Il secolo che muore/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII

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Capitolo XVIII.

TUTTI I NODI GIUNGONO AL PETTINE.

E adesso ritorniamo al giovane Omobono. La notte era inoltrata senza che egli si fosse deciso ancora di passarla a veglia, ovvero al teatro: se ne stava seduto dinanzi al caminetto contemplando le fiamme crepitanti, non potendo condurre il suo pensiero sopra veruna delle tante cose che recavano molestia, e neppure sopra veruna delle dilettissime, come l’amore della sua Amina: aveva il cervello attrappito.

Di repente si apre l’uscio del salotto ed entrano taciti, a modo di congiurati, l’avo Omobono e la sua anima dannata Nassoli, Aeneas et fìdus Achates. Il Nassoli, che veniva ultimo, ebbe avvertenza di chiudere diligentemente l’uscio e tirare la portiera. [p. 250 modifica]

I sopraggiunti, ricambiati i saluti, assettaronsi al fuoco, dove attesero per parecchi minuti a scalciarsi; pareva che il vecchio Omobono, quantunque fosse quel furfante da tre cotte che noi conosciamo, pure una certa esitanza gl’impedisse di rompere su quel subito il silenzio; si trattenne alquanto; all’ultimo incominciò:

— Nipote mio, mi rincresce di avertelo a dire, siamo alla porta co’ sassi.

II nipote non rispose verbo, onde il vecchio, dopo breve pausa, ebbe a continuare:

— Proprio rovinati di pianta.

— Se così è, disse alla fine Omobono con saldo accento, pera l’interesse, salviamo l’onore...

— Questo per lo appunto non siamo più a tempo a salvare, e fossimo non sarebbe ciò che preme; dunque all’onore diamo di frego. Davanti a noi adesso si aprono due sentieri, o darci di un revolver nel cranio, e questo io scarto ricisamente, o adattarci al domicilio coatto in qualche bagno del regno italiano, ed anche questo non entra nelle mie previsioni; haccene un terzo, e questo giudico l’unico spediente; salvare più che possiamo per vivere bene in questa vita, perchè nell’altra Dio fa le spese, in questa no. Ora dammi retta, figliuolo; io conto che tu debba trovarti su per giù un seicentomila lire tra cambiali, biglietti all’ordine, valori pubblici e cassa; che te ne pare? [p. 251 modifica]

E Omobono zitto: il vecchio continua:

— Urge che tu riscontri il portafogli, rechi tutto in danari, e ce lo spartiremo... cioè, io piglierò due terzi e tu un terzo.

E il giovane zitto: prosegue l’altro:

— Tu con questo bene di Dio ti ecclisserai; vai in America, ovvero in Australia, e appena ti sappia in salvo io mi dichiarerò fallito.

Il Nassoli, che pareva sbadato pigliarsi diletto di segnare numeri sopra un foglio, qui levò lemme lemme il capo ed osservò:

— Ecco, su i libri del signore Omobono potremmo, per meglio colorire la cosa, segnare altre cinque o settecentomila lire come prese dalla cassa del suo signor nonno.

E il nonno:

— Voi osservate saviamente, Nassoli.

— Ch’è quanto dire, soggiuse il giovane, che io ho da figurare essere stato la causa del suo fallimento?

— Già.

— E per dare colore alla cosa mi toccherà scappare, lasciandomi dietro la opinione di aver rubato la cassa.

— Sicuro.

— Ma chi mi entra mallevadore che io non sarò agguantato anche fuori, e qui, tradotto con le manette, giudicato e condannato a pena infamante? [p. 252 modifica]

— Io; ti provvederò di quattro o sei passaporti e di altrettante parrucche, ti munirò di lettere commendatizie per modo che troverai assistenza anche in capo al mondo; e noi pure formiamo una setta forse la più antica come la più efficace di tutte le altre.

— E il nome chi me lo ripara?

— Il nome, caro mio, gli è un cappello, il quale, quando non ci serve più, si butta via per pigliarne un altro, e tu baratterai quel tuo sfiaccolato Onesti coll’altro più robusto di Briganti... non mi torcere il niffo... rammentati che dei Briganti ne annovera parecchi il Parlamento italiano, deputati spettabili, mentre degli Onesti, per quanto io mi sappia, non ce n’è mai stati. E se ai serpi è dato in capo ad ogni anno mutare di pelle, comecchè attaccata alla propria carne, o perchè l’uomo non potrà mutare il nome, ch’è cosa fuori di lui, e insomma delle somme fiato e non altro?

— E la mia coscienza?

Il Nassoli sospese da capo il suo trastullo di segnare numeri, e per la seconda volta levò la testa come persona che senta cosa che non capisca, e così sembra che avesse a parere anche al vecchio, imperciocchè osservasse:

— E adesso che sortite sono queste di parlarmi chinese?

Il giovane con sembianza alterata, ma con salda voce, soiggiunse; [p. 253 modifica]

— Temo che si opponga un’altra difficoltà.

— E quale?

— Nel portafogli conservo pochi recapiti commerciali da potersi facilmente negoziare.

— O le cinque... le sette... le novecentomila lire che tu hai avuto da me dove le hai tu messe?

— Quelle che sono sono; le si trovano registrate su in libri e depositate in cassa.

— O che il danaro resta nelle casse a condire? E perchè non le adoperasti?

— Perchè?

— Sì, perchè?

— E me lo domanda?

— Certo, ma certo che te lo domando: io ho bisogno sapere perchè tanto valsente, contro la mia volontà e le mie istruzioni, rimase morto nelle tue mani?

— Ebbene, poichè mi obbliga a dirglielo, le dirò: perchè i biglietti ch’ebbi da lei erano tutti falsi, per la qual cosa, appena mi accorsi a qual partito terribile ella mi avesse posto, non solo mi astenni metterne altri in circolazione, ma m’industriai ritirarne la maggior quantità che per me si potesse... quindi la sua cassa è debitrice, non creditrice della mia.

— Che tu fossi un vigliacco... un asino calzato e vestito, già sapeva, ma fino a questo punto prima di ora non lo avrei immaginato. Il giorno che mi [p. 254 modifica] chiappò il frullo di uscire di casa, per chiederti a Isabella, era meglio che nello scendere le scale mi fossi rotto le gambe e il collo per giunta... e adesso, Nassoli, non ci sarebbe verso di collocare questi biglietti?

— Lo giudico intempestivo... estremamente intempestivo, rispose asciutto il Nassoli.

— Maledetto! urlò Omobono, dando di un forte pugno sopra la tavola, e proseguiva; ma il Nassoli ne reprimeva il furore dicendo:

— Che serve? Ora l’escandescenze riescono intempestive... estremamente intempestive; navighiamo secondo il vento.

— Avete ragione: orsìi, via; domani tu negozierai il portafogli, tutto se riesce, se no la maggior parte: danari e valori tu fa’ di portare a me; secondo i capitali che avrai ricavato, io ti largirò sussidi pel viaggio e per istabilirti in luogo lontano, dov’io non senta più parlare di te: ammannisciti a partire da un’ora all’altra; al passaporto e all’imbarco a Genova provvederò io: voi, Nassoli, domani per tempo metterete i miei e i suoi registri in regola, onde dal confronto loro risulti a luce meridiana che Omobono Onesti si è fuggito lasciandosi dietro un vuoto di cassa di tanti milioni, quanti voi reputerete necessari.

— Che? come? ruggì il giovane Omobono. Io non fuggo, io non lascio dietro a me vuoti di cassa. [p. 255 modifica] Se ladri ci sono stati, non li dovete cercare in mia casa.

E l’avo cortese di rimando:

— Dammi un sigaro... grazie: — lo accese e dopo due o tre boccate di fumo prosegue: — Se ti ostini a rimanere noi sdruccioleremo di conserva in galera, mentre nel modo che ti propongo io tu te ne andrai a godere la tua bella libertà e forse la stima di nuovi cittadini che la Provvidenza rimetterà nelle tue proprie mani come una vigna da vendemmiare: io certo rimango per le peste, ma ho per fede che la canapa per la fune che ha da impiccarmi fin qui non sia stata raccolta.

— Insomma, io, innocentissimo di tutti questi pelaghi, dovrò essere sagrificato come vittima espiatoria?

— E se non fosse così dove sarebbe il tuo merito? I rei si puniscono; gl’innocenti si sagrificano. Diavolo! È distinzione elementare. Chi fu che si sagrificò per le colpe del genere umano? Gesù Cristo, bene altramente immacolato di te...

— Ma io non sono Cristo, nè lei il genere umano.

— Certo, a rigore non concorrono i termini della comparazione, io l’ho detto così per via di esempio: ad ogni modo accetta di buona grazia la parte che io ti faccio e non ne parliamo più, che non ho tempo da perdere. — E qui tre e quattro boccate di fumo una dietro l’altra. [p. 256 modifica]

— Questa non è la mia parte, tremante di passione borbottò il giovane Omobono.

— No! grida Ìl vecchio, diventando livido per male represso furore; — no! — e levatosi di bocca il sigaro lo deposita sul tavolino, quindi continua: — o perchè allora, dimmi, affamato, ti avrei tratto in casa mia e levato la pancia di grinze? perchè, miserabile, ti avrei messo le scarpe in piedi e la camicia addosso?

— Non m’insultate... non m’insultate, per quanto amore portate a mia madre... alla vostra figliuola.

— Che importa a me delle figliuole? Meno passere, più panico. Chi ti dotò di casa, di servi e di cavalli? Chi dalle latrine ti assunse alle beatitudini del paradiso terrestre? Mio il bicchiere col quale bevi, mio il piatto dove mangi, mia la catinella dentro cui ti lavi, il letto dove dormi, la sedia dove ti assetti, le vesti che ti coprono; se quanto hai di mio intorno a te, da me chiamato venisse a me, tu rimarresti come Adamo quando uscì dalle mani del Padre Eterno.

— Non è vero... la mìa casa non ebbe bisogno di casa vostra mai, mentre la mia vi ha sovvenuto, vi ha aiutato, e Dio sa con quanto scapito di reputazione e di danaro.

Il vecchio barattiere, fingendo non sentire cotesto parole, continuava infellonito:

— E ti bastò l’animo, impronto e sfacciato, per [p. 257 modifica] credere che tutto questo io facessi perchè, oltre gli altri lussi, tu t’incarognissi nel lusso più depravato di tutti, quello di trinciarla da galantuomo? Cotesto è lusso regio, non lecito ai semplici mortali; chiunque si attenti andarlo a cacciare nelle bandite regie, cade in trasgressione, se pure non ci acchiappa qualche palla nel cranio per via di ammonimento.

— Dunque voi presumeste comprarmi l’onore?

— Io non so che sia onore, e so anche meno in che cosa avrebbe potuto avvantaggiarmi. Tu promettesti essermi un guanto nella mano, e mi sembra averti pagato per mille dozzine di guanti: eletta d’intelligenza, fiore di gioventù si adatta a diventare cadavere gratis in mano del padre maestro gesuita, e tu tarocchi al primo servizio che ti chiede il tuo benefattore. Ch’è questa boria! La profferta di gente della tua qualità supera di due cotanti la richiesta: e credi tu che se io ti chiedessi il doppio di quanto ti chiedo, in confronto di quello che profusi per te, tu salderesti mezzo il credito che hai contratto meco?

— Dunque, quando l’avo finse beneficare il suo sangue aveva in mente di comprargli l’anima?

— Nè l’anima, nè il corpo: cotesti contratti un di faceva il diavolo: oggi non costumano più: noi pattuimmo un cambio di servizi; finora ho pagato, adesso è venuto il tempo che tu mi consegni un [p. 258 modifica] po’ di quanto ti comprai; e mi piace ripeterti che tu hai a considerare come la fortuna non dia luogo a scelta: dove tu ti ostinassi, me perdi e te non salvi; tu altro non puoi se non aggiungere al vincolo di sangue che ci lega una catena di ferro, la quale verrebbe ribadita dall’aguzzino dalla tua gamba destra alla mia sinistra, ovvero dalla tua sinistra alla mia destra, a piacimento.

Omobono digrignava i denti; si levò con impeto, ma non reggendosi in piedi ebbe a ricascare sulla seggiola; pure riuscì a dire a strappi queste parole:

— Signori, voi lo vedete... mi pare che mi abbiano dato di una mazzola sul capo... lasciatemi in pace... ho bisogno di raccogliermi.

— Il tempo stringe...

— Domani l’altro...

— Che domani l’altro! Domani.

— Ebbene, procurerò di ridurre in essere il portafogli... domani.

— Se le occorre aiuto, rimarrò con lei — disse il Nassoli.

— No, vada col suo principale, ch’egli di certo ne avrà più bisogno di me.

— Dunque a rivederci, conchiuse il vecchio ribaldo, e cercato e trovato il sigaro che già depose spento sul tavolino, lo riaccese alla candela del nipote e se ne andò tranquillo come se avesse conchiuso la compra di una partita di bozzoli. [p. 259 modifica]

Ho letto che la luce corre settantaduemila leghe il minuto secondo, e non mi è parso gran cosa, perchè il pensiero umano in un battere di occhio gira e rigira dieci volte il mondo; di vero i visitatori di Omobono non avevano ancora mutato un passo fuori dell’uscio del suo salotto, che egli aveva immaginato, discusso e stabilito quanto dovesse fare: atteso il tempo che gli parve necessario perchè si fossero allontanati, e poi di rincorsa in casa alla Elvira; quivi rinvenne Egeo ed altri parecchi amici sviscerati che stavano spogliandosi amorosamente all’antico giuoco del lanzichenecco, il quale ringiovanito col nome di toppa adesso forma la delizia delle nostre veglie. Omobono, invitato a pigliarci parte, se ne schermi col pretesto di forte emicrania, e veramente tutta bugia non era; quando gliene cadde il destro fece cenno all’Amina, che giocava anch’essa alla disperata, perchè si levasse per andare a parlargli. Di cotesto segno, ch’egli fece con la massima cautela, affinchè veruno se ne accorgesse, se ne accorsero tutti, nè se ne scandalizzò alcuno, che oggimai li consideravano come sposi, anzi taluno gli affermava belli e sposati; ad ogni modo non erano gente da commoversi per simili bazzecole.

Eccoli soli e seduti una allato all’altro e con le mani in mano, secondo l’usanza vecchia. [p. 260 modifica]

— Amina, cominciò a favellare Omobono, io, con la morte nel cuore, vengo a dirti addio.

— Ch’è mai successo? Parla presto... o Dio! levami di affanno... se non mi vuoi vedere spirare ai tuoi piedi.

— Domani, così imperante l’avo cortese, mi tocca a imprendere per le sue comodità un viaggio.

— Lungo?

— Lungo.

— E tornerai?

— Dio sa quando; — e con voce sommessa aggiunse: — forse mai più.

— Ma la ragione? Anche ai condannati leggono la sentenza.

— Doveva partire senza rivederti; ma tu, che sai che cosa è amore, pensa se mi bastasse il cuore. La ragione pur troppo ci è, e feroce, ma non dipende da me; tanto ti basti e ti sia di conforto sapere che io ti ho amato, ti amo quanto creatura umana può amare, che sono misero, ma misero assai, compiangimi di vedermi ridotto a tale di desiderare che altri ti renda felice, poichè io non potei.

— E credi tu, Omobono, che un amore pari al nostro si rompa come un filo di cotone? Io ti contemplo così disfatto da movere a pietà, non che la tua sposa, il tuo più fiero nemico; vieni, riposa il tuo capo su questo seno, che palpita per te: lasciati [p. 261 modifica] consolare, diletto mio... sfogati... non ci giurammo esserci compagni così nelle gioie come nei dolori? Chi altri sarà mai fuori della moglie di Cireneo che aiuterà il marito a portare la croce?

Omobono non esitò ed accettare l’asilo del seno della sua Amina, e, riparato una volta nel fidatissimo porto, era impossibile che non vi si alleggerisse del carico del suo travaglio; sarebbe stata scortesia, o piuttosto salvatichezza, e la natura aveva fabbricato gentilissimo il nostro Omobono; — e poi, se si ha da dire come la stava, nonostante ch’ei nicchiasse, si sentiva voglia di parlare per lo meno quanto ella di udire. Impertanto, dopo qualche lezio, egli le riferiva punto per punto la conferenza che aveva avuto luogo fra il suo nonno e lui; ho detto punto per punto, bene inteso però riveduto e corretto per suo uso.

Anco quando le palle stanno ferme, avviene di radissimo che noi raccontiamo preciso la faccenda come l’avvenne; tanto meno poteva pretendersi nell’agitazione e nel pericolo in cui si versava Omobono.

In simili frangenti l’uomo costuma tagliarsi con la lingua la propria storia e adattarla al fatto suo nella medesima maniera che il sarto gli taglia con le forbici il vestito a suo dosso. Di vero Omobono non mentì, tacque tutta la parte concernente i biglietti falsi, inducendo Amina a credere ch’agli, tra [p. 262 modifica] recapiti mercantili, valori e biglietti di banca, si trovasse a possedere il valsente di un milione e più. Omobono non li vide, perchè tenendo la faccia bassa sopra il seno di Amina, meditasse che, se caso mai avesse dovuto morire, fin d’ora lasciava per testamento volere essere sepolto vivo là dentro: io vidi sì corruscare gli occhi all’Amina al modo stesso che balenano alle bestie feroci nel punto che stanno per avventarsi sopra la preda; ond’ella, più felinamente carezzevole che mai gli fosse stata, stazzonò i capelli e le guancie di lui e interrogò poi con voce che sì e no pareva lamento:

— Ed ora, sposo, può la tua moglie sapere che cosa tu intenda fare?

— Forse mi avanza la scelta? Ecco in succinto l’unica via che mi para davanti il destino. Io fuggirò, portando meco del mio danaro quel tanto che mi basti per condurmi in America traversando la Svizzera; il danaro potrei in coscienza appropriarmi tutto, perchè me lo sono guadagnato con industria onesta del pari che indefessa; e se il mio nonno per lo addietro mi provvide di capitali, io glieli ho restituiti con usura: se i suoi affari da parecchio tempo tracollano in un baratro senza fondo, i miei, meno voraginosi ma più solidi, prosperavano; pure glielo lascerò tutto o quasi. Io so bene che lo sciagurato lo farà sparire, e so eziandio, perchè non si tenne dall’ordinario in mia presenza [p. 263 modifica] al suo computista, che saranno acconciate le scritture in guisa d’apparire io debitore di parecchi milioni alla ragione di lui, e ciò per dare, se gli riesce, un po’ di vernice alle oblique operazioni dentro le quali egli si era abbandonato a testa bassa: mi pare di vedere ch’egli in fine de’ conti altro non farà che insaccare nebbia; poco filo è il mio per poter bastare al rammendo dei suoi strappi: pure io non mi devo per questo tirarmi indietro da sagrifìcarmi per lui. Amina mia, amore e gratitudine non conoscono abbaco nè seste; perchè se prima di pagare il debito avvenga ch’essi si pongano a fare i conti, va’ pur sicura che essi non finiranno mai il calcolo. Vivrò ramingo come potrò... e quando l’acerbità del dolore di averti perduta... perduta per sempre... e il peso della infamia immeritata mi si farà insopportabile... e il tedio dello esilio avrà roso ogni fibra vitale del mio cuore, quando infine le cause del morire supereranno quelle del vivere, allora, chiesto prima perdono a Dio, col tuo nome su le labbra, mia adorata Amina, io mi farò dire da una palla nel cranio: tu hai vissuto abbastanza — Noi moriremo insieme! esclama Amina, e nello impeto sfrenato dell’entusiasmo con ambedue le mani strigne il capo di Omobono, e la sua bocca salda alla bocca di lui, talchè sembra volerci riversare la propria anima; per lunga ora la passione soverchia non concesse loro pronunziare parola: [p. 264 modifica] confondevano baci, sospiri, palpiti e lacrime, liquore stillato dalle palme del paradiso.

Non è vero niente. In paradiso non crescono palme, e chi ci è stato ne fa testimonianza: cotesto che io vi ho detto è liquore anodino, che in certo giorno di armistizio nelle guerre durate fra il cielo e la terra si posero a comporre di amore e d’accordo insieme angeli e demoni. Gli uomini, per non restare indietro, dicono che il giorno di poi fabbricassero in terra l’aceto dei sette ladri, e tutto questo fecero tanto su quanto giù in sollievo della umanità condannata da suo padre al dolore e alla morte. A considerarla bene, questa è una gran cosa. Saturno, padre eterno degli antichi, si mangiava i propri figli, il Padre Eterno nostro non monda nespole, sicchè resta chiarito che a barattare padri eterni più che guadagnare si scapiti; io ho detto ciò, non per disprezzo dei padri eterni vecchi o nuovi, ch’io venero tutti, bensì per ammonire quelli che avessero talento di mutare un’altra volta.

Passò cotesta fiumana di affetto come tutto passa quaggiù; ma l’Amina continuò a tenere con le due mani Omobono, quasi venuta in sospetto che le avesse a fuggire.

Se Carneade quando andò a Roma c’incontrava Amina, per gelosia si sarebbe impiccato: non vanti più la Grecia i suoi retori, tacciano le scuole dei tomisti e degli scotisti; dentro un sacco e in mare [p. 265 modifica] disputatori, controversisti e avvocati, imperciocchè veruno di loro avrebbe potuto reggere il paragone con Amina; voi l’aveste udita vi sareste persuasi a un tratto com’ella avrebbe fatto la barba, non che ad altri, a Demostene. Tutto ella seppe mettere in opera per tirare Omobono ai suoi voleri, quanto il sofisma escogita di più sottile, la dialettica di più strignente e la logica di più calzante. Che se alcuno volesse sapere chi le fu maestra nella eloquenza, io glielo dirò senza ambagi; la natura, suprema educatrice degli animali che hanno discorso di ragione; in vero, se l’arte (lo certifica il Dante) è nipote di Dio, gli è manifesto che deve avere avuto per madre la natura: ora, se tanto l’arte potè, creando università, studi, licei, ginnasi, Giovanni Lanza ministro d’istruzione pubblica, ed un armento di docenti, o perchè la natura non potrà fare senza tante invenie quello che l’arte in grazia dei suoi molti trovati appena può? Forse Orfeo frequentava le scuole dei reverendi padri gesuiti? fu visto Omero col cartolare a tracolla recarsi alla lezione dei non meno reverendi padri Scolopi? Natura si passa molto bene dell’arte, ma arte non può fare senza natura.

A cui natura non lo volle dire...


con quello che seguita.

Una volta sarebbe stato concesso credere che Amina inspirasse Mercurio, il quale, fra i vari suoi [p. 266 modifica] attributi, possedeva quello della eloquenza; di vero gli antichi lo effigiarono talora con le catene di oro pendenti dalla bocca, e tal’altra col cigno in forma di cimiero al sommo del petaso; — ma ohimè! se la religione di Mercurio un dì era merito, oggi dalla chiesa si danna come eresia, ed io non vo’ screzi con la Chiesa, perchè se non brucia più gli eretici, potrebbe tornare a farlo, massime per virtù dei nostri guidaioli, che si arrotano a riavvivarla di sanne e di artigli. Tuttavia in riga di dubbio, ma poi mi rimetto al giudizio della sacra congregazione dei canoni, mi parrebbe che se tanto rimase fra gli uomini il culto di Mercurio, dove invece di scemare ogni giorno cresce, e i suoi tempii si moltiplicano1 e le are, potrebbe benissimo la Chiesa accoglierlo nel suo grembo e metterlo in paradiso allato a san Matteo pubblicano. I romani non istettero a un pelo di assumere Gesù Cristo al fianco di Venere? Per quanto si narra, ciò propose Tiberio in Senato; quest’altro nel collegio dei cardinali potrebbe proporre Pio IX: entrambi pontefici massimi.

Ai giorni che corrono, nei quali si vive a salti [p. 267 modifica] convulsi e la più parte degli uomini renunzia alla eternità, come a cosa troppo lunga, sarei maldestro se riportassi punto per punto la orazione di Amina; in corti accenti ve ne spremerò il sugo. Dapprima ella distinse il padre dall’avo; i doveri verso colui che ci generò non si possono estendere ad altri, e s’intende da sè che l’atto generativo non si opera per delegazione, nè si crea con la immaginativa: e mise innanzi altresì una nuova distinzione fra l’avo paterno e il materno; più cosa il primo, imperciocchè di lui portiamo il nome e produciamo la famiglia, ond’ella tenere per fede che padre veramente non sia quegli che le giuste nozze dimostrano, bensì colui che ci nudrì fanciulli, educò giovani, uomini sovvenne e sempre amò. Ora, qual cura e quali i benefìzi dell’avo materno verso di lui? Egli lo scelse per comodità propria come un cavallo o un cane; ma per uso mille volte peggiore, perchè al cavallo non si chiede altro che correre, al cane abbaiare, mentre adesso l’avo esige dal nepote cose contro la natura, le leggi ed i buoni costumi. In tempi barbarissimi i padri si fecero padroni della vita dei figliuoli, non però mai dell’onore. Anche Dio non andò più in là che chiedere ad Abramo tagliasse la gola al figliuolo Isacco, e Abramo, se avesse mandato pei giandarmi e fatto arrestare Dio come istigatore di parricidio, si sarebbe meritato la croce della Corona d’Italia: ma [p. 268 modifica] allora i giandarmi non usavano e Moisè non aveva ancora bandito i comandamenti della legge di Dio, dove sta scritto non ammazzare; e poi le leggi nelle monarchie assolute, di cui è suprema la monarchia di Dio, non obbligano chi le fa; tuttavolta l’onore d’Isacco lasciò stare; e Iefte che disse alla figlia? Niente altro che questo: adattati ad essere sagrificata per la maggior gloria di Dio: gli è vero che quella povera vergine avrebbe dovuto rispondergli: sagrifica te, se ne hai voglia, e denunziarlo alla polizia perchè lo chiudessero nell’ospedale dei matti; pure sta in fatto che in altri tasti Iefte non entrò; e così del pari Agamennone, cui i greci dopo la strage d’Ifigenia dovevano lapidare, non assumere al sommo imperio dell’oste contro Troia. L’onore preme troppo più della vita, perchè vita ch’è mai? È conscia attività del corpo transitorio, mentre l’onore è coscienza della dignità dell’anima che dura: la vita si può affermare proprietà dell’uomo, l’onore spetta meno a lui che alla sua famiglia e alla sua patria; la morte lascia una lacuna nelle famiglie, la infamia una macchia: la prima finisce e si circoscrive nell’uomo, la seconda contamina i successori; essi non peccarono, e tuttavia porteranno il peso della iniquità dei padri. Importante conchiudo che niente da te si deve all’avo iniquo. Se per istinto di virtù gentile tu vorrai procedere benefico con lui, io non ti tengo, anzi ti lodo, di ciò acquisterai [p. 269 modifica] merito presso la tua coscienza e il mondo: ma appartiene a te solo giudicare il tempo, il modo e la misura con i quali intendi usare questa tua benevolenza: da quando in qua si presumerebbe imporre la regola al benefattore? Ciò tanto più vale col tuo nonno, quantochè perduto il lume dagli occhi non sa più quello che si faccia, e mentre te precipita sè non salva. Se il danaro che possiedi fu guadagnato legittimamente da te, e tu tientelo. Non acconsentire sieno alterati i libri della tua ragione; procura riporli in fidata custodia. Dei consigli dell’avo accetta quello di allontanarti, perchè non puoi rimanere in paese senza correre il rischio di mettergli la fune al collo, e questo non hai a fare. Là dove compiacendo alle sue impronte richieste tu commetti l’errore, o piuttosto di’ colpa, di accalorarlo nell’agonia dei naufraghi, di attaccarsi ai rasoi; noi spassionati comprendiamo com’egli ormai bisogna che anneghi, e se ei fa tanto di aggrapparsi a te affogherete ambedue: mettiti da parte, e allora vedrai ch’egli rinsavirà: dando le spese al cervello, attenderà a salvare quello che per lui può salvarsi: vo’ dire che non muoia di miseria. Certamente egli riparerà in Isvizzera, e te lo farà sapere, e tu, se sia rimasto privo di facoltà davvero, lo sovverrai allora, non secondo i suoi meriti, ma la tua misericordia. Sedato il primo trambusto, noi torneremo, e i tuoi libri faranno prova della tua innocenza. [p. 270 modifica]

Allora, caso mai qualche avventato o qualche maligno avesse tolto argomento dalla tua assenza di calunniarti, non solo avrà a ricredersi, bensì a darti lode di cortese e di pio, come quello che aborri aggravare il padre di sua madre, amara stretta alla quale non avresti potuto sottrarti restando.

Ho detto, ed è vero, che per vincere Omobono Amina non adoperò blandizie, nè lacrime; però, più che tutto, a fermare la mente incerta di lui valse la risoluzione da lei palesata in modo assoluto di volerlo accompagnare dovunque ei si conducesse, considerarsi ormai sua moglie, e quindi per debito di religione e per affetto obbligata a seguitarne le fortune. Omobono, in adorazione davanti a lei, le baciava le mani e quasi benediceva la sventura che lo aveva colpito, come quella che gli rivelava tanta parte della divinità della sua donna: non era avvezzo udire amore a favellare così nobile linguaggio; gli parve essere diventato maggiore di sè; quasi si sentì crescere l’ale dopo le spalle; quasi credè abbracciato con lei volare su e giù per le sterminate volte dei cieli.

Il Nassoli si condusse la domane per tempo al banco di Omobono; lo rinvenne chiuso; tornò più tardi e con fortuna niente migliore; all’ultimo, verso [p. 271 modifica] le dieci, potè entrarvi; al porre il piè sopra la soglia gli parve un’aura di solitudine ventargli nella faccia, quantunque mirasse seduto al suo posto il commesso principale della casa, a cui volgendo il discorso domandò:

— Ben levato, signor Carpoforo, o che mi saprebbe dire dove si trova il signor Omobono?

— Partito.

— E per dove, di grazia?

— Non lo so.

— E torna?

— Non lo so.

— Diavolo! che mi permetterebbe ch’io mi ponessi a lavorare intorno ai libri della sua ragione, come siamo andati d’accordo con lui?

— Non posso; sto dietro a metterli in pari io.

— In pari! Oh! che bisogno ci è di metterli in pari?

— O come farebbe lei in diversa maniera il bilancio?

— Bilancio! Oh! che vuol fallire il signor Omobono?

— Vuole liquidare: e a me lasciò la procura per condurre a tarmine questa operazione.

Il Nassoli capì la ragia e, cauto com’era, diede volta al timone, e ritirate le labbra verso le orecchie scoperse i denti acuti come lesine (era la sua maniera di ridere), prese commiato dal laconico [p. 272 modifica] ragioniere: scendendo le scale una considerazione gli si posò in cima della mente, come una mosca su la punta del naso, e come questa importuna, più la scacciava e più riveniva:

— Quel benedetto uomo non l’ha mai voluta capire che piantando broccoli non si possono raccogliere ananassi.

E per la prima volta la venerazione ch’egli professava altissima pel suo principale sofferse un picchio solenne. Venuto al cospetto di Omobono, asciutto asciutto gli espose il caso, e con sua sorpresa vide come costui non si scotesse punto; stette alquanto su di sà, si fregò con la manca la fronte, si arruffò, più che non erano, i peli delle sopracciglia, ed alla fine esclamò:

— Meglio così. Dal divoratore uscirà il cibo e dal forte la dolcezza;2 io mi salverò naufragando... Nassoli, di poca fede... tu hai dubitato.

Il Nassoli sentì rimettersi il cuore in corpo, ed aumentò di due cotanti la stima verso il suo principale.

Amina ed Omobono con mentito nome recaronsi a Como, non avendo potuto in tanta angustia di tempo procurarsi il passaporto in regola.

Como! E poi dite che la fortuna passando sul mio capo non ci abbia rovesciato il su cornucopia [p. 273 modifica] si può immaginare occasione più destra per descrivere le magnificenze di Como? qui tutto; prima la emulazione, la quale è tanta parte delle opere umane, mi pone le perette sotto la coda; una legione intera di letterati, che vanno per la maggiore o per la minore, le celebrarono in prosa e in versi. — Cesare Spalla, Giovanni Berchet, il Corbellini, il Torti, il Gentili e il Turati le presero a tema delle loro poesie. Gli storici e gli scienziati metto da parte, però che mi farebbero compore nuove litanie, le quali solo a Torquato riuscì rendere amabili nei suoi estri religiosi: però non si possono tacere Plinio, Cassio e lady Morgan; alla quale è mestieri che noi perdoniamo molto, perchè ci amò molto e ci confortò a non disperare, mentre da tutto il mondo qui conveniva gente a cantarci l’esequie fino alla Speranza. Mi tengo unicamente a quelli che sciuparono carta ed inchiostro (intelletto non conta) a dettare: sogni d’infermi e fole da romanzi; e qui potrei dire come il Bertolotti ponesse la scena del Sasso rancio e della Isoletta dei Cipressi, il Grossi del Marco Visconti e di Ulrico e Lida, il Carcano dell’Angiola Maria, il Bazzoni di Falco della Rupe, e di altri mi passo. Alcuni di questi libri galleggiano sempre, altri si vedono sì e no fra due acque come cosa che affoga; taluno riposa sopra un guanciale di limo in fondo a Lete, ma ciò gli avvenne non mica per vizio di [p. 274 modifica] forma, secondochè taluno crede, bensì per manco di virtù negli autori. Forse perchè pigliarono sembianza di epici, mille poemi si salvarono dal duro sonno e dalla inremeabile morte? Godetevi le vostre trombe epiche, noi ci contenteremo degli scacciapensieri quando si chiamino Promessi Sposi, Gil Blas, Nostra Dama di Parigi, Don Chisciotte, Ivanhoe, l’Ebreo errante, il Viaggio sentimentale.

Ed ecco, quanto più poggi in alto, più vasti orizzonti si dilatano avanti a te; vedi quanti uomini grandi ti porgono la loro fama come tela ai tuoi dipinti; ecco qui Plinio il Vecchio co’ suoi 180 volumi di storie naturali e politiche, di milizia, di eloquenza, di grammatica, di tutto; egli fu un feroce scrittore come Nembrod cacciatore dinanzi a Dio; — eccolo co’ suoi governi in Ispagna, il suo ammiragliato della flotta romana al Miseno, la eruzione del Vesuvio, e la morte incontrata voluttuosamente per la irrefrenabile cupidità di sapere, dacchè ei ci lasciasse come farmaco ad ogni sventura questa sentenza: «il miglior dono fatto all’uomo dalla Divinità è il potersi togliere la vita; dono che i fati non consentirono alla stessa Divinità». Dopo il Vecchio, ecco Plinio il Giovane, di cui il panegirico a Traiano, mosaico di piaggeria cortigianesca composto di frammenti repubblicani, ingannò anche l’Alfieri, il quale con sommo studio lo volse [p. 275 modifica] dall’idioma latino nel sermone nostro; — però, come a tutti apparisce, così non parve al signor Giulio Janin, che ci fa sapere come l’Alfieri convertisse codesto panegirico in una satira scritta in latino, dove si compiace denigrare quanto di grande fu operato nello imperio del magnanimo Traiano. — Le sono cose da non credersi! Ma che non è lecito a monsieur Janin, il quale ci racconta nei suoi viaggi in Italia, nella foresta dei cipressi del camposanto di Pisa avere udito il fiotto del mare, mentre la spiaggia del Gombo dista almeno tre miglia, e dei cipressi ne ha due; uno in cima, l’altro in fondo al quadrilatero, come l’alfa e l’omega sopra le lapide delle sue sepolture. Quasi tutti i francesi nei giorni della nostra sventura ci dileggiarono o c’infamarono; in quelli del risorgimento ci astiarono e ci astiano; quasi tutti gli italiani nei giorni della sventura dei francesi augurano a loro sorti meno triste, mente migliore.

E come ti basterebbe l’animo di dimenticare il buon Martino della Torre, il quale, vinti per virtù di arme i Ghibellini suoi nemici, non sofiferse si mettessero a morte i prigioni; «perchè, egli diceva, non essendomi venuto fatto di dare la vita ad alcuno, nè manco voglio che a veruno sia tolta?» In coscienza non lo potresti dimenticare, non fosse altro per confrontarlo al Thiers, uomo civile di questo secolo civilissimo, il quale, comecchè orbo di figli [p. 276 modifica] al pari del Torriano, nelle quotidiane stragi piglia diletto quanto e più le vecchie divote nella recita del rosario.

Ne passerai sotto silenzio Paolo Giovio, vescovo di Nocera, di cui l’ossa giacciono3 e lo spirito vive in Firenze, non fosse altro per iscolpare gli odierni gazzettieri dimostrando a prova che non incomincia da loro il mestiere di battere moneta alla zecca della calunnia e dell’adulazione; non da loro la usanza di menare le Muse al mercato, non si potendo al macello; levate dunque dai vostri trogoli il muso, gazzettieri, e consolatevi, voi potete vantare auspice e compagno nella vostra infamia anche un vescovo. Il Giovio tirava a palle rosse su l’Aretino, e l’Aretino su lui; la batteva tra il rotto e lo stracciato: a quello più della mitra calzava un remo; a questo, invece di un collare di gemme, una catena al piede; pure l’Aretino, meno maligno del vescovo (di bontà con costoro non si ha da parlare), prima perchè non era prete, e poi qualche affetto sentiva, non fosse altro per Giovanni delle Bande Nere.

Se volete papi, eccovi papi; ce n’è per tutti i gusti: qui vi mostro Innocenzo XI, che Luigi XIV a sollievo degli ozi regali aveva messo a bersaglio dei suoi strali, plaudente la Francia; e’ qui il [p. 277 modifica] Rezzonico, di cui non avanza di memorabile altro che il sepolcro scolpito da Canova, il quale ci effigiò due leoni che ci hanno proprio che fare quanto una pianeta addosso alla statua di Tiberio imperatore; e dopo i due papi, le due sonatrici di violino, sorelle Ferni, non estranee al papato come di prima giunta sembrerebbe, dacchè se Pio VI, pel suo andare in girone a Vienna e in Francia, si meritò il nome di pellegrino apostolico, a maggior diritto le Ferni, tanta parte di Europa circuendo a suono di violino, possono pretendere il titolo di pellegrine armoniche.

Ma sopra i Plini, i Giovi, i papi e le Ferni inchinatevi ad Alessandro Volta. I francesi sempre superlativi (qualcheduno dice sgangherati) scrissero del Franklin, che strappò il fulmine dal cielo e lo scettro ai tiranni, e non è vero niente: quanto a fulmine, anche ieri la folgore mi ammazzò una vacca; quanto a scettro, me ne rimetto ai lettori. Le storie raccontano che Luigi XVI, essendosi impermalito di cotesta epigrafe, facesse ritrattare il Franklin con la sua lode in fondo ai canteri; i francesi a posta loro se ne impermalirono, e arrapinati smoccolarono la testa a quel povero figliuolo di San Luigi; non per questo la monarchia fece più lume. Ma il Volta agguantò davvero il fulmine per la gola, lo infrenò, lo assottigliò per guisa ch’egli ebbe dicatti accettare l’ufficio di fattorino della posta. Calibano [p. 278 modifica] trovò Prospero; così, in grazia del Volta, in meno di un’ora seppi il tracollo di Luigi Napoleone bandito senza neppure la grandezza di Ottone, che incominciò col tôrre la vita ai francesi e finì col chiedere a loro la elemosina di un voto, e in due minuti mi dà notizia il nipote che viene a tenermi compagnia a desinare da Livorno... però il telegrafo non sempre è messaggero di liete novelle, ed io lo so: non importa; benedetto sempre, imperciocchè ad ogni modo egli abbrevi la incertezza, tortura vera dell’anima: un colpo e via: a testa tagliata non dolgono i denti.

Ma più che tutto mi pena ad avermi a strappare dalle dilette lusinghe della natura, di quelle delle Sirene più poderose assai, poichè queste è fama che allettassero unicamente con la voce, la quale scende per le orecchie al cuore, e a ciò si rimedia, secondo lasciò scritto Ulisse, con un po’ di cera, e al bisogno può bastare anche il cotone, ma la natura, oh! la natura ti agguanta per tutti i versi; in vero, o come farò a salvarmi dall’aure felici, dalle brezze vitali, dai venticelli soavi, che spirano dai colli e dai rivi di questa terra incantata? Qui sempre limpide le acque, qui sempre verdi le piante, che mormorano sempre fra loro come se si raccontassero i casi di amore che nascosero con l’ombra dei rami, o trasportarono lontano sopra il dorso, ovvero alternassero i presagi degli amori avvenire [p. 279 modifica] ovvero ancora i propri amori si confidassero, perchè Dio trasfuse in tutto il creato senso di amore, e quindi parlano di amore le fiere, le piante e i sassi... Lettore! Per amore di Dio passa in punta di piedi e non destare il poeta.

Il cielo è innamorato di sè, ed ha ragione; egli adopera la piana superficie del lago di Como a mo’ di uno immenso specchio della fabbrica di Murano, per contemplarvisi dentro ed esultare. Narciso immortale, nell’orgoglio della propria bellezza: per servire a Dio sarebbe povera cosa; Dio, quando vuol guardare la propria immagine, piglia l’oceano, dove si affaccia procelloso tra i fulmini. Ma se il cielo non ama il lago, il lago ama i figli del cielo: il sole, la luna e le stelle; ad ogni dichiarazione di amore che gli faimo con parole di luce egli risponde con sorrisi di luce; perchè anch’egli con l’affetto possiede potenza di fosforo per significarlo. Verso sera, dalla parte di occidente la luce si tinge di vermiglio, e richiama al tuo pensiero la donna innamorata, che pudibonda e lieta si accosta al talamo dello sposo che l’aspetta. Qui le rugiade inebriano più del liquore della vite, imperciocchè penetrino nei pori del tuo corpo madide del canto dell’usignolo e dell’odore del fiore di arancio (lasciatemelo dire, domani me ne confesserò al curato della parrocchia di Pondo).

Venere dea ebbe delubri ed are a Cipro, a Rodi, [p. 280 modifica] a Pafo, a Coo, a Citerà e altrove, ma a Como impera regina e dea, ed ella qui conduce l’armento dei suoi devoti, come Proteo i suoi vassalli marini: gli amori vecchi ella mette in cura nelle case di salute dei suoi amici Como e Lieo; è vero pur troppo che la primavera pei mortali non si rinnuova, però vi hanno autunni che non aprono mai l’uscio al desiderio della primavera; sopra gli amori adulti, affinchè dallo amore attingano perenne virtù di amore, ella, messa la mano dentro al cinto, ove si trovano confusi

Di amor la voluttà ed il desire
E degli amanti il favellio segreto
Quel dolce favellio che anco de’ saggi
Ruba la mente,

e trattone fuori un pugno di lusinghe e di dolcezze, lo sparge loro sul capo a mo’ che i principi gettano le monete di oro alle turbe nel giorno della loro incoronazione; poi ordina alla natura che canti con la voce di tutte le sue creature:

Amate, amate, che domani ad altri
Sensi potrei chiamarvi, e doman forse
Chi sa se il cielo coprirà la terra.

Gli amori nati appena, e che si trovano all’aurora dei sospiri, ella confida alla condotta di Amore fanciullo, che li guida a rinfrescarsi l’ale teste nate su [p. 281 modifica] la superficie del lago, e in cerca di altri amori che a loro acconsentano... così le rondini, corso gran tratto di aria, con magnifica curva radono le acque a caccia dello insetto, delizia dei loro conviti...

— Come! Dunque l’amore a suo parere è un insetto? Dunque come lo insetto l’amore si appetisce e si cerca?

— Sì signora, poichè mi mette con le spalle al muro le dirò che amore come rondine vola, come rondine, animale di passo, presto viene e presto parte; come le rondini e i re è animale carnivoro. Ma ahimè! questa strappata mi ha rovesciato dal mio pegaseo; spento il lume della lanterna magica, i vetri figurati della fantasia non si riflettono più su le pareti del mio cervello: valete, spettatori; torno al racconto.

I nostri personaggi presero stanza proprio sul lago, nel bellissimo albergo aperto accanto al palazzo della Regina.

Qual regina? Carolina Amalia Elisabetta di Brunswick. E di qual re moglie? Di Giorgio IV d’Inghilterra. Ed ora che ve l’ho detto, voi ne sapete meno di prima. E sì che vissero e morirono ai giorni nostri; e si lasciarono indietro uno strascico d’infamia, la quale in difetto di altro servea [p. 282 modifica] mantenere per qualche tempo i nomi dei re sopra la soglia della morte. Costei fu meno cosa di Messalina; costui più cosa di Claudio.

Il debito fu pronubo delle nozze inauspicate, imperciocchè il Parlamento non acconsentisse pagare i debiti del principe, se non a patto che mandasse giù una moglie senza ostia.4 Quando prima il principe vide la sposa la baciò, subito dopo chiese un bicchiere di acquavite;5 nel primo pranzo egli le impose che sopportasse commensale al fianco la sua baldracca,5 lady Jersey; la prima notte egli ubbriaco l’accolse nel talamo, che metà passò sopra e metà sotto il letto, dove ruzzolò sozzo sacco di vivo.5

E pure da cotesto bestiale mescolamento in capo a nove mesi nacque un bel giglio di amore, che, sposato a Leopoldo di Sassonia Coburgo, morte recise nel dare alla luce il primo figliuolo: per lei il Byron, selvaggio amatore di libertà, compose versi stupendi, dove così si esprime: «la libertà obliò le sue mille sventure per la sventura suprema di avere perduto questa donna, sopra la testa della quale ella vedeva splendere il suo arcobaleno... e noi ci compiacevamo nel presagio che i nostri figli avrebbero obbedito al suo figliuolo.»6 Vedi [p. 283 modifica] contradizione di poeta, a cui quando meno se lo aspetta la passione ruba la mano del giudizio.

La regina d’Inghilterra, non solo a Como, ma per l’Europa, per l’Africa e per l’Asia, come il capo comico conduce la compagnia dei suoi strioni, menava una turba di paltonieri per rappresentarci un dramma solo — quello del più lurido adulterio; e se ne teneva, ella regina, madre e donna di ben cinquant’anni matura! Al volgare adultero Bergami, ella, insanita, procacciava titolo di barone e insegne equestri, monili al collo e campanelle agli orecchi; a Malta gli comprò la croce dei cavalieri di San Giovanni; a Gerusalemme, con sacrilego oltraggio, quella del Santo Sepolcro!

Lo indegnissimo marito, comecchè troppo più di lei imbestiato in ogni maniera di turpitudini, ardisce apporle colpa di adulterio, e raccoglie da diverse contrade, massime dalla Italia,7 a prezzo di oro, testimonianze della sua vergogna, pigliando piacere a propagarla al mondo come il matto ad appiccare il fuoco alla casa. Nè la morte di Messalina fu [p. 284 modifica] colpa di Claudio, bensì di Narciso, pauroso di perdere il credito presso Cesare, e col credito la vita; tanto vero ciò, che Claudio il giorno stesso che gliel’ammazzarono di stoccata nel core, non la vedendo a mensa, interrogò perchè tardasse a venire;8 all’opposto la morte di questa regina fu opera per bene venti anni premeditata dal Claudio inglese.9

Le rappresentanze della colpa e quelle del giudizio furono date gratis al mondo; il popolo somministrò il danaro per le spese: quelle della regina costarono un bel circa venti milioni di lire; quelle del re non si possono sapere; — quel popolo che sepolto nelle miniere mena una vita che poco è più morte; e nelle fabbriche si travaglia quindici e più ore, a sette centesimi per ora; e poi i cortigiani fanno le stimate quando sentono dire che la monarchia è venuta in abominio di Dio, del diavolo [p. 285 modifica] e di quanti sopra la terra possiedono discorso di ragione.

Tanto è, Omobono non era lieto; in ogni atto della sua vita si mescolava uno struggimento per cui egli restava ad un punto sorpreso e sbigottito: gustava miele amaro, tanto in pregio presso gli antichi romani, che ne imposero eccessivo tributo alla Corsica che n’è produttrice feconda; e bene sta che da puro cuore soltanto sgorghi la gioia pura. Il torpore gli s’insinuava nel sangue sottile come la malaria, tedioso a sè sempre, e qualche volta all’Amina, a fatica parlante e sbadato: gran parte del dì e’ pare che dondoli tra gli sbadigli e i sospiri; svogliato di quiete e di moto, di veglia e di sonno, di cibo, di tutto: affacciato per ordinario al balcone, guarda fiso le acque del lago, le nuvole del cielo senza pensare a nulla; gli pesa il cervello; anzi non piglia nè manco diletto a contemplare il trasformarsi continuo che le nubi fanno in diverse sembianze, dove il riguardante mira quello che più gli piace trovarci; nella notte, ore intere, col braccio intorno alla vita di Amina, specula il cielo, e se gli avvenga mirare staccarsi dal fondo dell’emisfero due stelle, e dopo descritta una lunga curva di fuoco spegnersi a un tratto vicino alla terra o all’acqua, ripete sommesso: [p. 286 modifica]

— Perchè non così anche noi? Codesti fuochi dal cielo muovono verso la terra, e noi, Amina, spiccandoci dalla terra dovremmo quetare in cielo.

— E chi para?

E qui amplessi e pianti con l’altra procella di affetti, la quale impedisce che le acque di Amore stagnando impadulino.

— Orsù, Amina, un bel giorno disse, levandosi per tempissimo, che cosa facciamo qui? Moviamoci, nel moto sta la vita; mira come leggiere s’increspano le acque del lago, senti come soave ci venta in faccia la brezza montanina; — prendiamo una barca e andiamo a fare un giro: io porterò meco il mio portafogli, e quando mi capiti sotto qualche orrida scena, ovvero elegante, io mi piglierò diletto a schizzarlo.

— Ed io?

— Angiolo mio, tu ti spasserai a vedermi disegnare, o piuttosto fa’ una cosa, provvediti di una lenza e pescherai.

— A cannetta?

— A cannetta.

— Ma sai tu che cacciare a civetta, pescare a cannetta e prestare a sicurtà, son tre castronerie che l’uomo fa; — basta, come ti piace, Amina mia, contenta tu, contento io. [p. 287 modifica]

Amina, senza lasciarla bollire nè mal cocere, esce fuori di stanza, e corre su e giù per l’albergo chiedendo, ordinando e mettendo in moto quanti incontra, camerieri e famigli; a tutti dice e non rifinisce mai di ripetere che le cerchino buona barca e rematore capace; tornerà a pranzo, ma se la vedessero tardare non l’aspettino; volersi godere quel paradiso terrestre; quante rinverrà fate, tante manderà ospiti alla locanda; esulti il padrone, perchè le fate hanno per costume pagare i conti in moneta di diamanti; alla più trista in oro senza lega; ammannisse i corbelli per metterceli dentro. In un attimo ecco barca nazionale, rematore nazionale (aveva remato almeno due terzi della sua vita agli austriaci, ma ciò non rileva; oggi è nazionale) bandiera, lenze, corbe, et reliqua, tutto nazionale.

Spoltrati! spoltrati! È lesta ogni cosa, — e sì dicendo Amina mette il cappello in capo ad Omobono, e presolo per la pistagna del vestito seco lo trae alla barca accostata alla riva, dove l’acqua è profonda; li giunta ella ci entrò di un salto, che fece stupire i bighelloni accorsi, come avviene nei piccoli paesi d’Italia, dove la poltroneria culla il popolo e la curiosità gli canta la nanna. Omobono stava per andarle dietro, quando ella di un tratto esclamò:

— Il portafogli! Non hai avvertenza a nulla; e sì che ti aveva raccomandato non dimenticare il portafogli; va’ a pigliarlo... fa’ presto. [p. 288 modifica]

Allora Omobono rifece le scale a quattro a quattro, e preso il portafogli torna addietro col medesimo abbrivo: ansava come un mantice e con parole rotte, sporgendo il portafogli all’Amina, diceva:

Eccolo! eccolo!

Amina stende la mano per agguantarlo; Omobono piega più del dovere la persona per porgerglielo; ella non incontra il portafogli; egli non trova contrasto, spendolato troppo sbilancia, balena e col capo in giù dà il tuffo nel lago: esperto nel nuoto, non avrebbe corso pericolo nè manco vestito come era, pure, prossimo alla riva, non gli mancò di ogni maniera aiuti, sicchè poteva cavarsi d’impaccio senza altro danno di un bagno involontario: di passeggiata non si parlò più; ma nel mettere il piede sopra la soglia dell’albergo. Amina, dandosi forte della mano su la fronte, esclama:

— Il portafogli! Ahimè! il portafogli, Omobono.

— È cascato nell’acqua.

— Oh! che disgrazia! Oh! che disgrazia! Su, datevi moto; ripescatelo per amore di Dio; fate di tutto per riaverlo; cento... duegento... fino a trecento lire di mancia a chi lo ripesca.

Omobono, osservando Amina fuori di sè per la smania, non cura nè manco andare a mutarsi di vesti, e così grondante come si trova si riaccosta alla sponda urlando a sua posta:

— Il portafogli! Chi ripesca il portafogli? [p. 289 modifica]

Amina e Omobono eccitavano la gente a tuffarsi, la quale per la cupidità del premio saltava nell’acqua a mo’ dei ranocchi se odano cosa che metta loro paura. Fruga e rifruga, non venne fatto di trovarlo a veruno, o perchè quivi l’acqua fosse troppo alta, o perchè qualche corrente lo avesse trasportato altrove: comecchè di estate, pure, declinando il giorno, Omobono con quell’umido addosso cominciò a sentir freddo; pertanto si ritrasse a casa; rimase Amina, arrotandosi sempre alla ricerca del portafogli; all’ultimo, stracca, tornò anche ella all’albergo, avendo distribuito prima qualche moneta ai pochi fortunati palombari, pure molto raccomandandosi non ismettéssero i tentativi: a cui riuscisse trovare il portafogli, sempre fermo il premio; anzi lo crescerebbe del proprio.

Per tutto quel dì e per l’altro appresso non si fece che tattamellare del portafogli; molti e diversi andarono attorno i discorsi e sgangherati tutti, i quali poi si appuntarono in quest’uno, che il portafogli conteneva un tesoro in biglietti di banca e gioie; lo screzio rimase nel giudizio della somma, la quale, secondo la fantasia dei giudici, saliva a milioni o calava a lire centomila circa.

Omobono comprendeva ottimamente il dispiacere dell’Amina per la perdita del portafogli, dove certo ella conservava disegni così propri come altrui, [p. 290 modifica] carissimi per rimembranze, per pregio insigni, ma non sapeva darsi capace della croce che se ne dava; ond’è che ingegnandosi consolarla le diceva:

— Cara mia, non ti disperare; te ne comprerai un altro che tu illustrerai con disegni più helli dei primi. I tuoi sono sicuri; temi forse ti vengano a mancare gli altrui? O che ti butti a madonna fallita? Avrai quanti desideri adoratori che crederanno toccare il cielo con un dito appiccando voti alla tua immagine.

— Ti compatisco, gli rispose Amina, perchè non sai qual tesoro di affetto si contenesse là dentro; lascio i disegni miei, che sono miseria, tuttavia cari per testimonianza di giorni giocondi che non torneranno più; e gli altrui, oltre all’essere mirabili per eccellenza di arte, mi davano ricordo di sensi gentili e di cortesia; ciò di cui non posso consolarmi è la perdita delle lettere del padre, dei congiunti, degli amici, delle persone caramente dilette; ma più che tutto mi addolora la perdita dell’anello sul quale mi giurasti fede di amante e di marito, e delle tue lettere... le tue lettere!... vero metallo arroventato tratto fuori allora allora dalla fornace; — ah! tu non sapresti più adesso scrivermene delle uguali... se tu ti e’ impancassi faresti cosa di riverbero... reminiscenze, non getti di vena: ed io le custodiva a sommo studio per mostrartele il dì che avessi dovuto rimproverarti di scemato amore e [p. 291 modifica] dirti: «miratici dentro e guarda se tu sei quello di prima.»

— Lo specchio di Ubaldo a profitto di Armida, notò sorridendo Omobono, e qui baciari, abbracciari e motti profumati in essenza di amore e promesse giurate, non però registrate, nè recognite dal notaro, ch’ella non si troverebbe mai al caso di provocare così uggioso paragone.

Anco i fiori in mano agli uomini ed in quella della natura altresì tu riscontri arnesi di morte; in Sibari le rose; nei giardini le bocche di lione, dove se avvenga che le farfalle incaute s’inoltrino, ecco si chiudono loro sopra e trovansi sepolte vive a morire di delizia; così Omobono; ma a strapparlo da cotesta indolenza valse un successo, che più presto o più tardi doveva pure accadere; standosene un dì coll’Amina, o che questa veramente chiamassero, ovvero a lei paresse essere chiamata, si levò precipitosa dal fianco di lui per correre in altra stanza, lasciando sul tavolino la sua borsa da lavoro. Fu meno che non si dice, Omobono fruga la borsa e trova una lettera. Veniva da Milano e pareva indirizzata a non so quale contessa (o non è curiosa questa, che alle donne appena uscite di casa piace affibbiarsi sempre un titolo; alla più trista quello di contessa; alle democratiche due volte più che alle altre); ella era aperta ed Omobono lesse. [p. 292 modifica]

Questa è un’azione villana, mi scappa fuori a intronarmi le orecchie la mia censora; i segreti delle signore si vogliono rispettare; lei mi è andato a pescare i suoi personaggi nelle bettole dei sobborghi di Milano.

— Scusi, rispondo io, io cavo i miei personaggi da per tutto; mi astengo da cavarli fuori da certi luoghi, per giusto timore di non avere ad andare dentro io in certi altri; ne io ho assunto a descrivere angioli, ma si uomini dei suoi tempi, signora...

— E dei suoi...

— E dei miei; e gli uomini, ella lo sa, moltissime cose fanno di celato, che in palese condannano, e piacesse a Dio che non fossero più triste di questa di Omobono; ancora da parecchi giorni egli non sapeva niente di Milano, sicchè si potrebbe dire ch’egli si trovasse costituito in istato di legittima curiosità: per ultimo, che Omobono e l’Amina essendo ormai come Gildippe ed Odoardo amanti e sposi, fra loro non ci potevano cascare segreti...

— Adagio; misura tre volte e taglia una; anzi, appunto per questo...

— Tenga la lingua a sè, mi faccia la carità; e allora.... allora, o chi le dice che l’Amina non lo abbia fatto a posta per dargli la sassata e nascondere la mano? Il tenore della lettera questo. [p. 293 modifica]

«Signorina. Appena ho tempo di scriverle. Mi rincresce in coscienza, ma come dicono le gazzette io proprio le posso scrivere: noi lo avevamo preveduto; qui in casa tutti sottosopra: urli, pianti, disperazioni, e perpetui i rinfacci d’ingratitudine; se non vedo meglio mi pare che, uscendone, ella si sia chiusa dietro la porta. In città un tananio, uno schiamazzo che mai il maggiore. Le donne poi... apriti cielo! Scandalizzate da cima in fondo, e come di regola in capo lista le amiche, che hanno già fatto e sono in bilico di fare come lei; però questo è chiaro, da lei si buttarono fuori di finestra la casa e la città: adesso non sarebbe aria di tornare; non ci pensi neè manco par sogno; la si è voluta rompere il collo; e poi per chi? Basta, dei gusti non si disputa, ma non può negare che il suo patito non abbia la faccia gialla come un fiore di pisciacane; quello che mi arrapina si è che qui tutti ne vogliono la vita; la si figuri le meglio parole che mi tocca a udire: traditore, rinnegato, ladro. Il suo nonno Omobono, adesso assunto in cielo fra sant’Ambrogio e san Carlo da quegli stessi che se ne lavavano maggiormente la bocca, lo compiangono come assassinato dal proprio sangue; chi dice che l’abbia portato due, chi quattro, e non manca chi sostiene sei milioni. Mamma mia! Il vecchio, o spinte o sponte, si prevede che [p. 294 modifica] avrà a fallire: aggiungono come cosa sicura, che manderanno ad arrestare il nipote: anzi le gazzette sbraitano perchè a quest’ora non l’abbiano chiuso in domo Petri. Tanto per suo governo: secondo il nostro accordo, appena saprò cosa importante, le scriverò a Genova ferma in posta sotto il medesimo nome; procuri farla ritirare.»

Avverto che la lettera fu rinettata dagli svarioni di sintassi e di ortografìa, perchè arieggiavano la cameriera lontano un miglio.

Quando Amina tornò nella stanza rinvenne Omobono che stringeva convulso la lettera con ambe le mani; livido come morto; strabuzzati gli occhi: deposta la lettera, si abbottona il soprabito fino all’ultimo occhiello, forte si calca il cappello sul capo, e disse:

— Vado a Milano.

L’Amina conobbe a volo che il cavallo, arrivato troppo sul vivo dallo sprone, stava sul punto di rovesciarsi, però messe da parte le parole importune, forse pericolose, legatasi il cappellino sotto la gola, avvoltasi entro una mantiglia, risoluta confermò:

— Andiamo a Milano.

— Tu hai da rimanere.

— Io devo venire con te. Chi sono diventata io? Come mi lasci? Chi mi sostiene? Da te in fuori non mi avanza altro rifugio; capisci, bisogna o perire o salvarci insieme; e se ti vince la malignità umana, [p. 295 modifica] anche a te quale asilo ti resta oltre il seno di tua moglie? Qui vieni, le mie chiome sciolte (e possedeva copiosissimi capelli) copriranno la tua faccia e la mia sfregiate dal perverso destino, non già dalla colpa.

— Amina, io vado a combatrtere; e vincerò... forse; almeno la buona coscienza mi assicura, perchè sono e mi sento incolpevole; tu pure pensi così, e di questa tua fede grazie; ma te non voglio compagna della lotta mortale; la tua ansietà mi leverebbe il coraggio; e il tuo stesso silenzio mi tornerebbe più tormentoso dei lamenti, perchè il dolore inesplorato sovente si teme più profondo di quello che in verità sia...

— E alla tortura della incertezza non pensi... non ai terrori della solitudine... non al delirio della disperazione; io non ti lascio... mi attacco a te; so tu mi mozzassi le mani ti agguanterei pei denti.

Omobono dinanzi a cotesto ostacolo impreveduto tentenna, e Amina, che si accorge di quel momento di perplessità, rincalza favellando risoluta:

— A che questa risoluzione tanto ruinosa? Tutto quello che ciondola non cade, e poi donde ci vengono le notizie? Dalla mia donna di servizio; donna dozzinale, facile ad accettare per contanti tutto quello che sente dire, ad esagerarlo occorrendo. Omobono mio, considera che chi si risolve presto si pente a comodo: qui ci vuole giudizio: non t’impegnare in [p. 296 modifica] modo da non poterti, volendo, ritrarre; a bruciare le navi saremo in tempo sempre: certo, tu buono, tu quanta onestà vive nel mondo, perversissimo l’avo, ma per dichiarare la tua innocenza bisogna che tu passi sopra il corpo di lui: scansiamoci di qui, dove forse più che non crediamo ci conoscono, procuriamoci più sicure notizie, delibereremo poi con piena cognizione di causa.

Ora il partito di recarsi a Milano era nuovo nell’animo di Omobono: sorto improvviso dallo impeto della passione, non aveva avuto tempo di mettere le barbe, però non riusciva arduo all’Amina farglielo mutare; decisero dunque trasferirsi cautamente su quel di Genova e quindi attendere gli eventi. Trasferironsi a Nervi, e colà presero stanza presso certa vedova discreta, che teneva casa elegantemente accomodata sopra la riva del mare.

Le cure non si fuggono a cavallo, chè teco salgono in groppa e ti accompagnano da per tutto, dice il proverbio, e parla d’oro; difatti ci arrivò Omobono con la febbre in corpo di avere notizie da Milano: spedirono pertanto uomo a posta a Genova per pigliare le lettere, e quando gli parve ch’ei potesse essere di ritorno, senza avvisarne Amina, gli mosse incontro a cavallo; trovato l’uomo a breve distanza da Nervi, quegli senza sospetto gli consegnò le lettere, dacchè le lettere fossero due, e ciò pel motivo che la Elvira era stata dalla [p. 297 modifica] cameriera messa a parte del segreto (se cosa confidata a femmina, ovvero a simile generazione femmine quali Elvira e la cameriera erano). La Elvira insomma scriveva che posta giù l’ira, il suo cuore non aveva sofferto lasciare in abbandono la figliuola prediletta in tanto estremo; annunziava peggiorate a dismisura le condizioni del caso; dichiarato il fallimento della ragione Boncompagni; il vecchio Omobono preso sul punto che tentava troppo tardi salvarsi in Isvizzera e tradotto in prigione; il mandato di cattura del giovane Omobono trasmesso ai giandarmi, che lo cercavano seguendone le orme. Il signor Egeo averle confidato che il commesso, cui Omobono costituiva suo procuratore, passato con armi e bagaglio dalla parte dei creditori, aveva fatto toccare con mano col confronto dei libri delle due ditte lui essere stato la causa principale della rovina; quando pure Omobono potesse scolparsi, in mal punto lo tenterebbe adesso e invano; il meglio per lui sul momento cansarsi: si manderebbe per Amina, che Egeo condurrebbe alla chetichella a Locarno presso una sua parente; col tempo si provvederebbe meglio, e forse si assetterebbero le cose: risposta sollecita, che qui davvero lo indugio pigliava vizio.

Omobono, tostochè ebbe letto la lettera, scese da cavallo, chè preso da capogiro temè stramazzare, ed avvoltosi la briglia intorno al braccio continua [p. 298 modifica] pedestre la via: declinata la faccia incomincia a istituire mentalmente un conto a partita doppia delle ragioni che lo consigliavano a vivere di fronte alle altre che lo persuadevano a morire; poi tirò le somme e chiuso il conto esclamò: — Non ci è caso, bisogna, morire. — Io mi passo da riferire i molti e sottili motivi di cotesto strano Dare ed Avere; solo dirò che accadeva dei suoi pensieri come degli uomini usciti dai denti del serpente seminati da Cadmo, i quali, appena nati, pugnavano fra loro fino alla morte.

Amina avendo udito dal messo dello incontro avuto con Omobono e della lettera a lui consegnata, timorosa di guai, corse tosto alla sua volta; scortolo da lontano lo chiamava con voce e con cenni; ma invano; giuntagli accosto lo tentennò forte per le braccia; allora egli si scosse, le sue pupille oscillarono e ripresero la virtù obiettiva: come se uscisse dal deliquio sospirò:

— Amina, sei tu?

— Sì, sono: perchè sconvolto così? Ti senti male?

— No, bene.

— Ebbene, che ci ha di nuovo?

— Ecco, e le sporse la lettera.

Amina lesse e rilesse; poi soggiunse:

— Ebbene, che hai pensato?

— Morire; rispetto a te, quanto più so e posso [p. 299 modifica] ti supplico ad accettare la proposta della signora Elvira.

— Davvero?...

Se per me si possedesse la scienza musicale dei più famosi maestri, da Jubal fino al cavaliere Verdi, io non saprei rendere a gran pezza le infinite inflessioni di voce che fece Amina nel pronunziare cotesta parola.

— E non ti riesce a capire, continuò risentita, che mezza della tua maledizione si è rovesciata sul mio capo; la lebbra del tuo corpo si è comunicata al mio? E ti basta l’animo di confortarmi a vivere mia vita di vergogna e di paura? Tu dunque pretenderesti ch’io vegliassi per soffrire i miei dolori ed i tuoi? Tu mi respingi da dormire il sonno eterno sul tuo guanciale? Ah! m’invidi la morte? Tutti voi altri sempre così; sotto infinite apparenze in fondo il vostro unico, rigido, sempiterno vantaggio. E chi ti dà diritto di supporti o più dignitoso più animoso di me? Ho letto di parecchie donne che ebbero con lo esempio della propria morte a dare coraggio al marito codardo di fuggire, morendo, la infamia; di mariti che uccidendosi insegnassero alle proprie mogli a uccidersi non intesi mai.

— Amina, gemè Omobono, abbandonandosi con voce rotta dai singhiozzi nelle braccia della sua donna, non amareggiare di più le ultime ore del [p. 300 modifica] vivere mio, già troppo amare, non mi fingere disamorato per trafiggermi... tu sei giovane... e tu bella... ho pensato che qualche giorno, rimanendo in vita, possa sorgere meno fosco per te: la fortuna muta...

— Ma non il cuore di donna innamorata, nè di moglie virtuosa. Vissi: non si misura la vita col lunario. Quando tutto provammo e tutto godemmo e tutto soffrimmo, la vita è compiuta. Tale in un battere di palpebre vuotò intera la coppa della vita che altri in ottanta anni non ne bevve mezza. Ad ogni evento, a morire basto sola.

— Amina, esclamava Omobono, vie più stringendosi l’amata donna al cuore, tu coll’aprirmi interi i tesori della tua nobile anima mi consoli con tanta dolcezza, che se potessi incontrare la morte la bacerei in bocca e le direi: tu sola sei amica.

— Va bene; ma ora che abbiamo posto in sodo questa suprema risoluzione, Omobono mio, concedimi che io ti domandi se veramente tu hai pensato che sia necessario il morire?

— Sì; innanzi tratto io mi sento così stracco, così rifinito di forze, che, anco potendo, non vorrei continuare questo sazievole viaggio; ma il fatto sta che non posso; vedi! come quando porgendoti il portafogli, perduto l’equilibrio, ebbi a cascare nel lago, adesso mi trovo sbilanciato su l’orlo della vita. Considera i segni della notte che m’investe: di minuto in minuto il buio s’infittisce: il cielo mi si [p. 301 modifica] chiude sul capo ruggendo la tempesta: sotto le gambe mi si avvalla la terra: le mani a cui fidava agguantarmi o si ritirano, ovvero si allungano per respingermi. Il cane allevato in casa mi si avventa come se io fossi il ladro: anche ieri sperava poter combattere e vincere; adesso senza impugnare le armi mi confesso vinto, perchè le armi le quali mi dovevano difendere da un punto all’altro mi furono rivolte contro al petto. Il tradimento di Carpoforo mi ha tagliato i garretti. Tuttavia poniamo che io volessi pigliare a morsi il destino... qual profitto me ne viene? Io stesso con le mie proprie mani avrò spinto il padre di mia madre sotto la macina del fìsco, perchè me lo stritoli anima e corpo. Non ti par questo parricidio? Non comprendi come sarebbe lo stesso che comprarmi l’eterno rimorso? E se il rimorso consentisse a darmi tregua, la gente non mi zufolerebbe perpetuamente dentro le orecchie: parricida! parricida! Non avrei squarciato la nuvola donde si sarebbe riversato un diluvio d’infamia sopra la madre, su tutta la famiglia vivente, sopra me, su i posteri? Non basta?

— Dimmi, Omobono, in Dio ci credi? L’anima credi immortale, ovvero morta col corpo?

— A me parve sempre presunzione di crani senza mandorla dimostrare la esistenza di Dio, come la non esistenza. I nostri sensi non bastano e lo intelletto è corto per siffatte dimostrazioni: io, per [p. 302 modifica] me, non credo ne discredo: il futuro mi si para davanti come la nicchia della immagine d’Iside coperta da una tenda nera; solo quando abbiamo varcato la soglia della vita, la morte tira la cortina; allora, e allora soltanto, sarà conosciuto se di là splenda la luce, oppure abbui la tenebra eterna. Oltre al sepolcro i sacerdoti augurano perpetua la luce e la quiete: a noi giovi trovarci l’una e l’altra; che se tanto non ci consentono i fati, la requie eterna mi basta.

— Io poi — favellò Amina — su questo proposito non ho ragionato mai, e creduto sempre, lasciandomi in balia delle prime impressioni della infanzia: grande per me fu eccitamento al bene e freno al male il pensiero che, invisibile misurando i suoi ai passi miei, mi veniva allato un angiolo buono, il quale del mio lodevole operare esultava e del mio illaudabile si affliggeva. Sarà ch’io m’inganni, ma concetto proprio divino e fonte inestimabile di bene reputai la fede, che non solo le nostre azioni, ma i pensieri non pur nati ma per nascere sieno tutti dipinti nel cospetto eterno, allo scopo di conformarci in guisa che neanche la tentazione si affacci al nostro spirito, perchè s’è meritorio combattere la tentazione quando è sorta, credo più sano impedire che sorga. Dunque tu non ti avrai per male che io mi apparecchi alla morte con la confessione e la eucarestia. [p. 303 modifica]

— Ma, Amina, hai tu pensato che andando a confessarti tu palesi il tuo proponimento al confessore?

— Io confesserò i peccati commessi, ma quelli che sto per commettere non hanno bisogno di confessione.

— Dimque tu hai peccati sull’anima che ti preme cancellare per via dell’assoluzione?

. — E chi non ha peccati? Non ne andarono esenti ne manco i santi. Che disse Gesù a cui gli domandava se avesse a perdonare sette volte? Tu perdonerai sette volte sette.

— Bisognava che Gesù pigliasse moglie, per vedere se sarebbe stato sempre del medesimo parere. Ma quali peccati puoi avere tu?

— Li ha da udire il sacerdote, non il marito; molto più che io potrei credere peccati certi atti, pensieri, omissioni che poi non fossero: sta al confessore definirli.

— Ed il proponimento di darti la morte non giudichi peccato mortale?

— Sì, ma di questo chiederò perdono a Dio nell’altro mondo, e confido nella sua misericordia, perchè amore me lo fa fare, e Dio mi sta nell’anima come principio e fine di amore.

— Lasciamo questi pelaghi; quanto tempo ti ci vorrà per apparecchiarti alla buona morte?

— Non saprei... tre... cinque. [p. 304 modifica]

— E se nel frattempo ci rovinasse sopra la per sedizione degli uomini?

— Allora avviseremo; che necessità vince consiglio.

— Bene.

— Un’altra cosa, Omobono, ho da dirti; dammi la mano e senti se la tua Amina trema... hai tu pensato al modo di darci la morte?

— La è presto fatta; tu appunti una pistola alla mia tempia; io alla tua; spariamo; la soglia della vita è passata; ci troviamo nella eternità.

— No, no, no, proruppe Amina spaventata; a questo non consentirò mai io; il mio cranio in pezzi... il mio cervello in brindelli appiccicati al muro, come un avviso di vapore in partenza: gli occhi, schizzati fuori della fronte, giù penzoloni per le gote, i denti sparsi su la terra come granturco pei polli... io diventata oggetto di ribrezzo; forse di scherno... ma questo è terribile... ma questo, non pure crudele, è villano...

— Ebbene, via, invece del capo, vuoi tu che ci spariamo la pistola al cuore?

— Ma che ti pare! Tu, Omobono, verresti ad ammazzarti due volte, perchè il mio cuore è pieno di te, e dove ti mise amore non ti ha a cacciare via persona, ne anche tu.

— Allora non ci vedo altra via che pigliare una barca, andarcene in alto mare e affogarci. [p. 305 modifica]

— Non ne verremo a capo, caro mio, perchliè entrambi noi sapendo notare, lo istinto della vita ci farà stare a galla su l’acqua.

— Ci legheremo un sasso al collo.

— La morte dei cani tignosi! Ohibò! Meglio impiccarci...

— Diavolo! Così finiscono i ladri. Raccomandiamoci al solito carbone.

__ Peggio; prima di tutto non è sicuro; si prova fuori di misura spasimevole; dopo molte ore di agonia non uccide: il suo effetto non si manifesta uguale per tutti, e potrebbe darsi che mentre non potessero richiamare alla vita te, potessero me... e allora immagina il mio martirio! E a te pure, Omobono, non vengono i brividi addosso a pensare che ci sentiremo morire poco a poco, come il coniglio ingozzato dal boa... e ora di che ridi, Omobono? Paionti questi momenti da ridere?

— Non farne caso, anco i gladiatori feriti nel diaframma morivano ridendo.

— T’intendo, sai? Tu dubiti, tu dubiti che io abbia paura... ch’io parli come colui che avendo a scegliere l’albero per esserci impiccato, non ne trovava uno di suo gusto; possibile tu non abbia pensato al veleno; e sì che ci hanno ad essere veleni i quali fanno dormire, un veleno che ci conceda vederci fino all’ultimo... chiudere la vita con un bacio. [p. 306 modifica]

— Non ci ho pensato davvero, perchè di morire in una maniera o nell’altra a me importa poco, e non mi era mai caduto in mente di averti compagna nella morte: ho sentito dire, ed anche ho letto, di veleni di cui una gocciola basta per fulminare, non che un uomo, un bue, e certa volta si narra due amanti versarono non so bene quale acido, se prussico od idrocianico, dentro un cannello sottilissimo di vetro; quando vollero uccidersi se lo introdussero in bocca metà per uno, co’ denti lo ruppero e in un attimo morirono entrambi l’uno nelle braccia dell’altro.

— fortunati! Quanta invidia io vi porto.

— Potremmo rimediare... forse.

— E come?

— Ecco, io non saprei dirti il perchè, certo giorno mi prese vaghezza di fare provvista di oppio. Tu sai come agli speziali sia vietato vendere oppio od altri tali veleni senza la ricetta del medico; se lo facessero cascano in pena; ora, quello che agli speziali è proibito si concede ai droghieri, i quali possono venderti impunemente tanto veleno da attossicare una città; ricorsi pertanto a droghiere amico, che senza ostacolo mi vendè mezz’oncia di morfina,

— E l’hai teco?

— L’ho.

— Ecco il fatto nostro; mostramela, la voglio vedere. [p. 307 modifica]

Egli la cercò, la trovò, gliela mostrò, e vistala riprese:

— È piacevole agli occhi, candida come l’innocenza, potente quanto Dio, pare polvere caduta dall’ale della farfalla quando folleggia di fiore in fioro. Adesso tutto è stabilito fra noi; — bando alla tristezza: esultiamo; costringiamo la morte a sorriderci... Omobono, incoroniamo la morte di rose.

E per dirla alla maniera di Omero, rallegrarono il cuore co’ doni di Cerere e di Lieo; e per essere in riva al mare forse non mancarono anche quelli di Nettuno.

All’alba la donna andò alla messa, chiese del parroco, e gli aperse il desiderio di fare la confessione generale: durante tutto cotesto giorno procurerebbe esaminarsi la coscienza per bene; domani alla medesima ora tornerà da lui; intanto le celebri una messa secondo la sua intenzione, e gli porge un biglietto nuovo di banca di venticinque lire: certo, di argento o di oro avrieno fatto meglio figura, ma quello che vi è dato pigliate; lo dice anche il Vangelo; però il prete lo acciuffava con la bramosia del gatto, e se il guanto non la riparava, avrebbe graffiato la mano all’Amina: allora questa gli chiese in grazia di somministrarle il necessario da scrivere lettera alla madre sua, perchè a casa [p. 308 modifica] non lo avrebbe potuto fare liberamente a cagione... e qui chinò la faccia suffusa di rossore, aggiungendo a voce bassa, quasi paurosa che altri la sentisse, — a cagione di un uomo che la vigilava. Il prete mangiò, o piuttosto credè mangiare la foglia per aria, e nel presagio che Dio non si sarebbe rimasto a quell’unica mandata di manna, si affrettò rispondere:

— Padrona, padronissima, favorisca in sagrestia che troverà l’occorrente.

Amina, condottasi là dove la menò il prete, si mise a scrivere, empiendo presto presto ben quattro pagine di carta; piegò, sigillò diligentemente e si raccomandò al curato, affinchè portasse subito la lettera alla posta e l’assicurasse. — Magari! disse il prete, disposto sempre ai comandi di vostra signoria illustrissima, — e si separarono. Il curato, avviandosi con celeri passi all’ufficio postale, lesse nella sopraccarta: Alla nobile donna la signora marchesa Elvira M. nata S., Via S. Carlo, n. 12. (Urgentissima). — Eh! eh! lo aveva detto io, qui gatta ci cova. — E mentre sprofondato in cotesto pensiero non bada dove pone il piede, ecco investe l’accattona solita a mettersi accoccolata di fianco alla porta di chiesa, cagionandole una sconcia stincatura:

— Corvaccio! strillò costei, tu possa andare allo inferno prima di sera. [p. 309 modifica]

— E tu in paradiso subito — rispose il prete, e scappò via.

Sul fare del giorno, in una via traversa di Nervi, quasi nascosta sotto i rami di un gruppo di salici, si vedeva ferma una carrozza polverosa; se dentro ci fosse gente non si poteva scorgere, essendo le tendine abbassate; il cocchiere a cassetta dormiva; un altro servo vegliava ritto alla testa dei cavalli; dopo non breve ora la campana della parrocchia squillò il primo rintocco dell’Ave Maria; allora si aperse adagio adagio uno sportello della carrozza e ne uscì una donna avvolta nel cappotto e incappucciata; acceimò al servo vigilante, che le andò incontro qualche passo, sicchè ella potè a voce sommessa susurrargli:

— Merlo, fa’ di trovare l’albergo che ci hanno indicato; bisogna tu riponga il legno in qualche scuderia affatto sgombra, perchè non vo’ che veruno lo guasti: e poi era guasto, non era; ci facciamo il sangue verde e bisogna succiarci il danno; i cavalli poi metterai dove ti resta più comodo; dirai al locandiere che avendo a parlare al signor curato, mi ci sono condotta subito; molto più che avendo sentito sonare a messa non ho voluto mancare di udirla; fa’ allestire il quartiere più appartato che sarà possibile: poi vienmi a prendere verso [p. 310 modifica] la chiesa, perchè mi sento le ossa rotte ed una fame da lupi; e tu non devi canzonare; il vino non ti raccomando; solo ti dico che berrai con me alle mie bottiglie; guarda se trovi del cognac buono: provvedi un mazzo di sigari, quelli che aveva meco ho fumato tutti. — Fatti in là, furfante, disse la donna dando una spinta solenne nel petto a Merlo, che gittatole un braccio al collo pareva si disponesse a baciarla, ti sembra questo il tempo e il luogo, e senz’aspettare altro si avviò verso la chiesa. Il servo dal canto suo si allontanava come un can mastino bastonato.

Elvira, che la donna era dessa, s’imbrancò con certe vecchiarelle, le quali mattutine s’incamminavano verso la chiesa, alternando passi e nodi di tosse; ora, strette le ciglia per isbirciare meglio, mira il prete sopra la soglia della chiesa, in atto di uomo che aspetta, e poco dopo una signora affrettarsi a cotesta volta, come persona cui tardi farsi attendere; Elvira rallenta il passo, e solo torna ad accelerarlo quando vide entrati in chiesa il prete, la signora e qualcheduna delle vecchie compagne del suo cammino; ella pure vi entrò di scancio e si fermò in un canto all’ombra per iscoprire marina; il prete e la donna già stavano ristretti nel confessionale con la mano in pasta a fare il sacramento della penitenza; allora strisciando lungo la parete giunse presso al confessionale, dove presa [p. 311 modifica] una seggiola s’inginocchiò dinanzi a quella con le gomita sul paglietto e il capo nascosto nel cappuccio inclinato sopra le mani. Amina l’aveva di già avvertita, onde tirò a finire la confessione, sicchè il prete, che si era già apparecchiato a sentirne di quelle senza babbo ne maramma, rimase edificato delle mende leggiere della sua penitente: tutto il baco stava nella troppa fede posta nel giovane innamorato, che l’aveva tratta fuori di casa, non però a cattivo fine, perocchè entrambi i giovani più che mai erano fermi a legittimare la loro unione col sacramento del matrimonio, e magari se avessero potuto farlo benedire da lui, curato di Nervi!

Il prete non capiva in sè dal giubilo, che gli pareva l’angiolo dell’Apocalisse mettergli la falce in mano e gridargli con gran voce: Caccia dentro la tua falce e mieti perchè l’ora del mietere è venuta,10 e impostele per penitenza non so che zacchere di avemmarie in onore della sempre vergine e madre, figliuola e moglie, la licenziò, ammonendola che dopo un po’ di preparazione egli avrebbe celebrato la messa, al termine della quale le amministrerebbe il santissimo sacramento della eucarestia. Quanti sacramenti in un picchio! Fortuna che non fanno indigestione!

Egli se ne andò in sagrestia, dove si lavò le [p. 312 modifica] mani; doveva anche lavarsi l’anima, ma per siffatto lavacro manca troppo spesso il sapone ai preti.

Amina, tolta a sua posta una seggiola, la tirò chetamente accanto a quella di Elvira, e postasi nel medesimo atteggiamento di lei incominciarono a bisbigliare fra loro. Dopo parecchi discorsi, che non importa riferire, Elvira disse:

— Dunque voi vi volete avvelenare coll’oppio?

— Mi è parso meglio di tutto.

— E ti parve bene; perchè con gli altri veleni, massime con gli arsenicati, non si sa mai dove si vada a cascare: però il meglio sarebbe che tu ti esimessi con destrezza da ingollare anche l’oppio: tutto sta cogliere la opportunità; ecco qua un pacchetto di gomma arabica soppesta; a non badarci troppo rassomiglia alla morfina; nel pacchetto ho messo altresì ostie per involtarla, caso mai tu non ne avessi. Dove tutto ciò non ti riesca... oh! zitto... entra la messa...

Il prete incommcia coll’Introibo altare Domini, e se ne va giù giù con la dolce armonia della pentola che spicchi il bollore: quando ebbe salito gli scalini, e però scostatosi dalle donne da non poterle udire, Elvira, studiando con maggiore cautela la voce, continua:

— In queste due cartucce colore di rosa tu troverai due prese di solfato di zinco: allorchè costui si sarà addormentato al sonno eterno, tu pigliane [p. 313 modifica] una dentro un bicchiere di acqua e vomiterai l’oppio senza sentirne altro danno che un po’ di sbalordimento.

— Ma e se m’addormento ancora io?

— Per Dio! sei pure curiosa. Talora mi daresti venti punti ai quaranta; talaltra inciampi in un filo di paglia e stramazzi; se quando ti fai il bolo ci metti dentro minore dose di morfina che puoi, la sua virtù si spiegherà meno intensa e più tardi.

— Io lo confesso, l’ultima mano mi manca, ma tu duce e maestra, mi perfezionerò.

— Se lo scambio della morfina con la polvere della gomma arabica ti riesce, allora fingi sonnolenza, spossatezza, conati al vomito; ti gratterai le braccia e il collo come se un prurito insopportabile ti tormentasse; l’emetico allora ti ministrerò io; da te non far nulla: penserò io a mescolare il solfato di zinco col vomito; hai capito?

— Ho capito; ma da che mi accorgerò io che l’avvelenamento di Omobono è diventato irrimediabile?

— Zitto... il campanello annunzia la elevazione dell’ostia; raccomandiamoci a Dio che non ci levi le sue sante mani di capo...

Dopo la scamj)anellata finale, che annunzia ogni cosa al posto, Elvira ripiglia:

— Sta’ attenta; si presentano due periodi; nel primo egli si dorrà di sete, di stimolo a spandere [p. 314 modifica] acqua e d’impotenza a farla; anche in lui i conati al vomito e la languidezza; poco dopo la salivazione continua, le pupille contratte, le sembianze abbattute; nel secondo periodo: svagellamento, ubbriachezza, perdita di conoscenza, sonno profondo; tu capisci come questi accidenti avvengano di tanto più presto quanto maggiore sia la dose del veleno amministrato; posto che pigli la morfina alle ore otto di sera, verso le undici la dovrebbe esser messa finita... Oh! Dio, facciamo presto, che appunto la messa sta per finire, ed io ho da dirti tante altre cose... Verso quest’ora verrò sotto le tue finestre; tu mi getterai; no, meglio calare; hai fune in casa?

— No.

— L’ho portata io; eccola; nascondila sotto il cappotto.

— Intorno al giardino ricorre una siepe folta di allori; appiattati lì e non ti movere se prima non vedi un lume alla finestra sotto la quale tu devi venire...

— Sta bene... bisogna separarci; il prete ha finito... va’ a comunicarti.

Amina si accostò, per dirla in lingua chiesastica, alla mensa eucaristica, a mangiarvi il pane degli angioli. Quando ella tornò al suo posto, l’Elvira se l’era svignata; questa, trovato il Merlo, andò all’albergo a mangiare, bere e fumare con lui; a dormire no, perchè Merlo, anche quando ella [p. 315 modifica] traballaudo si alzò da tavola, ci volle restare, dove dopo avere asciugato tutte le bottiglie, compresa quella del cognac, stese le braccia, e su queste buttato il capo, prese a tronfiare come un tasso. Scesa la notte, Elvira sorse da letto, ed avendo trovato il Merlo sempre a tavola addormentato, gli levò pianamente di tasca la chiave della rimessa, informandosi, senza parere fatto suo, del luogo ov’era posta. Del Merlo non ci era da darsi pensiero: se la vinolenza gli fosse passata alla dimane, avrebbe fatto primiera con tre carte. Anche il cocchiere eccitato a bere (e non aveva mestieri conforti), se non si ridusse nello stato del Merlo, un tiro di cannone non ci correva. Assicurata di questo, Elvira pensò: fin qui le cose mettono bene; adesso da capo si pose a strologare; sembrava ripassasse nella mente il fatto e il da farsi; su di un punto parve si pentisse di qualche errore commesso, perchè si morse il dito, ma poi conchiuse: basta, si rimedierà; dentro la sopraccarta vecchia chi para di mettere una lettera nuova? Su di un altro tentennando il capo a mo’ di pendolo, dava a divedere riuscirle difficile la risoluzione; tuttavia all’ultimo anche qui si decise e sonò il campanello. Al cameriere, che sollecito comparve, disse:

— Avvertite il vostro padrone che favorisca venire qui in camera; ho da parlargli.

Indi a brevi istanti ecco il padrone con la [p. 316 modifica] berretta in mano, ed ella, scarsa a parole e celere nel proferirle, lo pregava, e la preghiera sonava comando, ad accompagnarla dal reverendissimo signor curato per consultarlo su cosa di grandissima importanza. L’oste rispose come gli osti rispondono in simili occasioni: sarebbe stato un onore ed un piacere per lui, ma che a cotesta ora non ci era da pensarci nè manco, perchè il signor parroco seralmente si recava dal pretore a giocare a goffo con altri maggiorenti del paese, ed a sturbarlo nel suo passatempo prediletto si correva rischio di essere scomunicati in cera gialla.

— E se qualcuno in procinto di morire abbisognasse dei conforti della religione?

— Pei benestanti ci è il cappellano; pei nullatenenti il curato dice, che per venire al mondo ci è mestieri la balia, ma che per uscirne si può fare a meno di tutti.

— Pare che il signor curato sia addentro nelle grazie del signor pretore.

— Faccia conto che le sieno due anime dentro un nocciolo.

— Ebbene, andremo a trovarlo dopo la sua partita.

— Ma sa ella che spesso fanno mezzanotte, prima delle undici mai; o non sarebbe meglio domani?

— Mi occorre vederlo stanotte; se si potesse, subito. Verso le undici vi farò chiamare; siatemi servizievole, che ve ne ricompenserò; voi lo vedete, [p. 317 modifica] della mia gente non posso fare capitale in nulla... andate; ma no; ditemi prima, potrei respirare un po’ di aria aperta senza avventurarmi sola per le vie del paese?

— Badi, signora, qui, per naturale costumatezza dei terrazzani e per necessità di tenersi bene edificati a cagione dei bagnanti, si può camminare a qualunque ora sicuri; tuttavia, la signora, volendo, può scendere nel giardino di casa, il quale confina con la spiaggia, ordinariamente deserta; qualora lo desideri, io le darò la chiave della porta del giardino che mette sul lido.

— Sì, come volete: addio.

Il locandiere dopo alcuni altri minuti, sempre con la berretta in mano, portò la chiave. La Elvira scriveva; senza levare gli occhi dal foglio disse:

— Mettetela sul caminetto; mille grazie. Appena uscito, Elvira depone la penna, cava la lettera da Amina speditale a Milano; la legge attenta e su la scorta di quella traccia un po’ di carta topografica del paese per raccapezzarsi; ciò fatto scende in giardino, e, senza punto fermarcisi, quinci sul lido, dove agitata prese a fare la lionessa.

La solennità dell’ora, la voce terribilmente arcana delle acque, anche quando addormentate respirano, la distesa dei cieli, la dimostrazione parlante, continua della nullità dell’uomo e della oltrapotenza [p. 318 modifica] della natura non seppero suscitare in cotesta materia pensiero che non fosse degno della più trista materia; le venne fatto di volgere il viso in su e contemplare le stelle; le guardò un pezzo e finì col borbottare: «o non sarebbe stato meglio che il Creatore mettesse lassù in cielo, in iscambio di stelle, tanti marenghi, e due volte l’anno, per San Martino e per San Lorenzo, li facesse piovere in casa mia?»11 Impaziente di più lunga dimora, cerca, trova la casa di Amina e si nasconde dentro una folta siepe di allori: appunta gli occhi e mira dallo interno trasparire un chiarore fioco, che talora si oscura. Non le consentendo la inquietudine di restarsi più oltre ferma, rifà i passi, torna al giardino, consulta l’orologio; — sono le dieci. — Ah! ore maledette, bisbiglia, e con le mani fa l’atto delle pollaiole quando strozzano le galline; e credo anch’io che costei, se avesse potuto, avrebbe strozzato un paio di ore: si propose ricondursi sul posto camminando adagio, ma le furono novelle; dopo venti passi ripiglia la corsa più celere di prima; arriva; ah! il lume, il lume risplende smagliante alla finestra. Se io paragonassi adesso il suo incedere al volo della rondine, io direi poco; adagio adagio venne calato un involto; ella si rizza in punta di piedi, leva quanto più può le mani per agguantarlo: — ah! lo tengo, [p. 319 modifica] brontola cupamente nello avventarci le mani, o piuttosto gli artigli di falco. Rasentando i muri, appiattandosi in qualche via traversa e quivi trattenendosi, finchè non si fosse assicurata se la fantasia non l’aveva illusa, o si allontanasse il viandante di cui le pedate le misero addosso la paura, le riuscì rinvenire a colpo la rimessa ove il Merlo aveva riposto la carrozza; l’aperse e la richiuse cauta: accese una piccola lanterna di cui il raggio spandevasi per breve tratto; entrò la carrozza; remosse, sdipanando certe viti, la spalliera imbottita, dietro la quale comparve uno sportello ferrato; anche questo dischiuso, tentò gettare dentro l’apertura il portafogli; ma invano, perchè troppo angusta; non ci trovando altro partito, ruppe il fermaglio al portafogli: alla vista di tanti bei biglietti nuovi di stampa il suo cuore si dilatò: e voi non siete tanti, ella esclamò, che io non sia donna da finirvi in capo all’anno. Non potendo resistere all’agonia, ne acciuffò una dozzina a conto, parte di 1000 e parte di 500 lire: molto più che si trovava corta a quattrini; e neglio di ogni altro sapeva che le ruote senza ungerle, o non girano, o girano male; rimise ogni cosa al suo posto; richiuse la porta, e chiotta chiotta pel giardino rientra inosservata in casa. Prima di tutto, al Merlo, sempre imbertucciato, ripone la chiave della rimessa in tasca; muta poi calzatura e veste: per ultimo chiama il locandiere, il quale la pregò [p. 320 modifica] umilmente a volersi degnare di accettare il suo braccio; e così si avviarono alla canonica.

Il prete era tornato a casa inviperito peggio di un basilisco; per le scale, sul pianerottolo, in sala e in camera, non rifinì di bestemmiare, come bestemmiano i preti: — per Cristallino, giuro a Dio Bacco — ed altre più argute amenità che non si rammentano per lo migliore. Alla Verdiana, che gli domandò se voleva mangiare un boccone, rispose: Va’ là, Verdiana, che dei bocconi ne ho inghiottiti più del bisogno, e Dio sa se amari. Tutta la sera disdetta; per chiusa, quell’assassino di pretore, con un goffo fulminante, mi ha ammazzato la più bella primiera che si sia vista nel mondo. La Verdiana soggiunse: vuole che venga ad aiutarlo a spogliarsi? Non vo’ aiuti, disse il prete; e la serva: vuole che le accenda la lucerna? Non vo’ lumi, levamiti davanti, il prete disse, in altra maniera, ma non si può ripetere: appoggiato al letto, ecco egli butta una scarpa di qua, un’altra di là: nel tirarsi i calzoni, volto il capo dove pendeva la immagine della Madonna, favella: Ah! tu mandi i goffi al pretore perchè mi ammazzi le primiere; ebbene, io mi terrò su la lingua le mie avemmarie; tu mi levi i quattrini di tasca ed io non ti metto l’olio nella lampana...

— Signor curato... o signor curato... — urlando da disperata e forte squassando la porta lo [p. 321 modifica] interrompe Verdiana; don Macrobio, co’ calzoni in mano tutto sbigottito, domanda:

— Ch’è stato? Ch’è stato? di’ è stato?

E Verdiana: Ci è qua una dama accompagnata dal Bigi, il locandiere dell’Albergo Nazdonale, che le vuole parlare subito subito; mi ha dato una carta perchè la consegni a lei. Apra l’uscio...

Il prete, co’ calzoni in mano, va ad aprire, e Verdiana gli porge la carta; ma, essendo buio, non la può leggere; ond’egli stizzisce e borboglia:

— Sciatta! Sbadata! Questo accade perchè non hai portato il lume in camera.

— Signore! Oh! s’è stato proprio lei che non ce l’ha voluto.

— Chetati! Non istarmi a fare la rivoluzionaria volendo ragione... va’ pel lume.

Venne il lume, e don Macrobio lesse una litania di titoli uno più appannato dell’altro. Adesso soprasta nuovo pericolo, che la marchesa, arrivata sopra la soglia, minaccia invadere la camera. Il prete, vergognoso di esser colto in cotesto arnese, non gli sovvenendo meglio, salta sul letto co’ calzoni in mano e si nasconde sotto le lenzuola. — Elvira irrompe e va, senza riguardo, a sedere sul seggiolone che il prete teneva a capo del letto, poi ordina alla serva: — Posate la lucerna su lo inginocchiatoio, andatevene e chiudete l’uscio.

Verdiana obbediva a bacchetta, strologando fra [p. 322 modifica] sè: ~ Caspita! la dev’essere una signora altezzosa davvero; comanda con tanta superbia!

Don Macrobio sudava per la pena; e trovandosi per ventura sempre i calzoni in mano, con quelli si asciugò il sudore. — Elvira ritornò sul tasto della sua condizione, sè chiarìi, ed era vero, figlia di conte, gran cordone, senatore, generale, ministro, e se più ne hai più ne metti; moglie di marchese, deputato; e si fermò per prendere respiro; aggiunse essere madre, bene inteso madre di adozione, perchè quanto ad età, fra lei e la figliuola adottata ci potevano correre tre anni o giù di li. La giovane da lei amata, come quella che di tenerissimo cuore era, facilmente sedusse un giovane tenuto per capacità, per onore e per ricchezza principe fra i principali: con maraviglia di tutti, eccolo all’improvviso scomparso e seco avere trascinato la sua dilettissima figliuola... Vi ha chi dice ch’egli abbia rovinato il suo avo banchiere, anch’egli dei primi; altri sostiene che vadano d’accordo per ingrassare sopra la miseria di centinaia, forse migliaia di famiglie: per me giudico che la batta tra pirata e corsaro, e che il giovane, sentendosi prossimo a dare la balta, uccellasse alla dote della mia figliuola per rimettersi in palla. La fortuna ha guastato i disegni del giovane, e questa volta con giudizio, perchè colpevole. La giustizia ha già messo le mani in questo negozio, e per quanto affermano spiccò il [p. 323 modifica] mandato di cattura contro il giovane Onesti: il nonno Boncompagni a questa ora si trova in potestà del tribunale. Avvertito, il giovane fin qui è riuscito a causarsi, vivendo latitante, ora in questa ed ora in quella parte; adesso egli è qui, e la sciagurata Amina seco. — Il tribunale ne ha rinvenuto le traccie, ed a me non farebbe specie se da un punto all’altro si vedessero comparire qui i giandarmi spediti da Milano per arrestarlo.

— Oh! che mi racconta mai, signora marchesa. Che casi! Che casi!

— Né qui sta il peggio, curato mio; il peggio sta in questo altro, che il giovane, datosi alla disperazione, si è risoluto avvelenarsi.

— Mamma mia! Misericordia Domini super nos!

— E quasi tanto non bastasse, lo scellerato, abusando del perduto amore che la meschina gli porta, ha persuaso, ahimè! anche lei ad avvelenarsi seco.

Domine in adimtorium meum intende!...

— E ieri... non più tardi di ieri, ebbi a Milano la lettera di questa meschina, la quale mi avvisava della funesta risoluzione... mi chiede perdono... e...

Elvira a questo punto ordinò ad una dozzina di lacrime di portarsi subito di guarnigione nella congiuntiva degli occhi, ma o non vollero obbedire, o [p. 324 modifica] prima di arrivarci sbagliarono la strada; ricorse al supplemento dei singhiozzi; il prete la consolò, ella si fece facilmente consolare e riprese a dire: — Dunque mi sono messa in viaggio, ho corso tutta la notte e qui giunsi più morta che viva per lo spasimo e per la fatica; affamata, assetata per tentare di salvarla; subito presi lingua, ed ho saputo trovarsi qui. Ora non ci è tempo da perdere; su via, signor curato, non consenta che ancora io mi getti alla disperazione; mi aiuti per carità.

— Ma sa, signora marchesa, che se il giovane è un fiore di virtù, la sua signora figliuola non monda nespole? La si figuri ch’ella ha avuto lo stomaco, con cotesta posola in corpo, di venire stamani da me a confessarsi e a comunicarsi; questo, non ci è caso, è un sacrilegio bello e buono. O chi ha creduto ingannare ella? Me o Dio? Ma sa, che se noi non arriviamo in tempo a farla vivere e pentire, ella se ne va allo inferno diritta come un fuso?

— Così credo anch’io; però si affretti, impediamo che ciò avvenga... Oh! che fa ella che non si muove e sta sempre li co’ calzoni in mano?

— La colpa non è mia, si compiaccia ritirarsi nell’altra stanza, tanto ch’io mi vesta.

— Che importa?

— Se sono in mutande.

— Via, per contentarla mi volterò dall’altra parte, [p. 325 modifica] e intanto ch’ella si veste continueremo a ragionare e non perderemo tempo...

— Veramente...

— E se la beatissima Vergine per sua intercessione mi fa la grazia di ritrovare sana e salva la mia figliuola, io fo voto di lasciarle nelle mani quattromila lire per dotare una fanciulla...

— E in mano di cui vuol’ella lasciare, signora marchesa, le quattromila lire? — In quelle della Madonna?

— Nelle sue... nelle sue... signor curato; e se non bastano le aumenteremo, perchè danari non mancano e ci sentiamo un cuore da Cesare; dunque si vesta, che sia benedetto; emetici ne ho meco per far vomitare anche il Conte Verde, ch’è di bronzo... e avverta che prima di andare a sorprenderli bisognerà farne motto al pretore...

— Al pretore! esclamò stizzito il curato, rammentando come costui col goffo gli avesse ammazzato la più bella primiera del mondo. E come ci entra il pretore?

— Ci entra benissimo: perchè il giovane è un rompicollo finito; quattro o sei ne ha su l’anima, tre di certo, ammazzati in duello; la si figuri di che non è capace cotesto disperato; molto più che, anche a risico di una tragedia, voglio portargli via la figliuola.

— Com’è così, la mi scusi, ma io non vengo — [p. 326 modifica] disse il prete tornando risoluto a mettere sotto le lenzuola le gambe ormai vestite e i piedi calzati con le scarpe dalle fibbie di argento.

— Ma senta, già prossima a dare nei mazzi prosegue Elvira, il pretore si farà senz’altro accompagnare dai giandarmi; tocca a questi salire e provvedere che non avvengano guai; non li paghiamo apposta?

— Sicuro eh! Noi li paghiamo dieci anni perchè si facciano ammazzare un giorno... patti grassi per loro.

— Anche troppo.

Intanto il curato, sentendo come le cose sarebbero andate a modo e a verso, si decise a uscire seguitando la marchesa, che lo tirava via per la manica. Arrivato a mezze scale, costui si ferma in quattro e si mette a gridare:

— Verdiana!

E questa, a capo di scala, gli rispondeva;

— Che cosa comanda, reverendo?

— La lucerna.

— To’! mormora Verdiana, gli è quasi in fondo e cerca il lume adesso; — di rincorsa va in cucina, accende i tre becchi alla lucerna e raggiunge il parroco, che stava per uscire fuori di casa, dicendo:

— Ecco la lucerna!

— Che tu possa andare a cena con gli angioli. [p. 327 modifica] che ho da farmi della lucerna per la strada, io? La lucerna dico... la lucerna da mettermi in capo; sbalordita! cervellona!

— Gua’, o chi poteva credere un pari suo, che fa le prediche, tanto smemorato da uscire di casa senza cappello!

— Qaando ritorno faremo i conti; intanto sai che ti ho da dire. Verdiana: che se tu non la smetti con queste scappate rivoluzionarie, io ti fo baciare il chiavistello di casa.

Come a Dio piacque, si posero in via, Elvira, Don Macrobio e Luigi Bigi il locandiere.

Il pretore già se n’era ito a dormire, se a dormire può dirsi, imperocchè se ne stesse supino colla moglie, a cui veniva esponendo con compiacenza le fortunate vicende del giuoco della serata; allo strepito che ad un tratto intese farsi all’uscio di casa sbalza su in camicia e va alla finestra, dove udita la voce del prete, che lo pregava ad aprire tosto per l’amore di Dio, tirò la corda. I bimbi del pretore, scalzi, in camicia, arruffati come istrici, si buttano giù dal letto strillando; la mamma, per farli star cheti, urla più di loro; la serva, pel medesimo fine, più di tutti: il cane, il gatto, si recano a debito di coscienza di non negare la propria voce al coro; insomma un finimondo, una vera musica dell’avvenire.

Alla meglio o alla peggio composto un tanto scompiglio, la Elvira ripete al pretore il racconto già [p. 328 modifica] fatto al curato e ne implora il soccorso. Il pretore, secondo il solito, era scannato intero, sbirro due terzi, ciuco mezzo, e forse un po’ meno, tutta viltà per di sotto, per di sopra e da parte; povero uomo! da quaranta anni voltolava la sua vita rotonda di sommissione, come lo scarabeo la sua pallottola senza poterla portare un gradino più su. Penurioso di ogni bene di Dio, eccetto figliuoli, doni frequenti della feconda consorte. Udendo di cotanta donna, quale la Elvira pareva essere, e delle sue potenti aderenze, scorse di un tratto la importanza del negozio e gli parve che la fortuna gli porgesse una cima di cavo per tirare in terra la barca e ormeggiarla al sicuro. Si veste in un attimo, manda pel maresciallo di gendarmeria, gli bisbiglia i suoi ordini dentro l’orecchio; non dimenticò la brava rivoltella, e via. Anch’egli però erasi dimenticato di una cosa, della sciarpa, insegna della sua dignità; se la fece tirare giù dalla finestra. La sciarpa egli aveva scordata, la pistola no, e a ragione; la forza in questi, come in tutti gli altri casi, è quella che conta; il diritto viene dietro col pialluzzo a ragguagliare quanto la forza cincischiò coll’ascia.

Ed ora, voltata la ruota al timone, andiamo a vedere che sia accaduto dei nostri amanti. Ai moti [p. 329 modifica] convulsi, ai discorsi deliri, subentrarono quiete e silenzio penosi; si tenevano per mano e corrispondevano fra loro con sospiri repressi. Il sole sembra affrettarsi a purificare nella marina i suoi raggi insanguinati nel quotidiano pellegrinaggio per le dimore degli uomini. Omobono si leva, lo seguita Amina, entrambi si affacciano al balcone e scambievolmente si stringono a mezza vita; fissi nel sole, stanno a vederlo immergere poco a poco nel cumulo delle acque; quantunque tinti in rosso, cotesti raggi offendono la vista; che importa? In breve essi non avranno più bisogno degli occhi, nè di altro sentimento del corpo: ecco, su l’orlo estremo della marina resta un terzo appena del disco solare, un quarto, una linea, un sospiro, è prossimo ad esalare l’ultimo fiato; lo ha esalato.

— Ed ora anche per noi è tempo di andare a dormire, bisbigliò Omobono.

— Sì, rispose Amina; però innanzi io ti supplico compiacermi in un ultimo desiderio; tu vestiti i tuoi abiti migliori, io farò lo stesso, e poichè senza avvertirlo io chiusi nella valigia la ghirlanda dei fiori di arancio, me la poserò adesso sul capo. Celebriamo le nozze; pronuba la morte.

E come Amina desiderò fecero.

Alla luce moribonda del crepuscolo spartirono la morfina in sei boli; dovevano esse tre per uno, ma Omobono per se ne prese quattro, perchè, come [p. 330 modifica] uomo e più forte, era naturale che gliene abbisognasse dose maggiore.

Uno si assise dirimpetto all’altro; parevano di marmo; la vita intera negli occhi. Omobono prese un bolo, lo mise nel cucchiaio, che empì di acqua, lo accostò alla bocca, e levato il capo giù il primo. In questo mentre l’Amina s’industriava scambiare i bocconi di morfina con quelli già ammanniti di gomma arabica, ma non le riusci; il freddo le penetra le ossa e la paura le toglie il consiglio; sicchè a lei pure è forza trangugiare un bolo di morfina. Omobono, preso ormai pei capelli dal fato maligno, ingola il secondo; Amina, tremante a verga, si apparecchia ad unitario. Chi la salva adesso? Quello che nè anche il diavolo ora potrebbe, lo farà Amore.

Cotesta vista rimescolò nelle viscere il povero Omobono, che l’amava tanto, onde balbuziendo parlò:

— Aspetta, cara infelice... mi manca il coraggio di vederti pigliare il veleno... lascia ch’io mi volga altrove... e poi avvelenati... Amina, abbi pietà di me.

E con supremo sforzo agguanta i due boli rimasti su la tavola, e senza soccorso di acqua, cacciatisegli in bocca, li trangugia. Così Amina ebbe agio di sostituire la gomma arabica al secondo bolo della morfina, la quale si ripose in seno.

— Ora, soggiunse Omobono, adagiamoci sul letto; si levò, ma traballava, non mica per virtù del [p. 331 modifica] veleno, che sarebbe stato presto, bensì per la commozione; si versa un bicchiere da tavola di cognac e lo manda giù di un tratto; poi un altro: ed all’Amina che gli avvertì: — che fai? — egli rispose ghignando: — tanto più che morire non si può. — Quindi con la bottiglia in mano, che posa sopra la comoda da notte, a tastone trova il letto e vi tracolla sopra di sfascio: — Ora, gorgogliando continua, ora, Amina, vienmi a morire accanto.

Amina si sentiva impietrita: Omobono cominciava a tronfiare, indi a poco piglia a lamentarsi: — Da bere... ahimè! ardo... da bere, e stesa la mano alla boccia ingozza cognac» La efficacia del veleno si palesò in lui oltre l’aspettativa sollecita; la salivazione tanto copiosa lo molesta, che non potendo sputarla gli si rovescia per le guancie e pel mento, lasciando su le labbra bolle di bava; con le mani sempre in moto si straccia le vesti e la pelle, tanto lo tormenta acuto il prurito; i tratti del viso da un punto all’altro gli si tramutano sì che non pare più quello; per ultimo chiude gli occhi russando cavernoso.

— E tutto questo perchè se ora ti manca il coraggio di coglierne il frutto! — per darsi di sprone diceva irridendo se stessa Amina, sentendosi inchiodata sopra la seggiola; e cupidità vinse paura; sorse in piedi, e le bastò l’animo di accostarsi al letto dove giaceva Omobono, con l’indice e il [p. 332 modifica] pollico sollevargli le ciglia scrutandogli le pupille, che riscontrò orribilmente contratte; lo clhiamò eziandio più volte: «Omobono, caro Omobono... sentimi, riscotiti... rispondimi, via, amor mio». Nulla! — Adesso è il tempo, ella disse, e gli prese di tasca la chiave del baule, lo aperse, n’estrasse il portafogli, che pose sopra la tavola: smoccola la candela perchè mandasse più lume, e reggendosi a stento si accosta alla finestra, ci si affaccia, e la voce di Elvira la percuote subito che dice: «Sono qui».

Il portafogli fu calato, la finestra richiusa in fretta. Amina si fa a serrare il baule e a rimettere la chiave in tasca ad Omobono: allora si accorge come non abbia badato ad altro portafogli di volume molto minore, il quale, aperto da lei, mostra un’altra quantità di biglietti di banca; le pareva tentennare fra la morte e la vita, e tuttavia non sofferse lasciarli; s’ingegnò adattarsi intorno alla vita il portafogli, e sebbene cascasse dal sonno ci si rifece più volte, fincheè non le parve averlo celato per bene sotto l’abito stranamente foggiato che costumava a quei dì. Allora soltanto pensò all’emetico, e, strano a dirsi, non gli riusci pigliarlo; per le membra le si era insinuato un torpore che non le dava balìa di alzare le braccia; quanto più voleva tenere ritto il capo, tanto le ricadeva sul petto peso come il piombo; ed anche la lunga [p. 333 modifica] tensione dello spirito in opera di delitto l’aveva rifinita di forza moralmente e fisicamente: si acchiocciolò sul letto voltando le spalle al corpo di Omobono per paura di vederlo, se per caso le venisse fatto di aprire gli occhi, e così stette finche non sentì picchiare forte l’uscio, e al colpo tenere dietro le parole: «Aprite in nome della legge» e così per più volte; non rispondendo alcuno, con una spinta solenne schiantarono l’uscio dagli arpioni, e dentro rovesciansi prete, pretore, giandarmi. Luigi Bigi e l’Elvira. Alla vista del fiero spettacolo mandarono tutti un grido di orrore. L’Elvira si precipita sopra Amina, del suo corpo la cuopre, l’abbraccia, la bacia, co’ più cari nomi l’appella, e intanto le domanda sommesso: .

— Hai preso il veleno?

— Sì.

Elvira levò la faccia al cielo quasi per chiedere una ispirazione, e la ispirazione le venne, ma non dal cielo, e la ispirazione fu questa: — Lasciala morire, ti piglierai tutta la moneta per te.

Senonchè Amina ammiccandole con gli occhi desse retta, le aggiunse: — Ma ne ho preso poco; nè mi potrebbe uccidere; — levami di qui, Elvira; io non posso più reggere.

Allora Elvira incominciò a gridare, si affanna, manda sottosopra ogni cosa; ordina ammannissero caffè, corrono pel medico, vadano per lo speziale, [p. 334 modifica] portino di ogni ragione emetici: acqua calda... acqua calda, ci vuole.

Avuta acqua calda, la Elvira ministra all’Amina il solfato di zinco e poi acqua; e intanto che a voce alta la conforta a darsi animo, a voce bassa interroga:

— Le -prese di morfina dove sono?

— Qai in seno.

Allora Elvira, al fine di divertire l’attenzione da lei, strepita:

— E voi altri movetevi; fate lo stesso con cotesto sciagurato; se non può aprire i denti, schiudeteglieli a forza; cacciategli in bocca questo vomitatorio; se riusciamo a farli recere, sono salvi... su, prete... presto pretore... maresciallo, mi raccomando anco a voi... a lei, signor Luigi Bigi, o che mi stilla li ritto come un palo da pagliaio... Amiiia, come ti senti? Come ti par di stare? Ti senti smovere? E voi altri, con quel disgraziato, venite a capo di nulla?

— Di nulla; io lo faccio sbasito, rispose il maresciallo; e’ pare che, più che col veleno, si sia ammazzato col cognac.

— Ch’è il peggiore dei veleni, osservò Elvira, calunniando perfino questo suo amico fedele.

— Mamma! mamma mia, reggimi il capo.

— Su, carina mia, coraggio... o Dio, o Dio, ti ringrazio, la medicina opera. [p. 335 modifica]

E giù vomito a scroscio; mentre Amina appoggia il capo al seno della Elvira, e vomita nella catinella, questa, fìngendo aiutarla con le mani, le cava dal seno i boli della morfina e li mescola col reciticcio. Tranquillatasi alquanto la madre pietosa, le porge a bere caffè a ciotole, mostrando tuttavia accesissimo zelo anche pel giovine avvelenato; ma con lui erano pannicelli caldi: vennero il medico e lo speziale.

Il medico, dopo visitata diligentemente Amina e le materie serbate nella catinella, giudica che a parte le conseguenze del disturbo morale, intorno a cui non si poteva garantire nulla, dove si continuasse la cura del caffè e di altre bevande acidulate con aceto, limone, acido tartarico e simili, la considerava fuori di pericolo: all’opposto, il caso di Omobono parergli disperato; ad ogni modo avrebbe fatto ogni sforzo, ma, per operare, di due cose avere supremo bisogno: quiete e libertà; sgombrassero la stanza tutti, massime la giovane signora, della quale la permanenza prolungata in cotesto luogo era di danno inestimabile.

— Se però non fosse assolutamente necessario... osservò il pretore.

— Necessarissimo, et in primis et ante omnia, confermò il medico.

— Ma che diascolo! Lo vedrebbe un cieco, ribadì il prete, cui, memore del goffo omicida della [p. 336 modifica] sua primiera, non parve vero di dare una trafìtta al pretore.

Allora Elvira, usa a chiappare le occasioni a volo, chiamato in disparte il medico, lo tastò:

— O non sarebbe meglio che io me la riconducessi a Milano?

— Magari! Ma con questo boccone di scossa io non garantirei.

— Senta, dottore, io non voglio che da lei si garantisca nulla; sono io quella che intendo recisamente ricondurla a casa; desidero che ella ne sostenga la convenienza... la utilità... la necessità... la mia carrozza è comodissima, vostra signoria ci accompagnerà a Genova, occorrendo a Milano: e’ sarà mestieri accomodare mezza carrozza a modo di lettuccio, provvedere medicine, cordiali... dottore, la supplico, pensi a tutto lei, perchè, vede, se io non do la volta, è un miracolo: non badi a spesa, sa? Eccole un biglietto da mille; poi faremo i conti.

Lasciato il medico in asso, la Elvira tira da parte il prete e gli dice:

— La mi dia la mano.

— O che ne vuol fare?

— Mi conceda che io gliela baci.

— O signora marchesa, ma che le pare?

— La mia figliuola è salva! Ottenni la grazia, e non gabbo i santi io. Prenda questi due da mille [p. 337 modifica] e questi altri quattro da cinquecento, che in tutti fanno quattromila; mariti fanciulle a suo piacimento; siamo intesi. Adesso bisogna che anche lei si metta dattorno al pretore perchè non m’impedisca ricondurre meco la mia figliuola a Milano; che importa averla salvata dal veleno, se poi la si vessa con tante molestie, che avrà da morire d’angoscia? Innanzi ch’ella si rimetta chi sa quante cure bisognerà ch’io spenda... dirò come ha detto dianzi lei, reverendo, lo vedrebbe anche un cieco.

— Non ci è dubbio... non ci è dubbio.

Allora tutti in acie ordinata uniti mossero contro al pretore, il quale stava seduto al tavolino rapito in estasi, come dev’essere stato san Giovanni quando dettava l’Apocalisse, a stendere la relazione informativa pel prefetto. Cascasse il mondo, prima la relazione; ogni altra cosa dopo; udita la istanza dei supplicanti, rispose secco non potere attendere per ora; lo lasciassero alle gravi incumbenze del suo ufficio: trasportassero la inferma alla pretura. Delegava il maresciallo dei giandarmi a frugare con somma cura tutti (e per ciò si comprendevano anche le tutte) quelli che uscivano dalla stanza, perchè come dice lo Statuto? La legge è uguale per tutti. Non doversi levare niente dalla stanza, ne manco una spilla, nequidem acicula. All’Elvira non parve vero, e fra sè disse: Siamo a cavallo; invece all’Amina diede un tuffo il sangue; ma dalla [p. 338 modifica] paura in fuori non ci fu altro danno. Il maresciallo dei giandarmi era troppo educato per ardire di stendere la mano su donne di alto affare; e poi nell’esercizio della sua professione aveva appreso come il precetto che la legge è uguale per tutti sia una delle tante cose che nella società umana si dicono, si scrivono e si stampano, ma che però non si eseguiscono se non caute, sano modo, prudenter, e con le altre più forme che le fabbriche dei R. P. Gesuiti provvedono a tutti i governi di questo mondo, ed io credo anche di quell’altro.

Elvira, Amina, il prete. Luigi Bigi, scortati da grande accompagnatura di gente, arrivarono a casa il pretore, dove li accolse la moglie e la caterva dei suoi figliuoli; quella mezzo melensa, come l’aura spiritale di amorecanonico Petrarca per troppo frequenti gravidanze,12 questi orribili a vedersi più dei diavoli dipinti dall’Orgagna nel camposanto di Pisa, nell’atto di rubare l’anima ai frati; ella si profferse intera all’Elvira, ma che le poteva dare? Dall’acqua in fuori la poverina non possedeva altro; questi nel solito arnese, scarduffati, scalzi e sudici, si misero attorno all’Elvira, toccandole i panni e lasciandovi impressa l’impronta delle cinque dita, nella medesima guisa che gli animali antidiluviani fecero sopra il terreno stemperato, onde [p. 339 modifica] 1 naturalisti ebbero poi notizia della loro esistenza nel mondo e ne ricostruirono la forma. Elvira sentiva pizzicarsi le mani di agguantare tre o quattro di cotesti così e scaraventarli fuori di finestra, ma la necessità la costrinse di appiccare la sua voglia all’arpione, all’opposto si adattò fino ad accarezzarli e a dire co’ denti stretti alla povera mamma: come sono interessanti! E la povera mamma, facendosi coscienza di accettare senza ammenda cotesto elogio, aggiunse: se non fossero tanto insolenti! — Elvira, per levarseli dattorno, ricordò in buon punto di avere addosso la scatola dei confetti,13 arnese diventato oggi necessario nel mondo muliebre, onde, recatasela in mano, l’aperse e ne gittò il contenuto nell’altro lato della stanza: se si dicesse che ci si avventarono sopra come i porci alle ghiande, sarebbe troppo gentile paragone, perocchè essi nello strapparseli di mano si graffiassero e mordessero: divorati i confetti tornarono a infestare la gente più impronti che mai: allora risolverono cacciarli via; sì, e’ furono novelle! Sgusciavano dalle mani, strisciavano per le gambe, sotto le gonnelle si appiattavano, strillavano come galline spaventate; all’ultimo, ghermiti chi per le gambe, chi pei capelli e chi pel collo, furono chiusi dentro un bugigattolo, dove continuarono a sbizzarrirsi fino a giorno, [p. 340 modifica]

Elvira, ripreso fiato, narrò (era la quarta volta che la raccontava, sempre con aggiunte e correzioni) la pietosa storia alla pretoressa, la quale ne pianse tanto da immollarne due fazzoletti; allora Elvira conchiuse col pregarla ad esserle favorevole per ismovere il pretore a non impedirle di ricondurre la figliuola a Milano; ella non poteva trovare il terreno più sollo, perchè ci ebbe appena pigiata la vanga che ci entrò fino al manico, e le diceva: «non so ne desse pensiero; lasciasse fare a lei; non ci era a dubitarne nemmeno; niente niente nicchiasse il pretore, l’avrebbe dovuto contrastare con lei.» E così via, come costumano le donne, quantunque eccellenti, dove si reputino cardini della famiglia. — Elvira, tratto fuori un biglietto da cinquecento lire, lo esibì alla povera donna, la quale, diventata rossa come una fiamma di fuoco, lo rifiutò esclamando: «che per un po’ di opera buona ci è mestieri pagamento? Da quando in qua si usa comprare anche due parole di carità?»

— No, buona signora, rispose Elvira, la carità non si compra, ne si vende; ma poichè la beata Vergine mi ha fatto la grazia di salvare questa mia diletta figliuola, è debito di cristiano mostrare la propria gratitudine alla madre di Dio facendo un po’ di bene al proprio simile; e questo debito tanto più preme a me, che la Provvidenza volle colmare di ricchezze. Avrei pertanto voluto spedirle [p. 341 modifica] da Milano una cassa di vestitini per i suoi interessanti bambini, ma ella, ch’è donna di giudizio, comprende a colpo di occhio che troppo triste cure mi attendono a Milano, ond’io possa, come pure vorrei, badare a ciò: quindi la prego a volersi pigliare questo carico per conto mio, e ciò con tanta maggiore opportunità, che qui il sarto li potrà provare alle creature prima di cucirli e a questo modo farli tornare a pennello a loro dosso.

Ah! interesse, interesse, quando tu ti ci metti in casa entri sempre, perchè se tu picchi all’uscio nel medesimo modo, diverso è il grido col quale accompagni il picchio, ed ora preghi per lo amore di Dio, ora per l’amore del prossimo, ora per l’amore dei figliuoli, sicchè l’amore tira la corda e si accorge tardi avere albergato un serpente.

Il pretore tornò a casa all’alba, nè solo; con lui vennero l’albergatrice di Amina e il Merlo, rinvenuto dalla sconcia ubriachezza; la Elvira, appena lo vide, gli fece una squartata da levare il pelo: bel capitale ci era da fare di lui, dominato ogni dì più dal turpe vizio del vino; troppo abusare della sua bontà; pensasse che ogni libro aveva il suo fine: quello della pazienza come ogni altro. Ma il Merlo, fattolesi dappresso, a voce bassa e in atto di ossequio le susurrò.

— Ci conosciamo, buona lana; se tu mi hai lasciato ubriacare, senza ubriacarti, è segno che ci [p. 342 modifica] avrai avuto le tue buone ragioni: quante volte ci siamo ubriacati insieme! Smettila una volta, che mi sento stufo di essere maltrattato da te, bai capito?

— Andiamo via, Merlo, fatevi perdonare il trascorso passato attendendo ad eseguire quanto sarò per comandarvi.

Ora si tira innanzi la vedova locandiera dell’Amina, e implora piangolosa pagamento del fitto e indennità per la rovina patita; era stiantata di sana pianta; chi da ora in poi avrebbe abitato casa sua? Si raccomandava in vìsceribus; e fu vista inginocchiarsi e così genuflessa camminare dietro Elvira, la quale, uggita della improntitudine, si volse a Merlo dicendogli:

— Vedete di accomodare per la meglio questa donna. Non sono mica morta io in casa sua; ne il morto mi appartiene, senonchè per la trafitta che mi ha dato nel cuore: d’altronde egli lascia una eredità; si faccia pagare da quella.

— Aggiusterò io questa faccenda, intervenne a questo punto il pretore, ed Elvira con bel garbo gli disse:

— L’avrò per grazia; — e qui ella si volse da capo al curato con queste parole: — Reverendo, io non le chiedo accompagnare quel povero morto al camposanto.

— Di fatti io non la potrei servire. [p. 343 modifica]

— Ma non ci sarebbe verso di fargli dire un po’ di bene.

— Impossibile!

— Me ne rincresce; avrei voluto erogare un po’ di danaro in suffragio dell’anima sua... non ne parliamo più.

— Ecco, signora, come si potrebbe fare: ella avrebbe a commettermi quel numero di messe che a lei sembrasse spediente, da celebrarsi secondo la sua intenzione, ed ella le applicherebbe in pro dell’anima del defimto: io voglio credere che le faranno bene, alla peggio male non glie lo faranno, e’ sarà come della nebbia, che lascia il tempo che trova.

Così rimase stabilito con mutuo gradimento; gli altari smagliarono di candele; le chiese echeggiarono dei soliti canti; di su, di giù la solita schiera fosca dei preti, come formiche alla busca del grano.

Il pretore, battuto in breccia da tante parti, non seppe negare la istanza che le reiterava la marchesa, molto più che il maresciallo gli faceva osservare fin lì non esserci querela, nè egli poteva pigliarsi da sè le parti di giudice istruttore: quanto spettava a diligente magistrato essere stato da lui adempito. Assicurato tutto; dalla stanza mortuaria non estratta nèe manco una spilla, nequidem acicula; di ciò essersi accertato mercè la [p. 344 modifica] perquisizione rigorosissima anche su le persone, senza distinguere qualità nè sesso; ciò resultare dal suo rapporto; cavato appena dalla stanza il cadavere si apporrebbero i sigilli; e buona notte sonatori. E come vorrebbe ritenere egli la giovane signora? In carcere? Dio ne liberi! Gli correrebbero dietro fino le pietre e potrebbe uscirne chi sa che diavolio anche pel governo, il quale (a quest’ora il pretore lo avrebbe a sapere com’egli maresciallo) ama lo zelo e lo raccomanda, a patto che non metta campo a rumore. O piuttosto la lascerà a piede libero? E allora, o che difficoltà trova che ella così si stia a Milano, piuttostochè a Nervi? Molto più che a Milano dovrà istruirsi il processo.

E fu alla Elvira efficace avvocato il maresciallo, uomo atticciato, tuttavia giovane e svelto da levare il fumo alle schiacciate. La Elvira, un po’ pensando al presente e molto all’avvenire, gli volle donare un bellissimo anello, e ad accettarlo non potè dire avere patito violenza il maresciallo. Questo anello, non senza sua grande sorpresa, l’Elvira, dopo un mese lo rivide a Milano in dito alla marchesa Zelmi. O com’era ita? chi lo può dire? Rammentate voi quel siciliano che, condottosi a Roma, fu trovato rassomigliarsi al magno Pompeo come gocciola a gocciola? Questi, avendolo saputo, volle vederlo, e riscontrato che la cosa stava appunto come glie [p. 345 modifica] l’avevano raccontata, esclamò: la è strana, perchè mio padre, ch’io sappia, non andò mai in Sicilia. Però ti avverto, rispose l’arguto siciliano, che mio padre soventi volte venne qui in Roma. La marchesa Zelmi erasi trattenuta per le bagnature a Nervi fino ai primi di ottobre...

Insomma Elvira si condusse seco Amina in mezzo alle benedizioni di tutto il popolo di Nervi, il quale non potè astenersi da esclamare: piacesse alla Madonna santissima mandarci spesso di questi avvelenamenti; la sarebbe una manna per tutti!

La ipocrisia, avendo presentito questo negozio, ci si era messa di mezzo nello intento del ciarlatano che va alla fiera; confidava smerciare dei suoi prodotti in bucn dato; ma presto conobbe che la ipocrisia antica, la ipocrisia classica a mo’ che la descrive Cesare Ripa nella sua Iconografia, non era più di usanza. Le ipocrisie venivano a nugoli dall’Affrica in compagnia delle cavallette puniche; queste rimasero tutte in Sardegna; la più parte di quelle capitarono in Italia. Allora la ipocrisia classica si profferse al generale dei gesuiti, che l’accolse cortese, le usò un mondo di finezze e le diede a bere la cioccolata, ma le disse che i conventi e i collegi dei gesuiti si servivano di lavori fatti in casa; la ipocrisia si ripose in viaggio e se ne andò a Roma per favellare al santo Padre, ma non lo potè vedere, perchè lo trovò carcerato in segreta [p. 346 modifica] dentro undicimila stanze! Si fece a rendere visita a cardinali, arcivescovi, vescovi, e di maniera prelati, non lascio indietro abati, abatucci e abatini, e tutti rinvenne provvisti di barattoli d’ipocrisie messe in guazzo come le ciliege: per disperata si fece a trovare i ministri del bello italo regno, e si mise in quattro per renderli capaci di adoperare ipocrisie decenti, che non avessero le toppe bianche su le gonnelle nere, mentre quelle che tenevano a nolo l’erano sgualdrine sguaiate che solevano andare dietro la ritirata14 dei soldati; ma i ministri la chiarirono come non si potessero mettere in ispese inopportune, imperciocchè presentissero avvicinarsi il tempo in cui, dato il puleggio a tutte le ipocrisie vecchie e nuove, nobili e plebee, sarebbe corso l’andazzo di buttar carte in tavola dicendo fuori dei denti: così la penso e così la voglio, e a cui fa male si scinga.

La ipocrisia classica, per non andare a rifinire sopra uno scalino di chiesa, si accomodò a entrare nei conservatorii delle damigelle, alle quali insegnò scrivere le lettere per capo di anno a papà e pel giorno natalizio a mammà, e su su fino a reggere loro la mano quando esse vergarono la prima lettera di amore; la prima, perchè alla seconda non [p. 347 modifica] ebbero più bisogno di lei; dicono che, presi in uggia i conservatorii, siasi ridotta a fare da cucina a certi deputati repubblicani che siedono a sinistra nel Parlamento a Roma, ma io non ci credo, quantunque m’intronino gli orecchi col dirmi: che tu sia benedetto, vorresti che i deputati italiani fossero da meno dei cavoli? Mira quante mai le specie di questi erbaggi! Nella sola del cavolo cappuccio ecci il cavolo pisano, il cavolo lombardo, il cavolo veronese, il cavolo bianco piacentino, il cavolo nero napolitano, il cavolo a piccole teste, che abbonda nel Fiorentino, e delle altre specie si tace.15 Or dunque, tra deputati diritti e deputati mancini, tra ventreschi destri e ventreschi sinistri, non ci possono incastrare ancora i deputati repubblicani-monarchici -costituzionali?



Note

  1. È noto che Mercurio era il dio dei ladri; un dotto e pio ecclesiastico osserva che i cristiani non ne hanno bisogno, come quelli che possiedono san Nicola, e va bene; ma chi protegge, domando io, i ladri ebrei?
  2. Enimma di Sansone.
  3. Nei chiostri di San Lorenzo.
  4. Le pillole s’ingollano involtate nell’ostia.
  5. 5,0 5,1 5,2 Memorie del conte di Malmesbury.
  6. Carlo IV dello Child Harold.
  7. Lord Brougham, difensore della regina, per iscreditare testimoni italiani disse: «credo che di tutti i paesi del mondo il paese più opportuno per trovare testimoni falsi sia il paese di Augusto e dei Borgia!» Rimesteremo noi l’orrida massa di fimo e di sangue dei processi inglesi per gettarla in faccia a lord Brougham? No, pur troppo il mondo va pieno d’infamie, che invece di rimproverarci scambievolmente sarebbe meglio guarire. Ma il Brougham era avvocato a cui pare che tutto sia permesso per difesa dei clienti.
  8. Così afferma Svetonio nella vita di Claudio; diverso Tacito: «a Claudio fu detto, mentre mangiava, Messalina essere morta, ned ei cercò se di sua mano o di altrui; chiedette bere e seguitò a mangiare
  9. La regina Carolina morì il 7 agosto 1821 di 53 anni; la sua morte fu attribuita all’angoscia sofferta di essere stata respinta dalla incoronazione del suo marito all’abbazia di Westminster; la ultima infermità fu qualificata infiammasione intestinale. Corse voce comune che l’avvelenassero: su questo proposito io mi stringerò a ripetere quello che il Voltaire scrisse intorno alla morte di Alessandro, figlio di Pietro I di Russia: «egli è certo che di questo principe sventurato si desiderava la morte, e che la Corte di Pietroburgo era provvista di una spezieria celebre per copia di ogni maniera di droghe...»
  10. Apocal., c. 14, n. 15.
  11. Sono le notti in cui piovono dal cielo le stelle cadenti.
  12. Così è, Laura Sade aveva il corpo rifinito crebris partibus.
  13. Bionbonnière.
  14. Ritirata chiamasi pure il segno dato ai soldati colle trombe o coi tamburi di raccogliersi ai loro quartieri. Grassi Diz. milit., coll’esempio dei Cinuzzi. Manca al Voc. della lingua.
  15. Tesoro delle Campagne, compilato da Antonio Balbiani. Miano, tip. Politti, Vol. un., p. 623.