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dell'impero romano cap. li. |
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sonaggio della chiesa, e il secondo dello Stato. È verosimile che Giuliano fosse avvolto nella disgrazia di questa sventurata fazione; che avesse molto a temere e poco a sperare dal nuovo regno, e che l’imprudente Rodrigo non potesse in trono dimenticare, nè perdonare gli oltraggi dalla sua famiglia sostenuti. Il merito e l’autorità di Giuliano lo rendeano un soggetto utile, ma formidabile; avea grandi poderi, partigiani arditi e numerosi, e per mala sorte ha dato a divedere anche troppo che, padrone dell’Andalusia e della Mauritania, teneva in mano le chiavi della monarchia di Spagna. Troppo debole siccome egli era a romper guerra contro il sovrano, cercò l’aiuto di estera Potenza, e invitando stoltamente i Mori e gli Arabi originò le calamità d’otto secoli: gli ragguagliò per lettere o in un abboccamento della ricchezza, non che della poca forza del suo paese, della debolezza d’un principe poco amato dal popolo, e dello stato di degradamento in cui era caduta quella effeminata nazione. Non erano più i Goti quei Barbari vittoriosi che aveano umiliata la superbia di Roma, spogliata la regina delle nazioni, e trionfato dal Danubio al mare Atlantico: segregati pei Pirenei dal rimanente del Mondo, s’erano addormentati i successori d’Alarico nella quiete d’una lunga pace. Le mura delle città cadevano in brani, i giovani cittadini aveano lasciato l’esercizio delle armi, e sempre alteri dell’antica fama doveano nella loro presunzione essere colla prima guerra perduti. L’ambizioso Saracino fu spronato a quel conquisto dalla facilità e dall’importanza che vedea di farlo; ma non vi si accinse che dopo aver consultato il Califfo. Un corriere da lui spedito a Walid ne recò una