne ha voglia venga e beva; un arbore dai rami fronzuti, chi abbisogna di ombra venga e meriggi.
— E la famiglia, e i figliuoli?
— Sono inconvenienti: ma gli ostacoli che può incontrare il diritto nel suo esercizio non alterano la bontà della sua essenza: altrimenti ti troverai condotta ad affermare bene quanto ti riesca fare, e male quanto non potrai eseguire. Tocca a cui spetta rimovere gl’inconvenienti: — per me, strido con un coltello fra i denti, vo’ la tua moglie e il tuo campo... hai capito?
— E tu pensi così Fabrizio?
— Io?... Che importa di me? Così la pensano i filosofi della giornata, e così praticano i principi... cioè i principali della nostra società... andiamo a tavola.
Se avesse potuto scoperchiarsi la volta del cranio di cotesti due viventi, chi sa qual lanterna magica di passioni truci e barocche si sarebbe palesata agli occhi degli spettatori; ma siccome i crani umani non sono scatole, così bisogna tirare a indovinare quello che ci bolle dentro; di tratto in tratto qualche baleno somministrava terribili indizi: che il pensiero come gli occhi di Fabrizio lasciati dalla volontà in loro balia sbalestravano a destra e a sinistra; senza badare a quello che facesse, egli mise sale nel vino, si provò a mangiare la minestra di puntine con la forchetta; richiamato a sè, recasi un pollo nel piatto, e tagliatogli il collo sta a contemplarlo con riso diabolico. Alla Bianca, che gli mesce acqua nel vino, comanda acerbo:
— Più rosso... cioè voleva dire più scuro.
La donna accorta pensava fra sè: il tempo volge alla burrasca, mettiamoci alla cappa.
Fabrizio, buttato giù l’ultimo boccone, esce di casa e si fa a trovare il capo dei confidenti,3 a cui con lunghe e minuziose istruzioni conferisce lo incarico di codiare sua moglie, di cui dubitava; anzi, della infedeltà della quale era più che sicuro. Quanto all’adultero, Fabrizio si astenne da qualunque commissione per timore che il confidente se ne sarebbe tirato indietro; ci andava di mezzo il pane, e a questa prova Fabrizio sapeva come uomo che tira paga dal governo, prefetto o spia, non resista. L’ufficiale pertanto rispose si lasciasse servire; saprebbe ben egli trovare il nodo nel giunco.
Bianca, avendo preso fumo di ciò che il suo marito mulinava, avvertiva subito il conte: qualche cosa agitarsi per l’aria; stesse su lo avvisato; dubitare assai dover fare quaresima prima di carnevale, n conte, dentro i cui precordi la passione amorosa spiccava in cotesto punto il bollore, lo inopinato disturbo giunse fuori di modo ostico, e per sincerarsi del fatto non menochè per apporci rimedio, chiamato subito il capo dei confidenti del ministero dello interno, gli comandava che giorno e notte spiasse e facesse spiare Fabrizio, e di tutto quanto avesse potuto raccogliere lo ragguagliasse partitamente.
Così, per opera e virtù di due precipui magistrati, la gente che il popolo paga per vigilare sopra la sicurezza pubblica, era preposta a tutelare obbrobri, o ad accertare vendette. I confidenti, in onta alla buona volontà, per più giorni si trovarono a gettare il giacchio su la siepe; e la ragione è chiara, che le spie di Fabrizio erano intese a spiare la Bianca, decisa a non moversi di casa, finchè non fosse diradato il tempo; mentre quelle del conte esploravano Fabrizio chiuso nel suo ufficio, a mo’ del ragnatele che aspetta ad agguantare la mosca rannicchiato in fondo al buco.
Ed è chiara altresì la ragione onde il conte prese lo indugio in fastidio più presto di Fabrizio, imperciocchè il fine di questo fosse la vendetta generata dall’odio, il quale tiene della natura del rettile che par morto e dorme, quando invece l’Amore ha sempre la gola secca, e porge assiduo il bicchiere perchè glielo empiano di voluttà: quindi, appena gli parve tempo, mandò a dire alla donna andasse senza sospetto alla posta consueta, perchè nuvoli per aria o non ce n’erano mai stati, o si erano dispersi; e a lei che tardava più che a lui, consapevole
Che se in femmina poco l’amor dura, |
gli uomini non mondano nespole, fu premurosa tenere l’invito.
La spia, tosto l’ebbe sbirciata uscir di casa, disse: — Ci sei! — la pedinò, notò la strada e la casa dov’era entrata, e soggiunse con indicibile contentezza: — È cascata sul vergone! Adesso a noi! — Difilato più del ramarro che nei giorni canicolari da un cespuglio trapassa a un altro cespuglio, va all’uffizio del regio procuratore, come uno spettro gli penetra nella camera, e a voce sommessa gli bisbiglia nell’oreccliio:
— Vostra signoria illustrissima è rimasta servita — aggiungendo inoltre tutto quanto l’altro bramava sapere.
Fabrizio si abbottona fino l’ultimo bottone del soprabito, si rincalca il cappello in capo, si tasta nelle tasche, e poi va di corsa dove il diavolo lo porta. Salisce due scale a tre scalini per volta, alla terza stava per ischiantarglisi il cuore: si mette a sedere su gli scalini per ripigliare un po’ di lena; riavutosi continua l’ascensione con meno furia e maggior rabbia: arriva alfine davanti la maledetta porta e suona.
La conduceva in affitto una povera donna vedova di un vecchio impiegato, a cui il conte aveva fatto assegnare una pensione asmatica, piuttostochè a vivere, sufficiente a non morire di fame; e costui la scelse appunto per la buona reputazione che godeva, imponendole, pena il suo sdegno se rifiutava, ospitare i criminosi amori. Ella cauta aperse l’uscio dopo averlo assicurato con la catena traversa, ma poco le valse, imperciocchè Fabrizio per l’apertura introduce la canna della rivoltella e digrignando minaccia:
— Apri... sono il marito di colei ch’è qui dentro.
La misera donna rimase di sasso; non le riuscì dire parola o muovere membro; ma Fabrizio ferocemente insistendo:
— Apri o sei morta — ella trasse la catena dallo incastro e l’altro entrò. Appena entrato si guarda intorno per apprendere dove i colpevoli si fossero ridotti, e non ebbe a cercare molto, attesa l’angustia della casa, che da tre in su non aveva altre stanze. Di un calcio spalanca l’uscio, che stiantato dagli arpioni sbatacchia strepitoso sul pavimento. Fabrizio si affaccia dentro e vede...
Non vede nulla, però che le imposte delle finestre fossero chiuse e le cortine calate, ed anche perchè a Fabrizio paresse tenere gli occhi fissi sopra le fiamme di un forno quando lo scaldano: però un fruscio di robe e di persone gli ronzò negli orecchi ed un barlume di capi cozzanti tra loro, non già come i montoni fanno, gli parve che gli passasse dinanzi agli occhi, onde alla cieca sparò uno dietro l’altro tre colpi di rivoltella sul mucchio...
Due gridi dolorosi si fecero sentire: son morta! ahimè! muoio!
Allora la rivoltella cascò di mano a Fabrizio, che preso da raccapriccio e da orrore si diede, brancolando, a cercare la porta di casa; rasenta, nel passare, la padrona, rimasta immobile per la paura, senza neppure accorgersene, e più che scendere sdrucciola le scale roteando sopra se stesso.
Aveva perduto il cappello; dava del capo dentro le cantonate, investiva i passeggeri, che gli dicevano improperi, e taluno fu a un pelo di dargliene un carpiccio delle buone. Lo salvarono le spie messegli dietro dal conte, le quali, presolo in mezzo, e preservandolo dagl’insulti, lo ricondussero incolume al tribunale.
Qui, chiuso nella sua stanza, Fabrizio, appoggiati i gomiti sul banco e agguantatasi la fronte con ambe le mani, mulinava:
— Vendetta! Bel pro che me ne viene, affé di Dio! Ho fatto come Sansone, ho crollato il tempio per seppellirmi sotto le sue rovine. Ho messo fuori del balcone di casa la bandiera della mia infamia, come il dì della festa dello statuto la bandiera tricolore: gua’, m’ero curvato per raddrizzarmi più forte, e mi trovo schiantato al pedale. Che fo? Che penso? Aspetterai esser tirato col gancio al collo alle gemonie delle assise? Quanta gente a godersi lo spettacolo dello accusatore accusato, a udire condannato chi soleva far condannare; il popolo non si leva tutti i giorni questi gusti! — E chi verrà ad assalirmi? Chi? Il mio sostituto, e con la piena dell’animo, che sfoga la lunga umiliazione dei rabbuffi da me sofferti d’inettezza e d’infingardagghie, non mica perchè ei li avesse meritati, bensì per far credere agli altri ed anco a lui, se mi riusciva, che io era troppo più cosa di lui. Io l’ho pasciuto da aspide, che maraviglia s’egli sputerà veleno? Ho creato un debito di odio, l’infortunio ne ha segnato la scadenza, ed ora i creditori vogliono riscoterlo con gl’interessi della vendetta, che non conosce usura. Ma di punto in bianco promoveranno il mio sostituto nella mia carica? E perchè no? Non accadde lo stesso di me? E tra me e lui che ci corre? La lunghezza di una corda da forca. Noi altri furieri del patibolo siamo tutti uguali; orologi a polvere, pari nel contenuto; la mano che ci capovolge è la ragione unica per la quale uno di noi sta di sotto e l’altro sta di sopra... il tribunale! Il tribunale! — Codardo! — Adesso ti fa paura, perchè, invece di accusatore, ti ci hai da presentare come accusato... Coraggio, poltrone! Si tratta di tanto poco! Invece di sedere a destra, ti assetterai a sinistra; invece di adagiarti sul seggiolone avrai la panca... Che serve? Gli articoli del codice penale, adesso che stanno per mordermi, mi paiono denti di pesce cane. Fuggirò... ma dove? Tu hai spento un luminare d’Italia, anzi del mondo... che monta il tuo onore? Sfregandolo al muro non se ne accende un sigaro, mentre lui celebravano nuvola infocata per condurre la gente italica alla terra promessa della libertà... menzogna! Egli fu un nugolo di fumo e di legna verdi; che importa? Tale era creduto, e fede vince realtà. Tanto basta, perchè dove metti i piedi le pietre ti si spacchino sotto per lapidarti, — e il popolo si attacchi o naso od orecchio, un brano insomma del tuo corpo al cappello, a mo’ che i villani costumano l’olivo benedetto pel di di Pasqua. Ma via, ti riesce fuggire e ti ripari in America, erede universale di tutti i furfanti degli Stati monarchici... sei salvo? Lì sì che ti daranno addosso; la nazione che porta in dono la testa di un odiato all’altra nazione riceve in ricompensa una diminuzione di spese di tonnellaggio su i bastimenti, o qualche altra agevolezza nei trattati di commercio. Al diavolo le malinconie! Io mi salverò, ma poi come si campa? Io, da mandare la gente alla forca in fuori, non so fare altro; ma se mettessi su cattedra per bandire: dame e cavalieri, venite a imparare la maniera di mandare la gente alla forca, i miei buoni amici repubblicani dell’altro mondo mi riderebbero in faccia dicendomi: lo insegneremo a te e con maniere sbucchiato da qualunque ipocrisia, e però spiccie, schiette e sopra tutto a buon prezzo... i repubblicani in America tirano furiosamente ai dollari... in Europa no... qui tirano allo scudo. In America non re, non boia, non giudici; vale a dire tutti giudici, tutti re, tutti carnefici: due metri di corda, un ramo di albero o un braccio di lampione, e un uomo da strangolare non bastano per la materia e per la forma del sacramento della giustizia? E tu, grullo, presumerai dar lezione di far male al prossimo nel paese dei serpenti a sonagli? Ma insomma, o che ci è bisogno di andare tanto lontano per morire? che la morte manca in casa tua?... No, ci è una difficoltà sola, che Fabrizio ama Fabrizio — e mi dà uggia quel morire in mia presenza, — peggio poi avermi a dare da me stesso la morte... da me cancellarmi dal libro della vita come lo scolaro cassa di su la lavagna il calcolo che ha sbagliato.... Ecco una idea... sì... no... ma sì; andiamo a pigliare consiglio dal nostro presidente; anche dagli orecchi dell’asino si cavano auspicii del tempo che farà domani.
Entrò nella camera del presidente, mentre questi stava dietro a fare il conto dei suoi debiti, e visto che la somma andava in su, esclamò dolorosamente:
— Ah! quando mi metteranno nella Commissione per la riforma del codice penale, procurerò bene io di aggiungervi un articolo contro i creditori importuni.
E qui, levando il capo, vide Fabrizio, a cui mosse tosto la favella dicendo:
— O signor commendatore, è lei?
— Bella domanda! Dopo avermi veduto, o che vorreste? Ch’io fossi un altro?
— Si dice così per dire, ma che si sente, commendatore, che mi sembra turbato?
— Silenzio! Vengo per interrogare, non per essere interrogato. Ho bisogno di un consiglio.
— Da me?
— Da voi...
— Un luminare come lei! Ma che le pare?
— Non m’inasprite... da voi...
— Ma io non ho cervello...
— Bene, lo vedremo; e qui Fabrizio, afferrato uno sgabello e levatolo in alto per darlo in testa al presidente, aggiungeva come chi declama versi tragici:
Dal capo del Saturnio ampio celeste |
— Mamma mia! urlò il presidente, saltando su ritto e mettendosi a scappare intorno alla stanza, ma ch’è ammattito? Giù lo sgabello.
— Si vede bene che non sei Giove; questi ordinava gli dessero sul capo con la scure, mentre tu hai paura dello sgabello. Presidente! Voi date un calcio alla fortuna, che non capita mica tutti i giorni, nè manco ai Numi, di partorire a un tratto sette Minerve. Sedete, presidente, non si mise a sedere anche Aristodemo, quando disse a Lisandro:
. . . . . . libero mi esponi |
— Sento anche ritto.
— Non mi fato il rivoluzionario... sedete. Bravo! così. Obbedienza cieca e passiva. Ora dovete sapere che una volta c’era un re... cioè... non un re, un procuratore del re, e questo procuratore sono io, ed accadde che questo io, adempiendo al proprio ufficio insieme con voi, ve ne rammentate, compare? non mi fate il chinese; l’altro dì, o quello innanzi, quando fu trattata in tribunale la famosa causa di adulterio, di un tratto ecco mi venne consegnata una lettera...
— Gua’! per lo appunto come a me...
— Come a voi? Sì, sì, ora mi rammento, e che cosa vi diceva la lettera?
— Mi diceva che la mia moglie, postergando ogni dovere, mi tradiva col suo cugino Gabriele.
— E voi allora?
— In prima, dato spesa al mio cervello, pensai: — Goffredo, bada, questa è una trappola tesa alla tua felicità da qualche invidioso; crepi la invidia; non gli dare retta; — poi feci a dire: o non potrebbe darsi che movesse da qualche parente degli accusati per isgomentarti e farti dare in ciampanolle; e mi rincorai; tuttavia, per levarmi la pulce che mi era entrata nell’orecchio, andai difilato a casa per sincerarmi, dove giunto, con infinita mia contentezza, in breve mi fui chiarito ch’io mi era apposto al vero.
— E come faceste a sincerarvene?
— Naturalmente secondo i principii della scienza, istituendo diligenti, nonmenochè sagaci inquisizioni.
— E sopra chi esercitaste le vostre ricerche?
— Prima di tutto sopra Artemisia!..
— E Artemisia chi è?
— Mia moglie, e poi su Bibbiana, ch’è la donna di casa.
— E voi ci credeste?
— Sicuro eh!
— Una balena s’ingoiò Ruggero, |
— Ah! signor commendatore, ella mi vuol dare la quadra; o sentiamo dunque che cosa avrebbe fatto vostra signoria? I reati si provano per via d’istrumenti o pervia di testimoni; nel fattispece strumenti in permanenza non ci stanno; dunque per necesse entrano in ballo i testimoni; la indole del caso vuole che gli agenti della colpa sieno ad un punto i testimoni; dunque, se non ricorriamo a loro, dove ci volteremo? Di qui non si scavicchia.
— Né fia che tu di Amnione inclito alunno |
— Del sonno del poi ne vanno piene le fosse; ma di grazia, mi dica, che cosa avrebbe ella fatto?
— Io? Io li ho ammazzati.
— Ammazzati? Lei? Chi? Come? — E saltò su ritto ritto, che proprio non fu sua colpa se non andò a toccare il palco col capo.
— Ecco chi ed ecco come: mettetevi a sedere come faccio io e porgetemi ascolto: proseguo il racconto; il procuratore del re pertanto, mentre pigliava le sue conclusioni in causa di adulterio, ebbe una lettera, la quale diceva così: poltrone, invece di fare il gatto fuori di casa, non badi ai topi che ti hanno roso le lenzuola sul letto; ma noi teniamo per fermo che tu non ci vuoi badare, perchè le corna sono come i denti, dolgono un po’ su lo spuntare, ma poi ci si mangia.
— Questo è il rispetto che oggidì si porta ai magistrati! Segni sicuri che in breve il cielo non coprirà più la terra.
— Rincareranno gli ombrelli; ma ciò non rileva, continua Fabrizio; chiusi tutto dentro di me, dissimulai; circondai la mia casa di spie... mi riportarono gli adulteri trovarsi insieme; andai... li sorpresi... e li ammazzai...
— Misericordia!
— E sapete voi l’assassino dell’onor mio chi era?
— Non lo so davvero.
— Il conte *.
— Apriti terra! gemè il presidente, abbassandosi, rannicchiandosi e invocando con tutte le potenze della sua anima un coppo per potercisi come la testuggine rimpiattare dietro. Fabrizio, vistosi scomparire dinanzi il presidente, rimase alcun tempo sbigottito, poi si levò per cercarlo, e trovatolo lo trasse fuori di sotto al banco per la cravatta.
— Ed ora che sai tutto, tu vuoi fuggirmi, ribaldo; su presto, un consiglio, e fa’ che sia dodici once buon peso.
Il presidente tremava a verga, e quasi senza avvertire quello che diceva belò:
— Senta, signor commendatore, se io mi trovassi nei suoi piedi, sa ella che cosa farei?
— Che cosa fareste?
— Mi costituirei in prigione.
— Ah! scellerato, alla fine ti ho colto; non credere che io non conoscessi da gran tempo i tuoi tranelli; ho contato ad una ad una le frodi che tenevi sotto a covare come la gallina le uova. Tu vuoi goderti la voluttà di mandarmi in galera...
— Ma no... ma no, commendatore.
— Sì, sì; invidia e interesse sono le faville che ti hanno il cuore acceso. Tu, spento che avrai tutti gli uccelli, pezzo di asino, ti dai ad intendere di cantare come un cardellino.
— Ma no, ma no, commendatore, abbasso quelle vostre mestole e ascolti un po’ me: provato che sia, e noi lo proveremo di sicuro, l’atrocissimo oltraggio che lei ha patito, non solo lo manderemo immune da qualunque pena, ma lo proseguiremo eziandio con le lodi ch’ella si merita.
— Tu cerchi abbindolarmi; come si può far questo?
— To’! Abbiamo fatto condannare tanti innocenti per ordine dei superiori, sarebbe bella che non mi riuscisse a fare assolvere un colpevole!
— Questo potrebbe anche darsi, disse Fabrizio tentennando il capo, se non si trattasse di lui!
— Chi lui?
— Lui, lui, il conte *.
— Chi muore giace, chi vive si dà pace — e alla fine dei conti la legge è uguale per tutti.
— E questo ti dà l’animo affermare me presente? la legge è uguale per tutti si scrive su le pareti del tribunale, a mo’ che gli strioni mettono il gabbamondo su le cantonate per fare una retata. Tu sai meglio di me che cotesta leggenda sta nell’aula delle udienze con profìtto pari delle sentenze morali dentro i confetti parlanti...
— Ma non si scarmani, commendatore; si lasci servire; io, se sarò commesso a dirigere il dibattimento, girerò le cose in modo che bisognerà che i giurati me lo lascino scappare fuori pel rotto della cuffia...
— Vedi dunque che la legge non è uguale per tutti.
— La legge sì, non già chi la maneggia.
— E dei giurati chi mi garantisce?
— Oh! i giurati sono bestie educate; o paglia, o avena, mangiano tutto quello che si mette loro davanti.
— Il tuo consiglio è falso, ripiglialo indietro e barattamelo qui sul tamburo con un altro che si possa spendere ed abbia miglior suono.
Il presidente, ormai al verde d’ogni rimedio umano, voltava gli occhi al cielo per qualche ispirazione divina, ma la Provvidenza gli si manifestava sotto l’aspetto poco lodevole di travicelli al palco, sicchè non rinvenne miglior partito di quello di raccomandare l’anima a Dio. In questo punto, per somma ventura del malcapitato, si spalanca la porta e comparisce l’usciere, che presto presto favella:
— Con licenza dell’illustrissimo signor presidente, avviso l’illustrissimo signor commendatore regio procuratore qualmente l’illustrissimo signor prefetto abbia mandato al suo ufficio l’illustrissimo signor consigliere di prefettura Inutili per consegnargli un plico urgentissimo in sue proprie mani.
E’ sembra che l’usciere avesse imparato a favellare in isdruccioli da qualche personaggio delle commedie dell’Ariosto. Il presidente, colta la palla al balzo:
— Vada subito, commendatore, disse, la non si lasci aspettare, il cor mi dice: il suo soccorso è nato.
E s’ingegnò ammiccare all’usciere gli menasse via cotesto matto di camera; e l’usciere mascagno, chiappata la mosca a volo, rincalza:
— L’illustrissimo signor consigliere Inutili aspetta all’uscio.
— Ecco, vengo; aspettatemi qui; in meno che si dice un credo vado e torno.
— A rotoli come la tela di Lucca, mormorò il presidente, ed appena lo vide fuori della stanza prese mazza, cappello, ombrello e fascettone per avvoltolarselo al mento e al collo; fatto capolino dall’uscio per ispeculare se fosse libera l’andata, spiccò una rincorsa fino a casa, dove non si tenne sicuro se prima non ebbe girato a due mandate e tirato tutti i chiavacci dell’uscio. Quando poi in seguito gli occorreva raccontare la brutta avventura, costumava aggiungere che per uscirne a salvamento avrebbe dato a buon patti una gamba, e doverne portare il voto a Sant’Antonio se l’aveva passata liscia.
Il prefetto accolse Fabrizio con la gelida garbatezza con la quale i superiori trattano gl’inferiori, massime se si sappiano prossimi a dare la capata: agli altari in rovina non si accendono più moccoli. Il prefetto pertanto incominciò con la formula consueta:
— Sono dolentissimo di doverle annunziare per ordine superiore come da un pezzo in qua i suoi portamenti abbiano fatto nel governo la più penosa impressione. Si rende giustizia ai meriti del magistrato, il quale nello esercizio del suo ufficio mostrò perizia non ordinaria e fermezza nei principii sani, che, abiurati i pessimi in cui un giorno forviò (vuoisi avvertire così di passo che il prefetto fu presidente nel 1849 di un circolo repubblicano a Firenze), promise osservare: quantunque qui si sarebbe desiderata, non minore severità, che anzi questa sta bene, e se maggiore meglio, ma più temperanza di atti e di parole, imperciocchè co’ modi gladiatorii l’autorità ci scapiti e provochino dagli avvocati, vere campane del bargello, rimbecchi e vituperii, che di rado si possono punire; ma ciò che ha passato il limite di ogni pazienza è stato il suo contegno domestico. Che vostra signoria ami teneramente la sua signora s’intende, a cagione della molta bellezza e delle virtù che l’adornano, ma ch’ella si lasci travolgere il senno dalla gelosia, ma che dia in escandescenze, ma che prorompa in minaccie, ma ch’ella faccia segno dei suoi odiosi sospetti un personaggio avuto in altissimo pregio dall’universale; a cui noi tutti dobbiamo venerazione ed ossequio...
— Dunque perchè costui è potente potrà straziare a suo libito l’onore dei cittadini? Dunque noi dovremo chiudere gli occhi a quello che vediamo, gli orecchi a quello che ascoltiamo?
— Appunto, ch’è pur troppo illusione del suo cervello malato quello che si dà ad intendere avere veduto ed udito.
— Come! prorompe stringendo i pugni e digrignando i denti Fabrizio, è illusione avere io veduto... con questi occhi, il conte * in criminoso congresso con la baldracca di mia moglie? Illusione avere sparato su di essi tre colpi di rivoltella? Illusione averli ammazzati tutti e due come cani?
— Appunto, riprende il prefetto con pacatezza stupenda, tutto questo è illusione, eccetto lo scandalo immenso dato da lei.
— Come, non ho ammazzato?
— Nessuno. Il personaggio a cui ella temerariamente accenna da una settimana non si è mosso dalle sue terre, e la sua signora...
— L’hanno trasportata al camposanto?
— La sua signora è qui... e accostatosi a un uscio lo aperse dicendo: favorisca, signora.
Dalla stanza contigua ecco uscirne fuori saltabellando la Bianca piagnolosa, la quale, gittate le braccia al collo dello stupefatto marito, fra i singhiozzi diceva:
— Fabrizio! Quante ne fai patire alla tua povera moglie? — Queste sono le promesse? E questi...
Ma Fabrizio non la lasciò continuare, e respingendola urlava:
— Vade retro Satana... addietro, non mi toccare. Poi, percotendosi il capo a più riprese gemeva: qui, qui mi scappa via ogni cosa... il cranio è incrinato... il cervello mi gronda giù come l’acqua. — Di un tratto inferocendo smania: — Infami tutti! tutti congiurati a farmi ammattire. Che contano d’inferno e di demoni nell’altro mondo! Qui sono i demoni, qui lo inferno... l’intelletto è ito, il cuore del pari; qui e qua, e picchiavasi forte la fronte e il seno, si possono appiccare gli appigionasi, ebbene, nella casa vuota entrino la rabbia, il furore, la sete di sangue, la libidine della strage; all’inferno tutti con me; ora vedremo se ammazzandoti una seconda volta resusciterai.
Si avventa in questo dire al collo della Bianca, e con la destra tenta strangolarla; la donna, colta dall’atto subitaneo, non può fare riparo se non agguantando con ambedue le mani il braccio del marito, ma invano si sforza liberarsi dalla tenace tanaglia.
Il prefetto anch’egli si affanna di apportare soccorso alla meschina, se non che Fabrizio con la terribile forza nervosa che dà la pazzia lo abbranca pel petto con la mano manca e lo sbatacchia giù sul pavimento in così dura maniera, che n’ebbe ammaccata la fronte e pesto il naso: senza potersi rilevare da terra costui prese a urlare da spiritato: Soccorso! soccorso!
Uscieri, servi e quanta altra gente stava nell’anticamera in aspettativa di udienza ecco rovesciarsi addosso a Fabrizio per levargli la donna di sotto, ma egli invelenito si difende a morsi, a calci, e non lascia presa. Alla fine liberano da morte sicura la Bianca, terribilmente malconcia; aveva gli occhi fuori come gatto arrabbiato; le impronte sanguigne intorno al collo le durarono più di un mese. Il prefetto, rattoppato alla meglio co’ cerotti, anch’egli stette un pezzo a presentare nella faccia l’aspetto della cantonata dove faceva ogni giorno impastare i suoi manifesti. Fabrizio, legato e ben condizionato, portarono diritto come un fuso nell’ospedale dei matti.
O come era avvenuto questo? Fabrizio cadde in abbaglio o vide il vero? Egli aveva veduto il vero; pur troppo aveva sparato, ma al buio, e la persona tutta tremante come ramo di arbore allo imperversare del libeccio non gli aveva concesso prendere la mira, e non aveva colpito persona. Il conte, passata la prima commozione, conosciutosi illeso, e la Bianca altresì, come uomo risoluto e di pronti partiti, si affrettò al riparo montando tutta la macchina che abbiamo narrato. Intendeva traslocare Fabrizio in Sicilia, e se reluttante si riprometteva vincerne le repugnanze con la minaccia di palesare le carte donde appariva come un dì costui si fosse legato ad uccidere il re; ma non ce ne fu bisogno, stante lo aver dato nei gerundi prima del tempo. La vecchia ospite fu fatta svignare, e non le parve vero; un nuvolo di guardie di polizia travestite e non travestite, aggirandosi nella contrada dov’era successo il caso, spargevano mille voci diverse dal vero; più che altro insistevano a dire che uno scapestrato, provando certa pistola di sua invenzione, aveva lasciato scappare il colpo; intanto pagherebbe la trasgressione. Il prefetto, a cui fu data ad intendere una novella senza capo nè coda, finse credere ogni cosa, bevve grosso e abbuiò tutto. Vere bocche di acquaio i prefetti, quando ci trovano il conto.
Il giorno successivo si leggeva in un giornale officioso il seguente avviso: «Abbiamo a registrare un fatto deplorabile. Il signor Fabrizio Onesti, commendatore e regio procuratore a questa R. Corte di appello, che tanto illustrava con la sua dottrina e rara eloquenza la magistratura italiana, preso dalla monomania per credersi venuto in disprezzo dei giudici giurati, perchè nell’ultima sessione delle assisie non sempre accolsero le sue conclusioni, tentò ieri gettarsi giù dalla finestra; impedito per miracolo dalla sua moglie, che in cotesto frangente fece prova di singolare coraggio, ha procurato con altre vie di uccidersi, sicchè sono stati costretti a chiuderlo nel manicomio, dove mercè le cure intelligenti dell’egregio signor commendatore direttore di cotesto stabilimento si spera restituirlo in breve sano alla famiglia, agli amici e al fôro, di cui è sì bello ornamento.»
Stile della Gazzetta Ufficiale, della Opinione, della Nazione e di altri della medesima mandria, compresa la Perseveranza.
E il misero Fabrizio migliorava così; il giorno stosso nel quale compariva cotesto avviso, egl i cadde in tali eccessi di furore, che fa mestieri mettergli la camiciuola di forza e legarlo con le cinghie sul letto; dopo alcuno spazio di tempo la mania furiosa cessò, sicchè poterono lasciarlo sciolto dentro una cella chiusa con un cancello di ferro, per cui facilmente veniva ad essere vigilato dai custodi che andando su e giù pei corridoi tenevano sempre d’occhio i pazzi. Fabrizio notte e dì, con gran voce accompagnata da gesti terribili, non rifiniva mai declamare orazioni contro gli ordini sociali, i vizi del tempo e la necessità delle riforme, se pure non si voleva battere una capata delle solenni; e sovente gli accadeva manifestare con eloquenza mirabili verità, come quegli a cui natura era stata pur troppe liberale di doni, ch’egli aveva offerti in olocausto alla vanità plebea e ad altri ignobili affetti.
Ora, mentr’egli dimora chiuso costà, accadde che il presidente Goffredo, fattosi del tutto manso, avesse supplicato il cugino Gabriele di prendere in mano le redini di casa e ravviargli la matassa arruffata della domestica economia, e il giovane dabbene presto gliela rimise in filo; saldò i debiti, diede il puleggio al fattore, modello di prima qualità, perchè non contento di rubare prestava il rubato al padrone coll’interesse del cinque per cento il mese; insomma fece in modo che il cappone comparisse sopra la mensa del presidente più spesso che la giustizia nelle sue sentenze; e se ciò accadesse con esultanza somma di lui, Dio ve lo dica per me. Per questi ed altri meriti il presidente ormai senza il cugino Gabriele non poteva più stare; a tale giunse cotesta sua amorevolezza importuna, che Gabriele ebbe ad avvertirne Artemisia, onde ad evitare il ridicolo ella persuadesse il marito di porre modo a quel dolce tormento. Ora dunque accadde, certo di di festa, che Gabriele e la madre di Artemisia andassero, secondo il solito, a casa il presidente per recarsi di conserva alla sua moglie a udire messa; la quale divotamente udita, frullò per la testa al presidente di favellare così:
— Ecco, oggi è libero il passo allo spedale per cui voglia vedere i matti: che dite, ragazzi, ci vogliamo andare? È un divertimento che non costa nulla; forse ci troveremo anche quel matto dell’Onesti, che già tenne ufficio di regio procuratore alla Corte che presiedo io.
— Sì, sì, andiamo, risposero ad una voce Artemisia e la madre di lei.
Più umano, Gabriele osservava: — Mi paiono gusti fradici; cotesti spettacoli mettono in corpo la malinconia per una settimana almeno...
Ma la vecchia mamma di Artemisia salta su e rimbecca:
— Già, basta che la mia piccina mostri avere una voglia perchè tu subito le dia il gambetto.
— È proprio la prima volta che me lo sento dire, Qua’! se volete andare, andiamo; per compagnia s’impiccò un lanzo.
Chi va a vedere i matti, od è più matto di loro, ovvero è un tristo. Le donne, entrate nel manicomio e osservando i miseri privi dello intelletto, di taluno, conforme le governa il caleidoscopio della loro isterica sensibilità, risero; di tale altro piansero, e presto si uggirono di tutti. Di un tratto il presidente Goffredo esclamò:
— Oh! eccolo.
— Chi ecco?
— Il commendatore! Il matto! E’ pare Ferraù alla riviera. Andiamo a dargli noia; vediamo un po’ se mi riconosce.
— Ehi! infermieri; ci è da fidarci nel cancello?
— La vada franco; non lo stianterebbe Sansone.
Allora il pio Goffredo in compagnia degli altri si accosta al cancello, e con voce tra beffarda e compassionevole chiama:
— O commendatore! O sor commendatore, favorisca; ci è gente che si vorrebbe procurare l’onore di salutarla.
Il matto gli sbarra gli occhi addosso e poi si accosta lento al cancello. Intanto il presidente continua:
— Buon giorno e buon anno; come si trova a suo agio qua dentro? Al tribunale tutti lo aspettano a gloria. O che non mi riconosce?
— Altro se ti riconosco; e questa gente che ti accompagna chi è ella?
— Questa è mia moglie, quest’altra mia socera, il gentiluomo...
— Non importa che tu perda il fiato; egli è il cugino Gabriele...
— Giusto, ci ha dato dentro di colta; dopo avere ascoltato insieme la messa...
— Ah! la messa?
— Sì signore, la santa messa, ci è nato il desiderio di venire a riverirla e ad informarci della sua salute.
Allora il pazzo con voce da banditore si mise a gridare:
— Avanti! avanti! dame e cavalieri; la vita che meniamo qua dentro uggisce maledettamente: ho pensato rallegrarvela; e a questo scopo intendo darvi la spiegazione di alcune figure di cera che sto per mettere nel mio museo; all’entrare! all’entrare! Il tutto gratis, secondo il detto del Vangelo, gratis accepistis, gratis date. Attenti dunque, che vado a dare principio al bel divertimento.
Tal bue va a pascere che si trova al macello; il divertimento del presidente sta per trovare il suo riscontro nel divertimento del matto, il quale continua:
— Questi, signori cavalieri, è il marito putativo di questa bellissima madonna, che non si chiama Maria, bensì Artemisia, omonima della famosa regina di Caria, che prima bevve il marito morto, e poi finì vecchia arrabbiata di amore per un soldato vivo;4 quest’altra è la classica pollastriera mamma Agata, di cui da venticinque anni si contendono il dominio tabacco e vino; nè pare che stieno per ora sul finire la lite. Il gentiluomo poi è un tale Gabriele, che trovò spediente annunziare lo amoroso messaggio per conto proprio e non per l’altrui. Questo branco di degne persone, dopo avere passeggiato l’adulterio per le vie e per le piazze della città, gloriose al pari di Cesare quando menava il trionfo, si recarono devotamente a chiesa per presentarlo a piè degli altari al cospetto di Dio. — E così, dame e cavalieri, bisogna che sia, conciofossecosachè, quando le società degli uomini si conservano selvaggie, ecco di un tratto scappa di mano alla natura un Lino, un Orfeo, un Cadmo, un Romolo, un Teseo, promulgano leggi, che a guisa di morse costringono i viventi a pigliare una piega per istarsene insieme senza mangiarsi a morsi; ma nelle società diventate civili, se avviene che si guastino, allora la libertà non consentendo partiti tanto violenti, è mestieri operare in guisa che i buoni costumi rifacciano un po’ di carne alle leggi; dieno loro vigore allo stomaco per digerire e alle dita per agguantare; per le quali cagioni e ragioni i guidaioli generosi e podagrosi del nostro italo regno agli uffici supremi preposero gli ottimati, i patrizi, quelli insomma che vanno per la maggiore, affinchè con gli esempi incliti educhino le moltitudini, meglio che co’ precetti; di vero, se il senatore Cambray-Digny si affaccia ad una finestra e si mostra al popolo sotto adunato: ecce homo; la sua presenza farà più. breccia nell’animo di quello che tutti e dieci i comandamenti della legge di Dio. Qaando non furono trovati uomini nuovi, buoni da bosco e da riviera, si conservarono gli antichi; così i vecchi sbirri si persuasero con ogni maniera di carezza a rimanersi per ammanettare; alle amministrazioni però deputarono uomini nuovi, perchè i vecchi rubare sapevano, ma non con le eleganze del rubare moderno: quanto a boia non rinvennero meglio del Piantoni, ed il carnefice del duca di Modena, che impiccò Ciro Menotti, continua a impiccare per conto del re d’Italia, quantunque la sua reputazione sia affatto scroccata.5 A capo dei tribunali stanno magistrati come questi — e qui additava il buon Goffredo — che se capitassero ma’ mai in bocca al diavolo, durerebbe a sputare coma e lische almeno un mese. — Ed ecco come saranno sanati infallante co’ buoni esempi i rei costumi del nostro inclito regno.
I pazzi avevano fatto un cerchio intorno al presidente ed alla sua bella compagnia, levando un rombazzo, un frastuono, un rovinio che pareva il finimondo, ne ci era verso di scapolare loro di sotto; le sghignazzate e i fischi andavano al cielo, e già era corso qualche scappellotto, ventipiovolo d’imminente acquazzone. La faccenda diventava brusca davvero, se il direttore non giungeva in tempo con un rinforzo di spedalinghi armati di nerbi, i quali distribuendo a destra e a sinistra busse da levare la pelle, fece prendere il puleggio a cotesti matti, i quali però appena furono fuori di tiro si voltarono d’accordo riprincipiando un inferno di fischi e di vituperi.
Il direttore, confuso per lo spiacevole inconveniente, si profondeva in inchini, senza aprire bocca come colui che non sapeva da che parte rifarsi; ma il presidente venne tosto a levarlo di pena, imperciocchè sorridendogli beato, mentre si assettava il cappello sgualcito, gli disse:
— Poverini! bisogna compatirli, e’ sono matti.
— Giusto! era quello che pensava anch’io, cotesti miseri non sanno ciò che si dicano o si facciano, si affrettò di soggimigere il direttore.
Artemisia tremava; di che tremava ella? Non mi è facile indovinarlo; questo so e lo ridico, che stringendosi ella al braccio dell’amante, gli susurrò negli orecchi:
— Han fatto male a mettere cotesto infame allo spedale, lo avevano a cacciare addirittura in galera.
Ma Gabriele non le badava, che mormorò fra se questi detti segreti:
— La Dio mercede, noi siamo giunti a tale, che in Italia adesso i savi parlano come matti e i matti come savi.
Da cotesto giorno in poi il verme penetrò in quello indegno amore, e comecchè il giovane contrastasse alla incessante corrosione, in breve l’ebbe guasto; allora egli si provò a sbrattarsene e non potè; condizione infelicissima, che annebbia sovente i migliori spiriti; un bel giorno con inaudito sforzo ruppe la fune della consuetudine, e insalutato hospite fuggì: pellegrinando in remote contrade corresse i trascorsi della riprovevole passione, e rigenerato in faccia alla propria coscienza ricuperava la stima di sè e la pace. Ora, chi credete che di cotesto caso si arrapinasse più, il presidente Goffredo o la moglie Artemisia? E’ fu Goffredo; quanto ad Artemisia infuriò lunedì, martedì pianse, giurò vendicarsi il mercoledì, il giovedì si diede attorno a cercare il mezzo di condurre a compimento la sua vendetta; lo trovò il venerdì; fa vendicata il sabato; sei giorni di fedeltà per femmina come quella equivalgono alla eternità. Bisogna dirlo; all’uomo qualche volta è dato restare a mezza scala; la donna va sempre fino in fondo.
Non affatto infelice Fabrizio, poichè la fortuna gli concesse nel profondo della sua miseria redimere un’anima. Certo tristaccio, quando lo riseppe, notò malignamente: — I regi procuratori, onde facciano un po’ di bene al consorzio civile, bisogna che diventino matti. — La quale sentenza, se non peccasse di troppa generalità, si dovrebbe rilegare in oro.
Il conte! il conte! Noi vogliamo sapere come andasse a finire il conte, urla la moltitudine dei miei lettori. — Ordine! tranquillità! silenzio e tenebre. Ed io vi conterò il fine del conte. Libero da ogni ostacolo, costui irruppe con la foga della giovinezza dove alla cieca più Venere piace, per dirla col Parini, e, o sia che la sua complessione inchinasse a decadenza precoce, ovvero il troppo affaticare della mente, e le notti vigilate, e lo abuso delle bevande nervose, massime caffè, gli logorassero le forze vitali, in breve egli si trovò ad avere, non che bevuto, sgocciolato il boccale della voluttà; venuto a compieta, contro la propria impotenza arrovellava, se avesse potuto avrebbe fatto arrestare dal questore Amore e trasportare ammanettato dai giandarmi alle Fenestrelle
- pestava i piedi e si svelleva i capelli, dando di sè miserando non meno che burlevole spettacolo. Dove la donna, mossa da pietà o da quale altra passione, si fosse avvisata racconsolarlo con parole di compatimento, apriti cielo! Allora sì che bolliva! rompeva in escandescenze, e, come dico il volgo, ci
andava di moccolo. Avvenne quello che doveva avvenire; lo colse lo accidente di gocciola e morì. Per la costui morte grande si levò il lamento nella universa Italia, che gl’italiani costumarono con lui come gl’innamorati con la donna amata, quando le diluviano addosso tutte le virtù le quali essi desiderano che la donna possieda ed ella non ebbe mai. I suoi gesti dipinti dall’adulazione co’ falsi colori del servilismo ogni giorno più smontano al sole della verità; anche pochi anni, forse mesi, e di cotesto storie non apparirà altro che pareti bruttate di memorie laidissime.
Ben può l’erede comprare un posto privilegiato al camposanto e commettere a Carrara un monumento di marmo; i lacchè dell’arte faranno alle capate per iscolpirglielo, senza darsi un pensiero al mondo se adoperano lo scalpello per un bandito o per un eroe; ma la Storia, che non vende posti al suo cimiterio, e per amor di pane non usa la penna, più presto o più tardi mette ognuno al suo posto e il tempo conferma il giudizio.
Corse voce che lo avesse avvelenato la Bianca, e fu calunnia; ella non era capace di siffatti reati; anzi ella amava il conte a modo suo; certo cotesto amore a lei arrideva quando le veniva davanti col turcasso pieno, non mica di frecce, bensì di cedole di banca di mille lire l’una; ma insomma se lo teneva caro; di un’altra cosa ell’era capace, e in questa parte non si lasciava patire; mantenuta dal conte, manteneva... chi mai? Non importa dirlo; uno di quei tanti così che costumano portare i baffi appuntati volti in su come le vacche le corna, ed i capelli spartiti per davanti e per di dietro su la zucca come gli spicchi del popone. Donde vengano non si sa, dove vadano nemmeno; pari al sole dei climi tropicali, non conoscono crepuscolo; splendidi di tutti i loro raggi compaiono nelle sale magnatizie, sfolgoranti di tutti i raggi loro precipitano nella tenebra; forse, se ne francasse la spesa, a cercarli bene, si troverebbero in galera, ovvero in sagrestia; intanto corruscano nei club; nei turf si esaltano Minossi, poichè ci decidono i piati, e talora eziandio emuli a Castore semideo scendono nello stadio e corrono il palio; luogotenenti e vescovi in partibus di Tersicore, la musa ballerina nelle soirées dansantes; diaconi e suddiaconi di Como nei banchetti e nei buffets; Achilli della forchetta e della spada, perchè talora duellano, e non senza audacia, per conto proprio, più spesso vengono a regolare cotesti intrugli, che chiamano a ragione partita di onore, essendo provato che l’onore non ci si fa mai vedere, o, se per caso ci s’imbatte, scappa senza voltarsi indietro. La cittadinanza finge maravigliarsi di simile risma di gente e le appella misteriose; cittadinanza vile e corrotta, che si tappa occhi, orecchi e bocca per non vedere, non udire e non parlare; per poco che ci attendesse, non che altro, il lezzo glie le svelerebbe anche al buio; esse, finchè il vento soffia in poppa, si reggono sopra ogni maniera senserie e sul truffare al gioco, non mica barando per se, che sarebbero scoperti subito, bensì tenendo il sacco a persone illustri duchi, marchesi ed altri titolati: essi guadagnano a starsene all’ombra; dopo queste viene l’industria di darsi a nolo a femmine use vendersi un dì alla libidine altrui, oggi costrette dalla propria a comprare, mantenendo in fiore l’ampia famiglia dei contratti innominati do ut des, ut facias facto; ed è destino che queste donne caschino stupidamente nei laccioli medesimi onde accalappiavano altrui. Narrasi che il conte, tra robe e quattrini, avesse lasciato alla Bianca pel valsente di centocinquanta e più mila lire, sicchè, come vedete, ci era da scialare un pezzo; quindi non mancò il bertone di proporre alla donna il pellegrinaggio di Parigi, che è il santo Iacopo di Galizia di quanti barattieri e baldracche vivono nell’universo. La donna assentì più che volentieri, trovandosi fornita in copia di viatico, ed anco per allontanarsi da una città, dove così atrocemente le levavano i pezzi d’addosso; le turpi adulazioni ora le facevano scontare con ispregi abiettissimi; e percotendo lei credevano vendicare la propria viltà; logica dei tempi, che fa cascare le braccia alla medesima infamia.
Di questa ragione salmi finiscono sempre col solito gloria; fecero del ben bellezza, sicchè in capo ad un anno del sacco rimasero loro appena le corde; ma il bertone, innanzi di vederne il fondo, arraffato il buono e il meglio, si tirò al largo, nè se ne seppe più nuova; alla donna parve toccare il cielo col dito tombolando nelle mani di un imprenditore di pompe funebri; costui sperava cavarne presto uno scheletro per decoro dei catafalchi; campando ella oltre l’aspettativa, la sgabellò a un oste; l’oste a un carrettaio; qui di vettura privata diventa omnibus, e così di male in peggio: allora dà di una stincata al sifilicomio, n’esce, ci torna, lasciando via via nuove offerte al tempio, una volta i capelli, un’altra i denti, ora un occhio. Poco prima della famosa rivoluzione dei Comunardi a Parigi fa vista bazzicare il Boulevard des Italiens, dove vendeva fiammiferi. Parecchi italiani la conobbero e udirono da lei la storia del conte, arrapinato, pestare i piedi e svellersi i capelli quando Venere, appoggiato il pollice destro sotto il naso, gli faceva ventola con la mano aperta. Qualcheduno ne scompisciava dalle risa; i più, tentennando tristamente il capo, mormoravano: ecco i grandi uomini partoriti pei piedi dalla monarchia.
Tutti però le davano il soldo.
Forse ella, nel portare l’acquavite o il petrolio ai combattenti, sarà rimasta morta; o forse il governo del repubblicano Thiers l’avrà fucilata. Forse chi sa che un giorno o l’altro non la troviamo segnata fra le sante in qualche lunario francese: ce ne hanno messe tante!
Note
- ↑
Intra due cibi distanti e moventi
Di un modo, prima si morria di fame
Che liber’uomo Tun recasse a’ denti.
Par. 4. - ↑ Giuseppe Massari, una maniera di feto mostruoso della libertà, che merita essere impagliato e conservato in qualche museo per servire alla storia naturale della monarchia temperata del regno d’Italia.
- ↑ Così con parola pulita si chiamano le spie.
- ↑ Il matto piglia uno svarione: che furono le Artemisie; una appunto regina di Caria, moglie di Mausolo, che fece quello che fece, come dice il matto, e morì di dolore due anni dopo la perdita del marito; almeno così la conta Teopompo presso Arpocrate; l’altra fu figlia di Ligdamide, regina di Alicarnasso e di taluna delle isole circostanti, e questa fu che infuriando di amore per Dardano abideno, per gelosia gli cavò gli occhi mentre dormiva; e poi, vie più smaniosa, a rimedio della passione che le bruciava le ossa, così consigliata dall’oracolo, si precipitò dalla rupe di Leucade, dove le si spensero ad un punto l’amore e la vita; questo si trova scritto nella Storia Nuora di Tolomeo Efestione, dove occorre il catalogo di tutti quelli che fecero il salto; rimetto a lui coloro che desiderano più ampie informazioni, e li avverto altresì che dove volessero provare troveranno sempre la rupe di Leucade a Santa Maura, isola ionica, disposta a servirli.
- ↑ Questo Piantoni il 22 gennaio 1871 impiccava in Alessandria Antonio Vertua; ed era la sua 171a, dico centosettantunesima impiccatura. Nell’Eco del Tirreno, 5 novembre 1872, da tale che esaminò il cadavere dell’impiccato si afferma che le ossa del collo erano al loro posto, e non rotte, il midollo intatto; il boia col suo laccio semplicemente affogò l’appiccato, ed esso non potendo respirare morì asfittico.
Da questo racconto si ricava come il prelodato boia contasse panzane quando si vantava egli solo possedere l’arte di spacciare subito, e senza quasi dolore, il paziente, rompendogli con un calcio o due esteticamente assestati taluna delle vertebre cervicali. L’avvocato Giacomo Borgonuovo, nel suo terribile libro Il Patibolo, il Carnefice e il Paziente, racconta come Pietro Piantoni, impiccando a Genova Felice Abbo, per bene dieci volte pestasse sul capo di cotesto infelice, senza contare Giorgio Porro, aiutante, il quale per di sotto tirava giù a strattoni da schiantare la corda. Anche il patibolo ha i suoi ciarlatani.