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storia della decadenza |
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simo della politica dei Selvaggi. „Le nostre città, diss’ella, e l’oro e l’argento che contengono allettano continuamente gli Arabi ad insignorirsene; questi vili metalli non sono l’oggetto dell’ambizione nostra: ci bastano le semplici produzioni della terra. Distruggiamo queste città, seppelliamo sotto le rovine que’ funesti tesori, e quando non offriremo più esca alla cupidigia de’ nostri nemici, forse cesseranno di turbare la tranquillità d’un popolo che sa far la guerra„. Da unanimi applausi fu accolta la proposta: cominciando da Tanger fino a Tripoli furon demoliti gli edifizii, o per lo meno le fortificazioni, tagliati gli alberi fruttiferi, annientati i mezzi di sussistenza: Cantoni fertili e popolosi divennero deserti, e sovente gli storici dei tempi posteriori accennavano i vestigi della prosperità e della devastazione dei loro antenati. Ecco che ne dicono gli Arabi moderni. Ma quanto a me, son molto inclinato a credere che solo per l’ignoranza dell’antichità, per voglia del maraviglioso, e per quell’abitudine, divenuta quasi una moda, d’esagerare la filosofia de’ Barbari, abbiano rappresentato come un atto volontario le calamità e i guasti di tre secoli, contando dai primi furori dei Donatisti e dei Vandali. Nel corso della rivoluzione è probabile che per la sua parte Cahina contribuisse ai disastri; e forse il timore della propria rovina spaventò o indispettì le città, che lor malgrado al giogo d’una donna s’erano sottomesse. Non isperavano più i coloni, e forse non bramavano più, il ritorno del sovrano che regnava in Bisanzio. Non era mitigata la loro servitù dai beneficii del buon ordine e della giustizia, e doveano i più zelanti cattolici preferire di buon grado le imperfette verità del