Elogio della pazzia/Elogio della pazzia
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ELOGIO DELLA PAZZIA
Comunque si laceri ordinariamente dagli uomini la mia reputazione, e il so ben io quanto il mio nome suoni male all’orecchio anche dei più stolti, tuttavia ho il vanto di dirvi che questa Pazzia, che voi vedete, sí, questa Pazzia è quella sola che ha il potere di rallegrare gli Dei e i mortali.
Siavi di ciò una incontrastabile prova quella non so quale improvvisa ed insolita gioja, che brillò sul volto di tutti al mio comparire innanzi a questa numerosissima numerosissima udienza. Voi difatto ergeste subito ilare la fronte, e con sì lieto ed amabile sorriso m’applaudiste, che invero quanti d’ogni intorno io qui mi vedo sembranmi altrettanti Dei di Omero inebriati di nettare misto a Nepente 1, e mentre prima sedevate tristi ed inquieti, come coloro che sono appena usciti dalla caverna di Trofonio 2. E per verità, in quella guisa che al primo comparire in cielo della splendida ed aurea faccia del sole, oppure dopo un rigido verno al ritornare della primavera accompagnata dai dolci zefiretti, noi tosto veggiamo tutte le cose prendere un nuovo aspetto, ammantarsi di nuovi colori, e tutta in certa qual maniera ringiovanirsi la natura, così appunto voi vedutami appena immantinente cangiaste affatto sembiante. Ottenni pertanto colla mia sola presenza ciò che valenti oratori avrebbero appena potuto conseguire con un lungo e lungamente meditato discorso, voglio dire di scacciare la tristezza dall’animo vostro.
Ora poi se bramate di sapere per qual motivo piacquemi di comparirvi innanzi in un arnese così stravagante, io tosto ve lo dirò, purchè mi siate cortesi della vostra attenzione, non però di quell’attenzione che siete soliti prestare ai sacri oratori, ma bensì di quella che porgete ai cerretani, ai ciurmadori, ed ai buffoni sulle piazze: in una parola come quella che il nostro Mida3 porgeva al canto del Dio Pane. Imperocchè mi piace di fare con voi alquanto la sofista, non però di quella razza, che al giorno d’oggi altro non fa che imbevere le menti giovanili di vane e spinose bagattelle ed insegnar loro a contendere con una pertinacia più che donnesca, ma bensì voglio imitare quegli antichi, che per ischivare l’infame nome di filosofi, vollero piuttosto appellarsi sofisti. Lo studio loro principale era quello di encomiare gli Dei e gli Eroi. Voi adunque ascolterete l’elogio non di un Ercole nè di un Solone, ma di me stessa, cioè della Pazzia.
A dir il vero io non istimo un fico quei sapienti, che spacciano essere stoltissima ed impudentissima cosa il lodar sè medesimo. Sia pure follia quanto si voglia, dovranno tuttavia convenire costoro che è cosa molto decorosa l’aver cura del proprio buon nome.
Di fatto, qual cosa è più conveniente alla Pazzia che esser la tromba del suo merito e di far echeggiare dappertutto le proprie sue lodi? Chi può dipingermi più al naturale di me stessa? Vi è forse altri che meglio mi conosca di quello che faccia io medesima? Per altro questa mia condotta sembrami assai più modesta di quella che tener suole la maggior parte de’ grandi e dei saggi del mondo. Costoro, messosi sotto ai piedi ogni pudore, subornano un qualche panegirista adulatore o un cicalone poetastro, onde a prezzo d’oro reciti le loro lodi, che altro infine non sono che un tessuto di menzogne. Intanto poi che il modestissimo uomo stassene ad ascoltarlo, dispiega le piume come il pavone, innalza la sua cresta, si ringalluzza alla voce della sfacciata adulazione, che paragona agli Dei quell’omiciattolo da nulla, che il propone come un assoluto modello di tutte le virtù, benchè sappia esserne totalmente lontano, che adorna di piume non sue quella vil cornacchia, che si sforza d’imbiancare la pelle dell’Etiope, che, per finirla, fa di una mosca un elefante. Alla fin fine segue poi quel volgar proverbio che dice: Non hai chi ti loda? Fai bene a lodarti da te stesso.
Benchè a questo tratto non posso contenermi dal concepire grande sdegno, non saprei se della ingratitudine, o della infingardaggine de’ mortali. Nutrono, è vero, per me grandissima venerazione, e godono volentieri le mie beneficenze, tuttavia (chi il crederebbe!) da che mondo è mondo non v’è stato un sol uomo, che per riconoscenza abbia con qualche panegirico tessuto l’encomio della Pazzia.
Eppure non mancò chi con grande perdita d’olio e di sonno esaltasse con istudiatissime lodi e i Busiridi 4, e i Falaridi 5, e la febbre quartana, e la mosca, e la calvezza, ed in fine ogni simil genere di peste. Perciò udirete da me stesso il mio panegirico, il quale per essere estemporaneo e non istudiato, sarà molto più sincero. Non immaginatevi che vi parli così per ostentazione d’ingegno, come suol fare la maggior parte degli oratori. Imperocchè costoro, come ben sapete, dopo avere stentato sopra un’orazione per ben trent’anni e talvolta dopo averla rubacchiata agli altri, han l’impudenza di spacciare che l’hanno tirata giù così per divertimento in tre giornate, oppure che l’hanno dettata. Io all’incontro ho sempre amato moltissimo di dire tutto ciò che mi viene sul labbro.
Non aspettatevi da me che, giusta il costume dei retori volgari, vi dia la mia Definizione e molto meno la mia Divisione. Imperocchè cos’è Definire? È rinchiudere l’idea di una cosa ne’ giusti suoi limiti. Che cosa è Dividere? È separare una cosa nelle diverse sue parti. Ora nè l’una, nè l’altra mi si convengono: infatti come mai limitarmi, se la mia potenza è estesa quanto il genere umano? Come mai dividermi, se generalmente tutto concorre a sostenere la mia Divinità? D’altra parte che serve infine dipignervi come l’ombra e l’immagine mia in una Definizione, mentre sono innanzi agli occhi vostri, e mi vedete al naturale?
Son io, come vedete, sì son io quella vera Dispensatrice dispensatrice di beni, che gl’italiani chiamano Pazzia e i Greci Moría. E che bisogno v’era di dirvelo? Non parla forse abbastanza il mio volto? Non porto forse scolpito sulla fronte tutto ciò che sono? Se mai alcuno tanto goffamente s’ingannasse da prendermi per Minerva o per la Sapienza, non ha che a mirarmi in fronte, e tosto mi conoscerà a fondo, senza che mi serva delle parole che sono l’immagine sincera del pensiero. Non trovasi in me simulazione alcuna, e tale mi mostro all’esterno, quale sono nel cuore. Sono sempre eguale a me stessa; talchè se alcuni de’ miei seguaci presumessero di non passare per tali, e d’infingersi sotto maschera e nome di saggi, eglino non saranno più che sciume vestite di porpora, che asini coperti della pelle del lione. Qualunque poi sia lo studio che facciano costoro per contraffarsi, due lunghissimi orecchioni scopriranno sempre il loro Mida.
Per dire il vero sono assai malcontenta di questa razza ingrata, di questi furbi malvagi; poichè mentre appartengono essi più ch’altri mai al nostro impero, non solo mostrano presso al volgo d’aver onta di portare il mio nome, ma di più ad altri spesso il rinfacciano qual titolo obbrobrioso. Quindi essendo costoro pazzi ed arcipazzi, ed affettando il contegno di savj e di Taleti, non avremo noi ragione di chiamarli pazzamente savj?
Anche in questa parte mi è sembrato opportuno l’imitare i retori de’nostri giorni, che reputansi altrettante Divinità, qualora possano far pompa di due lingue come la sanguisuga 6, e maravigliosa cosa estimano l’inserire e frammischiare, anche fuor di proposito, nei loro discorsi delle greche paroline, per cui vengono a formare dei bellissimi mosaici. Se poi questi oratori non posseggono le lingue esotiche, allora cavano d’alcune rancide carte quattro o cinque vocaboli antiquati, coi quali gettano polvere negli occhi al lettore, cosicchè coloro che gl’intendono, vieppiù si compiacciono del proprio sapere, e quelli che non li capiscono, gli ammirano in proporzione della loro ignoranza. Non è egli forse uno de’ maggiori piaceri di noi altri stolti l’ammirare col massimo stupore tutto ciò che ci viene dagli oltramontani paesi? Che se poi vi fossero alcuni, che nulla intendendo di questo vecchio linguaggio, volessero pure far mostra di capirlo, in tal caso debbono mostrare un aspetto contento, devono approvare chinando il capo od anche solo le lunghe orecchie asinine, e dire con un’aria d’importanza: bravo, bravo, dice bene, così appunto.
Ma ripigliamo il filo del nostro ragionamento. Voi dunque sapete al presente il mio nome o uomini, ma qual epiteto v’aggiungerò io mai? Ah senza contrasto quel di stoltissimi! che ve ne pare? Può ella forse la Dea Pazzia dare un epiteto più degno di questa ai suoi adoratori, agl’iniziati ne’suoi misteri? Ma siccome pochi di voi sono istruiti della mia genealogia, perciò voglio adesso studiarmi d’informarvene coll’aiuto delle Muse.
Per dire il vero non nacqui io nè dal Caos 7, nè dall'Orco, nè da Saturno, nè da Giapeto, nè da alcun altro di questi Dei rancidi e disusati; ma Plutone, il Dio delle ricchezze, è mio padre. Sì, Plutone (non se l’abbiano a male Esiodo, Omero, e persino lo stesso Giove, il quale è il padre degli Dei e degli uomini, Plutone, che al presente come per lo passato, a un solo cenno crea, distrugge, governa ogni cosa sacra e profana: Plutone, a cui talento le guerre, le paci, gl’imperj, i consigli, i giudizj, i comizj, i matrimonj, i trattati, le confederazioni, le leggi, le arti, il ridicolo, il serio (ohimè non ne posso più! mi manca il respiro, conchiudiamo) a cui talento si regolano tutti gli affari pubblici e privati de’ mortali: Plutone, senza il cui braccio tutta quanta la turba delle poetiche Divinità, parliamo con maggior franchezza, gli Dei stessi del prim’ordine 8, o non sarebbero del tutto, o almeno se la passerebbero assai male: Plutone infine, il cui sdegno è sì terribile, che Pallade stessa non saprebbe difender abbastanza que’ mortali che lo avessero provocato; il cui favore all’incontro è sì possente, che chi lo gode può ridersi di Giove e delle sue saette, questo è appunto il padre mio, di cui vado fastosa. Ora egli mi generò non già dal suo cervello, come fece Giove la torva e feroce Minerva, ma da Neotete9, la più avvenente e la più gaia ninfa del mondo. Di più i miei genitori non erano legati in matrimonio, nè sono nata come quello zoppo Vulcano, figlio del fastidiosissimo nodo di Giove e di Giunone. Sono figlia del piacere, e l’amor libero ha presieduto ai miei natali; e per parlare col nostro Omero, era Plutone in un trasporto trasporto d’amorosa tenerezza. Affinchè poi non prendiate errore, vi dichiaro che non parlo già di quel decrepito Plutone, quale ci vien descritto da Aristofane, ormai cadente e cieco, ma di Plutone quand’era robusto, pien di fervore, nel fior della giovinezza, e non solo giovine, ma riscaldato anche più che mai dal nettare che in un pranzo cogli Dei avea allora per avventura tracannato pretto e a larghi sorsi.
Se mai bramate intendere ancora la mia patria (giacchè al giorno d’oggi è come una prova di nobiltà il notificare al pubblico il luogo, ove dalla culla abbiamo mandati i primi vagiti) sappiate che nata non sono nè nell’isola Natante di Delo, come Apollo; nè dalla spuma dell’ondoso Oceano, come Venere; nè fra le cupe spelonche; ma bensì in quelle isole Fortunate, ove la natura non ha bisogno alcuno dell’arte. Ivi non si sa che cosa siano il travaglio, la vecchiezza, le malattie; non si vedono mai nei campi, nè asfodillo, nè malva, nè squilla, nè luppoli, nè fave, nè simili altri spregevoli vegetabili. La terra quivi invece produca tutto quello che può dilettar l’occhio e imbalsamar l’odorato; Moly10, Panacea, Nepente, Maggiorana, Ambrosia, Loto, Rose, Viole, Giacinti, Anemoni. Nata in grembo a tali delizie non salutai col pianto la luce come quasi tutti gli uomini; anzi appena partorita mi posi a ridere lietamente in faccia a mia madre. Io poi non invidio al sommo Giove l’essere stato allattato dalla capra Amaltea, giacchè due lepidissime ninfe mi diedero il latte; una è Mete11 figlia di Bacco, e l’altra Apedia12 figlia di Pane, le quali potete qui ancora vedere nel consorzio delle altre mie seguaci e compagne. Che se anche di queste, per Giove, saper volete i nomi, io ve li dirò, ma soltanto in greco. Vedete questa del guardo altero? Ella è Filautia, ossia l’amor proprio. Quest’altra che sorride coll’occhio e applaudisce, battendo palma a palma, è Colachia, ossia l’adulazione; quella là che ha socchiuse le ciglia e par dormicchiare, è Liti, ossia l’obblìo; e quell’altra che appoggiasi ad ambi i gomiti colle mani in mano è Misonomia, ossia l’odio della fatica; questa col capo inghirlandato di rose, tutta spirante essenze e profumi, è Idoni, ossia la voluttà; questa che volge lubrici e incerti gli occhi e par tutta in convulsione è Anìa, ossia l’irriflessione; questa della pelle alabastrina, grassottella e ben pasciuta, è Trofi, ossia la delizia. Fra queste Ninfe voi discernerete esservi ancora due Dei; uno di questi è Como, ossia il riso e l’allegria della mensa; l’altro è Nigreton ipnon, ossia il profondo sonno.
Secondata pertanto e servita fedelmente da questo stuolo di domestici, estendo il mio dominio sopra tutte le cose, e perfino i monarchi più assoluti sono sottomessi al mio impero. Eccovi ornai istrutti della mia nascita, della mia educazione e del mio corteggio. Ora, affinchè non sembri a taluno che Cuor di ragione usurpato m’abbia il nome di Dea, voglio farvi toccar con mano quanto io sia utile agli Dei ed agli uomini; e quanto estendasi il mio divino potere, purchè stiate ad ascoltarmi ad orecchie ben tese.
Ha pure scritto sensatamente taluno, che egli è veramente essere Dio il giovare a’ mortali; e se a buona ragione vennero ascritti nel senato degli Dei coloro che trovarono il vino, il formento, o altro simile vantaggio procacciarono agli uomini, perchè non sarò io proclamata e venerata per la prima tra Numi, io, che sola ogni bene ad ognuno a larga mano dispenso?
Prima di tutto ditemi un poco: evvi al mondo cosa più dolce e più preziosa della vita? Ora chi più di me contribuisce al concepimento de’ mortali? Imperocchè nè l’asta dell’armi potente di Pallade, nè l’egida13 del fulminante Giove vagliono un fico a produrre e propagare il genere umano. Anzi lo stesso Padre degli Dei e Re degli uomini, al cui cenno tutto trema l’Olimpo, fa d’uopo che deponga il suo fulmine trisulco; che lasci quell’aria terribile e maestosa, colla quale a suo grado riempie di spavento tutta quanta la schiera degli Dei; e come un bravo comico si mascheri il poveretto sotto tutt’altre forme, quando voglia lo prende di quella funzione, ch’ei non fa che pur troppo sovente, voglio dire procreare dei piccoli Giovi.
Prendiamo inoltre que’ babbuassi di stoici, che reputatisi tanto prossimi ed affini agli Dei. Datemene, pur uno di costoro, il quale sia anche mille volle stoico, che non si rada mai la barba, distintivo della sapienza (sebbene un tal distintivo sia comune anche ai caproni); costui al certo dovrà deporre quell’aria piena di orgoglio, dovrà prendere una cera di galantuomo, dovrà abiurare quella sua inflessibile ed austera morale, dovrà fare delle sciocchezze e delle pazzie: insomma gli sarà forza che a me si volga e si raccomandi questo filosofo, se pur ama di farsi padre.
E perchè secondo il mio costume non parlerò con voi più liberamente? Ditemi di grazia, sono forse il capo, la faccia, il petto, la mano, l’orecchio, queste parti del corpo reputate oneste, che generano gli Dei e gli uomini? Credo, signori miei, di no: che anzi lo stromento propagatore del genere umano è quella siffatta parte, così goffa, e così ridicola, che non può nominarsi senza riso. Questa, sì questa è propriamente quella sacra fonte, da cui traggon la loro origine i numi e i mortali.
Suvvia, chi è mai colui che avvinghiar vorrebbesi al nodo matrimoniale, se prima, come sogliono fare ordinariamente i filosofi, avesse ben riflettuto agli incomodi che accompagnano tal condizione? Qual donna vorrebbe sottomettersi al debito coniugale, se tutti conoscesse, o presenti avesse alla mente, i perigliosi dolori del parto e le pene della educazione? Se voi dunque dovete la vita al matrimonio, e il matrimonio alla irriflessione, che una è delle mie seguaci, giudicate di quanto mi siate debitori. Inoltre una donna passata una volta per le spine dell’indissolubile nodo, e che ardisce di rientrarvi, nol fa forse in virtù dell’assistenza della Ninfa Obblio, mia cara compagna? Dicasi pure, a dispetto del poeta Lucrezio, e Venere stessa non ardirebbe di negarlo, che senza la nostra possanza e la nostra protezione la sua forza e la sua virtù languirebbero e svanirebbero del tutto 14.
Egli è pertanto da quest’amabile giuoco, da me condito col riso, col piacere e coll’amorosa ubriachezza, che sono usciti gli accigliati filosofi, cui ora subentrarono quegli uomini, volgarmente chiamati Monaci, i purpurei monarchi, i pii sacerdoti e i pontefici tre volte santissimi. Finalmente da questo giuoco è parimente sboccata tutta la turba delle poetiche divinità; turba così immensa, che appena il cielo, quantunque spaziosissimo, la può contenere. Ma poco per verità sarebbe, se avendovi provato che da me avete avuto il germe e lo sviluppo della vita, non vi dimostrassi ancora che provengono dalla mia liberalità tutti que’ beni che si trovano in essa.
Che cosa sarebbe mai questa vita, se pure di vita meritasse il nome, senza i voluttuosi piaceri? Oh! Oh! Voi applaudite, e ben mi accorgo non esservi qui alcuno così insensato che non sia di questo sentimento: siete tutti troppo stolti (m’imbroglio sempre come una pazza o perdo la tramontana), volea dire, siete tutti troppo savi, perchè possiate dissentire dal mio parere. Credetemi pure che anche gli stoici non disprezzano la voluttà, quantunque accortamente se ne fingano alieni; e se con mille ingiurie la vanno oltraggiando presso il volgo, lo fanno affinchè, restandone gli altri atterriti, possano essi goderne più abbondantemente. Ma qualora quest’ipocriti declamassero in buona fede, mi dicano un poco, per Giove, sì, mi dicano pure se vi è un giorno solo nella vita che non sia triste, disaggradevole, fastidioso, dispiacevole, disgustoso, se non è animato dalla voluttà, cioè dal condimento della Pazzia? lo prendo Sofocle per testimonio irrefragabile; Sofocle non mai abbastanza lodato: oh qual giustizia mi rende mai! Egli dice a onore, e gloria mia: «Quanto è dolce il vivere, ma senza saviezza, la quale è il veleno della vita.» Intraprendiamo a spiegare minutamente questa proposizione.
Ognuno sa che l’infanzia è l’età più allegra e più gradita; ma cos’è che rende cotanto amabili i ragazzi? Perchè affettuosamente li baciamo, gli abbracciamo, gli amiamo? Perfino un nemico s’intenerisce alla vista di questi piccoli innocenti, e li soccorre. Donde mai ciò proviene? E la natura che, saggiamente operando a bello studio, ha impresso ne’ figliuoli una cert’aria di pazzia, con cui ottengono di raddolcir le pene dei loro educatori e di meritarsi l’affetto di chi ha cura di loro. Si ama quella prima giovinezza che succede all’infanzia; ognuno gode di esserle utile, di promuoverla, di soccorrerla: ma da che cosa la fanciullezza riceve le sue attrattive? Da chi, se non da me, che le accordo la grazia d’esser pazzarella, e per conseguenza di piacere, e di ricreare? Son contenta d’esser tenuta per mentitrice, se non è vero che i giovani mutano interamente carattere, allorquando incominciano a farsi uomini, e colla scorta delle istruzioni e dell’esperienza del mondo entrano nell’infelice carriera della saviezza. Noi vediamo allora svanire a poco a poco la loro bellezza, scemarsi la vivacità, perdere quella schiettezza e quel candore, che tanto piace, e finalmente estinguersi in essi il naturale vigore.
Imperciocchè osservate, o signori, che quanto più l’uomo si scosta da me, tanto meno gode i beni della vita; e in guisa tale s’avanza nella sua carriera, finchè giunge alla fastidiosa e molesta vecchiaia, che diviene a se stesso ed agli altri insopportabile. Giacchè parliamo della vecchiaia, non siavi discaro se per un momento mi vi trattengo. Oh quanto lagrimevoli sarebbero senza di me gli uomini sulla fine de’ loro giorni! Ma sento pietà di loro, e ad essi porgo la mano. Non di rado le poetiche Divinità soccorrono pietosamente col divino segreto della metamorfosi coloro, i quali sono prossimi a perire, come Fetonte trasformato in cigno, Alcione in uccello, ecc. Imito anch’io in qualche modo queste benefiche Divinità. Quando la cadente vecchiezza conduce gli uomini sull’orlo della tomba, allora, quanto so e posso, li faccio rimbambire; onde nacque il proverbio: «I vecchi son due volte fanciulli.»
Voi mi dimanderete senza dubbio come ciò io faccia? Eccovo: guido queste cadenti teste al nostro fiume Lete (perchè, tra parentesi, voi saprete, che questo fiume trae la sua sorgente dalle isole Fortunate, e che un piccolo ramo è quello che scorre vicino all’Averno); faccio quindi ad essi tracannare a larghi sorsi questa acqua d’Obblio, e con tal mezzo, dissipando insensibilmente le loro cure, ripigliano la giovinezza. Ma dirassi ch’essi delirano ed impazziscono: a benissimo; poichè in questo consiste appunto il rimbambire. Non è forse proprio dei fanciulli il delirare e l’impazzire? Che cosa credete voi che maggiormente ci piaccia nei fanciulli? L’essere senza giudizio. Un figliuolo che parlasse ed agisse come un adulto non sarebbe egli un piccol mostro? Non potremmo a meno certamente di odiarlo e d’averlo in una specie d’orrore. Da molti secoli è triviale il proverbio: «Odio un fanciullo di precoce sapere.» Chi potrebbe egualmente sostenere commercio o famigliarità con un vecchio, che ad una lunga esperienza unisse tutto il vigor dello spirito e la forza del discernimento?
Per opera adunque della mia bontà il vecchio rimbambisce, e deve a me la liberazione da tutte quelle cure fastidiose che tormentano il savio. Il mio rimbambito intanto non è disaggradevole nella compagnia, nè sente quella noia della vita che sopporta a stento l’età più robusta. Ripiglia pure talvolta le tre lettere di quello stolto vecchio, di cui Plauto fa menzione, A. M. O. Ora s’egli fosse un tantino savio, non è vero che sarebbe il più infelice dei viventi? Ma, per effetto della mia bontà, scevro da ogni fastidio ed inquietudine, ricrea i suoi amici, ed è ameno nella conversazione. E non vediamo noi in Omero il vecchio Nestore parlare più dolce del mele, mentre il feroce Achille prorompe in eccessi di furore? Lo stesso Poeta non ci dipinge anzi alcuni vecchi seduti sulle mura, che tengono lepidi discorsi? Di più, secondo questo raziocinio, dico che la felicità della vecchiaia supera quella della fanciullezza. Non può negarsi che l’infanzia sia molto felice; ma in questa età non si ha il piacere di cicalare, di brontolare dietro tutti, come fanno i vecchi, piacere che forma il condimento principale della vita. Un’altra prova del mio confronto è quella reciproca inclinazione che si vede tra i vecchi ed i fanciulli, e quell’istinto che li porta a conversar volentieri tra loro; cosicché si verifica, che ogni simile ama il suo simile.
Di fatto queste due età hanno grandi attinenze tra loro, e non vi discerno altro divario che le rughe della vecchiaia e i tanti carnevali che i primi han sulla gobba. Del resto la bianchezza dei capelli, la mancanza dei denti, l’abbandono del corpo, l’appetito del latte, la balbuzie, la garrulità, la balordaggine, la smemoratezza, la mancanza di riflessione, in una parola tutto va d’accordo in queste due età. Infine quanto più l’uomo s’inoltra nella vecchiaia, tanto maggiormente s’avvicina all’infanzia, a segno tale che esce di questo mondo come i bambini, senza desiderar la vita, e senza temer la morte. Mi giudichi ora chi vuole, e si confronti questo buon uffizio ch’io presto agli uomini colla metamorfosi degli Dei. Non ho qui bisogno di rammemorare gli orribili effetti del loro sdegno, e non parlerò se non dei loro beneficj. Quali sono le grazie ch’essi fanno a coloro che sono per perire? Cambiano l’uno in albero, l’altro in uccello, questo in cicala, quello in serpente, ecc., grandi sforzi veramente di beneficenza! Pare quasi che il passare da uno ad un altro essere non sia lo stesso che perire! Quanto a me rimetto l’uomo medesimo nell’età più bella e più felice. Che se i mortali s’astenessero totalmente dalla sapienza, e non amassero che vivere sotto le mie leggi, allora certo non conoscerebbero la vecchiaia, e godrebbero felici una perpetua giovinezza.
Osservate di grazia quegli aspetti cupi, quei volti patiti e scarni di coloro, che s'immergono nella contemplazione della natura, o in altre serie e difficili occupazioni: costoro sembrano invecchiati anzi la fine della giovinezza; e questo avviene, perchè un travaglio di testa assiduo, penoso, violento, profondo, a poco a poco gli spiriti e il suco della vita esaurisce, All’incontro mirate un poco i miei stolti come sono pingui, lucidi e ben pasciuti, cosicchè sembrano al vederli veri Porci acarnanj15. Certamente questi felici mortali non sentirebbero alcun incomodo della vecchiezza, se niente affatto partecipassero al contagio de’ sapienti; ma pur troppo ciò accade: e che cosa fare? Si vede chiaramente, che l’uomo non è nato per godere qui in terra una perfetta felicità.
Ho ancora in mio favore la non lieve testimonianza di un famoso proverbio, il qual dice: Che la sola Pazzia ha la virtù di prolungare la giovinezza, quantunque fugacissima, e di ritardare moltissimo la malaugurata vecchiaia. Quindi ben si comprende, che non è senza fondamento quanto comunemente si dice de’ Belgi; poichè siccome in tutti gli altri uomini la prudenza cresce in ragione degli anni, in questi all’incontro la Pazzia è in proporzione della vecchiaia: cosicchè si può dire non esservi alcuna nazione al mondo nè più gioviale, nè più allegra di questa nel commercio della vita, nè che senta meno la noia degli anni. Mettiamo pure coi Belgi anche que’ popoli, che vivono sotto lo stesso clima e che hanno quasi le stesse maniere; voglio dire i miei Olandesi, de’ quali posso assolutamente vantarmi che siano i miei più fedeli adoratori. Nutrono per me tanto affetto e tanto zelo, che sono stati giudicati degni d'un epiteto derivato dal mio nome; e ben lontani dal vergognarsene, ripongano in esso la gloria loro principale.
Invochino dopo tutto questo gli stoltissimi mortali, sì, invochino Circe, Medea, Venere, l’Aurora; vadano pure in traccia di quella non so quale fontana che ha la virtù di ringiovanire; virtù però ch'io sola e posso e soglio usare. Possiedo esclusivamente quel suco mirabile, col quale la figlia di Memnone prolungò la giovinezza di Titone suo avo. Quella Venere sono io che ringiovanì così bene Paone, onde Saffo ne andò perdutamente innamorata. Mie sono quell'urbe, se pur ve ne sono, miei quegl’incantesimi, mia quella fonte, che non solo restituiscono la passata giovinezza, ma, ciò che'è più desiderabile, la rendono perpetua. Se voi tutti dunque convenite non esservi cosa più amabile della giovinezza e più detestabile della vecchiaia, allora posso conchiudere, che voi ben riconoscete il debito che avete verso di me, dico verso di me, poiché, affine di rendervi felici, so prolungare un tanto bene ed allontanare un male sì grande.
Ma perchè trattenervi più oltre parlando dei mortali? Scorrete tutto il cielo, analizzate tutte le Divinità, e son contenta che mi si rinfacci il bel nome, che ho l’onore di portare, se ritrovasi un Nume solo, che tutto a me non debba il suo potere. Di grazia, perchè Bacco ha sempre, come un giovinotto, il volto rubicondo e bionda la lunga chioma? La ragione si è, perchè passa tutta la vita discervellato, ed ubbriaco nei conviti, nelle danze, nelle feste, nei giuochi, ed abborre ogni benchè minimo commercio con Minerva. Finalmente è così alieno dall’ambire il nome di savio, che gode d’essere venerato coi dileggiamenti e cogli scherzi. Nè si offende del proverbio, che gli dà il soprannome di Ridicolo, soprannome che si è meritato, allorquando, sedendo sulla porta del tempio, i contadini si prendevan piacere d’imbrattarlo di mosto e di fichi novelli, la qual cosa lo faceva smascellar delle risa. Inoltre quai colpi satirici non ha scagliati contro questo Dio la Commedia Antica16? Lo stolido, l’insulso Dio, esclamavano l’indegno di nascere per l’ordinaria via! Ma ditemi senza simulazione, chi di voi non preferirebbe d’essere questo stolido ed insulso Dio, ma sempre però allegro, sempre giovane, sempre felice, sempre cagione a tutti di gioia e di piacere, che essere quel Giove simulatore, terrore dal mondo intero, o quel vecchio Pane, che sparge col suo chiasso i panici timori, o quel zoppo Vulcano tutto affumicato e stanco dal faticoso travaglio, o la stessa Pallade terribile per la lancia e per la testa di Medusa, e che tutti riguarda con occhio truce?
Passiamo ad altre Divinità. Sapete perchè Cupido si conserva sempre fanciullo? Perchè non s’occupa che in bagattelle, perchè scherza e ride sempre senza giudizio e riflessione alcuna, e corre qua e là puerilmente senza sapere nè che si faccia, nè che si dica. Come mai l’aurea Venere mantien sempre florida la sua bellezza? Nol sapete? Perchè è stretta parente con me, onde conserva sempre sul volto suo l’aureo colore di Plutone mio padre. Inoltre, se prestar fede dobbiamo ai poeti ed agli statuarj loro rivali, questa Dea non compare mai, se non in aria ridente e contenta, onde a ragione è chiamata da Omero aurea Venere. Flora, la madre delle delizie, non era forse uno dei principali oggetti della religione dei Romani?
Delle Divinità de’ piaceri abbastanza abbiam detto. Bramate ora di sapere la vita degli Dei tetri e malinconici? Interrogate Omero e gli altri poeti, e vi diranno intorno a quest’oggetto bellissime cose; vi faranno vedere, che gli Dei sono pazzi per lo meno quanto i mortali. Giove depone le sue folgori, abbandona le redini dell’universo per darsi in braccio agli amori, nè dico cose a voi ignote. Dimentica il suo sesso la fiera ed inaccessibile Diana per tutta consacrarsi alla caccia, e non lascia d’essere innamorata alla follia del suo vago Endimione; cosicché si prende spesso l’incomodo di discendere dal cielo in forma di Luna per colmarlo de’ suoi favori. Ma vorrei piuttosto che le loro laidezze rinfacciate fossero loro da Momo17, dal quale erano soliti udirne i rimproveri. Non è molto però che gli Dei sdegnati lo precipitarono in terra insieme con Ate18, perchè, importuno colla sua sapienza, intorbidava la loro felicità. Costui, ben lontano dal ritrovare accoglienza nelle reggie dei monarchi, non trova una anima che gli presti ospitalità nel suo esilio, mentre l’Adulazione, mia compagna, occupa dovunque il primo posto: quell’Adulazione, che sempre è andata d’accordo con Momo, come il Lupo e l’Agnello.
Liberatisi pertanto gli Dei dall’importuna censura di Momo, si abbandonarono con maggior libertà e diletto ad ogni sorta di piaceri. E per verità, quanti lepidi motti non dice quel Priapo di fico! Quanto non fa ridere Mercurio co’ suoi ladroneggi e co’ suoi prestigj? Che cosa non fa Vulcano nei conviti degli Dei? Si mette a correre per far pompa della sua zoppicante andatura, scherza, buffoneggia, finalmente tutto mette in opera per tenere in allegria il convito. Che dirò di quel vecchio stolto ed innamorato di Sileno, che gode danzare con Polifemo e colle Ninfe? Che dirò di que’ Satiri semi-caproni, che nelle lor danze fanno cento atti immodestissimi? Pane colle insipide sue cantilene muove a riso gli Dei, i quali lo ascoltano con grande attenzione, e preferiscono cento volte la sua musica a quella delle Muse, principalmente quando i vapori del Nettare cominciano ad andar loro alla testa. Ma perchè non rammenterò io le stravaganze che fanno i Numi dopo i conviti, e soprattutto dopo aver molto bevuto? Vi assicuro, per Dio, che quantunque io sia la Pazzia, e in conseguenza avvezza ad ogni sorta di stravaganze, pure io stessa non posso tante volte trattenere le risa. Ma sarà meglio che mi taccia, poichè se mai qualche Dio diffidente e sospettoso mi ascoltasse, potrei incorrere anch’io la sorte di Momo.
Ma è omai tempo che ad imitazione d’Omero passiamo a vicenda dagli abitatori del cielo a quelli della terra, ove pure nulla scorgesi di lieto e felice che non sia opera mia.
Primieramente voi ben vedete con qual previdenza la natura, questa madre e produttrice del genere umano, abbia disposto, che non mancasse in alcun luogo il condimento della Pazzia. Giusta la definizione degli Stoici, il savio è quello che vive secondo le regole dalla ragione prescritte, e il pazzo all’incontro è colui, che si lascia strascinare in balìa delle sue passioni; quindi, per timore che la vita dell’uomo esser dovesse trista ed infelice, Giove ha voluto caricare molto più la dose delle passioni che quella della ragione, e la loro differenza è per lo meno come uno a ventiquattro. Inoltre ha relegata questa ragione in un angusto cantoncino della testa, lasciando tutto il resto del corpo in preda ai disordini ed alla confusione. Quindi Giove, non contento ancora di questo, ha unito alla ragione, la quale è sola, due fortissime passioni, a guisa di due impetuosissimi tiranni; l’una è la Collera, che domina nel cuore, in questo centro dei visceri, in questa sorgente della vita; l’altra è la Concupiscenza, che stende il suo impero dalla più tenera giovinezza fino all’età più matura. Quanto poi vaglia la ragione contro questi due tiranni, abbastanza lo dimostra l’ordinaria condotta degli uomini. Ella prescrive i doveri dell’onestà, grida contro i vizj fino alla raucedine; questo è tutto ciò che può fare; ma i vizj ridonsi della loro Regina, gridano assai più forte e più imperiosamente di lei, onde questa povera sovrana, non avendo più lena, è costretta finalmente dalla necessità a cedere e ad acconsentire a’ suoi rivali.
Del resto, essendo nato l’uomo pel maneggio e per l’amministrazione degli affari, era giusto per questo titolo aumentare un poco la sua piccolissima dose di ragione; ma volendo Giove prevenire alla meglio questo inconveniente, amò di consigliarsi meco su tale oggetto, come suol fare anche nel resto. Io gli diedi un parere veramente degno di me: Signore, gli dissi, date moglie all’uomo, perchè sebbene la donna sia un animale inetto e stolto, non lascia però di essere gaio e soave, e vivendo ella in dimestichezza coll’uomo, saprà temperare colla sua pazzia l’umor aspro e triste di lui.
Allorquando Platone sembrò dubitare, se metter dovesse la donna nel genere degli animali ragionevoli o in quello de’ bruti, non volle con ciò significare che la donna sia una vera bestia, ma pretese bensì di esprimere con tal dubbio l’immensa dose di follia di questo amabile animale. Se mai per avventura qualche donna si mette in capo di voler passare per savia, in tal caso non fa che mostrarsi doppiamente pazza, e fa a press’a poco come colui, che tenta d’ugnere un bue a suo dispetto coll’olio stesso col quale sogliono ungersi gli atleti. Credetemi pure che chiunque, andando contro alla natura, si copre col manto della virtù, oppure affetta una non propria inclinazione, altro non fa, se non moltiplicare i suoi difetti. Per la qual cosa, secondo il proverbio de’ Greci, la scimia è sempre scimia, ancorchè si vesta di porpora: così la donna è sempre donna, vale a dire è sempre pazza, qualunque sia la maschera che prenda.
Non voglio però credere giammai che il bel sesso sia stolto a tal segno, che meco prender se la voglia per quanto gli dissi, giacchè io pure son donna, e son la Pazzia: anzi mi pare, che maggiormente onorar non possa le donne, che associandole alla mia gloria; e se esse giudicano rettamente delle cose, confido, che mi sapranno buon grado di averle rese per molti titoli assai più fortunate degli uomini.
Primieramente hanno l’attrattiva della bellezza, che ben a ragione preferiscono a tutte le altre cose, poichè in virtù di questa esercitano un’assoluta tirannia anche sui più barbari tiranni. Inoltre a qual altro studio mai si consacrano le donne, fuori di quello di piacere agli uomini più che sia possibile? Non è forse questa l’unica mira degli ornamenti, del rossetto, dei bagni, delle acconciature, degli aromi, dell’essenze odorose? Volete vedere più chiaramente essere la sola Pazzia, quella che forma l’ascendente delle donne sopra gli uomini? Gli uomini accordano tutto alle donne in vista della voluttà, e per conseguenza le donne non dilettano gli uomini se non colla Pazzia. Questa conseguenza non può assolutamente negarsi, se appena si rifletta alle sciocchezze che si dicono, alle pazzie che si fanno presso le donne, quando si brama di estinguere il fuoco d’amore.
Vi ho dunque scoperta la sorgente del primo e sommo piacer della vita. Convengo esservi cert’uni (que’ vecchi principalmente più bevitori che donnajoli), i quali ripongono nelle crapule il supremo piacere. Lascio indecisa la quistione, se vi possa essere un bel convito senza donne. Quello ch’è certo si è, che nessuna mensa può andarci a sangue, se non è condita dalla Pazzia. E tanto vero questo, che se nessuno de’ convitati sente del matto, o almeno non finge di esserlo, si paga qualche buffone o si invita qualche lepido parassito, affinchè co’ suoi sali, co’ suoi scherzi, colle sue buffonerie sbandisca dalla tavola il silenzio e la malinconia. Infatti a che ci gioverebbe il riempire lo stomaco di tante sontuose, squisite ed appetitose vivande, se gli occhi, le orecchie, lo spirito e il cuore non venissero pasciuti egualmente da giuochi, da risa e da piacevoli concetti? Ora io sola sono l’inventrice di tali delizie. Sono forse stati i sette savj della Grecia quelli, che hanno ritrovati tutti i diletti d’un convito, come sarebbe gittar la sorte per vedere a chi tocca d’essere il re della mensa, giuocar a’ dadi, bere in giro nello stesso bicchiere, cantare a vicenda col ramo di mirto alla mano, danzare, saltare, mettersi in diversi atteggiamenti? No certamente: io sola poteva inventarli per la felicità del genere umano. Tutte le cose sono di tal natura, che quanto più abbondante è la dose di pazzia che contengono, tanto maggiore è il bene che procurano ai mortali. La vita umana senz’allegria non merita neppure il nome di vita. Bisognerebbe condurre tutti i suoi giorni nella tristezza, se con tal sorta di piaceri non si dissipasse quella noia, che sembra nata con noi.
Vi saran forse delle persone, le quali, nulla contando questa sorta di passatempi, ripongono tutta la loro felicità nel possedere veri amici, e spesso van ripetendo, che la dolcezza d’una tenera e fedele amicizia sorpassa tutti gli altri piaceri, e che alla vita è tanto necessaria, quanto l’aria, l’acqua, il fuoco. Così gioconda è poi l’amicizia, soggiungono essi, che, se toglier si volesse dal mondo, sarebbe come togliere il sole; è finalmente tanto onesta (termine per me insignificante), che i filosofi medesimi non dubitano di annoverarla tra i beni principali della vita. Ma che dirassi, se mostrerò esser io ancora l’unica sorgente e creatrice di un tanto bene? M’accingo pertanto a provarvelo, non già con sofismi, nè con argomenti capziosi, all’uso dei retori, ma giù alla buona, e con tutta la chiarezza.
Animo! vediamolo. Dissimulare, ingannarsi, fingere, chiuder gli occhi ai difetti dei suoi amici, amare perfino, ed ammirare i grandi vizj, come grandi virtù, non è questo un avvicinarsi alla Pazzia? Colui che bacia con trasporto un neo della sua amica, o che sente con piacere il puzzo del suo naso, quel padre, che avendo un figlio guercio, pretende che abbia due occhi da Venere, non dà veramente in una pretta pazzia? Esclamino pure a lor posta esser questa una grande pazzia, ed io aggiungerò che questa pazzia è quella sola che forma e conserva l’amicizia. Parlo qui unicamente degli uomini, de’ quali neppur uno nasce senza difetti; giacchè per noi l’uomo migliore è quello, che ha minori vizj. Imperocchè que’ savj che pretendono di indiarsi colla loro filosofia, o non contraggono alcuna amicizia, o riesce loro un nodo aspro e dispiacevole. Inoltre non sogliono amar di cuore se non pochissime persone, anzi non avrei scrupolo alcuno d’asserire, che assolutamente non amano alcuno; ed eccone la ragione. Quasi tutti gli uomini sono pazzi, anzi, direi, non v’ha niuno che non faccia le sue pazzie, e per questo riguardo dunque tutti si rassomigliano; ora la rassomiglianza è appunto il principale fondamento di ogni stretta amicizia.
Se talvolta fra questi austeri filosofi nasce una reciproca benevolenza, questa certamente non è sincera e durevole. Costoro sono di umore volubile ed intrattabile, e sono per altro troppo penetranti: hanno occhi di lince per iscoprire i difetti degli amici, e di talpa per vedere i propri, e quelli che si hanno nella bisaccia a tergo. Essendo dunque gli uomini soggetti a moltissime imperfezioni; e a queste aggiungendosi la differenza dell’età, e delle inclinazioni, tanti mancamenti, tanti passi falsi, tante vicende della vita umana; come mal potrebbe sussistere fra questi Arghi il legame dell’amicizia per un solo istante, se l’evithia come la chiamano i Greci, che in italiano equivale a stolidezza o connivenza, non venisse a sostenerlo? Servitevi dell’amore per giudicare dell’amicizia, essendo presso a poco la stessa cosa. Cupido, quest’autore, questo padre di ogni tenerezza, non porta forse una benda sugli occhi, che gli fa confondere il bello col brutto? Non è egli forse, che fa comparir bello il suo a ciascuno, onde il vecchio è tanto innamorato della sua vecchia, quanto il giovane della sua donzella? Queste cose si vedono dappertutto, e dappertutto si deridono; ma sono appunto queste cose ridicole che formano il nodo principale della società, e che più di tutto contribuiscono alla giocondità della vita.
Quel che abbiamo detto dell’amicizia, pensiamolo, e diciamolo pure con maggior ragione del matrimonio. Egli è (come voi forse pur troppo saprete) un nodo, che non può sciogliersi se non dalla morte. Eterni Dei! Quanti divorzj non seguirebbero, fors’anche cose assai peggiori del divorzio, se l’unione dell’uomo colla donna non fosse sostenuta, non fosse alimentata dall’adulazione, dalle lusinghe, dalla compiacenza, dalla voluttà, dalle fallacie, dalla simulazione, tutte mie seguaci e mie ausiliarie? Ah quanti pochi matrimonj si farebbero, se lo sposo prudentemente investigasse la vita e i miracoli della futura sua metà, che al vederla sembra il ritratto della riserbatezza, della pudicizia e della semplicità! Minori ancora sarebbero i matrimonj che durerebbero, se i mariti per interesse, per compiacenza, o per balordaggine non ignorassero la vita segreta delle loro spose. Questo suol trattarsi di pazzia, e ben a ragione; ma è appunto questa pazzia, che alla moglie rende gradito lo sposo, e allo sposo la moglie; che mantiene la domestica pace, e l’unione del parentado. Si fanno le fusa torte ad un marito? Dappertutto si ride, e chiamasi becco; e il buon uomo intanto sta tutto intento a consolare la sua cara metà, e ad asciugare co’ suoi teneri baci le simulate lagrime dell’adultera sposa. Ma non è egli assai meglio ingannarsi in tal maniera, che rodersi dalla bile, strepitare, metter tutto sossopra, inferocire, abbandonandosi all’inutile e funesta gelosia? Insomma nessuna società, nessuna unione esister potrebbe nella vita, che fosse grata e durevole, senza il mio intervento: cosicchè nè il popolo potrebbe a lungo sopportare il suo principe, nè il padrone il suo servo, nè la signora la sua domestica, nè il maestro lo scolaro, nè l’amico l’amico, nè il marito la moglie, nè l’ospite il forestiero, nè il locatore il conduttore, ecc., se a vicenda non l’ingannassero, non s’adulassero, non fossero prudentemente conniventi, e se il tutto non condissero con qualche granellino di pazzia. Non dubito punto, che quanto finora vi ho detto, tutto non vi sia sembrato di somma importanza. E che! dubita forse di qualche cosa la Pazzia? Ma ben altre cose voi dovete vedere da me; raddoppiatemi pertanto la cortese vostr’attenzione.
Ditemi in cortesia; un uomo, che odia sè stesso, potrà mai amare qualcuno? Un uomo, che discorde è in sè medesimo, potrà mai convenire con un altro? Sarà opportuno ad inspirare la gioia agli altri, chi è di peso e di molestia a sè stesso? Non ci vuole che uno più pazzo ancora della stessa pazzia per sostenere l’affermativa di tale opinione. Ora se voi mi escludete dalla società, non solo l’uomo diverrà insoffribile all’uomo; ma di più, ogni qualvolta rientrasse in sè stesso, non potrebbe a meno di provar dispiacere dell’esser suo, e di trovarsi agli occhi propri immondo e deforme, e per conseguenza di odiar sè medesimo. La natura, che in moltissime cose è più matrigna che madre, ha scolpita negli uomini, e principalmente ne’ più sensati, una fatale inclinazione, per cui ognuno è malcontento di ciò che ha ed ammira, e brama quello che non possiede; dal che nasce, che tutti i beni, tutti i piaceri, tutte le bellezze della vita si corrompono, e si riducono al nulla. A che giova un volto avvenente, il quale è il più bel dono, che far possono gli Dei immortali, qualora da qualche cattivo odore sia contaminato? A che la giovinezza, se vien corrotta dal veleno d’una senile ipocondria? Come mai finalmente potrete agire in tutti i doveri della vita, tanto rispetto agli altri, quanto a voi medesimi; come mai, dico, potrete agire con decoro (poichè l’agire con decoro forma non solo la base principale d’ogni azione ma di ciascun’arte) se non venite aiutati da questa Filautia che mi vedete alla destra, e che meritamente mi fa le veci di sorella, tanto vivamente prende in ogni incontro le mie parti? Vivendo sotto la sua protezione, voi restate incantati dell’eccellenza del vostro merito, e siete innamorati delle vostre esimie qualità, onde venite ad ottener il vantaggio di giugnere al grado supremo di pazzia. Ve lo ripeto ancora, se dispiacete a voi medesimi, persuadetevi pure che nulla far potrete di bello, di grazioso, di decoroso. Tolta quest’anima della vita, tosto langue l’oratore nella sua declamazione, fa pietà il musico co’ suoi tuoni e colle sue cadenze, verrà fischiato il comico nella sua azione, faranno ridere il poeta e le sue muse, il miglior pittore altro non s’acquisterà che critica e disprezzo, morirà di fame il medico con tutte le sue ricette; finalmente di Nireo si compare Tersite19, di Faone Nestore, di Minerva una scrofa, di facondo un bambolo, di civile un villano: tanto è necessario che ciascuno lusinghi ed aduli se stesso, e faccia in sè medesimo una buona scorta d’approvazione, prima d’ambire quella degli altri. In fine la felicità consiste principalmente nel voler essere ciò che si è; ora non v’è che il divino amor proprio, che possa concedere un tanto bene. In virtù dell’amor proprio, ognuno è contento della sua figura, del suo talento, della sua famiglia, del suo impiego, del suo genere di vita, del suo paese; cosicchè nè l’Irlandese vorrebbe cambiarsi coll’Italiano, nè il Trace coll’Ateniese, nè lo Scita coll’abitatore delle isole Fortunate. Oh stupenda provvidenza della natura! In mezzo ad una infinita varietà di cose ella seppe metter tutto alla stessa stregua. Se avara si è mostrata de’ suoi doni verso i suoi figliuoli, è stata invece loro altrettanto più prodiga d’amor proprio; che dico de’ suoi doni? Questo è un parlar da stolto, poichè l’amor di sè stesso non è egli il massimo di tutti i beni?
Ma per mostrarvi, che quanto esiste fra gli uomini di celebre, di stupendo, di glorioso, tutto è opera mia, voglio incominciar dalla guerra. Non può negarsi, che questa grand’arte non sia la sorgente e la messe delle più strepitose azioni. Con tutto ciò che cosa potrebbesi immaginare di più stolto della guerra? Due armate si battono (Dio sa per qual ragione) e l’una e l’altra sentono assai più danno che vantaggio della loro animosità. Chi perisce nella guerra qual Megarese20, si conta per nulla. Inoltre, ditemi un poco, qual servigio potrebbero prestare i savj, allorchè gli eserciti sono schierati in ordine di battaglia, e l’aria risuona del rauco squillo delle trombe, e dello strepito de’ tamburi, mentre sfiniti dallo studio e dalla meditazione traggono a stento una vita resa inferma dal poco sangue sottile e freddo che loro circola nelle vene?21. Vi vogliono degli uomini ben tarchiati e materiali, robusti ed audaci, ma di pochissimo talento; sì, vi vogliono appunto di siffatte macchine pel mestiere dell’armi. Chi avrà potuto trattenere le risa alla vista di Demostene vestito alla militare, allorchè seguendo il savio consiglio d’Archiloco22, appena vide il nemico, gettò lo scudo e si pose a fuggire a tutta possa; poco curandosi di mostrarsi con ciò tanto vile soldato, quanto era eccellente oratore?
Voi mi direte, che la guerra esige una somma prudenza: ve lo concedo, ma nei generali, e poi anche questa non è che una prudenza particolare, risguardante il mestiere dell’armi, e che non ha nessuna relazione colla sapienza filosofica. Quindi i parassiti, i lenoni, i ladri, i sicarj, i villani, gli stupidi, i falliti e in generale tutta la feccia del volgo può aspirare all’immortalità della guerra assai meglio di quegli uomini che vivono giorno e notte assorti nella contemplazione. Volete un grand’esempio dell’inutilità di questi filosofi? Prendete l’incomparabil Socrate, dichiarato dall’oracolo d’Apolline il solo, l’unico sapiente. Stoltissima dichiarazione! Non importa. Questo filosofo, avendo intrapresa non so qual cosa a pubblico vantaggio, dovette intralasciarla in mezzo alle risa universali. Pure quest’uomo non era del tutto pazzo, avendo costantemente ricusato il titolo di savio, e rispondendo che un simil titolo era solo conveniente alla Divinità. Era pure di sentimento, che chiunque desiderasse di passare per savio, dovesse astenersi al tutto dal reggimento della repubblica; ma se avesse soggiunto che colui, il quale brama d’esser tenuto in conto d’uomo, deve astenersi da tutto ciò, che chiamasi saviezza, allora avrei concepita di lui qualche stima. Ma finalmente, perchè è stato questo grand’uomo accusato ai magistrati? Perchè fu egli condannato a bere la cicuta? Non è stata forse la sua sapienza la causa di tutti i suoi mali, e finalmente della sua morte? Mentre questo filosofo passa tutta la sua vita a ragionare intorno alle nubi ed alle idee; mentre si occupa a misurare il piede d’una pulce, e si perde ad ammirare il ronzio della zanzara, trascura lo studio e la cognizione degli uomini, e l’arte sommamente necessaria di conformarsi a loro. Eccovi in questo ritratto anche quello di molti de’ nostri. Platone, il quale era stato discepolo di Socrate, vedendo minacciato dell’ultimo supplizio il suo maestro, s’impegna a trattare la sua causa da valente difensore; apre la bocca pur adempiere sì buon uffizio; ma spaventato dal rumore dell’adunanza, si confonde alla metà del primo periodo. Che dirò di Teofrasto, discepolo di Aristotele, che meritossi un tal nome colla sua eloquenza? Volendo parlare al popolo non trova più la sua voce, talchè sarebbesi detto «che avesse veduto il lupo». Dimando io se questi uomini sarebbero stati eccellenti per incoraggiare il soldato? Isocrate, che sapea comporre tante bellissime orazioni, ardì egli mai di parlare al pubblico? Lo stesso Cicerone, padre della romana eloquenza, solea tremare, e balbettare come un fanciullo sul principio delle sue orazioni. È vero che Fabio interpreta questa timidezza come il carattere distintivo d’un oratore penetrante, e che conosce il periglio a cui si trova esposto; ma col dir questo non viene forse a confessare, che la filosofia non è assolutamente compatibile coi pubblici affari? Come mai questi sapienti potrebbero sostenere il ferro e il fuoco della guerra, se muoiono di paura quando pur non trattasi di combattere che colla sola lingua?
E dopo tutto quanto abbiam detto, sarà possibile di decantare ancora quella celebre massima di Platone, la quale afferma: «Che le repubbliche sarebbero felici, se le reggessero i filosofi, o se i principi filosofassero?» Ho l’onore di dirvi che la cosa è tutto all’opposto. Se consultate gli storici, ritroverete senza dubbio, che principi alla repubblica più perniciosi furono quelli, che amarono le lettere e la filosofia. Parmi che i due Catoni siano una prova sufficente di quanto asserisco; l’uno turbò la tranquillità di Roma con moltissime stolte delazioni, e l’altro per voler difendere con soverchia saviezza gli interessi della repubblica, distrusse da’ fondamenti la libertà del popolo romano. A questi aggiungete i Bruti, i Cassj, i Gracchi, ed anche lo stesso Cicerone, il quale non arrecò minor danno alla repubblica romana, che Demostene a quella d’Atene. Voglio accordare che Marc’Aurelio sia stato buon principe; benchè vi siati pure de’ grand’indizj in contrario, poichè per esser appunto troppo filosofo divenne molesto ed odioso ai cittadini ma accordando tuttavia ch’ei fosse buono, fu però senza contraddizione più micidiale all’impero coll’avergli lasciato il suo figlio Commodo per successore, che non gli ha giovato colla sua amministrazione. Questi uomini, che si consacrano allo studio della sapienza sogliono essere ordinariamente infelicissimi in tutto, e principalmente ne’ loro figliuoli. Credesi che questo provenga da una precauzione della natura, la quale cerca d’impedire con tal mezzo, che la peste della sapienza troppo si diffonda presso i mortali. Degenerò il figlio di Cicerone, e il saggio Socrate ebbe dei figli, che più alla madre rassomigliavano che al padre, vale a dire, come è stato felicemente interpretato da taluno, erano stolti.
Sarebbe ancora un nulla se questi filosofi fossero incapaci soltanto delle cariche e dei pubblici impieghi; il peggio si è, che non son punto migliori per le funzioni, e pei doveri della vita. Invitate un saggio ad un convito, o egli serverà un profondo silenzio, o interromperà la compagnia colle sue frivole ed importune quistioni; prendetelo per danzare ei danzerà coll’agilità d’un cammello; conducetelo ai pubblici spettacoli; il solo suo aspetto impedirà il divertimento del popolo, e questo saggio Catone23 ricusando ostinatamente di deporre la sua imponente gravità, sarà costretto a partirsene. Entra il saggio in qualche lieta conversazione? Tosto si tace ognuno, come si fosse fatto vedere il lupo. Si tratta di comperare, di vendere, di conchiudere un contratto, di fare insomma una di quelle cose, che accadono quasi quotidianamente ad ognuno? Voi prendereste questo sapiente piuttosto per una statua, che per un uomo, tanto si mostra in ogni faccenda impacciato. Così il filosofo non è buono nè per sè, nè pel suo paese, nè pei suoi. Mostrandosi sempre nuovo nel mondo, ed in opposizione alle opinioni ed ai costumi dell’università de’ cittadini, egli si attira con questa differenza di sentimenti e di maniere l’odio di tutti.
Tutto quanto si fa dagli uomini è pieno di pazzia; sono pazzi che agiscono con pazzi; pertanto se una sola testa pretende di por argine al torrente della moltitudine, non mi resta a darle che un solo consiglio, ed è che, ad esempio di Timone, si ritiri in un deserto; ed ivi godasi a suo bell’agio i frutti della sua sapienza.
Ma per ritornare al mio assunto, ditemi un poco; qual virtù, qual potenza ha riuniti nel ricinto d’una città gli uomini naturalmente rozzi, indomiti e selvaggi? Chi mai ha potuto ammansare questi animali feroci? È stata l’adulazione. In questo senso dee intendersi la favola d’Anfione e la cetra d’Orfeo. Chi mai ha pacificata, ha riunita la plebe romana, allorchè minacciava venire agli estremi partiti? È stata forse una filosofica orazione? No per certo; ma è stato un ridicolo, un puerile apologo delle membra ribellatesi contro lo stomaco. Temistocle produsse lo stesso effetto col suo apologo della volpe e del riccio. Impieghi pure il sapiente i più sodi ragionamenti della filosofia; non vi riuscirà mai come un Sertorio colla favolosa sua cerva, o colla sua piacevole astuzia delle code dei due cavalli. Non otterrà giammai il suo intento, come l’ottennero i due cani del celebre legislatore di Sparti. Non parlo di Minosse, nè di Numa, i quali per via di favolose invenzioni seppero trar profitto dalla popolare ignoranza. Sempre con simili puerilità, si fa muovere quella grande e grossa bestia, che chiamasi popolo.
Ditemi un poco se vi fu una sola città, che abbia adottate le leggi di Platone e d’Aristotele, e le massime di Socrate? Rispondetemi un poco: qual motivo indusse i Decj padre e figlio a consecrarsi agli Dei infernali? Qual prestigio trasse Curzio a precipitarsi nella voragine? Tutto fu opera della gloria, di questa dolcissima Sirena, che per altro vien condannata sommamente dai nostri savj. Imperocchè esclamano costoro: E qual follia può darsi mai maggiore di quella di un candidato, che accarezza supplichevole il volgo per salire agli onori, e che compera il suo favore a forza di liberalità; o di colui che accetta con viltà, ed umiliazione gli applausi de’ mentecatti? di colui che si compiace delle popolari acclamazioni? di colui che lasciasi portare in trionfo come una statua per essere dal popolo osservato, oppure che stassi effigiato in bronzo nel Foro? Aggiungete a tutte queste pazzie anche quella delle adozioni dei nomi e dei cognomi; aggiungete quegli onori divini che si prestano ad un uomo di nessun merito; aggiungete finalmente quelle pubbliche cerimonie che si fanno per collocare nel numero degli Dei anche i più scellerati tiranni. Non v’è cosa più stolta di questa; e chi mai lo nega? Anzi un sol Democrito non basterebbe a riderne sufficentemente. Ma non è forse egualmente vero, che la Pazzia è stata la sorgente di tutte quelle famose imprese de’ prodi eroi, che tanti eloquenti letterati innalzarono fino alle stelle? Questa Pazzia è quella che forma le città; per essa sussistono i governi, la religione, i consigli, i tribunali, e non ho dubbio d’asserire, che la vita umana non è altro che una specie di giuoco della Pazzia. Ma passiamo omai a parlar delle arti. Chi mai spinse gli uomini a inventare, a tramandare ai loro posteri tante opere, per quanto credesi, eccellenti, se non la sete della gloria? Credettero questi uomini veramente stoltissimi di non dover risparmiare nè veglie, nè sudori, nè sforzi di fatica per procacciarsi una certa non so quale immortalità, che in ultima analisi non è che una bellissima chimera. Voi pertanto siete debitori alla Pazzia di tanti comodi, che già si sono introdotti nel mondo, e dovete all’altrui stoltezza tutti que’ beni, che voi godete, e che non poco contribuiscono alla felicità della vita.
Or bene; che direte voi, o signori, se dopo avervi provato, che mi si devono le lodi che all’umana fortezza ed industria s’attribuiscono, verrò provandovi che a me appartengono ancora quelle, che la prudenza riscuote? Oh questa sì che veramente è bella! mi risponderà forse taluno. Voi volete combinare il fuoco coll’acqua, imperciocchè la pazzia e la prudenza non sono meno in opposizione che questi due contrari elementi. Nulladuneno confido di riuscirvi, purchè continoviate a prestarmi la cortese vostra attenzione.
Se la prudenza consiste nel giusto uso delle cose, vorrei sapere se merita maggiormente d’essere onorato col titolo di Prudente, o il savio, che per metà modesto e per metà timoroso nulla intraprende; oppure il pazzo, il quale nè dal pudore (perchè non lo conosce), nè dal pericolo (perchè non lo vede) può essere rimosso da qualunque impresa? Il savio s’immerge nello studio degli antichi autori; ma che vantaggio ritrae della continua sua lettura? Pochi concetti spiritosi, alcuni raffinati pensieri, qualche semplice puerilità; ecco tutto il frutto dello sue fatiche. Lo stolto all’incontro, tentando ogni cosa, affrontando tutti i periglj, acquista, se non m’inganno, la vera prudenza. Omero, quantunque cieco, vedeva assai bene queste verità: Lo stolto, egli dice, impara a sue spese, ed apre gli occhi dopo il fatto. Due cose principalmente impediscono all’uomo di ben conoscere quanto gli si presenta da fare; una è la vergogna, che accieca la mente, che agghiaccia il coraggio; l’altra è il timore, che mostrando il pericolo fa preferire l’inazione all’opera. Ora è proprio della Pazzia il togliere di mezzo tutte queste difficoltà. Pochi sono quelli, che conoscano quanto sia necessario per far fortuna il non vergognarsi di nulla e l’arrischiare ogni cosa. Voglio farvi ancora osservare, che colui, il quale preferisce quella prudenza ch’è fondata sul giudizio delle cose, egli è ben lontano dal possedere la vera prudenza.
Tutte le cose umane hanno due aspetti a guisa dei Sileni d’Alcibiade i quali avevano due volti del tutto opposti; perciò tante volte quello, che a prima vista sembra morte, osservato attentamente è vita; all’incontro quel che par vita, osservato attentamente è morte; quel che sembra bello è deforme, quel che par ricco è povero, quel che sembra infame è glorioso, quel che par dotto è ignorante, quel che sembra robusto è debole, quel che par nobile è ignobile, quel che par lieto è triste, quel che sembra favorevole è contrario, quel che par amico è nemico, quel che sembra salubre è nocivo; in una parola se si apre il Sileno in un momento si cambia la scena. Vi sembra forse ch’io vi parli troppo filosoficamente? Ebbene, mi spiegherò con maggior chiarezza.
Voi tutti siete persuasi, che un re sia molto ricco, e che sia il padrone de’ suoi sudditi; ma s’egli ha in petto un cuor brutale, se è insaziabile nelle sue brame, se non è mai contento di ciò che possiede, non mi accorderete voi che sia miserabilissimo? Se si lascia trasportare da’ suoi vizj e dalle sue passioni, non divien'egli uno schiavo de’ più vili? Potrebbesi ragionare nello stesso modo su tutte le altre cose; ma basti quest’esempio. E a quale oggetto, voi mi risponderete, ci dite questo? Abbiate un po’ di pazienza, e vedrete ove vado a colpire. Se avvicinandosi qualcuno ad un comico mascherato, mentre eseguisce la sua parte, tentasse di strappargli la maschera per iscoprire il suo volto agli spettatori, non isconvolgerebbe costui tutta la scena? Non meriterebbe costui d’essere scacciato a sassate come un goffo e un petulante? imperocchè questi comici smascherati farebbero immediatamente una nuova figura, si vedrebbe che la donna era un uomo, che il giovane era un vecchio, che il re era un meschino, che il Dio era un uomo da nulla: ma il voler togliere l’illusione è uno sconvolgere tutta la scena, essendo appunto trattenuti gli occhi degli spettatori da questo cambiamento d’abiti e d’aspetto. Veniamo all’applicazione; che cos’è mai la vita umana? Una vera commedia. Ciascuno vi rappresenta un diverso personaggio; ciascuno eseguisce la sua parte sempre mascherato, finattantochè il capo de’ commedianti non lo fa discender dal palco. Questi tante volte fa comparire il medesimo attore sotto varie figure; colui che sedeva sul trono superbamente vestito compare poco dopo in figura di schiavo avvolto in miserabili cenci. Per dire il vero, tutto in questo mondo non è che un’ombra ed un’apparenza, ma questa grande e lunga commedia non può venir diversamente rappresentata.
Proseguiamo: se qualche sapiente caduto dal cielo comparisse fra noi, e si mettesse a gridare: «No; colui che venerate come vostro Dio e Signore non è nemmeno un uomo, non è che una bestia strascinata dall’impulso dell’istinto ed uno schiavo dei più abbietti, poichè serve a tanti vili tiranni, quante sono le sue passioni». Se questo sapiente rivolgendosi ad uno che piange la morte di suo padre, lo esortasse a ridere, dicendogli che questa vita non è propriamente che una continua morte, e che per conseguenza suo padre non ha fatto che cessar di morire; se sdegnandosi con qualcuno di quegli sciocchi vanagloriosi della loro genealogia, lo trattasse da ignobile e da bastardo per essersi allontanato totalmente dalla virtù, la quale è la sola, e l’unica sorgente della vera nobiltà: e se in tal maniera il nostro filosofo andasse parlando di tutte le altre cose umane, dimando io qual frutto ricaverebbe delle sue declamazioni? Ei passerebbe senza fallo presso tutti per un matto, e un furioso. Credetemi pure, che siccome non v’è stolidezza più grande di quella di voler esser saggio fuor di tempo, così nessuna cosa è più ridicola ed imprudente d’una prudenza mal intesa e inopportuna. Per verità noi c’inganniamo a gran partito, quando vogliamo distinguerci dall’universale, e ricusiamo di adattarci ai tempi. Mai non dovrebbesi obbliare quella legge, che i Greci aveano stabilita ne’ loro conviti: Bevete o andatevene; altrimenti è un pretendere che la commedia non sia più commedia. Inoltre avendovi la natura fatto uomo, la vera prudenza esige, che non v’innalziate sopra l’umana condizione. In poche parole, una di queste due: o dissimulare volentieri co’ suoi simili, o correre buonamente pericolo d’ingannarsi con loro. E non è questa, dicono i savj, un’altra specie di pazzia? Chi mai lo nega! Ma mi concedano poi anch’essi, che questa è l’unica maniera di rappresentare il suo personaggio nella Commedia del mondo.
Del resto.... Dei immortali? Parlerò io? Tacerò? E perchè mai tacermi, se quanto dir voglio è più vero della stessa verità? Ma gioverammi però in cosa di tanta importanza il volgermi alle Muse, e pregarle che vogliano compiacersi di venire a me dal loro Elicona per aiutarmi, tanto più se i poeti hanno l’indiscrezione di farnele spesso discendere per mere frivolezze? Venite adunque per un istante, o figlie di Giove, poiché voglio provare che questa saviezza cotanto vantata, e che con enfasi chiamasi la Rocca della felicità, non è accessibile ad alcuno, se non vi è guidato dalla Pazzia.
Sostengo prima di tutto, che in generale le passioni sono regolate dalla Pazzia. Infatti, che cosa distingue il savio dal pazzo? Non è forse che il pazzo vien guidato in ogni cosa dalle sue passioni, e il savio dalla ragione? Egli è per questo che gli stoici allontanano dal savio ogni qualunque perturbazione d’animo considerandola come un vero male. Per altro, se dobbiamo prestar fede ai Peripatetici, le passioni fanno le veci di pedagoghi a coloro, che s’incamminano al porto della sapienza: inoltre, le passioni sono come tanti stimoli ed eccitamenti, per soddisfare ai doveri della vita e per operare virtuosamente. Egli è vero che Seneca, due volte stoico, spoglia il suo savio da ogni sorta di passione. Oh il bel capo lavoro che ne ha fatto! Questo savio certamente non è più un uomo, ma sibbene un qualche Dio, che non è mai esistito, e che non è per esistere giammai. Parliamo più chiaro; ha fatto una fredda statua di marmo, priva del tutto d’ogni senso umano.
Sia permesso a questi signori stoici di godersi, e d’amare senza contrasto il loro savio; e di passare con lui tutta la vita o nella città di Platone, o se stimano meglio nella region delle idee, oppure ne’ giardini di Tantalo. Che specie d’uomo è mai uno stoico! Chi mai può trattenersi dal fuggirlo come un mostro, e dall’averlo in orrore come uno spettro? Ma eccovi il naturale ritratto d’uno stoico: egli è sordo alla voce de’ sensi, non sente alcuna passione, l’amore e la pietà non fanno alcuna impressione nel suo cuore duro al pari d’un diamante, nulla gli sfugge, mai non si perita, la sua vista è da Lince, tutto pesa colla massima esattezza, non perdona cosa alcuna; trova in sè stesso tutta la sua felicità, si crede il solo ricco della terra, il solo savio, il solo re, il solo libero; in una parola si crede ei solo il tutto; ed il più bello si è, ch'egli è il solo a credersi tale. Aver degli amici? Questo è l’ultimo de’ suoi pensieri; perciò non ne ha nessuno. Senza scrupolo alcuno insulta perfino gli Dei, e condanna come una vera pazzia tutto quanto si fa nel mondo, mettendo in ridicolo ogni cosa. Vedete il bel quadro di quest’animale, che ci viene proposto come un compiuto modello di saviezza. Ditemi in grazia, se la cosa potesse decidersi coi suffragj, qual città vorrebbe un simile magistrato? Quale esercito bramerebbe un tal generale? Chi lo inviterebbe alla sua mensa? Anzi son persuasa, che non troverebbe neppure nè una moglie, nè un servo che lo volesse o lo potesse sopportare. E chi all'incontro non preferirebbe un uomo qualunque, tolto dalla massa degli uomini stoltissimi, il quale, sebbene stolto, sapesse però comandare o ubbidire agli stolti, e farsi amare da tutti; e che fosse sopra tutto compiacente colla moglie, buono co’ figli, lepido alle mense, socievole con tutti quelli, coi quali convive: finalmente che non si credesse straniero a tutto ciò che appartiene all’umanità? Ma già per dire il vero sento ribrezzo a parlare di tal sorta di savj. Per la qual cosa passerò a discorrere degli altri beni della vita.
Qualora si riflettesse attentamente al genere umano; qualora si osservassero come da un’alta torre (in quella guisa appunto che suol far Giove giusta i racconti de’ poeti) tutte le calamità, alle quali è soggetta la vita de’ mortali, non potremmo a meno di restarne vivamente commossi. Buon Dio! E che mai è la vita umana? Quanto misera, quanto sordida è la nascita! Quanto penosa è l’educazione! A quanti mali è esposta la fanciullezza! Quanti sudori deve spargere la gioventù! Quanto grave è la vecchiaia! Quanto dura è la necessità della morte! Scorriamo una volta ancora questa deplorabile carriera. Qual orribile e varia moltiplicità di mali! Quanti disastri, quanti incomodi s’incontrano nella vita! Finalmente, non v’ha piacere che non sia amareggiato da molto fiele. Chi potrebbe soltanto descrivere l’infinita serie de' mali, che l’uomo cagiona all’uomo, come sarebbero la povertà, la prigionia, l’infamia, la vergogna, i tormenti, le invidie, i tradimenti, gli oltraggi, le liti, le frodi, ecc.? Non saprei dirvi per qual delitto siasi l’uomo meritato tanta copia di mali, o qual Nume sdegnato l'abbia costretto a nascere in una così orribil valle di miserie. Di che chiunque abbia esaminata a fondo la miserabilissima condizione del genere umano, non potrà certo disapprovare l'esempio delle Vergini di Mileto, quantunque sia un esempio degno di tutta la compassione 24.
Chi sono i più celebri fra coloro, che tediati della vita, si diedero spontaneamente la morte? Non sono forse i più prossimi amici della sapienza? Per passare sotto silenzio Diogene, Senocrate, Catone, Cassio, Bruto, sovvengavi di quel famoso Chirone 25, che preferì la morte all'offertagli immortalità. Io ben m’accorgo, che facilmente da questo comprenderete quanto poco sarebbe per durare il mondo, se la sapienza fosse comune tra i mortali; anzi m’è avviso che in breve farebbe bisogno una nuova creta, e un nuovo Prometeo. Io però son quella che provvedo anche in questa parte, mantenendogli uomini nella ignoranza, nella sconsideratezza, nella dimenticanza de’ mali passati, e nella speranza d’un miglior avvenire; e così mescolandole mie dolcezze con quelle della voluttà raddolcisco il rigore del loro destino. Non solo quasi tutti gli uomini amano di vivere, ma perfino quelli il cui filo sta per essere dalla Parca reciso: quelli, che sono per lasciare la vita dopo un buon numero d’anni, non mostrano certamente alcuna premura di passare tra i morti. Quanto più gli uomini hanno motivo di esser mal contenti del vivere, tanto meno s’annoiano della vita, e con ciò fanno ben vedere di non trovar troppo lunghi i loro giorni. Sono un effetto della mia bontà que’ vecchi, che vedete giunti a Nestorea decrepitezza, ai quali omai nulla più d’uomo rimane fuorchè la figura; imperocchè sono balbuzienti, deliranti, sdentati, canuti, calvi; o per meglio descriverli colle parole di Aristofane, sono rugosi, curvi, senza il minimo avanzo di virilità, e ciò non ostante amano con trasporto la vita. Nè si limitano questi vecchioni insensati al sola piacere dell’esistenza; ma si studiano eziandio d’imitare per quanto ponno la gioventù: l’uno annerisce i suoi bianchi capelli, l’altro nasconde sotto una parrucca la calva testa: quello si rimette dei denti tolti in prestito da qualche porco; costui si innamora alla follia d’una giovane, e fa per essa di quelle pazzie, che si vergognerebbe di fare un giovinetto. Siamo così soliti a vedere un uomo tutto curvo sotto il peso degli anni, e che ormai più non vede che la terra, in cui è per discendere; a vederlo dico, sposare una giovinetta senza dote, e sposarla certamente più per l’altrui, che pel proprio servizio, che se ne fa quasi un argomento di lode. Ma eccovi un quadro ancor più ameno, e sono quelle vecchie innamorate, que’ cadaveri semivivi, che sembrano ritornati dall’Erebo, e che puzzano di carogna, le quali sentonsi ardere ancora il cuore. Lascive come una cagna in amore non respirano che una sozza sensualità, e vi dicono sfrontatamente, che senza voluttà la vita è un nulla. Queste vecchie capre vanno ancora in amore, e quando trovano qualche Faone, sogliono vincere con generosi doni la sua ripugnanza. Allora più che mai si studiano di pingersi il volto, mai non si scostano dallo specchio, si strappano la canuta barba, fanno pompa di due flosce e grinzose mammelle, cantano con una voce fioca e vacillante per risvegliare la languida concupiscenza, bevono a gara, si frammischiano alle danze delle fanciulle, scrivono lettere amorose; ed ecco i mezzi che queste volpacce impiegano per mantenere in lena i prezzolati loro campioni. Intanto tutto il mondo esclama ridendo: Oh le vecchie pazze! Oh le vecchie pazze! Ma se il mondo ha ragione, elleno si ridono di lui, ed immerse nei piaceri, approfittano di quella felicità, che ad esse procuro. Vorrei che questi censori indiscreti mi sapessero dire, se ella è cosa più stolta vivere nel contento e nella gioia, oppure disperarsi senza ritegno, ed appendersi ad un capestro? Ma essi mi risponderanno, che una vera infamia è la vita di questi vecchi e di queste vecchie; io non lo niego, ma che importa ai miei pazzi? O sono essi del tutto insensibili al disonore, o pure se lo sentono, ne soffocano facilmente i rimorsi. I miei buoni e fedeli sudditi hanno la loro filosofia particolare, la quale fa ad essi benissimo distinguere i mali immaginari, dai mali reali. Vi cade un sasso sulla testa? Oh questo sì, che veramente è un male! Ma la vergogna, l’infamia, i rimproveri, le maledizioni non ci fanno altro male che quello, che noi vogliamo sentire; dal momento che voi non ve ne curate, cessano d’essere un male. Che male vi ponno fare le mormorazioni anche di tutto il mondo, se dentro di voi stessi sicuri vi applaudite? Ora quella sola io sono, che ha la virtù di sublimare gli uomini a quest’alto grado di perfezione, ed è questo il maggiore dei miei favori. Ma parmi qui di udire alcuni filosofi, i quali mi dicano, che una delle più grandi miserie ad un uomo è goffamente l’esser preso dalla follìa, e di vivere nell’errore, nell’illusione e nella ignoranza. Oh quanto s’ingannano! Anzi io rispondo loro, che in questo appunto consiste l’esser uomo. Vi confesso che non so capire, come mai possano trattare da miserabili i miei stolti; mentre la pazzia è il solo retaggio universale dell’umanità, e tutti i mortali sono nati, sono educati, e sono conformati per essa.
Sembrami cosa ben ridicola il compiangere un essere, perchè trovasi nel suo stato naturale. Credereste deplorabile un uomo, perchè non ha l’ale da volare come gli uccelli, o perchè non ha quattro piedi come i quadrupedi, o la fronte armata di corna come il toro? Compiangereste la sorte d’un bel cavallo, perchè non ha imparata la gramatica, o perchè non mangia focacce? Deplorereste un toro, perchè non è addestrato nella palestra? Dunque siccome un cavallo non è infelice perchè ignora la gramatica, così non lo è un pazzo, per essere la pazzia naturale all’uomo. Ma i sottili disputatori miei antagonisti mi vanno incalzando con nuovi cavilli. Il solo uomo, dicono essi, è quello fra tutti gli animali, che gode il privilegio di imparare le arti e le scienze, per supplire colle sue cognizioni al difetto della natura; come se abbia apparenza di verità, che la natura, si provvida e vigilante nella zanzara, e perfino nelle erbe e ne’ fiorellini del campo, siasi poi addormentata pel solo uomo, trascurando di fornirlo di tutto ciò che fosse a lui necessario? Ah non può darsi! Quelle scienze, quelle arti, che voi tanto decantate, no, non sono l’opera della natura; fu un certo genio, chiamato Teuto26, grande nemico del genere umano, che per somma disavventura degli uomini le ha inventate: imperocchè non che le scienze conferiscano a quella felicità, per cui si pretende che siano state ritrovate; sono anzi estremamente nocive. Era veramente di buon naso quel re saggio e prudente27 che con tanta finezza, secondo Platone, biasimava l’invenzione dell’alfabeto.
Diciamo pure francamente, che il sapere e l’industria si sono intruse nel mondo come tutte le altre pesti della vita umana, e che sono state inventate da quegli spiriti medesimi, che furono gli autori di tutti i mali, voglio dire dai demonj, i quali trassero perfino dalla scienza il loro nome 28. Nulla di questo conoscevasi nel secol d’oro, e gli uomini allora senza metodo, senza regola, senza istruzione, viveano felici, guidati dalla natura e dal proprio istinto. In fatti, a che avrebbe servito in que’ tempi la grammatica? Non eravi che un linguaggio, ed anche questo parlavasi unicamente per farsi intendere. Non facea bisogno la logica; poichè avendo tutti gli stessi principj, la diversità delle opinioni non produceva alcuna disputa. Non conoscevasi la rettorica in quell’età pacifica, in cui non facevansi nè processi, nè liti, nè orazioni. Erano allora inutili i legislatori, perchè, regnando i buoni costumi, non abbisognavano leggi. Erano inoltre religiosissimi que’ felici mortali, onde non ardivano di scrutinare con un’empia curiosità i segreti della natura; e persuasi che non è lecito a un piccolo insetto come l’uomo d’oltrepassare gli angusti confini della sua capacità, non si lambiccavano il cervello per investigare le dimensioni, i moti, gli effetti, le cause occulte degli astri. Non cadeva ad essi tampoco in mente la smania di voler sapere anche quello che trovasi al di là de’ cieli.
Ma scomparendo a poco a poco l’innocenza del secolo d’oro, tosto dai cattivi genj, come già dissi, furono le arti ritrovate; ma in piccol numero, e da pochissimi esercitate. In appresso la superstizione de’ Caldei e l’oziosa leggerezza de’ Greci ne produssero mille altre, tutte opportune, tutte eccellenti per tormentare lo spirito. La sola grammatica è più che sufficiente a straziarci per tutto il tempo della nostra vita. Fra tutte queste arti sono tenute in maggior pregio quelle che più s’accostano al buon senso, cioè alla pazzia. Ma qual vantaggio procacciano esse a coloro, che ne fanno professione? Muoion di fame i teologi, languiscono i fisici, si deridono gli astrologi, si trascurano i dialettici: non v’ha che il medico, il quale fa più fortuna di tutti gli altri insieme.
Il principale vantaggio della medicina si è, che quanto più colui che la esercita è ignorante, ardito e temerario, tanto maggiormente viene stimato da questi signori laureati. Inoltre, questa professione, come da moltissimi la vediamo al giorno d’oggi esercitata, si riduce ad una specie di adulazione, quasi quasi come l’eloquenza.
Dopo i medici vengono immediatamente i legulei o mozzorecchi: non saprei se questi supposti figli di Temi abbiano la precedenza sui seguaci di Esculapio; basta, se la sbrighino tra di loro. Quello che v’ha di certo si è, che i filosofi, quasi di unanime consenso, mettono in ridicolo i legali, chiamando giustamente questa professione scienza asinesca. Ma siano pur asini fin che vogliono, saranno però sempre costoro gl’interpreti delle leggi, e i regolatori di tutti gli affari. A buon conto questi signori estendono i loro lati-fondi, mentre il povero teologo, dopo aver frugati tutti gli scrigni della Divinità, è costretto a mangiar delle fave, ed a fare un’eterna guerra cogl’insetti più schifosi.
Da tutto quanto abbiam detto intorno alle discipline, si può conchiudere che le arti più vantaggiose siano quelle, che hanno maggior attinenza con la follìa; e per conseguenza sono perfettamente felici quegli uomini, che, non avendo alcun commercio con le scienze speculative e pratiche, non prendono per loro scorta se non la sola natura, la quale non è niente affatto difettosa, e non trae mai a perdizione coloro, che seguono esattamente e fedelmente le sue vestigie, nè amano uscir dei confini dell’umana condizione. La natura è nemica d’ogni artifizio, e noi vediamo crescere più felicemente quelle cose, che non sono d’alcun’arte contaminate.
Permettetemi di continuare un poco sul medesimo argomento. Non è egli vero che tra tante specie d’animali, quelli che vivono più felicemente sono coloro che non hanno alcuna disciplina, e che la sola natura riconoscono per loro maestra? Chi più felice ed ammirabile delle api? E pure esse non hanno tampoco tutti i sensi del corpo. Ciò non ostante che mai l’architettura troverà che le agguagli nel costruir gli edifizj? Qual filosofo ha mai instituita una simile repubblica? All’incontro il cavallo, avvicinandosi maggiormente ai sentimenti dell’uomo, ed essendosi dato in suo potere, viene a partecipare moltissimo delle umane calamità. Accade spesso che questo animale, piuttosto che fuggire dalla battaglia, si slanci nel pericolo, e mentre ambisce la vittoria, un colpo mortale lo stende a terra, e gli fa mordere la polvere insieme al cavaliero. Passo in silenzio i duri morsi, gli acuti sproni, la prigione chiamata stalla, le fruste, i bastoni, le funi, il pesante cavaliere, in una parola tutta quella tragica schiavitù, a cui, ad esempio dell’uomo, si è assoggettato spontaneamente per la soverchia brama di vendicarsi del cervo suo nemico. È ben più desiderabile la vita delle mosche e degli uccelli, i quali nascono liberi, e la natura si prende il pensiero di nudrirli, e sarebbero perfettamente felici e tranquilli, se non avessero a temere le insidie degli uomini. Non potete credere quanto perdono gli uccelli della nativa loro bellezza, quando nelle gabbie, vengono ammaestrati ai nostri canti; tanto è vero, sotto tutti gli aspetti, che le produzioni della natura sorpassano di gran lunga quelle dell’arte.
Quindi non potrei abbastanza lodare Pitagora trasformato in gallo. Questo filosofo, in virtù della metempsicosi, passò per tutti gli stati: filosofo, uomo, donna, re, privato, pesce, cavallo, rana e credo anche spugna. Dopo tutte queste trasmigrazioni dichiarò che l’uomo era il più infelice di tutti gli animali; poichè tutti gli altri sono contenti di restare nei limiti loro prefissi dalla natura, e il solo uomo si sforza di oltrepassarli. Inoltre Pitagora soleva anteporre gli stolti ai savj ed ai grandi. Tale era pure il sentimento di Grillo, uno dei compagni dell’assennato Ulisse, il quale, essendo stato cambiato in porco dalla maga Circe, amava meglio grugnire tranquillo e a suo bell’agio in un porcile, che andare in traccia di nuovi pericoli, e di nuove avventure col suo generale. Parmi egualmente che non dissenta da questa opinione Omero stesso, questo celebre padre della mitologia, poichè generalmente chiama miserabili tutti i mortali, e dice che la morte li circonda da per tutto. Egli non eccettua nè meno Ulisse, quel suo eroe famoso e modello di saviezza, dandogli spesso l’epiteto d’infelice. Non parla però così di Paride, di Aiace e d’Achille, i quali erano pazzi: all’incontro essendochè Ulisse fosse ingegnoso ed astuto, e seguiva i consigli di Minerva, preferendogli ad ogn’altra cosa, e perfino agl’impulsi della natura, perciò Omero compiange l’infelicità di questo re d’Itaca.
Pertanto ritorno sempre al mio assunto, e dico, che coloro i quali s’applicano allo studio della sapienza, sono lontanissimi dalla felicità; sono doppiamente pazzi, perchè, obbliando la loro condizione naturale, e volendo vivere come altrettanti Dei, a guisa di giganti fanno guerra alla natura colle macchine dell’arte. Da tutto ciò io inferisco, che i veri felici sono quelli che s’accostano maggiormente all’indole ed alta stolidezza de’ bruti, e che nulla intraprendono al di sopra delle forze umane.
Su via proviamoci a difendere quest’argomento, non già cogli entimemi degli stoici, ma con qualche esempio palmare. Dei immortali, siatene giudici voi! Chi trovasi mai al mondo che viva più felicemente di coloro, che volgarmente chiamatisi sciocchi, stolti, insensati e bietoloni? Ah i bei nomi per me! Voglio dirvi una cosa, che voi forse a prima vista prenderete per una stravaganza ed una assurdità; ma che importa? Io non voglio però tacervela, tanto più che ella è superiore ad ogni altra verità.
Ditemi un poco, non è vero che quegli uomini, i quali credonsi privi di sentimento, non hanno alcun timore della morte? E questo timore, per Bacco, non è un male indifferente! Di più sono esenti dai fieri rimorsi della coscienza; non paventano nè larve, nè ombre; non sono tormentati dalla perpetua prospettiva de’ mali; non sono lusingati dalla vana speranza di futuri beni: in somma i loro giorni non sono avvelenati da quella infinita serie di cure, a cui è soggetta questa vita. La vergogna, il timore, l’ambizione, l’invidia, l’amore, l’amicizia sono tutte cose a loro straniere; e godono l’incomparabil vantaggio di non esser diversi dalle bestie se non per la figura. Ma questo non basta; secondo l’opinione de’ teologi sono perfino impeccabili. Supposto questo, rientrate una volta in voi stessi, o insensati partigiani della sapienza; ponderate, esaminate attentamente quante afflizioni di spirito vi tormentano giorno e notte, riunite in un sol punto sotto gli occhi vostri tutti i diversi mali della vita, e giudicate finalmente da voi stessi, quanto sia grande la felicità che procaccio a’ miei insensati. Non godono essi soltanto di un continuo piacere ridendo, giocando, cantando; ma sembra inoltre che la gioia, il piacere, lo scherzo, il riso seguano dovunque i loro passi: pare che gli Dei abbiano avuta la bontà di frammischiargli agli uomini per raddolcire la tristezza della vita umana. Vorrei che notaste ancora un privilegio, il quale assaissimo i miei sudditi onora. L’affetto degli uomini è vario rispetto a questi od a quelli; ma per i miei pazzi tutti gli uomini hanno piacere d’averli come se conoscessero che sono di loro appartenenza; si desiderano con trasporto, si abbracciano, si accarezzano, si nudriscono, si soccorrono ne’ loro bisogni, si permette loro finalmente di dire e di fare tutto quel malanno che vogliono. Non solo non trovasi alcuno che ardisca di nuocer loro; ma pare che persino le fiere, come per un naturale sentimento della loro innocenza, raffrenino innanzi ad essi la nativa loro ferocia. Son essi sacri agli Dei, specialmente a me, onde è ben giusto che tutti usino loro questo riguardo.
Che diremo poi di tant’altre prerogative che godono i miei seguaci. I più grandi monarchi ripongono talmente in essi le loro delizie, che molti senza costoro non possono nè pranzare, nè passeggiare, nè soffrono di starsene lontani neppure un’ora. Qual differenza non mettono poi questi tra i loro buffoni e quei sapienti malinconici, di cui talvolta ne mantengono qualcuno per farsi onore? E non è niente affatto nè misteriosa, nè mirabile una tal differenza; poichè questi sapienti non sanno dire ordinariamente se non cose malinconiche; e talvolta, confidando nel loro sapere, si fanno lecito di offendere le dilicate orecchie con pungenti verità. I miei pazzi all’incontro tengono una via totalmente opposta, e osservano coi principi tutti quei modi che sogliono maggiormente aggradire, e li divertono con mille scherzi e buffonerie, con motti satirici, con ismorfie e strambotti da far chiunque smascellar delle risa. Notate di passaggio quel privilegio che godono i buffoni, di poter parlare con tutta la sincerità e schiettezza. Qual cosa più lodevole della verità? Sebbene presso Platone Alcibiade dice: che la verità si trova nel vino e nei fanciulli; pure a me particolarmente tutta si conviene la sua lode: poichè secondo la testimonianza di Euripide, tutto ciò che lo stolto rinchiude nel cuore, lo porta scolpito anche sulla fronte, e lo manifesta colle parole. Ma i savj, giusta lo stesso Euripide, hanno due lingue, l’una per dire ciò che pensano, e l’altra per parlare secondo le circostanze: hanno costoro, quando lo vogliono, il talento di far comparire il nero bianco, e il bianco nero; e soffiano dalla stessa bocca il caldo ed il freddo29: esprimono costoro colle parole tutto l’opposto di ciò che senton nel petto.
Non posso qui dispensarmi dal compiangere la sorte de’ principi: ahi quanto sono infelici! Inaccessibili alla verità, non hanno per amici che adulatori. Ma mi risponderà taluno, che non devono però pigliarsela che con loro stessi. Per qual ragione mai abborriscono i principi di porgere orecchio al vero? Perchè mai detestano la compagnia de’ filosofi? Ah ben sapete che ciò nasce dal timore che hanno i principi d’incontrare fra questi filosofi qualche petulante, il quale ardisca di dire loro piuttosto quel ch’è vero, che quel che piace! Di buon grado accordo che la verità è a tutti odiosa, e molto più ai monarchi; ma questa ragione è appunto quella che fa maggior onore ai miei pazzi. Non dissimulano nemmen questi i vizj e i difetti dei re; che dico io mai? anzi gl’insultano, e gl’ingiuriano talvolta, senza che questi padroni del mondo se n’offendano, o ne provino dispiacere. Noi sappiamo che i principi, invece di sdegnarsi, ridono di tutto cuore, quando uno stolto loro dice di quelle cose, che sarebbero più che bastanti a far appiccare un filosofo. La verità non suol offendere alcuno, quando non lo ferisca: ora gli Dei non hanno concesso che ai soli pazzerelli il bel privilegio di censurare e di moralizzare senza offendere alcuno. Egli è quasi per le stesse ragioni che, le donne amano i matti ed i buffoni; imperciocchè questo sesso è molto inclinato al riso ed alle frivolezze. D’altra parte, qualunque cosa facciano le signorine con questa sorta di persone (e talvolta ne fanno d’ogni sorta), sembra loro un giochetto, od uno scherzo: tanto è ingegnoso e scaltro il bel sesso a colorire e mascherare le sue scappatine.
Per ritornare adunque alla felicità dei pazzi, devo dire, che passano questi tutta la loro vita con molto diletto e che uscendone, senza temere o sentir la morte, volano dritto dritto ai campi elisi, ove le loro pie e sfaccendate animuccie ricominciano a divertirsi meglio di prima. Confrontate adesso la condizione di qualunque siasi savio con quella di uno stolto. Rappresentatevi, figuratevi un uomo venerabile, un vero esempio di saviezza, ed osservate come faccia egli il suo passaggio sulla terra. Costretto fin dall’infanzia a consecrarsi allo studio, passa il fiore de’ suoi anni nelle veglie, nelle cure, nella più assidua fatica: appena è uscito da questa dura schiavitù, si trova ancora più infelice che mai, imperocchè dovendo vivere con economia, nella ristrettezza, nella malinconia, nella severità, diviene crudele e pesante a sè stesso, molesto e insopportabile agli altri. Pallido, magro, infermiccio, cisposo, debole, incanutito, invecchiato anzi tempo, termina una vita infelice con una morte immatura. Ma che importa al savio il morire giovine o vecchio? mentre si può asserire con tutta ragione che non abbia mai vissuto, imperocchè non può dirsi che altri viva quando non gode i piaceri della vita. Ora, che ve ne pare di questo bel ritratto del savio? Vi piace o no?
Già già m’aspetto, che quelle importune ranocchie degli stoici vengano ad assalirmi con nuovi argomenti. E che, diranno essi, un’insigne pazzia non confina forse col furore, anzi non può chiamarsi un vero furore? Ma cosa vuol dire esser furioso? Non è forse aver la mente stravolta? Quanto mi fan pietà questi filosofi! Il più delle volte non sanno quel che si dicono. Su via, se mel concedono le muse, voglio abbattere, voglio distruggere anche questo loro palladio. Non posso negare che questi stoici non siano sottili ragionatori; ma per poco ch’eglino bramino d’esser riputati di buon senno, devono distinguere due sorta di pazzie, in quella guisa che si distinguevano da Socrate presso Platone due Veneri, e due Cupidi, lo dico, che tutte le pazzie non rendono egualmente infelice l’uomo: e se ciò non fosse, Orazio, certo non avrebbe dato l’epiteto di amabile a quel furore, che invade i poeti, e che scopre l’avvenire: Platone annoverato non avrebbe fra i principali beni della vita il furore de’ vati, degl’indovini, e degli amanti; la Sibilla Cumana non avrebbe usato questo vocabolo per esprimere le pene e i travagli di Enea.
Vi sono dunque due specie di furori; l’uno viene dal fondo dell’Averno, e sono le furie che lo mandano sopra la terra; queste atroci e vendicative divinità si strappano dal capo una parte delle lor serpi, e le scagliano fra gli uomini quando vogliono divertirsi a tormentarli. Traggono di qua la loro origine il furor della guerra, l’idropica e divorante sete dell’oro, l’infame ed abbominevole amore, il parricidio, l’incesto, il sacrilegio, lo strazio della coscienza, e tutti quegli altri flagelli, dicui servonsi le furie per far provare ai mortali un saggio degli eterni supplizj.
Ma esiste un altro furore affatto contrario al precedente, ed io son quella che lo regalo agli uomini, i quali lo dovrebbero sempre desiderare come il più grande di tutti i beni. In che cosa credete voi che consista questo furore, o pazzia? Egli consiste in una certa alienazione di spirito, che toglie dall’animo nostro ogni cura molesta, e v’infonde invece i più soavi diletti. Egli è appunto questo vaneggiamento, che qual insigne dono de’ sommi Dei desidera per sè Cicerone, in una sua ad Attico, per non poter più sentire il peso di tanti mali. Un Greco, di cui non mi sovviene il nome, era pure di questo parere; e la sua storiella è così graziosa, che voglio proprio raccontarvela. Quest’uomo era pazzo in tutte le forme, e da prima mattina fino a sera avanzata se ne stava solo assiso in teatro, immaginandosi di assistere ad una magnifica rappresentazione, e quantunque in realtà nulla si rappresentasse, egli ciò non ostante rideva, applaudiva, godeva moltissimo. Fuori di questa pazzia egli era in tutto il resto un’ottima persona: compiacente e fedele verso gli amici; dolce, cortese, condiscendente colla moglie, indulgente cogli schiavi, e non dava nelle furie se vedeva rotta qualche bottiglia. I suoi parenti si presero l’incomodo di guarirlo a forza d’elleboro; ma egli ritornato appena in quello stato, che impropriamente chiamasi di buon senno, fece loro questa bella e sensata apostrofe: «O miei cari amici che mai avete fatto? Voi pretendete d'avermi guarito, ed in vece m’avete ammazzato: per me sono finiti i piaceri; voi m’avete tolta un’illusione, che formava tutta la mia felicità.» Avea pur troppo ragione questo convalescente, e coloro, che per mezzo dell’arte medica credettero di guarirlo come d’un male da una sì felice e gioconda follia, mostrarono d’aver bisogno più di lui d’una buona dose d’elleboro.
Non ho per anco fermato se debbasi indistintamente chiamare col nome di pazzia ogni errore di spirito e di senso. Imperocché noi comunemente non diciamo esser pazzo colui che, corto essendo di vista, prende un asino per un mulo; oppure, perchè avendo poco discernimento, ammira come eccellente una cattiva poesia. All’incontro, se un uomo prende uno strano errore, non solo di senso, ma ben anche di mente, e in questo lungamente persiste; per esempio, se ascoltando il raglio d’un asino crede di sentire una superba sinfonia, od essendo povero e di oscuri natali, s’immagina d’essere un Creso re di Lidia, allora si dice, che il poveretto ha dato di volta al cervello. Ma questa specie di pazzia, qualora sia rivolta ad un oggetto di piacere, come suol quasi sempre accadere, allora non poco diletto arreca tanto a quelli che l'hanno, quanto a coloro che ne sono spettatori. Questa specie poi di pazzia è assai più estesa di quello che comunemente si crede. Talvolta un pazzo ride dietro a un altro pazzo, e si somministrano uno scambievole divertimento. Non è neppur raro il vedere un pazzo maggiore fare le più grasse risa di uno minore di lui. Ma, secondo il mio sentimento, dico che l’uomo è tanto più felice, quanto più abbonda in vari rami di pazzia, purché si guardi dall’uscire da quel genere di follia, che è proprio di noi; il qual genere è però tanto esteso, che non saprei se un individuo solo ritrovar si possa in tutta la specie umana, il quale sia savio a tutte le ore, e che non abbia il suo ramo particolare di pazzia. Se uno vedendo una zucca la prendesse per una donna, si direbbe che questo poverino è veramente pazzo; e la ragione si è, che un simile sconvolgimento di cervello suol fra noi rare volte incontrarsi. Ma che un marito baggeo adori sua moglie, e la creda fedele più di Penelope, malgrado che gli faccia crescere sul capo un bosco di corna, che si rallegri in suo pensiero, che benedica grandemente il suo destino, che ringrazj il cielo d’averlo unito ad una simile Lucrezia; questo non sembra ad alcuno una pazzia, perchè al giorno d’oggi è la cosa più comune del mondo. Bisogna mettere in questa classe anche coloro, che disprezzano tutto fuori che la caccia, e che, non sanno concepire nella mente altro piacere, maggiore di quello d’udire il rauco suono del corno, e i latrati de’ cani. Credo ancora, che quando sentono l'odore degli escrementi canini, s'immaginino di fiutare del cinnamomo. Trattasi di fare in pezzi una preda? Oh che incomparabil delizia! Scannare, scorticare, tagliare un bue od un montone; ah questo è un ufficio vile, e sol degno della canaglia! Ma un animale selvatico? Oh l’onore poi di far in pezzi un animale selvatico è serbato soltanto alle persone d’alto grado! Il capo-caccia, colla testa scoperta e in ginocchione, prende in mano il coltellaccio sacro a questo sacrificio (poichè si offenderebbe Diana adoperandone un altro), e armata così la destra di questo ferro, taglia religiosamente certe membra dell’animale, e fa il tutto con un cert’ordine, e con certe cerimonie. Mentre si sta facendo questa pomposa operazione, tutta la banda de’ cacciatori fa cerchio intorno al sacerdote di Diana, osservando un profondo silenzio, e mostrando alla vista di questo spettacolo, da essa mille volte veduto, quello stesso stupore che farebbe, se fosse la prima volta che lo vedesse. Quello poi, al quale è toccato in sorte di gustare qualche porzione della caccia, si crede d’aver acquistata non poca nobiltà. Finalmente questi cacciatori, mentre passano i loro giorni ad inseguire e mangiare selvaggina, non ritraggono altro frutto dal loro assiduo e faticoso esercizio, se non di divenire anch’essi altrettante bestie selvagge: ciò non ostante credono in sè stessi di condurre una vita regale.
Un’altra specie d’uomini consimili a quella, che poc’anzi ho dipinta, sono coloro che sentonsi divorati dalla smania di fabbricare. Invasi una volta da questa irrequieta passione non sono mai contenti, e la continua loro occupazione è quella di fare e disfare, di edificare e di distruggere; cambiando, come dice Orazio, il quadrato in rotondo, e il rotondo in quadrato, finattanto che non resta loro più nè casa, nè pane. Ma che resta lor dunque? ad essi resta la dolce rimembranza d’aver passato con piacere un gran numero d'anni.
Veniamo ora agli alchimisti, i quali si possono chiamare i pazzi per eccellenza. Costoro hanno sempre la testa piena zeppa di nuovi e misteriosi segreti, e non tendono a meno che a confondere, a mescolare, a cambiar la natura, cercando per terra e per mare una non so quale quintessenza, la quale in realtà non si trova che nella loro chimerica immaginazione. Non crediate già che si disgustino pei loro cattivi successi, anzi vi dirò che, pieni di una folle e lusinghiera speranza non si pentono giammai nè delle spese, nè della fatica; e sono ingegnosissimi nell’illudere sè stessi, e nel rendersi vittime della loro ostinazione. Ma quale ordinariamente è il loro scopo? Mentre credono d’arricchire, consumano ogni cosa, e non resta loro alla line nemmeno da construire un fornellino. È vero che questi sognatori non mancano di fare bellissimi sogni, e tentano ogni mezzo immaginabile per eccitare tutto il mondo a correr dietro a questa felicità. Allorché finalmente sono costretti dalla miseria a dare un addio alle chimeriche loro speranze, trovano ancora un grande compenso nel vanto che si danno d’avere almeno formato un sì glorioso e nobile disegno: ma nello stesso tempo rimproverano la natura d′aver dato agli uomini una vita troppo breve per condurre a termine un’impresa di tanta importanza.
Ho qualche scrupolo ad introdurre nella nostra società i giuocatori di professione. Egli è però certamente un folle e ridicolo spettacolo il vederne alcuni così appassionati pel giuoco, che lor palpita e balza il cuore nel petto ogni qualvolta vedono carte, o sentono correre dadi. Allorchè l'ingannevole speranza di ricuperare il perduto ha fatto perdere ad essi il resto de’ loro beni, e allorchè il loro vascello si è infranto contro lo scoglio del giuoco, scoglio non meno fatale dì quello di Malea 30, credonsi ancora molto fortunati per essersi salvati nudi da questo naufragio. Il più bello poi si e, che questa razza di genti vorrebbe piuttosto truffar venire in concetto di persone poco oneste. Che dovrei dire di que’ vecchi, quasi per età ciechi, i quali per giuocare si mettono fino gli occhiali, e se hanno anche la gotta alle mani, pagano un altro, perchè getti i dadi per loro? Costoro vanno pazzi pel giuoco, e ne provano un sommo piacere; per la qual cosa li considero di mia appartenenza: ma siccome il giuoco si cambia spesso in rabbia e furore, perciò sarei quasi di parere d’attribuirlo più alle furie, che a me.
Ma ecco avanzarsi alcuni, che senza dubbio vivono sotto le mie leggi; e sono coloro che si dilettano di udire, o di raccontar dei miracoli, e delle romanzesche invenzioni. Il credereste voi? Questo buon gusto somministra un tal piacere, che i savj non sono degni di provarlo. Bisogna, sì, bisogna esser nati sotto particolare favore degli Dei, per assaporare sì dolci chimere. Il più bello poi si è, che non si stancano giammai di sentire simili fandonie. I prodigj, gli spettri, i folletti, le larve, l’inferno, e mille altre visioni di tal natura, sono il soggetto più comune delle conversazioni del volgo ignorante: le quali cose quanto più sono madornali e portentose, tanto più si ascoltano con maggior piacere e si credono con maggiore facilità. Ma non crediate già che simili racconti si facciano solo per ingannare le ore di noia; sono essi diventati nella bocca de’ monaci e de’ predicatori, un mezzo di trar profitto dalla credulità popolare.
Si possono unire con tutt’onore a questa razza que’ ridicoli ed originali superstiziosi, i quali ogni qualvolta abbiano avuta la sorte di vedere una qualche statua di legno, o una qualche immagine del loro Polifemo san Cristoforo31, credono fermamente di non poter più perire in quella giornata. Vi sono dei soldati, i quali dopo aver fatta una piccola preghiera innanzi alla statua di santa Barbara, si tengono sicuri, di uscire illesi dalla battaglia. Alcuni credono pure, che invocando S. Erasmo in certi giorni, con certe orazioncelle, e al lume di certe candelette, si possa fare una grande fortuna in poco tempo32. Che dirò di quell’Ercole san Giorgio, che fa per questi superstiziosi le veci di un altro Ippolito33? Bisogna veramente ridere della divozione di costoro; la quale tutta consiste nell’ornare pomposamente il suo cavallo, e nel prostrarsi quasi innanzi a questa bestia così in gala per adorarla. Hanno somma cura di conservarsi il favore e la protezione del cavaliere con qualche offerta, ed è per essi un inviolabile giuramento quello che fanno pel suo cimiero. Ma perchè non farò parola di quelli, che credonsi di non avere alcun debito colla divinità in virtù dei perdoni e delle indulgenze? Costoro con tal sorta di fallaci remissioni misurano come con una clessidra, come matematicamente, senza temere error di calcolo, misurano, dico, gli spazj, i secoli, gli anni, i mesi, le settimane, i giorni, le ore del purgatorio. Un’altra specie di stravaganti sono coloro, i quali confidando in certi piccoli segni esteriori di divozione, in certe filastrocche, in certe orazioncelle inventate da qualche pio impostore per suo divertimento, oppure per interesse, si tengono sicuri di godere una inalterabile felicità, di acquistarsi ricchezze, di ottenere onori, di soddisfare a certi loro piaceri, di mantenersi bene, di conservarsi ani, di vivere lungamente, e di condurre una robusta vecchiaia. Ma questo non basta; sperano ancora di occupare in paradiso un posto distinto, con questa sola condizione però, che non abbiano a passare tra i beati, se non più tardi che sia possibile. Pensano essi d’esser a tempo a volare tra le ineffabili ed eterne delizie del cielo, quando siano abbandonati dai beni della terra, a cui sono attaccati con tutto il cuore.
Persuaso dei perdoni e delle indulgenze, un negoziante, un militare, un giudice non ha che a gettare una piccola moneta sopra un vassoio, ed eccolo mondo e netto da tante rapine come quando è uscito del fonte battesimale. Tanti spergiuri, tante impurità, tante ubbriachezze, tante risse, tanti assassinj, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, in una parola tutti i delitti, si redimono con un poco di danaro; e si redimono così bene, che si crede di poter tornare da capo a commettere ogni sorta di scelleratezze. Chi mai ha veduto uomini più stolti, o per meglio dire più felici di que’ divoti, che credonsi di entrare infallibilmente nel regno dei cieli recitando ogni giorno sette non so quali versetti dei salmi penitenziali? Eppure fu un demonio, quello che ha fatta sì bella scoperta; ma un demonio sciocco, che avea più vanità che talento: imperocchè ebbe l’imprudenza di vantare il suo magico segreto con San Bernardo, che ne sapea di gran lunga più di lui 34. Non sono forse tutte queste cose eccellenti pazzie? Ah egli è pur troppo vero! ed io stessa quantunque sia la Pazzia, non posso a meno di provarne vergogna. Intanto non è solo il volgo ad approvare sì fatte stravaganze; ma vi sono perfino dei professori di teologia, che ne sostengono la pratica col loro esempio. Giacchè mi sono imbarcata su questo pelago, fa d’uopo che continui a navigare. Facciamo pertanto qualche parola sulla invocazione de′ santi. È curioso il vedere che ogni paese vanta d′avere in cielo il suo protettore, il suo santo tutelare, e che presso un medesimo popolo si trovano distribuite fra questi grandi e potenti signori della corte celeste le diverse incumbenze del protettorato. L’uno guarisce dal male de’ denti, l’altro assiste ai parti delle donne, quello fa ritrovare le cose smarrite, questo veglia alla sicurezza ed alla prosperità degli armenti, uno salva dai naufragi, un altro procura la vittoria ne′ combattimenti. Lascio il resto perchè non la finirei mai più.
Vi sono inoltre dei santi che godono un credito ed un potere universale; fra questi contasi particolarmente la madre di Dio, alla quale il volgo suol attribuire un poter maggiore di quello del suo figliuolo. Ora le grazie che gli uomini dimandano ai santi, non sono forse anch’esse insinuate dalla Pazzia? Ditemi un poco se fra tanti religiosi voti di riconoscenza, di cui tutte mirate coperte le pareti e le volte delle chiese, non ne avete mai veduto un solo appeso in riconoscimento d’essere stato miracolosamente guarito dalla pazzia? No sicuramente: anzi gli uomini non sogliono giammai importunare i santi per ottenere una tal grazia; onde si vede che per quanta divozione essi abbiano, non diventano mai un tantino più savj; perciò, mentre si osserva pendere dagli altari dei voti per ogni sorta di grazie ricevute, non se ne vede alcuno per essere guarito dalla pazzia. Quegli ha appeso un voto per essersi salvato a nuoto, mentre credeva di naufragare; questi perchè non è morto d’una grave ferita ricevuta in una rissa; colui, perchè mentre gli altri erano alle prese col nemico, è riuscito a sottrarsi dal pericolo con una felice e valorosa fuga; costui perchè essendo stato condannato alle forche in premio delta sue buone azioni è caduto dal capestro per la grazia di qualche santo amico dei ladri, affinchè ricominciasse peggio di prima a sollevare, in virtù della carità del prossimo, quelli che aveano le saccoccie troppo piene di danaro; uno per essersi messo in libertà rompendo la prigione; un altro per essersi rimesso a maraviglia d’una febbre gagliarda, con sommo rammarico del sig. dottore, il quale sperava fare una cura più lunga e più lucrosa, questi perchè in vece della morte ha ritrovato un rimedio nel veleno, che gli era stato dato: la sua moglie intanto, che già sospirava il momento di liberarsene, e che già si rallegrava della sua vedovanza, si trova nella massima afflizione per essere andato fallito il colpo; quegli perchè essendosi rovesciato insieme col carro non ha provato alcun timore, ed ha ricondotti accasa sani e salvi i suoi cavalli; quest′altro perchè essendo stato sepolto sotto una mina è riuscito a sottrarsene felicemente; quell’altro, perchè essendo stato colto in flagranti dal marito della sua bella, è uscito d’impaccio con molta disinvoltura.
Ora voi ben vedete che nessuno ha renduto grazie nè a Dio, nè alla Vergine, nè ad alcun Santo per la ricuperata saviezza. La Pazzia ha tante attrattive per gli uomini, che fra tutti i mali ella sola viene stimata un bene. Ma perchè vado io ingolfandomi in questo pelago delle superstizioni?
Se cento lingue avessi e cento bocche, |
Virg. En. lib. VI.
Tanto è piena zeppa tutta la vita d’ogni cristiano di simili delirj! So bene che i sacerdoti non sono tanto ciechi da non comprendere deformità così vergognose; ma costoro invece di purgare il campo del Signore, si studiano anzi di seminarvi e di coltivarvi quest’erbe cattive con tutta la diligenza; ben conoscendo quanto sogliano esse aumentare i loro guadagnuzzi. Se in mezzo a tutti questi pregiudizj sorgesse qualche odioso moralista, e con un tuono apostolico facesse questa patetica, ma vera esortazione. «Non basta avere qualche divozione per S. Cristoforo; bisogna eziandio vivere secondo la legge divina, per non fare una cattiva fine. Non basta offrire una piccola moneta per ottenere i perdoni e le indulgenze; bisogna inoltre odiare il male, piangere, vegliare, pregare, digiunare, in una parola cambiar vita, praticando costantemente il Vangelo. Voi confidate nel tale o tal altro Santo? Ebbene, seguite i suoi esempj, vivete com’egli ha vissuto, e meritatevi in questa maniera le grazia del vostro santo protettore». Questo moralista (sia detto fra noi) non avrebbe torto parlando in tale maniera; ma da un’altra parte trarrebbe gli uomini da uno stato di felicità per gettarli nella miseria e nel dolore.
Una parolina intorno ad un’altra specie di matti; imperocché sarebbe un gran male il non esporli anch’essi sulla scena, mentre fanno tant’onore al mio impero. Voglio parlare di que’ ricchi, i quali vedendosi giunti al termine de loro giorni, ordinano grandiosi preparativi, onde poter fare magnificamente il passaggio alla tomba. È un bel piacere l’osservare questi moribondi applicarsi seriamente a prescrivere la loro pompa funebre. Stabiliscono articolo per articolo quante torce e quante candele devono ardere ai loro funerali, quante persone vestite a bruno, quanti musici, quanti piagnitori devono accompagnare il feretro; quasichè dovessero conservare anche dopo morti un qualche senso per godere di questo spettacolo; oppure sapessero con certezza, che i morti sogliono arrossire quando il loro cadavere non venga sepolto con quella magnificenza, che richiede il proprio stato. Finalmente pare che questi ricchi considerino la morte come una carica di Edile, che gli obblighi ad ordinare pubblici giuochi e banchetti.
Quantunque fecondissimo sia il mio soggetto, quantunque sia obbligata a trattarlo superficialmente, pure non sarà mai vero ch’io passi sotto silenzio que’ grandi encomiatori, que’ fieri apprezzatori della vana nobiltà. Non è raro il ritrovare alcuni di costoro, i quali con un’anima di fango, e con vilissime e plebee inclinazioni, vi stordiscano a forza di ripetere: «Io sono un gentiluomo.» Fa d’uopo provare l'antichità della loro stirpe? L'uno discende dal pio Enea; l’altro risale al primo console di Roma; questi viene per linea retta dal re Arturo. Vi fanno inoltre vedere le statue ed i ritratti dei loro antenati; vi numerano i proavi e i bisarcavoli; vi rammemorano gli antichi cognomi, e le imprese dei loro maggiori; mentre essi sono poco dissimili da una muta statua, e direi quasi inferiori a quelle stesse figure che vanno mostrando. Questi stolidi hanno un’alta opinione di loro medesimi, e sono sempre gonfi della sterile idea de’ loro natali; ma imbevuti però di questa chimera, conducono una vita contenta e felice. Quello poi che contribuisce moltissimo a far amare a costoro questo bel fantasma di nobiltà, è quello sciocco rispetto che il volgo insano mostra per loro; talchè sembra perfino che risguardi questo genere di bestie, questi nobili senza inerito, come altrettante divinità. Ma trattando io dell’amor proprio, perchè mi restringerò ad una o due specie soltanto di pazzi? Il mio caro amor proprio, che qui presente vedete, quanti mezzi stupendi ei non possede per impedire all’uomo d’essere malcontento di sè medesimo? Gettate gli occhi su quel volto: non v’ha scimia nè più brutta, nè più deforme, e nulladimeno si crede un bellissimo giovinotto. È giunto colui a tirare due o tre linee con esattezza a forza di compasso? Ei già s’applaude in suo cuore, e si crede un altro Euclide. Questo qui canta un po’ peggio d’un gallo? Non importa; egli si crede di avere una voce da paradiso. Ma eccovi un’altra specie di pazzia veramente amena. Vi sono alcuni che hanno un numeroso stuolo di servi, ognuno de’ quali ha qualche buona qualità, ed essi s’immaginano che tutte queste buone qualità siano una dote loro particolare. Tale era appunto presso Seneca quel ricco doppiamente felice, il quale volendo raccontare una qualche storiella, gli schiavi stavangli sempre d’intorno per aiutare la sua memoria, e suggerirgli i nomi propri, anche i più comuni. Era d’altra parte così debole quel padrone, che bastava un picciol soffio di vento per gittarlo a terra; e ciò non ostante era sempre pronto a battersi coi pugni, fidandosi nella forza de’ suoi schiavi, come se fosse stata sua.
È inutile far qui passare in rivista coloro, che professano le arti; imperocchè ben a ragione chiamar si ponno i prediletti, i favoriti del mio amor proprio. Queste persone sono ordinariamente così idolatre del piccolo lor merito, che cederebbero piuttosto una porzione del loro patrimonio, che confessarsi mancanti d’abilità. I comici, i musici, gli oratori, i poeti: ecco, ecco i migliori amici dell’amor proprio! Costoro quanto più sono ignoranti, tanto maggiormente credonsi perfetti nell’arte loro; e prevenuti così in proprio favore, colgono ogni occasione per celebrare le loro lodi. Non crediate già per questo che manchino d’approvatori; anzi sappiate che qualunque sciocchezza, per grossolana che sia, trova sempre i suoi seguaci. Ma questo è poco: quanto più una cosa è contraria al buon senso, tanto maggiore è il numero degli ammiratori; e si vede costantemente che tutto ciò che si oppone maggiormente alla ragione, è quello appunto che viene adottato colla più grande avidità. E mi dimanderete il perchè? Non ve l’ho detto mille volte? Perchè quasi tutti gli uomini sono matti. L’ignoranza ha dunque due grandi privilegi, uno è quello d’essere perfettamente d’accordo coll′amor proprio, l’altro di trarre a sè la maggior parte del genere umano. Voi sareste pertanto due volte buoni a volervi innalzare sopra il livello del volgo colla vostra scienza tutta filosofica. Cosa mai pensereste di ottenerne? Sappiate che oltre il costarvi carissimo un simil passo, arrivereste al segno di non saper tollerare alcuno, e di non poter essere da alcuno tollerati; e vi accaderebbe finalmente che nessuno sarebbe capace di gustare il vostro genio e di penetrare i vostri sentimenti.
Mi torna in acconcio di fare un’altra riflessione sull’amor proprio: ebbene, facciamola insieme. Ogni uomo nascendo riceve il suo amor proprio come un dono della natura; ma questa madre comune non si è limitata al solo uomo; ha fatto lo stesso regalo anche alle società, di modo che non trovasi nessuna nazione, nessuna città, che non abbia il suo gusto particolare. Gl’Inglesi, per esempio, amano con trasporto la bellezza, la musica e i lauti conviti; gli Scozzesi fanno gran conto della nobiltà, e principalmente di quella che deriva dal sangue dei loro re, e si piccano eziandio d’essere sottili ragionatori; i Francesi si attribuiscono la pulizia e la civiltà, e i Parigini in ispecie vantano la loro teologia; gl’Italiani decantano la loro letteratura e la loro eloquenza. Ogni nazione in una parola si compiace d’essere la sola veramente incivilita, e senza ombra di barbaria. Si può dire che i Romani siano i più infatuati di quest’ultimo genere di felicità: Roma moderna sogna tuttavia di partecipare della grandezza dell’antica Roma. I Veneziani sono felici per l’alta opinione della loro nobiltà. Si vantano i Greci di essere stati gl’inventori delle arti e delle scienze, e d’essere i discendenti di quei famosi eroi, che hanno fatto una volta tanto romore al mondo. I Turchi, e tutti quegli altri popoli simili a loro, i quali non sono propriamente che un ammasso di barbari, si millantano di essere i soli che vivano nel grembo della vera religione, e mettono in derisione le superstizioni, l’idolatria de’ Cristiani. Ma che cosa dirò dei Giudei? Costoro vivono arcicontentissimi nella aspettazione del loro Messia appoggiandosi completamente alle promesse del loro Mosè. Gli Spagnuoli tutta si riserbano la gloria della guerra; e i Tedeschi si pavoneggiano della loro statura gigantesca, e della loro abilità nella scienza della magia.
Orsù, finiamola una volta, poichè la materia sarebbe interminabile. A fianco dell’amor proprio trovasi sempre la sua buona sorella l’adulazione. Imperocchè, ditemi un poco, in che cosa consiste l'amor proprio? Non consiste egli forse nell’accarezzare, nel compiacere, nell’adular sè stesso? Al giorno d’oggi ha la disgrazia questa povera adulazione di essere molto screditata: ma da chi? Da tutte quelle persone che s’offendono più dei nomi, che delle cose. Si crede che l′adulazione non possa combinarsi con la buona fede; oh che falsa idea! Le bestie stesse non ci fanno vedere l’opposto? Invano si cercherebbe un animale più cortigiano ed adulatore del cane, e ciò non ostante; chi può vantarsi d’essere più fedele di lui? Lo scoiattolo addimesticato cerca sempre di giuocare ed è perciò forse men amico dell’uomo? Non ignoro che v’ha una pessima adulazione, per mezzo della quale i furbi e i beffardi sogliono rovinare, o prendersi giuoco dei miseri stolti e vanagloriosi, ma questa non è la mia adulazione prediletta; e voglia il cielo ch’io mai non la conosca! La mia nasce dalla dolcezza, dalla bontà, dalla rettitudine del cuore; e tanto s’avvicina alla virtù, quanto n’è lontano un carattere ruvido, insocievole e molesto, e come dice Orazio che disgusta ed allontana. La mia adulazione rianima gli spiriti avviliti, rallegra i malinconici, stimola i poltroni, risveglia gli stupidi, solleva gl’infermi, calma i furibondi, forma e mantiene gli amori. La mia adulazione alletta i figliuoli alla fatica ed allo studio, consola i vecchi; e sotto il manto della lode rimprovera ed istruisce i monarchi senza oltraggiarli: la mia adulazione finalmente fa che gi uomini, a guisa d’altrettanti Narcisi, siano innamorati di sè stessi, dal che nasce la principale felicità della vita.
Chi mai vide un ufficio più tenero e più obbligante di quello che si prestano due buoni ed onesti somari strofinandosi vicendevolmente? Egli è a questo minuto uffizio, a cui in gran parte è diretta l’eloquenza, molto la medicina, e più di tutto la poesia: dico inoltre che quest’adulazione è il mele, è il condimento di tutta l’umana società. I savj dicono, che un gran male è l’essere ingannato, ed io invece sostengo, che il non esserlo è il maggiore di tutti i mali. È una grande stravaganza il voler far consistere la felicità de l’uomo nella realtà delle cose, mentre essa propramente dipende solo che dall’opinione. Tutto è nella vita così oscuro così diverso, così opposto che non possiamo assicurarci di alcuna verità. Tale era appunto il principio dei miei accademici, i quali si mostravano in questo meno orgogliosi di tutti gli altri filosofi. Che se vi sono delle verità, le quali per essere ben dimostrate non lasciano luogo a dubbio, dimando io, quanto non disturbino la tranquillità, e i piaceri della vita? Gli uomini finalmente vogliono essere ingannati, e sono sempre pronti a lasciare il vero per correr dietro al falso. Ne bramate una prova sensibile e incontrastabile? Andate alle prediche, e vedrete, che quando lo schiamazzatore (oh che ingiuria! perdonatemi mi sono ingannata) voleva dire, quando il predicatore tratta la materia seriamente, e colla ragione alla mano, allora si dorme, si sbadiglia, si tossisce, si soffia il naso, si abbandona il corpo, e si annoia da tutte le parti: ma se l’oratore intesse, come spesso accade, qualche vecchia favoletta, o qualche prodigio di leggenda, allora tosto si scuote l′udienza, si destano i sonnacchiosi, tutti gli uditori alzano la testa, spalancano gli occhi, tendono le orecchie. Non avite mai fatto osservazione, che quando si celebra in chiesa la festa di qualcuno di que′ santi poetici, e romanzeschi, per esempio d’un S. Giorgio, d’un S. Cristoforo, d’una santa Barbara, suole spiegarsi una pompa, ed una divozione assai maggiore di quella, colla quale si festeggiano e S. Pietro, e S. Paolo, ed anche lo stesso Redentore? Ma non è questo il luogo di tal quistione.
Ritorniamo al nostro assunto. Quanto costa mai poco l’acquisto della felicità d’opinione! Quelli che cercano di riporre la felicità nel godimento delle cose, osservino, di grazia, quali e quante pene sogliono cagionare gli oggetti anche meno importanti. Possiamo giudicarlo dalle sole difficoltà, che s’incontrano nello studio della grammatica. L’opinione all’incontro si concepisce senza sforzo, s’insinua da sè medesima nel cuore, e contribuisce egualmente, e forse più dell′evidenza e della realtà delle cose, alla felicità della vita. Se un affamato mangia dei salumi imputriditi, al cui fetore un altro sarebbe obbligato a turarsi il naso, e li mangia con tanto gusto, come se fossero il cibo più squisito, dimando io, s’egli è per questo meno felice? All’incontro se uno svogliato mangiasse delle vivande eccellenti, ma senza provarne alcun gusto, anzi con nausea, in tal caso ove sarebbe la sua felicità? Per un uomo che abbia una bruttissima moglie, ma che a lui paia perfettamente bella, non è lo stesso come se avesse dossata una Venere? Quello stolto che avendo un cattivo e miserabilissimo quadro, crede di possedere una pittura di Zeusi o d’Apelle, e mai non si stanca di contemplarlo e di ammirarlo, non è egli incomparabilmente più felice di colui, che avendo pagato a caro prezzo un quadro di questi eccellenti pittori, non provasse un egual piacere a contemplare le opere loro?
Conosco un uomo, che ha l’onore di portare il mio nome, il quale poco dopo le nozze regalò a sua moglie dei falsi brillanti, ed essendo costui un faceto corbellatore, fece credere alla sposa che quelle pietre fossero buone, e che gli costassero una gran somma. Ora, cosa mancava al piacer della sposa? Ella godeva di ornarsi con questi pezzi di vetro; non si stancava mai di rimirarli, ed era contentissima di possedere questo immaginario tesoro, come se fosse stato reale. Intanto il marito avea risparmiato una spesa non indifferente, e godeva dell’errore di sua moglie, la quale gli professava la stessa obbligazione, come se le avesse fatto un magnifico regalo.
Meritano d’esser posti in questa classe gli abitatori della caverna di Platone 35. Vedono gli stolti le ombre, e i simulacri delle diverse cose; gli ammirano; ma non cercano di più, e ne sono contentissimi: osservano anche ì filosofi gli stessi oggetti; ma essendo fuori della caverna, ne approfondiscono i misterj. Gli uni e gli altri non ne provano forse lo stesso piacere? Se il ciabattino Micillo 36, di cui parla Luciano, avesse potuto passare il resto de’suoi giorni in quel bellissimo sogno che faceva mentre lo hanno svegliato, qual migliore felicità avrebb’egli potuto augurarsi? Non passa dunque alcuna differenza tra i savi ed i pazzi, se pure non sono più felici i secondi. Sì, questi lo sono senz’altro per due titoli, uno, perchè la felicità de’ pazzi non costa niente, basta a formarla un poco di persuasioncella; l’altro, perchè i miei pazzi sono felici insieme con molti altri: imperocché egli è impossibile di gustare un bene, quando si goda solo. I savi poi sono in numero così scarso, che non meritano nemmeno la pena di parlarne, e bramerei anche di sapere s’egli è possibile di rinvenirne qualcuno? Nel corso di tanti secoli la Grecia si vanta d’aver prodotti solo sette sapienti: gran prodigio invero! Il genere umano, se si vuole, è molto debitore a questa felicità della Grecia! Ve ne sono stati dunque sette? Prestate però il cielo che non vi venga il prurito di notomizzarli con accuratezza; altrimenti (vi giuro per Ercole, e ci scommetto la testa) non trovate ceriameute una metà di filosofo, e forse neppure un terzo.
Voglio ancora lodarmi per un altro verso. Fra i molti vanti che i poeti sogliono dare a Bacco, quello che si tiene, ed è veramente il primo, si è ch’egli sgombra e dilegua dall’animo de’ mortali le cure, le inquietudini e la tristezza, ree figlie della ragione; ma per breve tempo, giacché dopo poche ore di sonno ritornano esse prontissime a tormentarci, e come suol dirsi di gran galoppo. Ora non è senza comparazione maggiore il bene che io faccio ai mortali? Gl’inebbrio io pure, e ad essi tolgo egualmente la ragione; ma la mia ebbrezza è ben diversa da quella di Bacco; essa riempie l’anima di gioia, di tripudio, di delizie, dura per tutto il tempo della vita, senza costare nè danaro, nè pentimenti.
Gli uomini mi devono ancora professare una particolar obbligazione, perchè non permetto che vi sia alcuno fra loro, il quale più o meno non senta gli effetti della mia beneficenza. Tutte le altre Divinità non compartono egualmente ai mortali i loro favori. Non cresce dappertutto quel vino generoso e grato, che scaccia le cure moleste, e riempie l’animo anche il più malinconico d’allegria, di coraggio e di speranze. Venere accorda di rado il dono della bellezza; Mercurio concede a pochi la eloquenza, ed Ercole è scarso dispensatore delle ricchezze: l’omerico Giove a pochissimi pone sul capo la corona; Marte rifiuta spesso ai due eserciti il suo soccorso; Apolline rende talvolta spiacevoli risponsi a quelli, che consultano il suo oracolo; il figliuol di Saturno lancia frequentemente le sue saette; Febo manda talora la peste, e Nettuno fa perire più persone, che non ne salvi. Rispetto poi a quelle orribili Divinità dette Vejovi, come sarebbero Plutone, la Discordia, la Pena, la Febbre, ed altre simili che potrebbero chiamarsi piuttosto carnefici che Divinità, non vale assolutamente la spesa che io mi brighi di farne parola. Egli è dunque vero che gli altri Dei non sono buoni e benefici verso tutti i mortali, e che la sola Dea Pazzia è quell’unica che abbraccia co’suoi favori tutto il genere umano. Il più mirabile poi si è, che la mia generosità non è macchiata d’alcun interesse; io sola non esigo nè voti, nè offerte; e la mia Deità non s’offende, nè ordina vittime di espiazione qualora sia stata ommessa qualche cerimonia del mio culto. Io non metto sottosopra il cielo e la terra per vendicarmi di qualcuno, che avendo invitati tutti gli altri Dei, mi abbia sola dimenticata a casa, e non m’abbia messo a parte dell’odore e del fumo delle sacrificate vittime. Bisogna proprio che a confusione e vergogna degli Dei io dica che si mostrano tanto incontentabili e capricciosi, che sarebbe assolutamente minor male lasciargli in abbandono che adorarli. Dovrebbesi far con loro quello che si suole colle persone intrattabili e corrive al far male; cioè troncare con essi ogni corrispondenza, dal momento che costa troppo cara la loro amicizia.
Eppure chi mai crederebbe che questa mia condotta mi dovesse attirar le beffe? Finora, dicesi comunemente, nessuno ha pensato a rendere alla Pazzia gli onori divini; nessuno le ha consecrato alcun tempio; nessuno l’ha nudrita coi vapori delle vittime. Per parlarvi con franchezza, e credo d’avervelo già detto, tanta ingratitudine mi fa grandissimo stupore, ma poco mi curo anche di questo, e secondo la naturale mia facilità prendo la cosa in buona parte. Putirei di saviezza, e sarei indegna di essere la Pazzia, se bramassi questi onori divini. Che cosa mi si offrirebbe sopra gli altari? un poco d’incenso, un po’ di farina, un qualche caprone, un qualche porco; ed io permetterei che si scannassero queste bestie innocenti per ricrearmi l’odorato? Oh che ridicole bagattelle! Io ho un culto, sì, ne ho uno esteso al par del mondo, e me lo rendono tutti i mortali: e perfino i teologi lo consolidano col loro esempio. Io non ho la barbara e crudele ambizione di Diana, che si compiace di vittime umane, e credo invece d’essere religiosamente servita e venerata, quando mi vedo scolpita in ogni cuore, quando dappertutto mi vedo espressa coi costumi e rappresentata col modo di vivere. A proposito di culto, quello che i cristiani rendono ai loro santi non s’aggira quasi mai sul loro amore, e sulla loro imitatione. Oh quanti vi sono che in pien meriggio accendono senza bisogno delle candele ai piedi della Vergine madre di Dio! Ma quasi nessuno si ritrova che segua i suoi esempj di castità, di modestia, di zelo per la causa della virtù. Eppure l’imitazione delle loro virtù sarebbe l’unico culto che maggiormente gradir potrebbe ai beati in ciclo.
A che ho poi da bramare un tempio, se ne ho uno così vasto e così bello com’è tutta la terra? Io non manco nè di ministri, o sacerdoti, se non in que’ luoghi ove non esiste alcun uomo. Non vorrei poi che mi credeste così stolta da curarmi di statue e di ritratti: simili figure sarebbero di molto pregiudizio al nostro culto. Imperocchè suole spesso accadere, che gli stupidi e materiali divoti prendano la statua per il santo, e in questo caso mi toccherebbe la sorte di quelli, che vengono soppiantati dai loro vicarj. Tutti i mortali sono statue a me erette, sono una viva immagine di me, e lo sono anche a marcio loro dispetto. Pertanto acconsento di buona voglia che gli altri Dei abbiano dei templi, l’uno in un angolo della terra, l’altro in un altro; e che vengano festeggiati solo in certi giorni dell’anno. Adorisi pure Febo in Rodi, Venere in Cipro, Giunone in Argo, Minerva in Atene, Giove sul Monte Olimpo, Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco: ma la mia condizione divina sarà sempre più gloriosa della loro; finattantochè la terra sarà il mio tempio, e saranno vittime mie tutti i mortali.
Potrebbe forse sembrare a taluno che io spacciassi impudenti menzogne; ma voglio farvi toccar con mano, che questa è la pura verità. Riflettiamo un momento sulla vita umana; e se io non vi proverò che sono la Dea, alla quale tutti gli uomini sono maggiormente obbligati, e quella altresì che dallo scettro fino al bastone del pastore stimano più d’ogni altra cosa, sono disposta a non essere mai più la Pazzia. Non voglio però prendermi la briga di scorrere tutte le condizioni, poichè sarebbe troppo lunga una simile carriera; io pertanto mi limiterò ad indicarne le principali, dalle quali si potrà facilmente inferire il resto.
Incominciando dal volgo, e dalla minuta plebe, non v’ha dubbio ch’essa totalmente non m’appartenga; imperocchè tanto abbonda in ogni sorta di pazzie, tante ne inventa ogni giorno, che non basterebbero mille Democriti per riderne sufficentemente, e questi mille Democriti avrebbero ancora bisogno di un altro Democrito per rider di loro. È cosa incredibile a dirsi, quanto ogni giorno questi materiali omicciuoli servano di trastullo, di riso e di ricreamento agli Dei. Ma perchè ne siate convinti è bene che vi dica una cosa. Gli Dei sono sobri fino all’ora del pranzo, ed impiegano queste ore antimeridiane in contenziose deliberazioni, e nell’ascoltare le preghiere de’ mortali. Terminata poi la mensa, allorchè sentonsi andar alla testa i vapori del nettare tracannato a larghi sorsi, non sanno più applicarsi ad oggetti di qualche importanza. Cosa credete voi che facciano allora per rassettare il cervello? Si riuniscono tutti nella parte più eminente del ciclo, e stando colà assisi guardano in giù, e sono per essi un amenissimo spettacolo le varie operazioni degli uomini. Dio immortale! Che bella e ridicola commedia risulta da tutti i diversi movimenti de’ pazzi? Ben io lo posso dire, poichè talvolta intervengo a questa ricreazione delle poetiche Divinità.
Uno è innamorato perdutamente d’una donnicciuola, e quanto meno è corrisposto, tanto più s’accende l’amorosa sua passione; un altro sposa la dote e non la giovane; costui prostituisce a chicchessia la propria moglie, e colui, agitato dal demonio della gelosia, veglia come un Argo sulla condotta della sua sposa. Quali stranezze non si dicono, e non si fanno quando muore qualche prossimo parente? Si arriva persino a prezzolare delle persone, perchè fingano di piangere, e smaniarsi come tanti comici. Quanta più è la gioia che si prova nel cuore, tanto maggiore è il cordoglio che si affetta sul volto, per cui nacque quel proverbio de’ Greci. «Colui piange sulla tomba della matrigna». Questi raccoglie tutto quanto può avere da ogni parte, e di tutto ne fa un presente al suo ventre, a costo anche di morir di fame dopo aver soddisfatta la sua ingordigia; quegli ripone tutta la sua felicità nell’ozio e nel sonno. Vi sono alcuni, che, sempre in moto per gli affari altrui, trascurano affatto i loro interessi. Vedonsi di quelli che fanno dei debiti per pagarne degli altri, e quando si credono ricchi, trovano che son falliti. Quegli vivendo da povero non conosce altra felicità, che arricchire il suo erede. Costui ingordo di beni, scorre i mari in traccia d’un incerto guadagno, e affida all’onde ed ai venti una vita, che non potrebbe riscattare con tutto l’oro del mondo. Un altro, sitibondo di sangue, vuol piuttosto tentare una sorte migliore in mezzo ai pericoli ed agli orrori della guerra, che passare i suoi giorni comodi e tranquilli in seno alla sua famiglia. Questi si promette una pingue eredità, se può arrivare ad impadronirsi dell’animo di quel vecchione, che morrà senza eredi; oppure se ha la fortuna di cattivarsi la grazia, ed il favore di quella ricca vecchierella. Ma quanto poi ridono gli Dei, allorchè vedono questi pescatori di danaro restar presi nelle proprie loro reti.
I mercadanti poi soprattutto sono i più sordi e stolti attori del teatro della vita umana; non v’ha cosa più vile della loro professione, e per compimento dell’opera l’esercitano nella più sporca maniera. Comunemente sono spergiuri, bugiardi, ladri, ingannatori, impostori; e ciò non ostante sono tenuti in grande considerazione a motivo delle loro ricchezze: anzi trovano persino dei frati adulatori e particolarmente fra i mendicanti, che fanno loro umilmente la corte, e che pubblicamente danno ad essi il nome di venerabili, a fine di scroccar loro qualche porzione dei mal acquistati tesori. Altrove vedonsi alcuni seguaci di Pitagora, che opinando con questo filosofo essere comuni tutti i beni, si usurpano in buona coscienza tutto ciò che possono, come se conseguissero una legittima eredità. Vi sono altri, i quali essendo ricchi nella loro immaginazione, vanno fingendosi bellissime chimero di fortuna, e vivono felici nelle loro speranze.
Alcuni vogliono passar per ricchi, quantunque manchi loro talvolta perfino il necessario. Uno s’affretta a scialacquare tutti i suoi beni, ed un altro sta sempre intento ad ammassare per vie lecite ed illecite tutto quello che può. Chi è smanioso d’ottenere una carica, e chi preferisce a tutto il sedersi ozioso in un angolo del suo focolare. S’arrabbiano i litiganti per la lentezza della procedura, e pare che gareggino a chi può più arricchire un giudice venale ed un avvocato prevaricatore, i quali non hanno altro scopo che prolungare la lite ad essi solo vantaggiosa. Gli nomini torbidi e sediziosi corrono dietro alle novità, e gl’inquieti meditano sempre grandiose imprese. Alcuni intraprendono il pellegrinaggio di Gerusalemme, di Roma, di S. Giacomo, ove non hanno che fare, e intanto lasciano in abbandono nelle proprie case le mogli e i figli, che avrebbero gran bisogno della loro presenza.
Se poteste finalmente osservare dal mondo della luna, come già Menippo, le innumerabili agitazioni de’ mortali, voi credereste certo di vedere una fitta nube di mosche, o di zanzare che rissano, che s’insidiano, che si fan guerra, che s’invidiano, che si spogliano, che scherzano, che amoreggiano, che nascono, che invecchiano, che muoiono. Non potete figurarvi gli orrori e le rivoluzioni, di cui riempie la terra quell’animuluccio sì piccolo, e di sì poca durata, volgarmente chiamato uomo. Tante volte un lieve turbine di guerra o di peste, basta a rapirne e a dissiparne in un momento molte migliaia. Ma io stessa sarei stolta in sommo grado, e meriterei che Democrito facesse di me le più grasse risa, se pretendessi di voler descrivere tutte le stravaganze e le pazzie del volgo. Passiamo pertanto a parlare di coloro, che conservano fra gli uomini un’apparenza di saviezza, e tengono dietro, come dicono essi, a questo ramo d’oro di Virgilio.
Fra questi tengono il primo posto i grammatici, ossia i pedanti. Questa specie d’uomini sarebbe al certo la più miserabile, la più afflitta, la più invisa agli Dei, se io non mi prendessi cura di mitigare gl’incomodi di una tal professione con un genere particolare di pazzia. Non sono soggetti costoro solamente a quelle cinque imprecazioni e flagelli dell’epigramma greco, ma bensì a seicento altri. Costoro sempre famelici e luridi in quelle loro scuole (o per meglio dire in quelle loro galere, o luoghi di supplizj e di tormenti), in mezzo ad un armento di ragazzi, invecchiano nelle fatiche, diventali sordi nello schiamazzo, intisichiscono nel puzzo, e nelle
sozzure. Eppure chi ii crederebbe? Per opera mia, credonsi i pedanti i primi uomini del mondo. Non potete immaginarvi il gusto che provano costoro a far tremare i loro timidi sudditi con un’aria minacciosa, e con voce altitonante. Armati di sferze, di verghe, di staffili, noa hanno che a decidere del castigo, essendo essi nello stesso tempo, e parti, e giudici, e carnefici. Rassomigliano proprio a quell’asino della favola, ch′essendosi posta indosso la pelle d’un lione, credevasi al par di lui valoroso. Il loro sucidume sembra ad essi una vera mondezza; il puzzo è il loro profumo, e credendosi tanti re in mezzo alla miserabilissima loro schiavitù, non vorrebbero cambiare la loro tirannide con quella di Falaride o di Dionigi. Quello poi che soprattutto contribuisce a renderli felici è quell’alta idea che eglino hanno della loro erudizione. Sebbene non facciano che infondere insignificanti parole, e insulse frivolezze nelle menti de’ giovani alla lor cura affidati, pure, Dio buono! credono un nulla a confronto di essi e i Palemoni, e i Donati37. Non so neppure con quai prestigj sappiano costoro infatuare le goffe madri, e gl′idioti padri de′ loro scolari, a segno di farsi tener da essi realmente per que’ valenti uomini che si vanno da loro medesimi spacciando. Aggiungiamo a ciò anche quell’altro genere di piacere ch’essi provano ogni qualvolta riesce loro di scoprire in qualche vecchia cartaccia tutta sporca e guasta dai tarli, il nome della madre d’Anchise, o qualche vocabolaccio comunemente ignoto, bubsequam, per esempio, bovinatorem, manticulatorem; o se hanno la fortuna di scavare qualche pezzo d’una lapide antica, sulla quale trovinsi scolpiti dei caratteri tronchi. Ah per Giove immortale! Che tripudio, che trionfo, che applausi! Non fu certo più lieto Scipione per aver soggiogata l’Africa, nè Dario per la conquista di Babilonia. È indicibile la gioia che provano questi pedanti, allorchè andando di porta in porta a leggere i loro freddissimi ed insulsi versicoli, trovano puro qualche ammiratore. Già già credonsi nuovi Virgilj, e non so anche se si figurino che l’anima di Marone sia passata nel loro cervello. Oh quanto è bello il vederli rendersi tra loro lodi per lodi, ammirazione per ammirazione, grattamento per grattamento! Se per caso poi un uomo dell’arte ha sbagliato qualche costrutto e che un altro più penetrante di lui se ne sia accorto, oh Dio! che scene, che dispute, che ingiurie, che invettive! A proposito di grammatica voglio raccontarvi un bellissimo fattarello: la storia è vera, e m’abbia, se io mento, tutti i grammatici contro. Guardate che orribile protesta! Conosco un uomo sessagenario, il quale sa per eccellenza il greco, il latino, le matematiche, la filosofia, la medicina. Ora sareste mai capaci d’indovinare in che cosa questo dotto universale s’occupi da vent’anni in qua? Avendo lasciati da parte tutti gli altri studj, non si applica che alla grammatica, mettendo il suo cervello ad una continua tortura. Egli non ama la vita che per avere il tempo di sciogliere qualche difficoltà di quest’arie importante, e morrebbe contento, quando avesse ritrovato un metodo sicuro di ben distinguere le otto parti dell’orazione: cosa che, secondo lui, non hanno ancora potuto perfettamente conseguire nè i Greci, nè i Latini. Voi vedete bene che l’oggetto è di somma importanza pel genere umano. Di fatto che miseria non è quella d’esser sempre in pericolo di prendere una congiunzione per un avverbio? Un tal equivoco meriterebbe una guerra sanguinosa. Voglio ora farvi osservare che vi sono più grammatiche che grammatici: il solo Aldo, uno de’ miei favoriti in questo genere, ne ha pubblicale cinque; e il mio conoscente le studia tutte, sebbene siano scritte con uno stile barbaro e ributtante; le analizza tutte da capo a fondo, portando somma invidia a coloro che scrivono anche malamente su tale materia, e tremando sempre pel dubbio che non gli rapiscano la gloria ed il frutto delle sue lunghe fatiche. Che vi pare di questo ridicolo sapiente? Il chiameremo noi pazzo o delirante? Chiamatelo come volete, purchè m’accordiate, che quest’animale sopraccaricato di miserie è per opera mia così contento, così innamorato di sè stesso e della sua sorte, che non si vorrebbe cambiare coi più ricchi e più potenti re della terra.
I poeti non mi sono tanto debitori come costoro, ma non è già perchè non siano pazzi anch’essi; ma piuttosto perchè sono in diritto d’esser membri ex professo del mio partito. Già da molto tempo si è detto «che i poeti e i pittori formano una nazione libera». I poeti fanno consistere tutta la loro arte nello spacciare frottole e favole ridicole per allettare l’orecchio degli stolti. Eppure appoggiati a queste ridicolezze, si confidano di ottenere una divina immortalità, e la promettono ancora agli altri. L’amor proprio e l’adulazione sono i loro indivisibili consiglieri; ed io non ho adoratori più fidi, nè più costanti di loro.
Gli oratori appartengono egualmente alla mia setta; ma devo confessarvi che non sono i miei sudditi più fedeli, perchè se la intendono qualche poco coi filosofi. Ciò non ostante, oltre che sono anche essi pieni di amor proprio e di vanità, non mancano d’essere fecondi in frivolezze, e i più celebri hanno scritto con serietà lunghi trattati sulla maniera di scherzare. L’autore, chiunque egli sia, che dedicò ad Erennio l’arte del dire, annovera la pazzia fra le varie specie di facezie. Quintiliano medesimo, principe de’ retori, ha composto intorno al riso un capitolo più voluminoso dell’Iliade di Omero. Secondo questi scrittori la follia ha una forza maggiore della ragione, perchè tante volte quello che non si può conseguire con nessun argomento, si ottiene con una lepidezza. Finalmente non vorrei essere la Pazzia, se l’arte di muovere il riso con piacevoli sali non fosse tutta opera mia particolare.
Eccovi un’altra specie di persone a presso a poco della medesima pasta, voglio dire di coloro, che ambiscono una fami immortale col pubblicare dei libri. Tutti in generale sono di mia appartenenza questi scrittori; ma quegli in ispecie che pubblicano solo insipidezze. Rispetto poi a quegli autori che scrivono per pochi, cioè per le persone di fino gusto e di buon naso, che non ricusano il giudizio di Persio e di Lelio, vi confesso ingenuamente che costoro meritano più compassione che invidia. Immersi in una continua applicazione, pensano, ripensano, aggiungono, cambiano, levano, rimettono, limano, rifondono, fanno, cancellano, consultano; e con tutte queste pene passano forse nove o dieci anni, giusta il precetto d’Orazio, prima che il manoscritto sia pubblicato colle stampe. Oh quanto mi fanno pietà questi scrittori! Essi non sono mai contenti del loro lavoro; e pure qual ricompensa hanno a sperare? Oh mè! un poco di fumo, un piccol numero di leggitori, una lode incerta. Ma ditemi proprio senza simulazione: queste tenui bagattelle contrappesano forse il sacrificio del sonno, più dolce d’ogni cosa, della tranquillità, dei piaceri; in una parola di tutte le dolcezze della vita? Bisogna ancora aggiungere, che questi ricercatori di una sognata immortalità rovinano la loro salute, impallidiscono, dimagrano, diventano cisposi, e talvolta anche ciechi; sono sempre miserabili, invidiati, privi d’ogni piacere; e ottengono alla fine di accelerarsi tutti i mali della vecchiaia ed anche la morte stessa. Quel nostro saggio però stima un rimedio sufficiente a tanti mali l’approvazione di uno o due cisposi della sua classe.
Ma parliamo un poco d’un autore che scriva sotto i miei auspicj, e di cui io sia la Minerva. Non conoscendo costui nè meditazione, nè tortura di cervello, nè veglie, scrive tutto ciò che si sogna, o che gli cade in mente, sembrandogli ogni cosa mirabile e divina. Appena la sua penna può tenner dietro alla rapidità della sua immaginazione e dei suoi pensieri. Non costandogli che un lieve consumo di carta, scrive un mondo di spropositi e d’impertinenze, persuaso che pubblicando delle scempiaggini incontrerà maggiormente l’approvazione della maggior parte, cioè di tutti gli stolti, e di tutti gl’ignoranti. Ora chi mi negherà, che quest’uomo non sia veramente beato? Voi mi risponderete, che così operando bisogna però rinunciare affatto alla speranza d’essere approvato dai veri dotti. Capperi, che gran sagrificio! Rare volte addiviene che questi fini e savi critici leggano il mio autore, ma quando anche tutti lo dovessero leggere potrebbesi egualmente disprezzare il loro suffragio per secondare gli stolti ed ignoranti, i voti de’ quali sono il voto di quasi tutto il genere umano; e dubitereste voi di questa verità?
L’intendono ancora meglio i plagiarj, i quali con somma felicità si appropriano le opere altrui, e godono una gloria, che quegli, ai quali l’hanno rubata, si sono procacciata con una immensa fatica. Non è già che ignorino questi impudenti che un giorno o l’altro deve scoprirsi il lor ladroneccio, ma sperano almeno approfittarne per qualche tempo. È un gusto matto il vedere come si pavoneggiano costoro quando si fanno loro degli encomj; quando passando per le contrade vengono mostrati a dito, e si sentono dire: Osservatelo, vedetelo là quell’uomo veramente ammirabile; quando vedono i loro libri ben legati e ben tenuti nella bottega di qualche libraio. I loro nomi si leggono in capo ad ogni pagina, e ve ne sono almeno tre, tutti forestieri, e rassomiglianti ai magici caratteri. Questi nomi, per Giove immortale, non hanno alcun significato, e non sono in sostanza che veri nomi! Riguardando d’altra parte la vastità della terra, si può dire che pochissimi siano quelli che intendano que’ nomi, e più pochi ancora quelli che li lodino; non essendo men diverso il gusto tra gl’ignoranti che tra i sapienti. Suole anche spesso accadere che questi nomi siano inventati e presi in prestito dagli antichi. Chi gode, per esempio, chiamarsi Telemaco, chi Steleno, chi Laerte, chi Policrate, chi Trasimaco, ecc. I nostri plagiarj si gloriano di far rivivere questi nomi di morti e adottarli; ma farebbero egualmente bene a nominarsi camaleonti, zucche, ecc.; oppure, secondo l’uso di alcuni filosofi, intitolare i loro libri A o B. Ma è graziosissimo il vedere questi asini incensarsi tra loro nelle lettere, nelle poesie, e negli elogi. Voi vincete Alceo38, dice l’uno; e voi, Callimaco39, l’altro risponde; voi eclissate l’oratore romano; e voi superate il divino Platone. Talvolta questi generosi campioni si sfidano reciprocamente, per accrescere coll’emulazione la propria fama. Il pubblico intanto sta sospeso, non sapendo a qual partito appigliarsi nelle loro contese, ma comunemente suol accadere, che i bravi antagonisti facciano prodigj, e meritino entrambi l’alloro della vittoria, e gli onori del trionfo. Voi intanto, o sapienti, vi ridete di queste belle cose, e le considerate come vere pazzie; ma chi può mai darvi torto? Voi però non sapreste negarmi, che io sola formo tutta la felicità dei cattivi scrittori e dei plagiarj, i quali non cambierebbero certo i loro trionfi con quelli degli Alessandri, o degli Scipioni. Ma questi dotti ch’io vedo ridere così di buon cuore, e prendersi giuoco dell’altrui pazzia, crederebbero forse di non avermi anche essi qualche obbligazione? Se ciò fosse, si assicurino pure che sarebbero o ciechi, o vilmente ingrati. Passiamo pertanto brevemente in rivista le professioni dei dotti.
Pretendono i legali di portare il vanto sopra tutti gli eruditi, ed hanno una grandissima opinione dell’arte loro; mentre, per dirvela schietta, la loro professione è in ultima analisi un vero travaglio di Sisifo; imperocchè fanno una quantità di leggi che non concludono niente. Infatti cosa sono il digesto, le pandette, il codice, ec.? Non sono che un cumulo di commentarj, di glose, di citazioni. Con tanto guazzabuglio di cose fanno credere al volgo, che fra tutte le scienze, la loro sia quella che richiegga il più sublime e laborioso ingegno: e siccome trovasi sempre bello ciò che par difficile, perciò gli sciocchi hanno gran concetto di questa scienza.
Possiamo unire a costoro con tutt’onore i dialettici ed i sofisti, i quali fanno più strepito di tutto il bronzo Dodoneo40, e ciascuno di loro potrebbe superare in cicaleccio venti e più donne, anche di quelle che sogliono distinguersi per ciarliere. Ciò non ostante sarebbe ancora da desiderarsi che non avessero altro difetto che il soverchio cicalare; ma per nostra disgrazia sono sempre pronti a disputare e a riscaldarsi anche per quistioni di lana caprina: e a forza di quistionare per sostenere il vero (come pretendono essi) perdono di vista il più delle volte la verità. Questi quistionatori eterni sono però sempre contenti di sè medesimi, e armati di tre o quattro sillogismi sono sempre disposti a sfidare alla tenzone chicchessia, e sopra qualunque argomento: l’ostinazione serve loro d’invincibile spada, e non cedono mai, quand’anche avessero a combattere contro uno Stentore41.
A questi tengono dietro immediatamente i venerabili filosofi, rispettabili per la loro barba e pel loro mantello. Si millantano costoro di essere i soli sapienti, e credono che tutti gli altri uomini non siano che mobili ombre. Squarciamo questo velo di orgoglio e di presunzione, ed osserviamo che cosa sono i filosofi. Sono anche essi ridicoli pazzi: e chi può mai trattener le risa all’udirli sostenere seriamente l’infinità de’ mondi? Il sole, la luna, le stelle, tutti questi globi sono da loro così ben conosciuti, come se gli avessero misurati a palmo a palmo, oppure con un filo. Senza dubitar di nulla vi danno la ragione del tuono, dei venti, degli ecclissi e di tutti gli altri fisici misteri. Per verità a sentirli parlare con tanta franchezza ognuno li crederebbe membri del gran consiglio degli Dei, o testimonj oculari della natura, allorchè il tutto usci dal niente. Intanto però la natura, quest’abile produttrice dell’universo, sembra prendersi giuoco delle loro congetture. Basta infatti riflettere alla strana diversità dei loro sistemi, per che si veda che non hanno alcuna idea sicura, poichè mentre vantatisi di saper tutto, non s’accordano in niente. I filosofi non conoscono nè meno sè medesimi, imperocchè mentre tentano di sollevarsi alle più sublimi speculazioni, cadono in una fossa inosservata, ove si rompono la testa contro un sasso. Mentre si sono guastata la vista col lungo contemplar troppo da vicino la natura, e mentre il loro spirito è sempre in viaggio, si vantano di distinguere le idee, gli universali, le forme separate, le materie prime, le quiddità, l’ecceità, ecc.; tutti oggetti così piccoli, che, se non m’inganno, non potrebbero distinguersi nè meno cogli occhi di Lince. Ma in alcun’altra scienza non disprezzasi mai tanto il profano volgo come nelle matematiche, le quali consistono in triangoli, in quadrati, in circoli e in altre simili geometriche figure, che poi sovrappongono le une alle altre, e le confondono a guisa di labirinto: finalmente sbalordiscono gl’idioti con diverse lettere disposte come un esercito in orbine di battaglia, e suddivise in varie compagnie. Ma non dimentichiamo gli astrologi, ai quali il cielo serve di biblioteca, e gli astri di libri. In virtù di questo studio essi comprendono benissimo e manifestano l’avvenire; predicono inoltre prodigj più che non fanno i magi. Il più bello di tutto poi si è, che hanno la fortuna di trovare ancora dei credenzoni.
Sarebbe forse meglio che non parlassi dei teologi, imperciocchè la materia è assai delicata, ed è molto pericoloso il toccare una simil corda. Questi interpreti delle cose divine sono pronti ad accendersi come la polvere; hanno il guardo terribilmente severo: in una parola sono nemici molto pericolosi. Se per sorte avete incorsa la loro indegnazione, vi si gettano addosso come orsi furibondi, vi addentano, e non vi lasciano se non dopo avervi obbligati a fare la vostra palinodia con una serie infinita di conclusioni; ma se mai ricusate di ritrattarvi, allora vi condannano tosto come tanti eretici. Col mostrare questa folgore, col gridare all’eretico, all’ateo, ottengono di far tremare coloro, ai quali non sono propizj. Benchè non siavi alcuno che al par di loro dissimuli i miei favori, non è però men vero, che mi sono moltissimo obbligati. Imperocchè ho imposto al mio amor proprio di favorirli più di ogni altro mortale, ed infatti sono i maggiori suoi prediletti. Egli è per questo che a guisa di tanti angioli abitatori del terzo cielo risguardano dall′alto della loro grandezza il resto degli uomini come altrettante bestie striscianti, e ne provano pietà. Circondati da una schiera di magistrali definizioni, di conclusioni, di corollarj, di proposizioni esplicite ed implicite; di tutto ciò finalmente che compone la milizia della sacra scuola, trovano essi tanti sotterfugi che Vulcano stesso non saprebbe invilupparli quand’anche adoperasse quella rete, di cui si servì per mostrare agli Dei le nascenti sue corna; e non v’è nodo alcuno che questi signori non sappiano sciogliere in un sol corpo colla più che Tenedia bipenne del Distinguo; bipenne formata da tutti quei nuovi vocaboli sonori ed ampollosi, nati nel seno della scolastica sottigliezza.
Osserviamo i nostri oracoli in mezzo alle più sublimi loro funzioni; osserviamoli, dico, a interpretare a lor talento gli occulti misterj della salute, e per qual motivo sia stato creato e ordinato il mondo.
Si tratta di sapere per quai canali è trapassata alla posterità la macchia del peccato originale? Si tratta della incarnazione e dell′eucaristia? Ah! tali materie sono troppo trite e degne soltanto de’ teologi novizi! Ma ecco le quistioni degne dei grandi maestri, dei maestri illuminati, come dicono essi, e quando trattano questi argomenti, allora sì che si scuotono e prendono fiato: vi è stato un qualche istante nella generazione divina? Gesù Cristo ha molte figliazioni? È possibile questa proposizione: Dio Padre odia suo Figlio? Dio ha potuto unirsi personalmente ad una donna, al diavolo, ad un asino, ad una mucca, ad una pietra? Nel caso che Iddio si fosse unito alla natura di una zucca, come ha fatto colla natura umana, in qual guisa questa beata e divina zucca avrebbe predicato, avrebbe fatto miracoli, sarebbe stata crocifissa? Com’avrebbe consecrato san Pietro, se avesse detto messa mentre il corpo di Gesù Cristo pendeva ancora sulla croce? Sarebbesi potuto dire allora che il Salvatore era un vero uomo? Sarà egli permesso di bere e di mangiare dopo la risurrezione? Un tal dubbio sta molto a cuore ai nostri reverendi, e moltissimo piacerebbe ad essi l’affermativa di una tal quistione.
Ma non consiste solo in questo il teologico magazzino; v’ha ancora innumerabili altre arguzie, non meno frivole e sottili delle sovraccennate: tali sono per esempio, gl’istanti della generazione divina, le nozioni, le relazioni, le formalità, le quiddità, l’ecceità e tant’altre chimere di simil natura. Sfido chicchessia se è buono a scoprirle, se già non abbia una vista così penetrante, da poter distinguere a traverso dense nubi oggetti non esistenti. Aggiugniamo a tutto questo la loro morale strana e contradditoria, in confronto della quale sono nulla i paradossi degli stoici: si sostiene, per un esempio, che il racconciare una scarpa d’un povero in giorno di domenica è un peccato maggiore, che strangolare mille persone. Che si dovrebbe piuttosto lasciar cadere il mondo nel suo nulla, che profferire la più piccola bugia ec. Inoltre contribuiscono a vieppiù sottilizzare queste sottigliezze tutti quei diversi sotterfugj degli scolastici; cosicchè sarebbe men difficile uscire da un labirinto, che sbarazzarsi dagl’inviluppi de’ Reali, de’ Nominali, de’ Tomisti, degli Albertisti, degli Occanisti, degli Scotisti: ahimè! già mi manca il respiro, e pure non ho nominate che le principali sette della scuola, tralasciandone moltissime altre. In tutte queste fazioni si trovano tante erudizioni o tante difficoltà, che se gli Apostoli stessi discendessero in terra, e fossero obbligati a disputare coi teologi moderni sopra queste sublimi materie, son di parere che avrebbero bisogno d’un nuovo spirito affatto diverso da quello, che li faceva parlare ai loro giorni. S. Paolo avea fede, ma non ha data una definizione della fede abbastanza magistrale, quando ha detto: Fede è sostanza di cose sperate ed argomento delle non parventi. Lo stesso apostolo ardeva nel fuoco della carità; ma non si è mostrato buon logico coll’omettere la definizione e la divisione di questa virtù al capitolo XIII della sua prima lettera ai Corintj. Gli Apostoli consacravano con divozione e con pietà il sacramento dell’eucaristia; ma se avessero dovuto spiegare come Iddio faccia il suo passaggio da un luogo all’altro per mezzo della consecrazione; come succeda la Transustanziazione; come mai uno stesso corpo possa ritrovarsi nel medesimo tempo in più luoghi; qual differenza passi tra il corpo di Gesù Cristo in cielo, sulla croce, e nell’eucarestia; in qual momento si faccia la Transustanziazione, giacchè la Formola Sacramentale, com′essi dicono, essendo composta di sillabe e di parole, non può pronunziarsi se non successivamente: io credo, che se questi primi teologi del cristianesimo avessero dovuto sciogliere simil difficoltà, avrebbero avuto mestieri dell’acume degli Scotisti, che sono veramente Mercurj nell’arte dell’argomentazione e della definizione. Ebbero gli Apostoli, è vero, la sorte di convivere colla madre di Gesù, ma nessuno di essi la conobbe al pari de’ nostri teologi, poichè questi provarono geometricamente, che la Vergine feconda è stata preservata dalla macchia del peccato originale. S. Pietro ha ricevute le chiavi dalle mani stesse dell’Uomo Dio, e non è certamente da supporsi che volesse collocarle in cattive mani; pure non so se quel beato pescatore conoscesse bene il significato di quelle mistiche chiavi. Noi però sappiamo di certo che non chiese mai a Dio suo maestro, come un rozzo ed ignorante pescatore potesse avere le chiavi della scienza. Gli Apostoli battezzavano continuamente, e ciò non ostarne non insegnarono mai nè cosa fosse la causa formale, materiale, efficiente e finale del battesimo, nè fecero mai menzione del carattere delebile ed indelebile. Questi fondatori della cristiana religione adoravano Dio; ma la loro adorazione s’appoggiava a questo principio fondamentale dell’Evangelo: Dio è un puro spirito, e bisogna adorarlo in ispirito e verità. Pare ancora che non sia stato agli Apostoli rivelato, che il culto, chiamato nelle scuole di Latria, può rendersi tanto a Gesù Cristo in persona, quanto alle sue immagini scarabocchiate sul muro col carbone, purchè rappresentino il Figliuolo di Dio in atto di dare la benedizione colle due dita, indice e medio, della destra alzata, colla testa adorna di una lunga capellatura e di un triplice circolo di raggi. Ma come mai avrebbero potuto gli Apostoli possedere una sì grande e salutare erudizione? Non sono eglino incanutiti nel faticoso studio delle scienze fisiche e metafisiche di Aristotile e degli Scotisti. Gli Apostoli parlano qualche volta della grazia, senza però distinguere la grazia gratuita dalla grazia gratificante: esortano essi alle buone opere senza distinguere l’opera operante dall’opera operata: inculcano la carità senza separare l’infusa dall’acquisita, e senza spiegare se quest’amabile e divina virtù sia sostanza o accidente, se sia creata o increata, detestando il peccato, ma possa io morire, s’essi avrebbero potuto definire scientificamente ciò che noi chiamiamo peccato, se già non fossero stati inspirati dallo Spirito degli Scotisti. Se S. Paolo, dal quale giudicar dobbiamo di tutti gli altri Apostoli, avesse avuta una buona teoria del peccato, avrebb’egli così frequentemente condannato le contese, i diverbj, le quistioni, le dispute di parole? Diciamo pure con franchezza, che S. Paolo non conosceva le arguzie e i tratti di spirito che distinguono i moderni; tanto più che nascevano nella primitiva Chiesa, non erano che puerili meschinità a fronte del raffinamento dei nostri maestri, i quali di gran lunga sorpassano in sottigliezza anche il sofista Crisippo. Rendiamo però giustizia alla loro modestia; poichè non condannano mai ciò che gli Apostoli hanno scritto con poca aggiustatezza e precisione, contentandosi solo d’interpretarlo favorevolmente, per usare un certo qual riguardo, tanto alla venerabile antichità, quanto all’apostolato. Sarebbe inoltre cosa irragionevole il voler chieder conto agli apostoli di queste difficili materie, mentre il divino loro maestro non ne ha mai fatto ad essi parola.
Non si hanno gli stessi riguardi pei Grisostomi, pei Basilj, pei Gerolami, pei Padri della Chiesa, ponendo senza difficoltà a certi passi delle opere loro: Questo non è accettato. Bisogna riflettere che questi antichi dottori doveano confutare i filosofi pagani, ed i Giudei naturalmente ostinatissimi; ma lo facevano più coll’esempio, e coi miracoli, che cogli argomenti; tanto più che i primitivi nemici del cristianesimo erano d’un genio sì limitato, che non avrebbero mai potuto concepire un sol principio di Scoto. Ma si facciano pure innanzi presentemente, se loro piace, e gl'increduli, e i pagani, e i Giudei e gli eretici, e tutti, tutti senz’altro dovranno convertirsi e cedere alla forza delle minutissime sottigliezze de’ teologi moderni. Bisogna essere uno stupido, o un impudente, a non conoscere il valore delle loro arguzie, o farsene beffe. Io crederei prudente o arrendersi al primo assalto o accettar la disfida qualora si abbiano le stesse armi; ma in questo caso sarebbe come mettere alle prese un mago con un mago; o usare una spada incantata contro un’altra egualmente incantata; vale a dire sarebbe un tessere la tela di Penelope.
A proposito di combattimento, mi sembra che i cristiani dovrebbero cambiare le loro truppe nelle guerre che fanno contro gl’infedeli. Se invece di quella rozza e materiale soldatesca, che già da gran tempo adoperano inutilmente nelle Crociate, spedissero contro i Turchi e i Saraceni, i clamorosi Scotisti, gli ostinati Occamisti, gl’invincibili Albertisti, e tutta quanta la milizia de’ Sofisti; chi mai potrebbe sostenere gli assalti di queste truppe regolate? Ben ridicola sarebbe, a mio credere, questa battaglia, e affatto nuova la vittoria. Chi sarebbe tanto freddo da non accendersi al fuoco di tali dispute? Chi sarebbe così poltrone da non correre alla puntura di quegli sproni? Chi può vantare si buona vista da non restare abbagliato dalla chiarezza di quelle sottigliezze? Credete voi ch’io scherzi?
Non v’ingannate. Una tale armata, sarebbe anche men numerosa di quello che si suppone; imperocchè tra gli stessi teologi si trovano uomini di dottrina solida e giudiziosa, ai quali fanno nausea queste frivole ed impertinenti arguzie, e ve ne sono ancora di una coscienza sì retta, che ne provano orrore come d’una specie di sacrilegio. Che orribile empietà! esclamano essi. Invece di adorare l’impenetrabile oscurità de’ nostri misteri (poichè appunto per questo sono misteri) si pretende di spiegarli; e in che maniera? con un linguaggio immondo, e con argomenti non meno profani di quelli de’ gentili. Si arrogano insolentemente il diritto di definire, e disputare delle verità incomprensibili, profanando così la maestà della teologia con parole e con sentenze le più insulse e triviali.
Intanto questi dicitori di nulla vanno così tronfi della vota loro erudizione, anzi provano tanto piacere ad occuparsi giorno e notte in queste soavissime nenie, che non hanno neppure il tempo di leggere una sola volta l’Evangelio, o le lettere di S. Paolo. Il più bello si è che mentre vanno in tal modo chiaccherando nelle loro scuole, s’immaginano d’essere i difensori della Chiesa, la quale cadrebbe senza fallo se cessassero un momento di sostenerla colla forza dei loro sillogismi; appunto come Atlante, secondo i poeti, sostiene il cielo colle sue spalle. I nostri disputatori hanno ancora un altro grande soggetto di felicità. La Scrittura è nelle loro mani come un pezzo di cera, poichè sogliono dare a questo libro quella forma, e quel significato che va loro maggiormente a genio: pretendono che le loro decisioni intorno alle sacre scritture, dal momento che sono state accettate da alcuni altri scolastici, debbano essere rispettate più che le leggi di Solone, ed anteposte anche ai decreti de’ Papi. Ergonsi costoro a censori del mondo, e se alcuno s’allontana tanto o quanto dalle loro conclusioni, siano dirette o indirette, l’obbligano tosto a ritrattarsi, e pronunciano come tanti oracoli: Questa proposizione è scandalosa, quest’altra è temeraria, quella sente d’eresia, quell’altra suona male. Per tal modo nè il Vangelo, nè il battesimo, nè Paolo, nè Pietro, nè Girolamo, nè Agostino, e nemmeno lo stesso Tommaso d’Aquino, comunque sfegatato aristotelico, non saprebbero fare un ortodosso, senza il beneplacito di questi baccellieri; tanto è necessaria la loro sottigliezza per ben decidere della ortodossia. Chi avrebbe mai sospettato che non fosse cristiano colui, il quale sostenesse che queste due proposizioni: Socrate corri e Socrate corre, fossero egualmente buone, se i teologi d’Oxford non avessero amato di farcelo sapere col fulminare queste due condannabili proposizioni? Come mai sarebbe stata la Chiesa purgata da tanti errori, se non era permesso distinguerli prima che fosse stato applicato il gran sigillo dell’Università alle proposizioni condannate? Non chiamerete voi dunque felicissime queste persone? Ma proseguiamo ancora un poco. Quante bellissime storie questi dottori senza dottrina non ci vanno spacciando intorno all’inferno? Ne conoscono così bene tutti gli appartamenti, parlano con tanta franchezza della natura e dei vari gradi del fuoco eterno, delle diverse incumbenze dei demonj; discorrono finalmente con tanta precisione sulla repubblica de’ dannati, che sembrano di esserne già stati cittadini pel corso di molti anni. Inoltre, qualora lo giudichino conveniente, non perdonano alla fatica di creare anche dei nuovi mondi, come lo hanno mostrato col formare il decimo cielo, da essi chiamato empireo, fabbricato espressamente pei beati; essendo troppo giusto che le anime glorificate avessero un vasto e delizioso soggiorno per ivi godere tutti i loro comodi, per divertirsi insieme, ed anche per giocare alla palla se loro venisse in grado.
I nostri fini pensatori hanno il cervello così zeppo, così agitato da queste fanfaluche che certo non era più gonfio il cervello di Giove, allorchè volendo partorire Minerva implorò il soccorso della scure di Vulcano. Non vi fate pertanto maraviglia se nelle pubbliche difese hanno somma cura di cingersi la testa con tante fasce, poichè si studiano d’impedire per mezzo di questi onorevoli legami che non iscoppii da tutte le parti quella massa di scienza, di cui si trova sopraccaricato il loro cervello. Non posso a meno di ridere (ora giudicate se non ve ne sia un grande argomento, poichè rare volte trova da ridere la Pazzia), non posso a meno di ridere, quando ascolto questi celebri personaggi, i quali non parlano già, ma piuttosto balbettano. Costoro non si reputano teologi, se non quando possiedono perfettamente il loro barbaro e sporco linguaggio, il quale non può essere inteso se non da quelli dell’arte; ma di questo se ne gloriano chiamandolo acume, e dicendo con arroganza di non parlare pel volgo profano: soggiungono inoltre, che la dignità delle Sante Scritture non dee soggiacere alle regole grammaticali. Ammiriamo la maestà dei teologi! Non è permesso che a loro il parlare scorrettamente, e tutt’al più si concede al volgo di contrastar loro questa prerogativa. Finalmente i teologi pongono sè stessi immediatamente dopo gli Dei, ed allorchè per una specie di religiosa venerazione sentonsi chiamare nostri maestri, si figurano di vedere in questo titolo qualche cosa di quel nome ineffabile composto di quattro lettere, e cotanto adorato da’ Giudei.
Per cotale presupposto vogliono che si scriva maestro nostro in lettere maiuscole; e questo titolo è poi tanto misterioso che se in latino si rovesciasse l’ordine delle due parole, e si mettesse il Nostro avanti al Maestro, tutto sarebbe perduto, o per lo meno soffrirebbe un grande smacco la maestà del nome teologico.
Dopo costoro viene immediatamente la specie migliore del genere animale; ossia coloro che chiamansi volgarmente monaci o religiosi. Egli è però
un abusare grossolanamente de’ termini, chiamandoli al giorno d’oggi con tali nomi. Imperocchè, comunemente parlando, non vi sono persone più irreligiose di queste, e siccome il nome monaco significa solitario, parmi che non possa più ironicamente applicarsi a persone, le quali s’incontrano dappertutto, e s’urtano ad ogni passo. Che cosa avverrebbe mai senza il mio soccorso di questi poveri porci degli Dei? Sono talmente odiati che quando per accidente s’incontrano, soglionsi prendere per uccelli di cattivo augurio. Ciò non ostante hanno una cura scrupolosa della loro conservazione, e stimansi personaggi d’alta importanza. La loro principale divozione consiste nel non far nulla, a tal segno che s’astengono altresì dal leggere; e senza prendersi fastidio d’intendere i loro salmi, credonsi anche troppo dotti quando ne sappiano il numero; ed allorchè li cantano in coro s’immaginano di rapire il cielo coll’asinesca loro melodia. Fra questa variopinta mandra trovansi alcuni, che fanno pompa della loro immondezza e della loro mendicità, e che vanno di casa in casa a questuare; ma con una fronte così sfacciata,
che sembrano esigere piuttosto un credito, che dimandar l’elemosina; alberghi, bettole, carri, barche, vetture, in una parola importunano tutto il mondo con grande discapito de’ veri bisognosi. Ecco in qual modo costoro pretendono rappresentarci, come dicono essi, gli Apostoli colla loro immondezza, colla loro ignoranza, colla loro rozzezza, colla sfacciataggine loro. Nulla di più ridicolo di quell’ordine esatto e preciso, che osservano in ogni loro operazione; tutto si regola da costoro col compasso e colla misura. Le scarpe devono avere tanti nodi, il cingolo dev’essere del tal colore, la veste formata da tanti pezzi, la cintura della tal qualità e della tal larghezza, la cocolla della tal forma e della tale ampiezza, la cherica di tanti pollici di diametro, devono mangiar alla tal ora, la tale qualità e quantità di cibo; dormire solo tante ore, ecc. Ora ognuno può ben chiaramente comprendere quanto una sì precisa uniformità sia impossibile a conciliarsi coll’infinita varietà del pensare e dei temperamenti. Nulladimeno da questa metodica esteriorità ritraggono i monaci argomento di disprezzare quelli ch’essi chiamano secolari, e talvolta essa partorisce fra i differenti ordini serie contese, a segno tale che queste anime sante, le quali si vantano di professare la carità apostolica, si vanno vicendevolmente lacerando, e perchè? per un cingolo diverso, o pel colore un po’ più carico della veste.
Vi sono alcuni di questi reverendi che mostrano bensì l’abito di penitenza, ma che si guardano ben bene di far vedere la finissima camicia che portano sotto; altri all’incontro portano esternamente la camicia e la lana sulla pelle. I più ridicoli, a mio credere, sono poi quelli, che inorridiscono alla vista del danaro come farebbesi a quella d’un serpente, ma non la perdonano poi nè al vino, nè alle donne. Non potreste finalmente credere quanto si studino costoro di distinguersi in ogni cosa gli uni agli altri. Imitar Gesù Cristo? Questo è l’ultimo de’ loro pensieri. Eglino si recherebbero ad onta se loro diceste che hanno presa la tale o tal altra cosa da questo o quell’altro instituto. Credete voi che quell’enorme varietà di soprannomi e di titoli non solletichi molto le loro orecchie? Gli uni si gloriano di chiamarsi Francescani, e questo tronco ha per rami i Riformati, i Minori Osservanti, i Minimi, i Cappuccini; altri si dicono Benedettini; questi si chiamano Bernardini, e quelli di santa Brigida; altri sono di sant’Agostino; questi s’appellano Guglielmini, e quelli Giacobiti, ecc.; quasichè non bastasse il chiamarsi Cristiani. La maggior parte di costoro confidano tanto in certe loro cerimonie, e in certe tradizioncelle umane, che un sol paradiso sembra ad essi un premio troppo scarso ai meriti loro; ma però Gesù Cristo, sprezzando tutte queste scimiottaggini, non giudicherà gli uomini che sul punto della carità, la quale è il primo de’ suoi comandamenti. Invano costoro nel giorno tremendo del finale giudizio presenteranno a Dio un corpo impinguato con ogni sorta di pesci, invano gli offriranno il canto de’ loro salmi, e gl’innumerabili loro digiuni; invano sosterranno d’essersi rovinato il ventre con una sola refezione; invano produrranno una congerie di pratiche monacali, da potersene caricare almeno sette bastimenti; invano costui si vanterà d’aver pascati sessant’anni senza toccar danaro se non con due dita ben bene infardate; invano colui mostrerà la sua cocolla talmente sordida, che perfino un barcaiuolo ricuserebbe di portarla; invano un altro si vanterà d’aver vissuto cinquantacinque anni sempre attaccato al suo chiostro come una spugna. Invano quegli farà vedere che ha perduta la sua voce a forza di cantare, e questi che la lunga solitudine gli ha stravolto il cervello; invano costui dirà che il perpetuo silenzio gli ha intorpidita la lingua, perchè Gesù Cristo interrompendo tante millanterie (giacchè altrimenti non l’avrebbero mai più finita): Da qual paese, dirà egli, viene questa nuova razza di Giudei? Non ho io forse data agli uomini una sola legge? Sì, e quest’unica riconosco veramente per mia. E questi scioperati non me ne fanno neppure parola? Apertamente, e senza parabole ho promesso in altri tempi l’eredità del Padre mio non alle tonache, non alle orazioncelle, non all’inedia; ma bensì all’osservanza della carità. No, non conosco quelle persone, che apprezzano troppo le pretese loro opere meritorie, e che vogliono comparir più sante di me stesse. Cerchino pure, se loro piace, un cielo a parte; si facciano pure costruire un nuovo Paradiso da coloro, le cui frivole tradizioni hanno preferite alla santità de’ miei precetti. Quale mai non sarà la costernazione di costoro, quando udiranno una sentenza così terribile, e quando vedranno posporsi a barcaiuoli, a carrettieri? Eppure ad onta di tutto questo sono sempre felici nella vana loro speme, la quale altro non è in sostanza che un effetto della mia bontà verso loro.
Non posso qui dispensarmi dal darvi un salutare avviso, ed è che non disprezziate mai questa generazione bastarda (e soprattutto i Mendicanti), quantunque viva separata dalla repubblica. Imperocchè i frati, per mezzo di quel canale che chiamasi la Confessione, hanno contezza di tutti i più intimi segreti delle persone. Non può dirsi ch’eglino non sappiano essere un capital delitto il rivelare le cose udite nel tribunale della penitenza; ma ciò non ostante non mancano di farlo in diverse congiunture, e principalmente quando essendo allegri e riscaldati dal vino vogliono divertirsi a raccontare dei lepidi fattarelli: egli è vero però che usano in questo tutti i maggiori riguardi, poichè per solito non fanno il nome alle persone. Guai se taluno ha la disgrazia d’irritare questi fuchi della società! La loro vendetta vien pronta come la folgore del cielo Subito al primo discorso che fanno al popolo, scagliano i loro dardi contro il proprio nemico, e il padre predicatore lo dipigne così al naturale nelle caritatevoli sue invettive, che bisognerebbe esser cieco a non conoscerne il soggetto; e questo mastino non lascerà di latrare, se non quando, a guisa di ciò che fece Enea col Cerbero, gli avranno chiusa la bocca con degli ingoffi. Giacchè parliamo di questi buoni apostoli sul pergamo, ditemi un poco se non è vero che abbandonereste qualunque ciarlatano, qualunque saltimbanco, per correre ad udire i loro ridicoli discorsi? Costoro potrebbersi chiamare con tutt’onore le scimie de’ retori, tanto piacevolmente imitano le regole, che i retori hanno date intorno all’arte del parlare. Dio buono! osservate come gestiscono, come modulano con maestria la voce, come canterellano, come smaniansi, come si investono della materia, come fanno rimbombare tutta la Chiesa coi loro strepiti e coi loro schiamazzi. Egli è nel silenzio del chiostro che apprendono questa veemente maniera di evangelizzare, la quale si comunica da un fratoccolo all’altro come un segreto di somma importanza. Non essendo io che una divina femminetta non mi è lecito d’essere iniziata a sì profondi misteri; ma però non voglio ntralasciare di dirvi quanto ho potuto notare sul punto della loro predicazione.
Cominciano sempre i loro pasticci con una invocazione presa in prestito dai poeti; quindi fanno un esordio, che non ha nessuna attinenza col soggetto che devono trattare. Devono, per esempio, predicare la carità? cominciano col fiume Nilo. Devono predicare il mistero della croce? cominciano con Belo, favoloso drago di Babilonia. Devono predicare il digiuno quaresimale? cominciano dalle dodici costellazioni dello zodiaco. Devono predicare la fede? cominciano dalla quadratura del circolo: e così del resto. Io stessa che vi parlo ho inteso una volta uno di questi predicatori, uomo di una follìa consumata (perdonatemi, sbaglio sempre) volea dire di una dottrina consumata. Quest’uomo dovea spiegare l’impenetrabile mistero della Trinità; ma per far pompa della sublimità del suo ingegno, e per contentare le teologiche orecchie, sdegnò di battere l’usato sentiero. E quale fu dunque la strada che prese? Vi volea proprio un nome grande al par di lui per farne la scelta. Cominciò il suo discorso coll’alfabeto, e dopo avere con una prodigiosa memoria recitato esattamente l’A, B, C, passò dalle lettere alle sillabe, dalle sillabe alle parole, dalle parole alla concordanza del nome col verbo, e col sostantivo coll’addiettivo. Tutta intanto stava sospesa l’udienza, e non pochi si dimandavan l’un l’altro con Flacco, quale potesse essere lo scopo di tante freddure? Ma il padre predicatore sgombrò ben presto l’incertezza degli uditori, mostrando che gli elementi della grammatica erano il simbolo e l’immagine della sacrosanta Trinità; e lo mostrò con tanta evidenza, quanta ne potrebbe appena spiegare un geometra nelle sue dimostrazioni. Bisogna per altro confessare, che questo saggio di sublime teologia era costato un’immensa fatica al nostro non plus ultra de’ teologi, poichè non vi ha impiegato meno di otto buoni mesi. Il pover uomo se ne risente tuttavia, e gli sforzi straordinari fatti per un sì bel capo lavoro lo hanno reso più cieco di una talpa; essendo stata attratta dal suo spirito tutta l’acutezza della vista. Eppure, chi il crederebbe? Egli prova pochissimo dispiacere d’aver perduta la vista; anzi gli pare d’aver ancora comperata la sua gloria a buon mercato.
Ebbi ancora il piacere d’ascoltare un altro predicatore della stessa tempra. Era costui un venerabile teologo d’ottant’anni, ma così marcio nella teologia che tutti l’avrebbero preso per l’istesso Scoto risuscitato. Questo buon vecchio era salito in pulpito per ispiegare l’adorabile mistero del SS. Nome di Gesù. Ah come vi riuscì a maraviglia! Dimostrò l’oratore, ma con una sottigliezza impercettibile, che tutto quanto poteva dirsi a gloria del Salvatore, tutto trovavasi nelle lettere componenti l’augustissimo suo Nome. Sapete voi tutti, o miei signori, la lingua latina? Se mai alcuno non la sapesse potrebbe intanto fare un sonnellino. In primo luogo fece osservare il vecchio cattedrante, che il sostantivo Jesus ha nella sua declinazione soltanto tre casi differenti, il nominativo, l’accusativo e l’ablativo. Rara e curiosa dottrina! Quanto compiango l’ignoranza di quelli, che non potino assaporarla! Ora che cosa significano questi tre casi? Ma è cosa da dimandarsi? Non si vedono in questi chiaramente espresse le tre divine persone della stessa natura? Ma eccovi ben altra cosa! Il primo di questi tre casi, riflettete bene, termina in s, Jesus; il secondo in m, Jesum; ed il terzo in u, Jesu. Gran mistero, miei fratelli! Queste tre lettere finali vogliono dire che il Salvatore è nello stesso tempo il sommo, il medio e l’ultimo. Restava a sciogliersi una difficoltà più spinosa di tutti quanti i problemi di matematica, e ciò non ostante vi riuscì mirabilmente. Il vecchio barbogio ebbe la felicità di separare il termine Jesus in due parti eguali, Je-us; ma che ne faremo di quest’s, che avendo perdute le sue compagne, stupisce di trovarsi sola? Un po’ di pazienza, e ben tosto ripareremo al male. Gli Ebrei invece dell’s, pronunziano syn; ora syn in buono scozzese significa peccato: dunque esclamò il predicatore! chi sarà mai tanto incredulo da negare che il Salvatore ha tolti i peccati del mondo? A questa spiegazione non meno profonda che impreveduta, furono presi tutti quanti gli uditori, e principalmente i teologi, d’uno stupore tale, che sembravano tante Niobi; ed io mi posi a ridere così forte, che quasi quasi m’accadeva l’istesso inconveniente che accade al ficulneo Priapo, quando a suo mal costo ebbe la curiosità di spiare i notturni misteri di Canidia e di Sagana42. Infatti gli oratori greci e romani si sono eglino mai serviti nelle loro orazioni di una introduzione così disparata? Questi uomini grandi giudicavano vizioso un esordio, che non avesse alcuna attinenza col soggetto; e la natura ha insegnato così bene agli uomini questo metodo, che persino un porcaio, se ha da fare qualche racconto, non incomincia certo con una cosa estranea, ma entra immediatamente a parlare del suo soggetto. I nostri dottissimi frati all'incontro crederebbero di passare per cattivi rettorici, qualora il preambolo, com’essi dicono, avesse la più piccola connessione col resto dell’argomento, e qualora non mettessero gli uditori nella necessità di dire: dove va egli per questa strada?
In terzo luogo propongono in forma di narrazione qualche passo del Vangelo, ma leggermente ed alla sfuggita; e benchè questo esser dovesse il principale loro dovere, pure lo trattano di passaggio, e quasi per incidente. In quarto luogo, come se rappresentassero un nuovo personaggio, muovono una questione teologica, la quale quantunque discovenga moltissimo al loro soggetto, pure la credono così necessaria, che loro sembrerebbe d’aver peccato contro l’arte, se non vi avessero intrusa quella digressione. Egli è in questi passi che i nostri predicatori inarcano superbamente il teologico ciglio, e intronano le orecchie degli uditori coi magnifici epiteti che danno ai loro dottori, di solenni, di sottili, di sottilissimi, di serafici, di santi, d’irrefragabili, ecc. ecc. Egli è pure in questi passi, che a guisa di grandine scaricano un nembo di sillogismi, di maggiori, di minori, di conseguenze, di corollarj, di supposizioni; e spacciano da buoni ciurmadori queste insipide ed insolenti bagattelle della loro scuola ad una moltitudine d'ignoranti.
Eccoci giunti finalmente all’atto quinto della commedia, ove per conseguenza è mestiere dimostrarsi più che mai valente nell’arte. Cavano allora dal magazzino della loro memoria qualche strana e portentosa favoletta, tratta forse dello Specchio storico, o dalle Gesta de’ Romani, la quale poi essi vanno impasticciando ed interpretando nel senso allegorico, tropologico, anagogico, e così pongono fine al loro discorso, il quale, per la mirabile disparità delle sue parti, potrebbesi con tutta convenienza chiamare con Orazio un vero mostro.
Ripassiamo ora alla rinfusa il totale del loro sermoneggiare. I nostri reverendi hanno appreso, non saprei da chi poi lo abbiano appreso, che l’introduzione del discorso deve recitarsi con placidezza e con voce sommessa. Ad osservanza di questa regola parlano così sotto voce nell’esordio, che ci scommetterei, che non intendono neppur essi quel che si dicono; quasichè convenisse parlare per non farsi capir da nessuno. Hanno pure inteso dire, che per muovere gli affetti, l’oratore deve di tempo in tempo impiegare la veemenza dell’esclamazione; quindi fedeli, ma cattivi osservatori di questo precetto, allorquando ognuno crede che siano più che mai tranquilli, tutto ad un tratto e senza veruna ragione, si mettono a gridare come tanti maniaci. Vi dico davvero, che mostrandosi in questo caso più matti che predicatori, si potrebbe con tutt’onoro prescriver loro una buona dose d’elleboro: imperocchè si può veramente chiamar pazzo colui, che grida solo per gridare. Avendo inoltre sentito che l’oratore deve animarsi nel progresso del discorso, recitane posatamente i primi periodi di ciascuna parte; a subito dopo, e sempre per cose da nulla alzano la voce con una forza tale, che quando finiscono, sembra che vogliano cadere in deliquio.
Sapendo finalmente i nostri predicatori che le regole della rettorica prescrivono di risvegliare a quando a quando gli uditori con qualche lepido scherzo, si studiano anch’essi di motteggiare: ma oh Dio come vi riescono a maraviglia! Il fanno proprio come l’asino della favola, quando voleva suonar la lira. Anche questi cani della Chiesa sanno mordere talvolta, ma però senza far male; cosicchè sembrano piuttosto vellicare che ferire. Allorquando poi affettano una grande libertà apostolica, scatenandosi contro i vizj ed i cattivi costumi, è allora appunto che spiegano la maggior adulazione. Predicano finalmente come i ciarlatani; e voi giurereste che questi, sebbene conoscano assai più de’ frati il cuore umano, abbiano imparata dai medesimi l’arte loro: anzi si scopre tanta rassomiglianza nella loro declamazione, che bisogna dire, o che i ciarlatani hanno imparata la rettorica dai nostri predicatori, o che i nostri predicatori hanno studiata l’eloquenza dai ciarlatani.
Con tutto ciò non mancano mai di uditori, ed io stessa sono quella che ha cura di farne ad essi capitare. Vi sono perfino alcuni, che gli ammirano al pari dei Demosteni e dei Ciceroni. Coloro che più di tutti concorrono ad udirli, sono le femminucce, ed i mercanti, di cui i buoni predicatori procurano specialmente di cattivarsi l’affetto. I mercadanti, purchè siano adulati e giustificati, fan loro parte volontieri d’una porzione dei beni mal acquistati, poichè risguardano questi donativi come una specie di restituzione. Le donne poi hanno diversi motivi segreti di amare i religiosi quando anche non fosse perchè trovano in essi un balsamo ed uno sfogo contro i disgusti e la nausea del nodo coniugale. Parmi d’avervi abbastanza dimostrato quanto mi siano debitrici queste teste incappucciate, le quali con vane divozioni, con ridicole cerimonie, con ischiamazzi e minacce, esercitano sul volgo una particolare tirannia, e ardiscono paragonarsi ai Paoli ed agli Antonj. Ma ben mi accorgo d’essermi soverchiamente trattenuta su questi comici ingrati, i quali sanno egualmente dissimulare i miei favori o tingere d’aver nel cuore la religione, e perciò volentieri gli abbandono.
E già gran tempo ch’io differisco di dir qualche cosa intorno ai principi ed ai grandi, i quali sono del tutto opposti a que’ furbi ed impostori, di cui or ora ho parlato; essi mi coltivano senza verun riguardo, e con quella franchezza ch’è propria del loro grado. Se questi felici semi-dei avessero in zucca soltanto una mezz’oncia di cervello, che cosa mai vi sarebbe al mondo di più triste e miserabile della loro condizione? Chiunque si prendesse la pena di riflettere attentamente ai doveri d’un buon monarca, non che volesse usurpare una corona collo spergiuro, col patricidio, col liberticidio, in una parola coi più esecrandi delitti, tremerebbe invece all’aspetto d’un carico così enorme. Imperocchè osserviamo in che cosa consistono gli obblighi d’un uomo che vien posto alla testa di una nazione.
Egli deve travagliare giorno e notte pel pubblico, e mai pel privato interesse; non pensare che ai pubblici vantaggi; osservare pel primo le leggi, di cui è autore e depostario, nè mai deviare in nulla da quelle; osservare da sè stesso, o con occhi ben sicuri, l’integrità degli ufficiali e dei magistrati; aver sempre presente che gli sguardi di tutti stanno fissi sulla sua pubblica e privata condotta, e che a guisa d’un astro salutare può utilmente influire sulle cose umane, o qual infausta cometa può cagionare le maggiori desolazioni. Non deve dimenticarsi giammai che i vizj, ed i delitti de’ sudditi sono infinitamente men contagiosi di quelli del padrone; ripetere ogni giorno a sè medesimo, che il principe si trova in sì alto grado ove, dando cattivi esempj, la sua condotta è una peste che si comunica tosto, e fa una grandissima strage; riflettere che la fortuna d’un monarca lo espone continuamente al pericolo di abbandonare il retto sentiero, che deve resistere ai piaceri, alla lusinga dell’impunità, all’adulazione, al lusso, e che non saprebbe nè mettersi abbastanza in guardia, nè abbastanza reprimere tutto ciò che il può sedurre. Deve finalmente richiamarsi spesso alla memoria, che oltre alle insidie, agli odj, ai timori, ai mali tutti, a cui il principe trovasi esposto ad ogni momento rispetto ai suoi sudditi, ei deve, tosto o tardi comparire innanzi al tribunale del re dei re, ove gli verrà chiesta stretta ragione di tutte le sue più piccole operazioni, ed ove sarà giudicato con un rigore proporzionato all’estensione del suo dominio.
Io pertanto lo ripeto ancora, che se un principe riflettesse a tutte queste cose, alle quali dovrebbe pur troppo far riflessione se fosse un tantino savio, non potrebbe certamente nè mangiare, nè dormire tranquillamente un sol giorno di sua vita. Ma non temete; io ho posto rimedio anche a questo, e col favore della mia inspirazione i principi riposano tranquilli sul destino e sui loro ministri; vivono nella mollezza, e non trattano se non con quelle persone che possono contribuire a divertirli, ed a preservarli da ogni inquietudine ed afflizione. Credono costoro di suddisfare anche troppo ai doveri di un buon re divertendosi quotidianamente alla caccia, mantenendo bellissimi cavalli, vendendo a proprio vantaggio le cariche e gli impieghi, mettendo in opera degli espedienti pecuniari per divorare le sostanze de’ popoli, e per impinguarsi col sangue de’ loro schiavi. Non può negarsi che usino dei riguardi sul punto delle imposizioni: si allegano sempre dei titoli di bisogno, dei pretesti d’urgenza, e benchè in fondo tali esazioni non siano talvolta che un mero ladroneccio, pure si studiano di coprirlo col velo del pubblico interesse, della giustizia e dell’equità; danno ai popoli delle buone parole, chiamandoli i suoi Buoni, i suoi Fedeli, i suoi Affezionatissimi sudditi; e mentre si spogliano con una mano, s’accarezzano coll’altra, per prevenire i loro lamenti, ed accostumarli a poco a poco a sopportare il giogo della tirannia. Ora poi, voglio farvi una supposizione: figuratevi sul trono (cosa che pur troppo spesso suol accadere) figuratevi, dico, sul trono un uomo ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, che non tende se non al suo proprio interesse, schiavo dei suoi piaceri, sprezzatore delle scienze, che sdegna la verità, che non può ascoltare un linguaggio sincero, il cui ultimo pensiero sia la felicità de’ suoi schiavi, che non segua se non le sue passioni, che misuri ogni cosa dalla propria utilità. Mettete a quest’uomo la collana d’oro, ornamento che significa il complesso e l’unione di tutte le virtù; ponetegli sul capo la corona arricchita di pietre preziose, il che lo avverte d’essere in obbligo di sorpassare tutti gli altri in ogni sorta di eroiche virtù; dategli in mano lo scettro, quello scettro ch’è il simbolo della giustizia, e di un’anima completamente incorruttibile; vestitelo finalmente della porpora, che dinota un vivo amore pei popoli, ed un ardentissimo zelo per la loro felicità. Io son di parere che se questo monarca confrontasse i suoi reali ornamenti colla viziosa sua condotta, non potrebbe a meno di provarne vergogna e rossore, e son persuasa che egli temerebbe grandemente d’esser messo in ridicolo insieme coi suoi simbolici fregi da qualche e sensato e lepido chiosatore.
Passiamo ora ai grandi della corte. Non havvi schiavitù più vile, più nauseante, più spregevole di quella, a cui si sottomette questa specie ridicola di persone, e ciò non ostante essa suol guardare d’alto in basso il resto de’ mortali. Conveniamo però che sono modestissimi circa un sol punto, ed è, che contenti di portare indosso l’oro, le pietre, la porpora, e tutti gli altri simboli della saviezza e della virtù, cedono facilmente agli altri la cura d’essere savi e virtuosi. Per essi la maggiore felicità è quella di aver l’onore di parlare al re, di chiamarlo signore e padrone assoluto, di fargli un breve e studiato complimento, di potergli prodigare i titoli stosi di vostra Maestà, di vostr' Altezza Reale, di vostra Serenità, ecc. ecc. Tutta l’abilità de' cortigiani consiste nel vestire con proprietà e magnificenza, nell’essere sempre ben Drofumati, e soprattutto nel saper adulare con finezza. Quanto poi allo spirito ed ai costumi seno veri Feaci43, sono veri amanti di Penelope; voi sapete quanto ne dica il buon Omero44, e meglio di me ve io ripeterà la ninfa Eco. Lo schiavo vile del monarca, purchè non debba fare la corte al suo signore (poichè in questo caso si leverebbe anche al primo canto del gallo, suol dormire fine al meriggio; ed appena svegliato, il mercenario cappellano, che ne attendeva il momento, gli barbuglia in fretta in fretta una messa. Passa quindi a far colezione, e di lì a poco al pranzo, a cui succedono immediatamente i giuochi de’ dadi e degli scacchi, i buffoni, le cortigiane, gli sconci trattamenti, e tutti quegli altri piaceri, che chiamansi passatempi. Questi divoti esercizj si fanno non senza una o due merende; quindi si cena, e si passa la notte in mezzo alle bottiglie; e senza mai ricordarsi che si nasce per morire, si passa rapidamente la vita. Le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i lustri trascorrono per essi senz’alcuna noia a guisa di lampo. Parmi di uscire da un convito, quando miro costoro gloriarsi delle loro ridicolaggini. Quella ninfa credesi più vicina agli Dei, perchè dietro si strascina una coda più lunga delle altre; questo grande, che ha ricevuta una gomitata nello stomaco del suo principe, mentre tentava di penetrar nella folla, si compiace e crede che vi sia minor distanza tra lui ed il suo sovrano; quel cortigiano si pavoneggia per la catena d’oro che gli pende dal collo, perchè pesa molto più di quella degli altri, facendo così pompa non meno della sua opulenza, che della facchinesca sua robustezza.
La vita de’ principi e de’ grandi mi ha guidato naturalmente a parlare anche di quella dei papi, de’ cardinali e de’ vescovi. Egli è già da lungo tempo che questa sacra genia imita con una mirabile emulazione i re ed i satrapi loro; anzi non avrei alcuno riguardo a dire che gli abbia ancora superati. Ora bramerei che per divertimento un vescovo si mettesse un poco a considerare il suo corteggio e i suoi pontificali ornamenti. Se un vescovo riflettesse che la candidezza del suo rocchetto significa una vita affatto immacolata, che la mitra bicornuta, le cui estremità sono allacciate da un nodo, dinota una profonda cognizione del vecchio e del nuovo Testamento; che le mani coperte dai guanti esprimono un cuore purgato da ogni mondano contagio dall’amministrazione de’ sacramenti; che la croce delle scarpe lo avverte di vigilare continuamente il gregge a lui affidato; che la prelatizia croce pendentegli sul petto è il segno d’una compiuta vittoria su tutte le umane passioni: se il nostro prelato, io dico, riflettesse a tutte queste belle cose, ed a molte altre ch’io sopprimo, non è egli vero che diverrebbe magro, pensieroso, macilente, ipocondriaco? Farebbe veramente pietà! Ma no, non dubitate; io ho rimediato a tutto. Ho consigliato a questi sedicenti successori degli Apostoli di battere una strada diametralmente opposta alla loro, ed alcuno meglio di loro non ha giammai saputo approfittare de’ miei consigli. Infatti lo scopo principale dei nostri illustrissimi e reverendissimi, è quello di vivere allegramente; al gregge vi pensi Gesù Cristo. Inoltre non hanno forse i loro arcidiaconi, i loro vicarj generali, i loro penitenzieri, i loro frati e mille altri fedeli mastini, che stanno sempre in guardia contro il lupo dell’inferno? I vescovi hanno perfino dimenticato che il loro nome preso alla lettera significa lavoro, cura, sollecitudine per la salute delle anime; ma non si dimenticano per bacco quando si tratta di prerogative e di danaro!
Vantansi i venerabili cardinali di discendere per linea diretta dagli Apostoli ma vorrei che filosofassero un poco sul loro abito, e facessero quest’apostrofe a sè stessi: «Se discendo dagli Apostoli, perchè non fo io dunque quanto eglino hanno fatto! Io non sono il padrone, ma semplice dispensatore delle grazie spirituali; e ben presto dovrò render conto della mia amministrazione. Che cosa significa questa nivea candidezza del mio rocchetto, se non una somma purità di costumi? Che vuol dire questa sottana di porpora se non un ardente amore verso Dio? Che dinota questa cappa dello stesso colore (cappa sì ampia e spaziosa, che non solo basta a coprire tutta la mula dell’eminentissimo, ma che potrebbe coprire insieme col cardinale anche un camelo), se non una carità illimitata, e sempre pronta a soccorrere il prossimo, vale a dire a istruire, a correggere, ad esortare, a calmare il furor delle guerre, a resistere ai principi malvagi, a dare volentieri tanto il suo sangue, quanto le sue ricchezze pel bene della Chiesa? A che servono tanti tesori? Coloro che pretendono di rappresentare l’antico collegio degli Apostoli non dovrebbero prima di tutto imitare la loro povertà?» Io dico, che se i cardinali facessero a sè stessi una simile apostrofe, e riflettessero seriamente a questi punti, o restituirebbero ben presto il loro cappello, o menerebbero una vita laboriosa, austera, piena di disgusti e di sollecitudini, come appunto facevano i primitivi Apostoli della Chiesa.
Prosterniamoci ora ai piedi del sommo pontefice, e baciamo religiosamente la santa pantofola. I papi diconsi vicarj di Gesù Cristo; ma se attendessero a conformarsi alla vita di Dio loro maestro, se praticassero la sua povertà e la sua dottrina, se
soffrissero pazientemente i suoi patimenti, la sua croce e mostrassero il suo disprezzo del mondo; se riflettessero seriamente al bel nome di papa45, cioè di padre ed all'epiteto di santissimo, con cui vengono onorati; chi sarebbe mai più infelice di loro? Chi vorrebbe mai comperare con tutto il suo avere questa carica eminente, o chi mai, essendovi stato innalzato, vorrebbe per sostenervisi impiegare la spada, i veleni, ed ogni sorta di violenze? Ahi quanti beni perderebbero se la saviezza s’impadronisse per un istante dell’animo loro? Che dico la saviezza? Se avessero un granellino soltanto di quel sale, di cui parla il Salvatore. Perderebbero allora quelle immense ricchezze, quegli onori divini, quel vasto dominio, quel pingue patrimonio, quelle vittorie fastose; tutte quelle cariche, quelle dignità e quegli uffizj che compartono; tutte quelle tasse che percepiscono tanto ne’ propri, come negli stati altrui, il frutto di tutte quelle dispense e di quelle indulgenze, che si van trafficando con tanto vantaggio, quella corte numerosa di cavalli, di muli, di servi: quelle delizie, e que’ piaceri che godono continuamente. Osservate, osservate quante cose verrebbero a perdere; eppure questo non è che un’ombra della pontificia felicità. A tutti questi beni succederebbero tosto le veglie, i digiuni, le lagrime, le preghiere, i sermoni, le meditazioni, i sospiri e mille altri travagli di simil natura. Aggiungiamo inoltre che tanti scrittori, tanti copisti, tanti notai, tanti avvocati, tanti promotori, tanti segretarj, tanti banchieri, tanti scudieri, tanti palafrenieri, tanti ruffiani (silenzio su questo punto, bisogna rispettare le caste orecchie) tutta finalmente quella prodigiosa turba di persone d’ogni classe, che rovinano (voleva dire che onorano) la sede di Roma; sì, diciamo pure, che tutta questa turba potrebbe allora far conto di morir di fame. Sarebbe un delitto il più barbaro, il più abbominevole, il più detestabile di tutti il voler ridurre alla bisaccia ed al bastone i supremi monarchi della Chiesa, i veri luminari del mondo. Toccava, dicono essi, a Pietro ed a Paolo a viver d’elemosina, ed a questi abbandonano pure tutto il peso del pontificato, giacchè hanno tutta la comodità di sostenerlo, riserbandosi per essi soltanto ciò che v’ha di splendido e di piacevole. Ma dimando io se in questo non la pensino assai bene?
È dunque avvenuto per opera mia, che niuno più che i papi viva nell’ozio e nella mollezza; e purchè le loro episcopali funzioni consistano in ornamenti misteriosi e quasi teatrali, in cerimonie, in titoli fastosi di beatissimo, di reverendissimo, di santissimo, in benedizioni e maledizioni, credono d’avere abbondantemente soddisfatto a Gesù Cristo, e non saprebbero sospettare che cosa loro potesse rinfacciare un giorno. Al presente non fa più bisogno di far miracoli; istruire il popolo, costa molta fatica; spiegare la Scrittura, sente dello scolastico; pregare, bisognerebbe aver tempo; piangere, convien solo alle donnicciuole; esser povero, oh la brutta cosa! lasciarsi vincere, è troppo vergognoso ed indegno d’un uomo, che appena ammette al bacio del beatissimo piede i re più potenti; morire finalmente, ah questa è la cosa più amara di tutte! esser crocifisso, ohibò, questa è un’orribile infamia! Or dunque tutte le armi de’ papi consistono in quelle dolci benedizioni, di cui parla S. Paolo e delle quali non ne sono avari; consistono esse in interdetti, in sospensioni, gravami, in anatemi, in vendicatrici pitture, e in quel fulmine terribilissimo, col quale un beatissimo padre può cacciare a sua grado qualunque anima anche al di là dell’inferno. I nostri SS. Padri in Cristo, e i loro vicarj generali non sogliono mai adoperare con maggiore zelo questo spaventevole castigo, che contro coloro i quali, ad instigazione del demonio, tentano di diminuire, o denticchiare i patrimonj di S. Pietro. Diceva questo buon apostolo al suo Maestro: noi abbiamo lasciato tutto per seguirti. Capperi, che gran sagrificio ha fatto questo povero pescatore! Ella è ben’altra cosa la fortuna che ha fatto in conseguenza di questa rinuncia; imperocchè sua santità glorificata possede e terre, e città, e dominj, percepisce imposte e dazj; anzi egli è soprattutto per difendere, e conservare questo ricco acquisto, che i romani pontefici sogliono condannare le anime. Egli è vero però che non risparmiano nemmeno i corpi, poichè infiammati dallo zelo di Gesù Cristo innalzano lo stendardo di Marte, ed impiegano senza pietà il ferro e il fuoco per sostenere le loro ragioni. Voi ben vedete che non può farsi una simile guerra senza spargimento di sangue cristiano; ma che importa? rispondono i papi: noi difendiamo apostolicamente la causa della Chiesa, e non deporremo le armi, se non quando avrem vendicata la sposa di Gesù Cristo contro i suoi nemici. Ma vorrei un poco sapere se vi siano per la Chiesa nemici più perniciosi di quegli empj pontefici, i quali piuttosto che predicare Gesù Cristo lasciano andare in dimenticanza il suo nome, i quali lo mettono all’incanto con leggi da moneta, i quali alterano la sua dottrina con obbligatorie interpretazioni, i quali finalmente lo distruggono con esempj pestilenziali.
Inoltre siccome la Chiesa Cristiana è stata fondata col sangue, è stata confermata col sangue, è stata dilatata col sangue, così i papi la governano col sangue, come se più non esistesse Gesù Cristo per proteggerla e sostenerla. La guerra è per sua natura così crudele, che assai meglio converrebbesi alle fiere, che agli uomini; è così forsennata che i poeti l’hanno attribuita alle furie d’Averno; è così pestilenziale, che tutti corrompe i costumi; è talmente iniqua, che suol farsi meglio dai più cattivi ladroni, che dagli uomini probi e virtuosi; è finalmente così empia, che non ha nessuna relazione con Gesù Cristo, nè colla sua morale: ciò non ostante alcuni pontefici abbandonano tutte le loro funzioni pastorali per consecrarsi interamente a questo flagello dell’umanità. Tra questi papi guerrieri vedonsi fin anche de’ vecchi, che agiscono con tutto il vigore della gioventù, che nulla considerano il danaro, che sopportano coraggiosamente le fatiche, e che non hanno il minimo scrupolo a metter sossopra le leggi, la religione e l’umanità. Nè mancano eruditi adulatori, che a questo manifestissimo delirio diano il nome di zelo, di pietà, di valore; e trovino delle ragioni da provare che sfoderare la spada, ed immergerla nel cuore del suo fratello, non è assolutamente un infrangere il gran comandamento della carità del prossimo. Per verità sono ancora dubbiosa se i papi, in materia di guerra, abbiano seguito l’esempio di alcuni vescovi della Germania, oppure se questi vescovi siansi creduti autorizzati dalla condotta de’ papi a intraprender la guerra. Quello che è certo si è, che questi prelati germanici operano con maggior libertà, poichè, nulla curandosi del servizio divino, delle benedizioni e di tutte le altre cerimonie del vescovado, non respirano, quai satrapi, che guerra; e sostengono perfino ch’è dovere d’un vescovo di render l’anima a Dio per difendere l’onore della sua dignità. Anche i preti sono generalmente animati dallo stesso spirito, e non vogliono in conto alcuno degenerare dalla santità de’ loro prelati, per cui non potreste immaginarvi con qual coraggio impugnino l’armi ogni qualvolta si tratti delle decime loro: spade, fucili, sassi, a tutto si da di piglio. Cotali ministri dell’altare non capiscono più in sè dalla gioia, quando vien lor fatto di trarne dalle opere degli antichi qualche passo, con cui atterrire le coscienze; e provare al volgo che loro è debitore di cose ben maggiori che le decime; mentre non v’è mai pericolo che entri nelle loro teste quel che leggesi in moltissimi luoghi intorno ai loro doveri verso il popolo. Dovrebbero almeno ricordarsi che la loro tonsura significa l’obbligo che hanno di viver liberi da ogni umana passione, a fine di consecrarsi totalmente alle cose del cielo. Ma ben lontani dal fare simili riflessioni, s’immergono in ogni sorta di voluttà, e credono d’aver bastevolmente soddisfatto ai loro doveri, all’obbligo del beneficio, com’essi dicono, quando han mormorato in fretta in fretta e fra i denti l’ufficio divino. Dio buono! ci scommetterei che non v’è alcuna Divinità che gli voglia ascoltare, e molto meno che li possa capire: che dico alcuna Divinità? Son persuasa che non s’intendono nemmeno tra loro quando schiamazzano in coro. Ma tanto i sacerdoti, quanto i profani sono benissimo informati dei loro diritti e dei loro emolumenti; e si sa perfino dalle donnicciuole che chi serve l’altare deve vivere dell’altare. Per quello poi che è d’incomodo, i signori preti sogliono prudentemente scaricarlo sulle altrui spalle, e rimandarselo vicendevolmente come il pallone. Gli ecclesiastici costumano di farla press’a poco come i principi secolari; imperocchè, siccome questi abbondonano le redini del governo in mano ai loro primi ministri, i quali avendo sotto i loro ordini una quantità di subalterni, confidano ad essi l’amministrazione dello Stato; così i ministri del santuario sogliono per modestia scaricare sul popolo il peso della divozione e della pietà; e il popolo dal canto suo lo rimette a quelli che chiama Persone religiose; quasichè egli non avesse alcun commercio colla Chiesa, nè fatto alcun voto nel battesimo. Inoltre i preti, come se iniziati si fossero al mondo e non a Cristo, si chiamano Secolari e lasciano ai Regolari il pesante incarico della pietà; i Regolari la credono specialmente devoluta ai Monaci, i Monaci rilasciati se ne scaricano sopra i Riformati; tutti poi concordemente pretendono che la divozione appartenga ai Mendicanti, i quali finalmente rimandano il pallone ai Certosini, nel ritiro de’ quali può dirsi effettivamente che si trovi sepolta la pietà, tanto si studiano di vivere celati a tutto il mondo. Simile a questa è pure la condotta dei Generali della milizia clericale. I papi, sempre attivi ed instancabili nel raccoglier denaro, scaricano sopra i vescovi tutto ciò che sente d’incomodo nell’apostolato; i vescovi poi sui parrochi, i parrochi sui loro vicarj, i vicarj sui frati mendicanti, e i mendicanti rimandano le pecore ai pastori spirituali, che sanno benissimo tosarle e trar profitto dalla loro lana.
Ma dove m’ha trasportato il fervore del discorso? Il mio assunto non è già d’investigare e di satirizzare la vita de’ prelati e de’ preti, ma bensì di tessere il mio elogio: nè siavi chi creda, che lodando io i principi cattivi, voglia censurare i buoni. Io pertanto vi ho data un’idea superficiale d’ogni condizione solo per dimostrarvi evidentemente che nessun uomo può vivere felice se non è iniziato ne’ miei misteri, e se non partecipa de’ miei favori. Ne prendo in testimonio la Fortuna; questa Dea della felicità e della disgrazia, la quale sebbene capricciosa all’ultimo segno, si prende però sempre piacere di secondare le mie intenzioni. Non è ella forse al par di me nemica capitale de’ sapienti? All’incontro essa prodiga i suoi doni a quelli che sentono del pazzio, e per fin quando dormano viene a versar loro in seno i suoi tesori. Voi avrete senza dubbio inteso parlare d’un certo Timoteo capitano degli Ateniesi, il quale fu talmente fortunato, che anche dormendo conquistò e pose a sacco città; ma dal momento che incominciò ad attribuire al suo merito tanta fortuna, fu da essa abbandonato, e cadde nell’ultima miseria. Non dicesi forse comunemente che tutto riesce felicemente agli stolti, e che anche il male si cambia per essi in bene? Ma tutto al contrario suol accadere ai savj; infatti dicesi per proverbio: Colui è nato come Ercole nel quarto giorno della luna, quindi non può aspettarsi, al pur di lui che pene: è montato sul cavallo di Seiano, ebbene si romperà il collo; il suo danaro è di Tolosa, e gli farà poco prò Ma non più proverbj, altrimente potrebbe sembrare che avessi saccheggiati tutti i commentarj del mio Erasmo.
Ritorno pertanto al mio assunto, e dico, che la Fortuna ama soltanto quelle persone che non riflettono a nulla, e che si compiace di beneficare gli storditi e i temerari: quelli - in una parola che dicono come Cesare al Rubicone: Il dado è tratto. La saviezza non fa che inspirar timore; onde la condizione d’un vero filosofo fa proprio pietà agli uomini di buon senso. Mentre costui ha il cervello pieno zeppo di bellissime e solide speculazioni tanto fisiche che morali, sentesi lo stomaco latrar di fame, e non sa nemmeno ove ritrovare il bisognevole. Inoltre vien trascurato, vien disprezzato, vien odiato, viene sfuggito da tutti, mentre gli stolti nuotando in quel prezioso metallo che l’anima costituisce, e il bene maggiore della civile società, vengono innalzati ai pubblici impieghi, e secondati in ogni cosa dalla fortuna. Imperocchè colui che ripone la sua felicità nell’esser ben accolto dai grandi, e nel conversare con questi Dei gemmati, che sono i miei schiavi più diletti, non ha bisogno alcuno della sapienza, la quale suolsi detestare più d’ogn’altra cosa nelle corti e ne’ palagj. Bramate di arricchirvi nel commercio? Rinunciate alla saviezza: imperocchè, come potreste voi fare un falso giuramento senza sentirvi straziare da un orribile rimorso? Come non potreste arrossire venendo colti in bugia? Come soffochereste quegli aspri e tormentosi scrupoli che provano i savi pel furto e per l’usura? Come potreste dispensarvi d’essere in una continua guerra con voi medesimi? Ambite le dignità e i beni ecclesiastici? Un asino ed un bufolo li conseguiranno assai meglio d’un filosofo. Amate la voluttà? Le donne che ne formano il principale scopo, corron dietro agli stolti e fuggono i savj come gli scorpioni. Chiunque finalmente vuol godere i piaceri della vita, deve troncare ogni relazione coi savj, e trattare piuttosto colla feccia del volgo. In breve, per unir tutto in una sola idea, volgetevi da ogni parte, e vedrete che i papi, i principi, i giudici, i magistrati, gli amici, i nemici, i grandi, i piccoli, tutti tutti agiscono in virtù dell’oro sonante; e siccome il filosofo, fuori del puro necessario, considera come sterco questo metallo, perciò non bisogna maravigliarsi se tutti sdegnano il suo commercio.
Ma quantunque il mio Elogio sia una fonte inesausta, egli è però giusto ch’io non abusi della vostra pazienza col trattenervi più a lungo con questa mia declamazione, onde ben tosto vi scioglierò dalla pena dell’attenzione. Vi prego d’accordarmi soltanto un picciol favore, necessario alla gloria mia. Qui forse saranno dei savj (giacchè i cattivi soglion sempre frammischiarsi ai buoni), i quali diranno che sono bella soltanto agli occhi miei, e non mancheranno i signori legisti di rinfacciarmi, che non cito alcun testo in mio favore. Citiamo pertanto a loro imitazione per dritto e per rovescio. Primieramente non può rivocarsi in dubbio quel trito proverbio che dice. In mancanza della cosa, giova il rappresentarla; ciò che vien benissimo confermato da quest’altra sentenza che suol insegnarsi perfino ai fanciulli: Si ricerca moltissima saviezza per saper contraffare opportunamente il pazzo. Giudicate dunque se la Pazzia non debba annoverarsi fra i maggiori beni, mentre gli stessi sapienti tributano lodi alla sola sua immagine, ed all’ombra sua fallace. Ma Orazio, che chiamasi da sè stesso il lucido e pingue porco di Epicuro, esprime la cosa con maggior naturalezza, allorquando consiglia di temperar la pazzia colla saviezza. Ei vorrebbe, è vero, che questa pazzia fosse di corta durata, ma in questo mostra, secondo me, poco criterio. Lo stesso poeta dice nelle sue Odi: E un gran piacere l’esser pazzo quando ci aggrada di esserlo. Dice in un altro luogo: Che ama meglio comparire strano ed ignorante, che saggio ed arrabbiato. Omero, il quale da per tutto loda moltissimo il suo Telemaco, non lascia però di chiamarlo diverse volte stolto fanciullo; e i tragici danno volentieri ai giovani l’epiteto di stolto e d’imprudente, come un epiteto di buon augurio. Qual è l’argomento della divina Iliade? Non sono forse i furori e le pazzie dei re e de’ popoli? Cicerone non l’ha mai pensata così bene per me, come quando ha detto: Ogni cosa è piena di pazzia. Ora voi certamente converrete che quanto più un bene è esteso tanto più è eccellente.
Ma i citati autori faranno forse poc’autorità presso i cristiani. Ebbene, appoggerò, se voi il giudicate conveniente, o per esprimermi teologicamente fonderò il mio elogio sulla testimonianza stessa della Sacra Scrittura. Permettetemelo, o signori nostri maestri, io ve lo chiedo umilmente. L’impresa è assai difficile, ed esigerebbe per lo meno una buona invocazione alle muse; ma d’altra parte sarebbe una indiscrezione il far discender per la seconda volta dal monte Elicona queste nove verginelle, giacchè vedete bene che il cammino è molto lungo. D’altra parte la materia che devo trattare non appartiene per nulla ad Apollo. Sarebbe dunque, meglio che, prendendo io a far la teologhessa, e a correre sulle spine teologali, lo spirito di Scoto si degnasse di passare dalla sua Sorbona nell’animo mio. Ah voglia il cielo che questo beato spirito più pungente dell’istrice, e più acuto del porco-spino, infiammi la mia mente! Quando poi avrò finito, se ne voli pure ove più gli aggrada, foss’anche tra i corvi. Piacesse parimente al cielo che mi fosse permesso di cambiare d’aspetto, e di vestire un abito teologale! Temo però una cosa, ed è, che quando mi sentirete spacciare tanta teologia, non sospettiate ch’io abbia sconficcati e spogliati gli scrigni de’ nostri maestri. Ma finalmente non dee far meraviglia, se avendo mantenuta per tanti secoli una stretta amicizia coi teologi, mi si sia attaccata qualche particella della loro scienza sublime. E perchè no? Non è forse vero che anche quel ficulneo Priapo, sebbene Dio di corto intendimento, ascoltando il suo maestro che leggeva in greco ad alta voce, s’impresse alcune parole nella memoria
e le ritenne come un dottore? Che diremo del gallo di Luciano? Costui, avendo lungo tempo vissuto cogli uomini, apprese a parlar come loro. Ma su via incominciamo sotto gli auspicj della fortuna.
L’Ecclesiaste, capitolo primo, versetto... versetto... aspettate un poco... oh Dio! Non mi ricordo più, e neppure la pagina, la linea, ecc., (giacchè per citare teologicamente bisogna dir tutto). L’Ecclesiaste dunque ha scritto: Il numero de’ pazzi è infinito. Ora questo numero infinito non abbraccia forse tutti gli uomini, pochi eccettuati, se pure ve n'è mai stato alcuno? Ma più ingenuamente lo confessa Geremia: Tutti gli uomini, egli dice al cap. X, sono divenuti pazzi a forza di sapienza. Lo stesso attribuisce la sapienza al solo Dio, lasciando agli uomini la pazzia per loro parte. Un poco prima ei dice: L’uomo non deve gloriarsi della sua sapienza. Ma perchè mai dite questo, o santo, o divino oracolo dell’avvenire? Egli è (così parmi sentirlo rispondere) egli è perchè l’uomo non ha alcuna idea della sapienza. Ritorniamo all’Ecclesiaste. Mentre Salomone, questo gran monarca illuminato dal cielo, fa quella morale e patetica esclamazione: Vanità delle vanità, ogni cosa è vanità! non vedete, o signori che senza balbettare egli dichiara che la vita umana, come tante volte io pure l’ho detto, altro non è che un giuoco della Pazzia? non è forse ciò che anche Cicerone a mia gran lode ha ripetuto molto dopo, cioè Che tutto è pieno di pazzia? Allorquando il citato Ecclesiaste dice ancora: Il pazzo cambia come la luna, il savio è stabile come il sole, che cosa v’immaginate voi che voglia dire? Non vuol forse significare che tutti gli uomini sono pazzi, e che a Dio solo appartiene il titolo di Savio? Gl’interpreti infatti per la luna intendono la natura umana, e pel sole Iddio, il quale ò la sorgente della vera luce. Anche il Salvatore avvalora questa verità quando dice nel suo Vangelo che l’epiteto di Buono non conviene se non a Dio: ora secondo gli stoici, saggio e buono non sono che due sinonimi, dunque tutti gli uomini essendo cattivi, sono per necessaria conseguenza tutti matti.
Di nuovo dice Salomone al cap. XV: La stoltezza è la gioia dello stolto; vale a dire confessa manifestamente, che senza la Pazzia nulla si trova di piacevole nella vita. In un altro passo: Avanzarsi nella scienza è lo stesso che' avanzarsi nel dolore; e dove trovasi molto sentimento, ivi trovasi ancora molto corruccio. Quest’eccellente predicatore non ripete forse lo stesso pensiero, al c. VII: La tristezza, dice, alberga nel cuore del savio, e la gioia in quello dello stolto. Non contento egli d’aver imparato a fondo la sapienza, è stato voglioso di conoscere anche me. Credereste voi forse ch’io lo dicessi per celia? Udite l’oracolo, cap. I. Io mi sono applicato a conoscere la prudenza e la dottrina, gli errori e la pazzia. Vorrei che in questo passo notaste che io son nominata per l’ultima, a fine di farmi quell’onore che merito e ve lo provo. L’Ecclesiaste è quello che lo ha scritto; ora nell’ordine ecclesiastico, e secondo il consueto cerimoniale, il primo in dignità è quello che occupa l’ultimo posto, giusta il precetto di Cristo.
Che la pazzia sia realmente superiore in dignità alla saviezza lo prova ad evidenza l’autore dell’Ecclesiaste, chiunque egli sia, al cap. 44. Prima però di citare questo passo voglio fare un patto con voi, o miei cari uditori, e vi giuro per Ercole di non parlarvi mai più di questa cosa, se non rispondete favorevolmente alle mie domande, per imitare così quelli, che, secondo Platone, andavano con Socrate disputando. Ma non più; do principio alla mia induzione.
Ditemi un poco, è meglio nascondere le cose rare e preziose, oppure le vili e triviali? Come non rispondete? Perchè vi restate immobili a contemplarmi a guisa di tante statue? Ma il vostro silenzio non mi chiuderà certo la bocca. I Greci risponderanno per voi in italiano, e diranno, che la mezzina si lascia senza timore anche sulla porta, mentre, le cose preziose si tengono nascoste. Per timore però che profaniate questa sentenza col rigettarla, credo bene d’avvertirvi ch’essa è d’Aristotile, il Dio dei nostri maestri. Proseguiamo: troverebbesi qui mai alcuno tanto pazzo, che a bello studio volesse abbandonare sulla pubblica strada il suo danaro e le sue gioie? Noi credo per certo. Anzi, se non m’inganno, tutti mi sembrate di quegli uomini, che sogliono nascondere ben bene tutto, ciò che posseggono di prezioso, e che non trascurano se non quelle cose che poco o nulla importa il perdere. Se dunque la prudenza vuole che si nascondano le cose di valore, e si lascino esposte solo le cose di poca entità, la mia causa è vinta, ho trionfato! L’Ecclesiaste ordina di manifestare la sapienza e di nascondere la pazzia; ed eccovi il testo: L’uomo che nasconde la sua pazzia è migliore di quello che nasconde la sua sapienza. Ma ciò non basta; la Sacra Scrittura attribuisce al pazzo ancora il candor dell’animo, di cui non è capace il savio, quantunque si creda sempre migliore degli altri; tale è il senso che io attribuisco al seguente passo dell’Ecclesiaste, cap. X. Quando il pazzo passeggia, tutti quelli che incontra crede pazzi come lui. Chi può abbastanza ammirare questo candore e questa sincerità? Naturalmente tutti gli uomini hanno una grande opinione di sè medesimi, ma la pazzia rende l’uomo così umile, che cerca di dividere la sua virtù con tutti gli altri uomini, e di comunicare ad essi la gloria del proprio merito. Salomone credea d’essere arrivato a tanta perfezione, dicendo al cap. XXX: Io sono il più pazzo di tutti gli uomini. San Paolo, questo Evangelista, quest’ Apostolo delle genti, non ha sdegnato di portar il mio nome, imperocchè disse ai Corintj: Come pazzo, io dico, lo sono più di esso; tanto giudicava vergognoso l’esser sorpassato in pazzia. Ma intanto alzano contro di me le grida certi teologi grecisti, che spacciano per novità cose rancide ed antiche, e si studiano di acciecare il volgo con annotazioni, che per lo più sono pensieri qua e là rubati: fra questi se non è il primo, certo è il secondo il mio caro Erasmo che spesso per fargli onore vado nominando46. Oh Pazzia, esclamano costoro, tu ti mostri veramente degna del nome che porti, tanto nelle tue interpretazioni, quanto in tutto il resto! il pensiero dell’Apostolo è ben diverso da quello che tu sogni, imperocchè non intende di persuadere ch’egli sia più pazzo degli altri; ma dopo aver detto: Eglino sono ministri di Cristo, ed io pure lo sono; come che non si fosse abbastanza vantato agguagliandosi agli altri, soggiunse per correzione: Lo sono più di essi, sentendosi non solo eguale agli altri Apostoli nel ministero del Vangelo, ma bensì alquanto superiore. Per levare però lo scandalo che poteva dare una simile dichiarazione, S. Paolo si dà il nome di pazzo, poichè ai soli pazzi è concesso dir tutto senza pericolo di offendere alcuno. Ma che cosa abbia inteso di dire S. Paolo scrivendo in tal maniera, lascio che ne disputi chi vuole; per me preferisco di stare attaccata ai lumi di que’ grandi, di que’ grossi, di que’ grassi, di que’ celebri teologoni, coi quali la maggior parte de’ dottori vuol piuttosto correr pericolo d’ingannarsi, che conoscer la verità dietro la scorta di quelle persone a tre lingue47, delle quali si tien quel conto che delle cornacchie. D’altra parte ho in mio favore un glorioso teologo, di cui credo prudente tacere il nome, perchè so benissimo che le nostre cornacchie non mancherebbero di citarmi il bio dell’Asino alla lira48. Questo dottore spiega magistralmente, teologicamente questo passo: io lo dico con minor saviezza, io lo sono più di essi; ne fa un nuovo capitolo, e quello che esige una dialettica consumata si è, che vi aggiugne una nuova sezione. Eccovi non solo in forma, ma ben anche in materia le parole del mio teologo: Io lo dico con minor saviezza, cioè, se vi sembro pazzo allorchè mi agguaglio ai falsi Apostoli, vi sembrerò ancoro più stolto volendomi preferire a loro. Poscia come se egli vaneggiasse, passa di slancio ad una altra materia. Ma quanto son pazza a volermi lambiccar il cervello sull’interpretazione di un solo logo! Non hanno i nostri teologi acquistato il pubblico diritto di estendere il cielo, vale a dire la Scrittura, come se fosse una pelle? Se dobbiamo prestar fede al dotto S. Girolamo, che possedeva cinque lingue, lo stesso S. Paolo usava di tal diritto, e s’incontrano nelle sue opere cose, che sembrano opposte alle Sacre Scritture, ma che non sono tali nel loro originale. Da questa pia frode dell’Apostolo delle genti possiam giudicare di tutte le altre. Avendo S. Paolo a caso osservata un’iscrizione, che gli Ateniesi aveano posta sopra un’ara, la quale diceva: Agli Dei dell'Asia, dell'Europa e dell’Africa, agli Dei ignoti e stranieri; egli ne tronca l’iscrizione, e prendendo soltanto quella parte che crede vantaggiosa alla Cristiana Religione, sopprime il restante; e poi anche le parole: al Dio ignoto, che formano il testo del suo discorso, si vede che non le riferisce fedelmente. I moderni teologi mostrano d’aver moltissimo approfittato di quest’esempio, imperocchè usano frequentemente di cavare da qualche passo d’un autore cinque o sei parole, e di alterarne il senso, quando lor torni conto. Quindi se si confronta la copia coll’originale, o se si paragona la citazione col progresso del ragionamento, si scopre che l’autore citato, o non ha inteso di dire quello che si pretende, oppure ha detto tutto il contrario. Questo però è quanto fanno i nostri maestri, e lo fanno con una sì felice impudenza, che i legali stessi, i quali si dilettano di citare a dritto e a rovescio, ne provano grande invidia.
E come mai quest’astuzia non avrebbe a riuscir facilmente ai guerrieri spirituali? Hanno luogo da sperar tutto dopo il prospero successo di quel gran teologo, di cui poc’anzi vi ho parlato. Oh bella! Oh bella! mi è venuto sulla lingua il suo nome; ma temo di nuovo il greco proverbio dell’Asino alla lira. Questo dottore nell’evangelo di S. Luca ha interpretato un passo così bene, che il suo senso s’accorda con quello di Gesù Cristo come il fuoco coll’acqua; siatene giudici voi. In occasione d’un estremo pericolo, occasione in cui i buoni clienti stanno più assiduamente d’intorno ai loro protettori, ed offrono ad essi tutti i loro servigi, il Salvatore volendo rendere i suoi discepoli superiori alla speranza d’ogni umano soccorso, fece loro la seguente dimanda; «Quando vi ho spediti pel mondo, vi è mancata qualche cosa?» Eppure non aveano nè danaro pel viaggio, nè scarpe da guarentirsi dai sassi e dalle spine, nè bisaccia per provvedere alla fame. Avendo risposto gli Apostoli, che aveano dapertutto ritrovato il bisognevole, soggiunse il Salvatore: «Ora quello di voi che ha un sacco, sia piccolo o grande, lo lasci; e colui che non ha la spada venda la sua tonaca per comperarsela.» Siccome tutta la dottrina evangelica risguarda la mansuetudine, la tolleranza e il disprezzo della vita, bisognerebbe esser cieco per non rilevare il senso e l’intenzione di Cristo in questo passo. Il divino legislatore volea disporre i suoi inviati al ministero dell’Apostolato, perciò imponeva loro di staccarsi da tutte le cose di questa terra. Non bastava che gettassero le scarpe e la bisaccia; ma doveano eziandio spogliarsi de’ loro abiti; il che significa senza dubbio quel perfetto distacco di cuore, col quale doveano entrare nella carriera dell’Apostolato. Egli è vero che Gesù Cristo comanda a’ suoi discepoli di provvedere una spada; ma non di quelle che servono di stromento fatale in mano ai ladri ed ai parricidi; ma bensì una spada spirituale che penetri perfino al fondo del cuore, che tronchi tutte le mondane passioni, onde la sola pietà regni e signoreggi nell’animo. Osservate ora di grazia come il nostro celebre Asino alla lira abbia stiracchiato il senso di questo passo: per la spada egli interpreta il diritto di difendersi nella persecuzione; per la bisaccia, la provvisione de’ viveri, come se il Salvatore essendosi accorto che senza ciò non avrebbe bastevolmente provveduto allo splendore ed alla dignità de’ suoi missionarj, avesse mutato parere, e ritrattato il suo comando. Il nostro legislatore non si ricordava forse più della sua morale? Egli ha dichiarato formalmente ai suoi discepoli, che sarebbero beati se avessero sofferto con pazienza l’infamia, gli oltraggi, i supplizj; ha detto che la vera felicità era riserbata ai miti di cuore, e non ai superbi; gli ha finalmente esortati coll’esempio de’ passeri e de’ gigli ad abbandonarsi alla Provvidenza. Avea dunque il Salvatore dimenticate queste sue massime, quando per uno spirito affatto opposto comanda agli Apostoli di portare la spada, di vender l’abito per comperarne una, e di andare piuttosto nudi che disarmati? Siccome il sottile nostro commentatore rinchiude nella spada tutto ciò che può servire a respinger la forza; così per la bisaccia intende tutto ciò che risguarda le comodità della vita. Per tal modo questo interprete dello spirito di Dio fa comparire sul teatro del mondo gli Apostoli a predicare Gesù crocifisso tutti armati di lance, di baliste, di fionde e di bombarde. Parimente affinchè non abbiano a viaggiar digiuni li carica di danari, di valigie e di fardelli.
Ma perchè Gesù Cristo, dopo aver comandato ai suoi discepoli di vendere fin la camicia (per onestà credo però esclusivamente) onde comperarsi una spada, loro ordina di lì a poco con aria severa e sdegnosa di rimetterla nel fodero? Perchè gli Apostoli (almeno per quanto sappiamo) non hanno giammai sguainata la spada contro la violenza dei tiranni? Sarebbero pure stati obbligati a farlo in buona coscienza, se Cristo lo avesse ad essi espressamente comandato; ma il nostro teologo non ha voluto impacciarsi di queste difficoltà. Vi è un altro dottore, che per rispetto non nomino, il quale fa il più bel salto del mondo. Il profeta Abacuc ha detto: «Le pelli della terra di Madian saranno sconvolte;» egli è chiaro quanto il sole che qui il profeta s’intende di parlare delle tende del campo de’ Madianiti, ma fermandosi il buon teologo sul termine pelli, dice che senza fallo questo passo risguarda la scorticatura di S. Bartolomeo.
Non è molto che intervenni ad una disputa di teologia, giacchè non manco quasi mai a tal sorta di combattimenti. Ivi avendo uno dimandato come si potrebbe provare colla Sacra Scrittura doversi adoperare contro gli eretici il ferro ed il fuoco invece della disputa e della ragione, ben tosto alzossi un vecchio, che all’aspetto burbero e temerario facilmente ravvisavasi per un teologo, e inarcando le ciglia, rispose con voce alti-tonante; «Egli è S. Paolo; sì San Paolo stesso che ha fatta questa savia legge, e non ha egli detto chiaramente: Sfuggi (devita) l’eretico dopo una o due ammonizioni? Siccome andava ripetendo spesso, e ad alta voce queste parole, ognuno lo credette preso da un accesso di frenesia; ma spiegò finalmente l'enigma:
Sareste voi, esclamò egli, tanto ignoranti da non rilevare che questo vocabolo Devita (sfuggi) vien formato in latino dalla preposizione De, e dal nome sostantivo Vita, che vuol signiticare Fuori della vita! Dunque S. Paolo ha comandato d’abbruciare gli critici, e di gettare le loro ceneri al vento.
Alcuni si posero a ridere ad una sì nuova ed inaspettata etimologia, ma ad altri parve profonda e veramente teologica. Accorgendosi però questo barbone che non erano per lui tutti i suffragj dell’assemblea, slanciò l’argomento decisivo. Sta scritto, diss’egli: Non permetterai che viva il malfattore: ora ogni eretico è malfattore; dunque, ecc. Allora tutti ammirarono il talento del dottore, e il giudizioso suo dunque venne universalmente applaudito. Non cadde in mente ad alcuno che la citata legge risguardava unicamente gli stregoni, gl’incantatori, i maghi, tutte persone che dagli Ebrei venivano chiamate col nome di malfattori: altrimenti bisognerebbe eziandio condannare al fuoco la ubbriachezza e la fornicazione. Ma sono ben pazza a perdermi in simili freddure, il cui numero è così grande che tante non ne han dette nè Didimo, nè Crisippo, quantunque abbiano pubblicata una prodigiosa quantità di volumi, l’uno trattando della dialettica, e l’altro della gramatica. Vi prego soltanto di farmi giustizia in una cosa, ed è, che s’egli è concesso a questi divini maestri di allontanarsi cotanto dal buon senso e dalla verità, vogliate a più buon dritto condonare la mia inesattezza nelle citazioni, giacchè alla fine non son poi che un’ombra a confronto de’ teologi.
Ritorno a S. Paolo: quest’Apostolo parlando di sè medesimo dice: Sopportate volentieri gli stolti Ricevete anche me come uno stolto.... Non parlo secondo Dio, ma come se fossi stolto... Noi siamo stolti per Gesù Cristo. Qual gloria per me, che un autore di tanto peso parli così favorevolmente della Pazzia! Eppure lo stesso S. Paolo, non contente di questo, passa perfino ad ordinare la Pazzia come una cosa sommamente necessaria alla salute: Chi di voi, dice, vuol comparir sapiente, divenga pazzo affinchè possa farsi sapiente. Non son forse chiamati pazzi da Gesù Cristo in S. Luca que’ due Discepol, ai quali si era egli unito per istrada dopo la sua risurrezione? Ciò non ostante questo non mi fa tanta meraviglia, quanto l’Apostolo delle genti, allorchè dice: La pazzia di Dio è migliore della saviezza degli uomini. Ora, giusta l’interpretazione d’Origene, applicar non si può questa pazzia all’opinione degli uomini. Dello stesso genere è pur questo passo: Il mistero della croce è una pazzia per quelli che periscono. Ma perchè stancarmi in produrre tante testimonianze? L’uomo Dio rivolgendosi a suo Padre non gli dice forse nei Salmi: Tu conosci la mia pazzia? Non è dunque senza motivo, o per dir meglio è visibilmente per questa ragione, che i pazzi sono maggiormente prediletti da Dio. Per tal rispetto l’Essere supremo rassomiglia ai principi della terra, imperocchè queste mortali divinità comunemente non amano gran fatto le persone sensate ed oneste; Cesare infatti temeva assai più Cassio e Bruto, che il ghiottissimo Antonio49; Nerone non potea soffrir Seneca50; Platone restò deluso presso Dionigi il tiranno51: ma per converso trattano di buon grado cogli stupidi, coi semplici e coi goffi. Anche l’uomo Dio condanna sempre, e detesta quei savi che confidano soltanto nella loro filosofia. S. Paolo lo dice netto e schietto: Dio ha scelto tutto ciò che v’ha di stolto nel mondo.... Dio ha giudicato conveniente di salvare il mondo colla pazzia: certamente perchè non l’avrebbe potuto salvare colla saviezza. Dio medesimo dice per bocca del profeta Isaia: Io confonderò la sapienza de’ saggi, e riproverò la prudenza de’ prudenti. L’umanità di Gesù Cristo non rende forse grazie alla Divinità d’aver nascosto ai sapienti il mistero della salute, e d’averlo rivelato ai piccoli, vale a dire ai pazzerelli, giusta la forza e l’energia del vocabolo greco? Con questa ragione possiamo ancora spiegare quella continua guerra che il Salvatore, come vedesi nel Vangelo, ha sempre fatta ai dottori della legge, agli scribi ed ai farisei, nel tempo stesso che costantemente portava le parti del volgo ignorante. Guai a voi, ei diceva, o scribi e farisei! Una tale imprecazione non significa lo stesso, che guai a voi o saggi? Finalmente il Padrone dell’Universo non soleva conversare se non con fanciulli, con dounicciuole e con pescatori. Parimente fra tante specie d’animali, Gesù Cristo ha prescelto quelle che più s’allontanano dall’accorgimento della volpe; ha scelto un umile asinello per suo carro di trionfo, mentre avrebbe potuto calcare un superbo leone. Lo Spirito Santo è disceso sulla seconda Persona della Santissima Trinità non già in forma d’aquila e di sparviero, ma bensì di colomba, il più semplice fra gli uccelli. Inoltre la Sacra Scrittura parla spesso di quegli animali che hanno un istinto molto limitato, come sono i cervi, i muli e gli agnelli. Non chiama forse Gesù Cristo col nome di pecore coloro che sono eletti a godere con lui il suo regno de’ cieli? Ora ove trovasi mai un animale più stupido della pecora? Anticamente solevasi per disprezzo ed ingiuria dare un tal nome alle persone stupide ed idiote. Di più in conseguenza del paragone degli eletti colle pecore, Gesù Cristo si gloria del titolo di pastore, ed ama pure moltissimo il nome d′agnello; infatti San Giambattista lo fa conoscere sotto un tal nome quando dice: Ecco l’Agnello di Dio; e sotto questa figura vien parimente rappresentato in diverse visioni dell’Apocalisse.
Ma quali saranno dal fin qui detto le nostre conseguenze? Eccole: gli uomini sono matti, senza nemmeno eccettuar coloro che fanno professione di pietà. Gesù Cristo, il quale è la sapienza del Padre, si è reso come stolto unendosi personalmente alla natura umana, in quella guisa che si è fatto peccato per redimere il peccato. Osservate come il Salvatore ha compito degnamente questo suo disegno. Avendo stabilito ne’ suoi decreti di riscattare gli uomini colla pazzia della croce, impiega all’esecuzione del suo disegno degli Apostoli rozzi ed idioti, raccomanda loro caldamente di schivare la saviezza e di seguire la follia, propone loro inoltre per esempio i fanciulli, i gigli, la senape, i passeri; cose tutte senza artifizio e senza inquietudini, e che seguono solo le leggi della natura e il meccanismo del loro istinto. Questo legislatore vieta loro di prepararsi allorchè dovranno comparire innanzi ai tribunali de’ re e de’ presidi; non vuole che pensino al dimani, nè che osservino la misura del tempo, per timore che, confidando nella loro sapienza, non s’abbandonino interamente alla sua provvidenza. Fu pure per questa ragione, che il grande Architetto dell’universo proibì a quella bellissima coppia di sposi, che primi egli avea formati e uniti in matrimonio, proibì, dico di gustare del frutto dell’albero della scienza del bene e del male, sotto pena della sua disgrazia e della morte. Gran prova che la scienza è il veleno della felicità! S. Paolo la rigetta come perniciosa, quando dice che gonfia il cuore; e credo che S. Bernardo parlasse giusta il sentimento di questo Apostolo, quando chiama monte del sapere quel monte, su cui il superbo Lucifero avea posto sua dimora. Non parmi dover passare in silenzio quel sommo credito ch’io godo in cielo, poichè ivi s’ottien facilmente grazia sotto il mio nome, mentre non giova impiegarvi il favore della saviezza. Ha peccato un uomo con cognizione di causa? Non crediate già ch’ei cerchi d’allegare il suo sapere; ma si reputa bensì felice se può coprirsi col manto della pazzia. Egli è per questo che Aronne, nel libro XII dei Numeri, se pure non m’inganno, volendo implorar perdono per sua moglie, esclama: Vi prego, o Signore, di non apporci questo peccato che stoltamente abbiamo commesso! Così Saulo per iscusarsi con Davide: Si vede bene, ei dice, che ho agito da pazzo? Davide medesimo, cercando di piegare la divina vendetta: Signore, esclamava, vi supplico di cancellare questa iniquità dalla partita del vostro servo, perchè abbiamo pazzamente operato! Voi vedete bene che non credeva d’esser esaudito, se non adduceva per iscusa la sua stoltezza e la sua ignoranza. Ma fra tutte le prove, quella che taglia la testa al toro è la preghiera, che fa il Salvatore sopra la croce pei suoi crocifissori: Padre, perdonate loro, ei dice, e questo Dio moribondo non adduce altra scusa in loro favore, se non la stoltezza, soggiugnendo: Poichè non sanno ciò che si facciano. Così S. Paolo a Timoteo: Dio mi ha usato misericordia, perchè la mia incredulità era l’effetto della mia ignoranza? Ma cosa vuol dire questa ignoranza? Non vuol piuttosto significare stoltezza che malizia? Quale è il senso di queste parole: Iddio mi ha usato misericordia, perchè ecc.? Non è forse quello di dimostrare chiaramente che senza il credito, e la raccomandazione della pazzia non avrebbe S. Paolo ottenuta alcuna misericordia? Il mistico Salmista si è pure mostrato del mio parere in quel passo che mi son dimenticata di mettere a suo luogo: Degnatevi, Signore, dimenticare i delitti della mia gioventù e le mie ignoranze. Avete voi ben riflettuto a questo divino Cantore? Si scusa per due titoli, uno per la gioventù, età di cui sono la fedele e inseparabil compagna; l’altro per le ignoranze: ma notate che qui esprime la propria col numero plurale, onde mostrare l’immensa forza della sua pazzia.
Per troncare più presto un compito che per sè stesso non finirebbe mai, voglio farvi vedere in succinto, che la religione cristiana mostra uniformarsi perfettamente alla pazzia, e non avere alcuna attinenza colla saviezza. Siccome questa proposizione sembra un vero paradosso, così non sono tanto irragionevole da pretendere che mi crediate sulla mia buona fede; per conseguenza vengo alle prove. In primo luogo vediamo che quelli, che con maggior sollecitudine intervengono ai sagrificj, ed alle altre cerimonie del culto, non sono già le persone più sensate; ma bensì i giovinetti, i vecchi le donne, e gl’ignoranti. E d’onde mai nasce in questi il desiderio d’avvicinarsi cotanto all’altare, e il trasporto che hanno per la divozione? Nasce da un impulso totalmente meccanico della natura. In secondo luogo i fondatori della cristiana religione, facendo professione di una maravigliosa semplicità, erano i nemici più dichiarati dello studio e delle scienze. Finalmente è impossibile di trovar dei pazzi più stravaganti di coloro che s’abbandonano interamente all’ardore della pietà cristiana. Essi gettano il danaro come l’acqua, disprezzano le ingiurie, si lasciano ingannare, non fanno alcuna differenza tra gli amici e i nemici, la voluttà fa loro orrore; l’astinenza, le vigilie, le lagrime, i patimenti, gli oltraggi, ecco tutte le loro delizie; inoltre odiano la vita, desiderano la morte: cosicchè si direbbe che sono assolutamente privi del senso comune, e che sono corpi senz’anima e senza sentimento. Che nome daremo mai a costoro, se non si conviene loro quello di pazzi? Perciò non deve sembrarci strano, se i Giudei credeano che gli Apostoli fossero ubbriachi. Il giudice Festo non avea forse ragione di prendere S. Paolo per uno stravagante?
Ma giacchè mi sono eretta, senz’accorgermi, a saggia ed a ragionatrice, voglio sostenere la quistione fin all’ultimo punto. Coraggio, bellissimo mio spirito! Sosteniamo innanzi a questi uditori, innanzi a questa illustre società di pazzi una tesi tutta nuova e inaspettata. Sì, miei cari signori, voglio mostrarvi che la felicità de’ cristiani, che quella felicità, di cui vanno in traccia con tante pene e tanti travagli, non è che una specie di follia e di furore. Come! voi mi sogguardate torvi e sdegnosi? Adagio, adagio; non ci fermiamo alle parole, poichè queste non sono che suoni articolati ed arbitrari; attacchiamoci soltanto all’esame della cosa. Entro in materia.
Il sistema del cristianesimo intorno alla vera felicità della vita s’avvicina moltissimo a quello dei Platonici. Giusta il principio fondamentale di questi due sistemi, l’anima è imprigionata nel corpo, è legata dai nodi della materia, è talmente oppressa elogio dal peso della macchina organica, che a grande stento può scoprire e gustare le verità. Per questa ragione Platone ha definita la filosofia: La meditazione della morte; imperocchè tanto la filosofia, quanto la morte distaccano l’animo nostro dalle cose visibili e corporali. Perciò fino a tanto che l’anima impiega gli organi del corpo secondo la naturale economia, suol chiamarsi savia e sana; ma quando essa, rompendo i suoi legami, procura di fuggire dal suo carcere, e di mettersi in libertà, allora dicesi trovarsi in uno stato di pazzia. Se questo disordine nasce da malattia, o da alterazione degli organi, allora da tutti suolchiamarsi furore. Noi per altro vediamo alcuni di questi felicissimi pazzi che predicono l’avvenire, che possiedono delle lingue e delle scienze senza averle mai apprese, e che mostrano di avere in sè stessi qualche cosa di divino. D’onde può mai nascere un tal prodigio? Parmi senza dubbio che ciò provenga dall’anima, la quale fattasi un poco più libera dalla servitù del corpo, comincia a spiegare la sua forza naturale. Credo pure che provenga da questa causa anche quella facoltà che mostrano i moribondi di dire cose prodigiose come fossero inspirati52. Se l’amore e lo zelo della pietà producono quest’alienazione dei sensi, non sembra, è vero, lo stesso genere di pazzia; ma però talmente vi si avvicina, che d’ordinario gli si dà lo stesso nome. Infatti chi non tratterebbe da pazzi, anzi da pazzi in sommo grado, quegli omicciuoli che menano una vita del tutto diversa da quella degli altri mortali? Qui viene benissimo in acconio quell’idea di Platone, allorquando s’immagina una caverna tutta ripiena di persone ivi arrestate, e che essendo riuscito ad uno di questi prigionieri di fuggirsene, andò lungo tempo qua e la errando; quindi essendovi di nuovo ritornato, gridò ad alta voce ai suoi compagni: Oh miei cari amici, quanto mi fate pietà! Voi qui non vedete che ombre e fantasmi, in una parola voi siete veramente stolti; ben diverso è il mio stato, imperocchè non ho vedute che cose sensibili, esistenti e reali. Quando dal canto loro i carcerati, i quali non sono mai usciti del sotterraneo, guardandosi tra loro in faccia con stupore esclamano: «Che vuol dunque dirci questo pazzo? Senza dubbio egli ha perduto il cervello». Lo stesso accade ordinariamente degli uomini; quelli che sono più sensuali ammirano maggiormente le cose materiali; e quasi credono che non esistano altre cose; all’incontro coloro che si sono consecrati alla pietà, quanto più un oggetto ha relazione col corpo, tanto meno ne fan conto, e passano la vita sempre immersi nella contemplazione delle cose invisibili.
La principale occupazione de’mondani è quella di accumular sempre ricchezze, e contentare in tutto e per tutto il proprio corpo: poco o nulla curandosi dell’anima, l’esistenza della quale si mette perfino in dubbio da molti, essendo essa invisibile. Le persone all’incontro, infiammate dal fuoco della religione, prendono una strada totalmente opposta, e ripongono tutta la loro confidenza in Dio, il quale è il più semplice di tutti gli esseri: dopo di lui, e dipendentemente da lui, pensano all’anima loro, come a quella cosa che maggiormente alla Divinità s’avvicina. Quindi non prendonsi alcun pensiero del corpo e non solo disprezzano i beni di fortuna, ma ben anche li rifiutano; e se per dovere sono obbligati come padri di famiglia a pensare agl’interessi temporali, vi s’inducono contro voglia, e ne provano un vivo rincrescimento; poichè Hanno come se non Avessero, e Possiedono come se non Possedessero. Esislono ancora molti altri gradi di differenza tra quelli che s’occupano soltanto del corpo, e coloro che si danno interamente alla pia coltura dell’anima: per meglio distinguere questi gradi stabiliamo un principio incontrastabile.
Sebbene tutti i sentimenti dell’anima abbiano una corrispondenza necessaria col corpo, ve ne sono però di due sorta: gli uni sono più materiali, come il tatto, l’udito, la vista, l’odorato e il gusto; gli altri hanno minor relazione cogli organi, come sono la memoria, l’intelletto e la volontà. Ne segue che l’anima ha maggiore o minor forza a proporzione ch’ella s’applica più o meno a questi diversi sentimenti. Ragioniamo adesso su tal supposto. Siccome coloro che s’abbandonano totalmente alla pietà si rendono per quanto ponno superiori ai sensi del corpo, e li mortificano a tal segno, che perdono finalmente ogni sensibilità; come per esempio un S. Bernardo, il quale, secondò la leggenda, bevea senza accorgersi l’olio pel vino: così i sensuali hanno un grande vigor d’animo pei sensi del corpo, ed una debolezza estrema per quelli dell’anima. Inoltre vi sono alcune passioni che risguardano il corpo più davvicino, come l’amore, la fame, la sete, il sonno, la collera, la superbia, l’invidia, alle quali i veri divoti, se pur ve ne sono, fanno una perpetua guerra, mentre i seguaci della natura credono di non vivere senza queste cose.
Altre poi ne esistono che tengono un luogo di mezzo, e che credonsi naturali; per esempio, amare la patria, i parenti, i suoi diletti figli, i vicini, gli amici: quasi tutti gli uomini accordano qualche cosa a queste passioni; ma le persone pie fanno ogni studio per istrapparsele dal cuore, o almeno per ispiritualizzarle. Un figlio, per esempio, ama suo padre; credereste voi forse ch’egli onorasse la paternità, a che amasse colui, dal quale ha ricevuta la vita? Oibò! Che dono mi ha fatto mio padre, dice questo santo, col darmi questo corpo miserabile, che è il mio peggior nemico? E poi anche questo lo devo a Dio, amico e vero autore del mio essere; io amo mio padre come un uomo, in cui risplende l’immagine di quella suprema intelligenza che è il bene supremo, e fuori della quale nulla v’ha nè di amabile, nè di desiderabile. Con lo stesso regolo le persone di mortificazione misurano tutti i doveri della vita, di modo che se non disprezzano generalmente tutte le cose visibili, le mettono per lo meno infinitamente al disotto delle invisibili. Arrivano perfino a dire che nei sacramenti, e nelle altre funzioni del culto, non esisterebbe la materia senza lo spirito. Nei giorni di digiuno credono che sia quasi un nulla l’astinenza dalle carni e dalla cena; sebbene la moltitudine faccia consistere in questi due punti tutto l’obbligo del precetto. I divoti vi dicono che bisogna digiunare collo spirito, domare le proprie passioni, sopprimere la collera e l’orgoglio, alfinchè l’anima, più sgombra dalla massa del corpo, possa meglio gustare i beni del cielo. Il medesimo accade intorno alla messa; sebbene noi non disprezziamo, dicono essi, tutto ciò che compare visibilmente in questo sagrifizio, tuttavia i segni non meno che le cerimonie sarebbero inutili, e forse anche perniciose, se non vi entrasse il soccorso dello spirito. Rappresentando questo mistero la passione del Salvatore, fa mestieri che la rappresentino anche i fedeli col domare, spegnere e seppellire le loro passioni, a fine di risorgere a nuova vita, e di unirsi a Cristo ed alle sue membra. I santi sogliono assistere alla S. Messa con tale disposizione; ma non così la maggior parte degli uomini, perchè non riconoscendo in questo sagrificio che l’obbligo di assistervi, si contentano di guardare, di udire, di stare attenti al canto ed alle cerimonie. Non è però soltanto nelle cose da me or ora riferite per modo d’esempio, che gli uomini più rompono ogni commercio coi corpi e colla materia; ma, per sollevarsi ai beni eterni, invisibili e spirituali, fanno generalmente lo stesso in tutto ciò che accade nel corso della vita. Poichè dunque i divoti e gli indivoti sono tra loro in una perfetta opposizione, voi vedete bene che devono risguardarsi vicendevolmente come tanti pazzi; ma io vi giuro, in fede di pazzia, che i naturalisti hanno ragione in questa contesa, e che i divoti sono quelli che meritano il titolo di pazzi. Voi stessi non potrete negarlo, quando vi avrò brevemente dimostrato, che quella infinita ricompensa alla quale corron dietro con tanta ansietà, non è che una specie di furore. Convalido il mio sentimento con un oracolo del divino Platone: Il furore degli amanti, dice questo filosofo entusiasta, è il più felice di tutti. Infatti un amante passionato non vive più in sè stesso, ma nella persona che si è impadronita del suo cuore; e quanto più esce da sè medesimo per trasfondersi nell’oggetto del suo amore, tanto più sente raddoppiarsi il suo piacere. Non avremo noi egualmente ragione di qualificare col nome di furore anche lo stato di un’anima divota che arde di desiderio di giugnere alla perfezione evangelica, e che cerca solo di uscire dal suo corpo col disprezzo dei sensi? Richiamatevi alla memoria questi modi di dire che si usano frequentemente: Colui è fuori di sè... Rientra in te stesso... È ritornato in sè. Inoltre, secondo l’idea di Platone, dal grado dell’amore bisogna misurare la grandezza del furore e della felicità. Quale dunque sarà la vita dei beati in paradiso? vita che le anime divote sospirano con tanto trasporto. Siccome in quello stato di godimento perfetto e sempre nuovo l’anima vittoriosa e trionfante assorbirà il corpo; così questo assoluto dominio, nonchè abbia a cagionare la più piccola pena, diverrà anzi naturale, e lo spirito si troverà come nel suo regno, e godrà il frutto degli sforzi fatti per ridurre il corpo in una perfetta schiavitù. L’anima inoltre verrà in modo incomprensibile come assorta in quella suprema intelligenza, da cui è infinitamente superata; sicchè l’uomo sarà fuori di sè, e non sarà beato, se non perchè trovandosi più in sè stesso riceverà una inesprimibile felicità da quel supremo Bene, che tutto attrae a sè. Ma quantunque questa felicità consumar non si possa che colla riunione dell’anima col corpo, pure essendo la vita de’ Santi in terra una continua meditazione e un’ombra delle gioie ineffabili del Paradiso, ne nasce che cominciano a gustare anticipatamente in questo mondo la ricompensa che loro è promessa. Egli è bensì vero che in confronto dell’eterna beatitudine, non è che una stilla ed un’ombra quella che provano i divoti su questa terra; ciò non ostante questa stilla e quest’ombra è incomparabilmente superiore a tutti i piaceri del senso, quantunque si potessero tutti godere in un solo istante: tanto è vero che le cose spirituali superano infinitamente le materiali, e che i beni invisibili sorpassano di lunga mano i visibili. Questo però è manto promette un profeta dicendo: L’occhio non ha veduto, l’orecchio non ha udito, non è arrivato al cuor dell’uomo quanto ha preparato Dio a quelli che lo amano. Questo è quel genere di pazzia il quale, non che si perda allorchè si passa dalla terra al cielo, acquista anzi il suo ultimo grado di perfezione. Per parlarvi nuovamente di quelli, ai quali Iddio, per un favore affatto particolare, fa gustare anticipatamente le deizie della beatitudine, vi dirò che sono in piccolissimo numero, che sono per altro soggetti a certi sintomi, che rassomigliano moltissimo a quelli della pazzia: imperocchè le loro parole sono mal connesse, e fuor dell’uso umano, o per dirla più schietta non sanno quel che si dicono; il loro volto si cambia ad ogni momento; ora allegri, ora malinconici piangono, ridono, sospirano, in una parola sono affatto fuori di sè stessi. Ripigliano per avventura i loro sentimenti? Protestano di non sapere positivamente d’onde vengano, nè se vi siano stati soltanto in anima od anche in corpo; se desti erano, oppure addormentati; di tutto ciò poi che hanno veduto, udito, detto, o non si ricordano, o ne hanno un’idea così confusa, come se avessero sognato. Non sanno che una cosa sola, ed è: che si trovavano felicissimi nel loro delirio, per cui soffrono con dispetto la convalescenza del loro cervello, e tutto sacrificherebbero di buona voglia per essere perpetuamente pazzi a queste condizioni. Eppure tanta felicità non è che un tenuissimo briciolo della mensa celeste: immaginatevi da questo che sarà l’eterno convito!
Ma parmi che già da gran tempo, senza riflettere a ciò che sono, vada oltrepassando ogni confine. Pertanto, se troppo, e troppo arditamente ho cicalato, sovvengavi che sono donna e son la Pazzia; ma nello stesso tempo non dimenticate quest’antico proverbio de’ Greci: Spesso anche l’uomo pazzo ha parlato giudiziosamente: se già non pretendeste che questo proverbio non comprenda le donne, poichè dice uomo e non donna. Voi vi aspettate un epilogo di quanto vi ho detto fin’ora? Io ve lo leggo in volto; ma siete veramente stolti, se v’immaginate ch’io abbia potuto ritener a memoria tutta quella farragine di parole che vi ho spacciata. Invece d’epilogo vi voglio regalare due sentenze; la prima antichissima, ed è questa: Non vorrei mai bere con un uomo che si ricordasse di tutto; nuova la seconda, ed è: Odio l’uditore di una troppo felice memoria. Per la qual cosa state sani, applaudite, vivete, bevete, o celeberrimi iniziati ai misteri della Pazzia.
fine dell’elogio della pazzia.
- ↑ Nepente, erba, il cui sugo misto col vino, eccita all’allegria.
- ↑ Trofonio, figlio di Apolline, secondo la favola era un celebre architetto greco. Egli fabbricò a Lebadia in Beozia un tempio in onore d’Apollo, ov’era una caverna, in cui credevasi che un Demone pronunciasse oracoli; e siccome coloro che entravano per consultarlo ne uscivano emaciati e squallidi così passò in proverbio, per esprimere una persona oppressa dalla tristezza, il dire che sembrava uscita dell’antro o della caverna di Trofonio.
- ↑ Mida, re di Frigia, scelto a decidere se fosse più valente nel canto Pane o Apolline, giudicò in favore del primo, onde Apollo, irritato, gli pose due orecchi d’asino in testa.
- ↑ Busiride, re d’Egitto, figlio di Nettuno e di Libia, secondo la favola fu ucciso da Ercole, perchè maltrattava e uccideva i forestieri.
- ↑ Falaride, famoso tiranno.
- ↑ Della sanguisuga Plinio dice che la sua lingua è biforcuta.
- ↑ Esiodo nella sua Teogonia fa derivare dal Caos e dall'Orco, come dai due più antichi Dei, tutta la turba delle altre Divinità.
- ↑ Imperocchè la teologia pagana ammetteva dodici Divinità primarie e superiori a tutte le altre.
- ↑ Neotete, ossia Gioventù.
- ↑ Moly, erba eccellente contro il veleno.
- ↑ Mete, l’ubriachezza.
- ↑ Apedia, l’Imperizia; perchè Pane, giusta la favola, è rozzo e ignorante.
- ↑ Scudo di Giove, fatto colla pelle della sua nutrice, la capra Amaltea.
- ↑ Lucrezio riconosce in Venere il principio di ogni generazione.
- ↑ Porci acarnanj, poichè nei contorni d'Acarnania, città un tempo non molta lontana da Siracusa in Sicilia, si allevavano porci squisitissimi.
- ↑ Si attribuivano a Bacco due nascite; l’una da sua madre, l’altra dalla coscia di Giove.
- ↑ Momo, figlio del Sonno e della Nolte.
- ↑ Ate, o la Discordia.
- ↑ Dice Omero che Nireo era il più bello fra quanti assediavano Troia, e Tersile il più deforme. Faone fu ringiovanito da Venere, onde Saffo divenne perdutamente innamorata, e Nestore visse tre secoli.
- ↑ Proverbio di Teocrito, nato dalla risposta dell’Oracolo: che i Megaresi non erano nè i terzi, nè i quarti, che cioè non appartenevano ad alcun numero e non aveano alcun valore, ed erano da calcolarsi per nulla.
- ↑ Segue il concetto d’Aristotile che stima prevalere d’audacia i più scarsi d’ingegno. Il sangue denso onde abbondan i robusti, cresce la vigoria del corpo, ma fa tardo l’ingegno all’incontro il sangue sottile, onde esalano spiriti tenui e sottili, fanno il corpo debole e peritoso, e l’ingegno acuto e timido.
- ↑ Gli Spartani cacciarono in bando Archiloco, perchè si vantava d’avere in battaglia gettato lo scudo per fuggire più velocemente.
- ↑ Si racconta di Catone, che assistendo egli ai giuochi Floreali, e non volendo gli Attori incominciarli, perchè le donne danzavano nude, e gli uomini formavano gruppi lascivi, gli fu imposto o di deporre la sua gravità, o di partire, ed egli prese immediatamente quest’ultimo partito.
- ↑ Aulo Gellio racconta, che le vergini di Mileto, invase da furioso amore, si diedero da sè stesse la morte.
- ↑ Chirone, precettore d’Achille, ricusò l’immortalità offertagli dagli Dei in premio della sua probità, per evitare il tedio di una vita monotona.
- ↑ Del quale così favella Socrate presso Platone: «Ho udito dire che in Egitto vi fosse uno de’ primitivi dei, a cui era consacrato l’uccello chiamato Ibi. Questo demone, o dio, appelavasi Teuto, e fu l’inventore della geometria, dell’astrologia, dell’alfabeto, ecc. Thamus regnava in quel tempo su tutto l’Egitto; Teuto andò a lui, gli insegnò le sue invenzioni e gli disse che bisognava apprenderle agli Egizii.
- ↑ Presso Platone nel luogo succitato, si legge altresì che avendo Thamus chiesto a Teuto di quale utilità poteva essere l’invenzione dell’alfabeto, Teuto rispose: Gioveranno ad alleviare la fatica della memoria. — Al contrario, soggiunse il re, poichè gli uomini, col sussidio delle lettere dell’alfabeto, ogni cosa affideranno alla carta, più nulla serberanno in mente.
- ↑ Da un’antica frase greca che significa: io so, io imparo, i grammatici affermano derivato il nome di demonio; sicchè i Greci appellavano i sapienti altresì demoni.
- ↑ Qui l’autore vuoi alludere all’apologo che Aniano; il favoleggiatore, racconta in questa maniera: «Nel massimo rigore del verno un contadino accolse un Satiro nel suo casolare. Questo Satiro, avendo veduto il suo ospite soffiarsi sulle dita, gli disse: Perchè fai così? Rispose: Per riscaldarmele col tepore del fiato. Quindi essendosi posti a tavola, e vedendo il Satiro che il contadino soffiava sopra una vivanda troppo calda, gli dimandò di nuovo perchè tornasse a soffiare. Il contadino gli rispose: Per raffreddarla. Allora il Satiro levatosi subitamente, gli disse: Come tu mandi fuori dalla bocca il caldo ed il freddo? Ah non voglio, soggiunse, aver commercio con simili persone! e in questo dire se ne fuggì prestamente.
- ↑ Promontorio di Malea nella Laconia, provincia del Peloponneso, pericolosissimo, sicché solevasi dire per proverbio: Quando navighi innanzi a Malea dimenticati la tua casa.
- ↑ Questo santo suol dipingersi come un gigante, con una pianta in mano in mezzo ad un fiume fin quasi alle natiche; appunto come Virgilio descrive Polifemo nell’Eneide, lib. V.
- ↑ I marinai invocano S. Cristoforo, i soldati santa Barbara, e gli avari Erasmo.
- ↑ Ippolito, sbranato dai cavalli, celebre per la resistenza che fece al colpevole amore di Fedra sua matrigna.
- ↑ Si racconta che il diavolo, incontrato un giorno S. Bernardo, si vantò di sapere sette versetti dei salmi, co’ quali sicurissimamente s’andava in paradiso. S. Bernardo, curioso di sapere quali fossero questi versetti, non potè ritrarlo da lui; sicchè disse: Ti corbellerò ben io, poichè recitando tutti i giorni il Salterio reciterò anche i sette versetti. Allora il diavolo s’indusse a rivelargli il segreto.
- ↑ Platone poneva gli uomini, schiavi delle proprie passioni, come relegati in una caverna.
- ↑ Secondo Luciano era Micillo un povero ciabattino, il quale, avendo una volla cenato a maraviglia in casa d’un suo ricco vicino sognò nella notte d’esser divenuto ricco, e di godere tutti i beni dell’opulenza; ma avendolo il suo gallo svegliato col canto, ne provò tanto dispiacere, e montò talmente sulle furie, che poco mancò non uccidesse l’importuno cantore.
- ↑ Patemone e Donalo furono due celebri grammatici.
- ↑ Alceo di Mitilene, uno de’ più gran poeti lirici dell’antichità, nemico giurato di Pittaeo, di Periandro e di altri tiranni, ed autore di quella specie di versi graziosi, che noi chiamiamo Alcaici.
- ↑ Callimaco, celebre poeta greco nativo di Cirene, passava, secondo Quintiliano, per il principe de’ poeti elegiaci presso i Greci. Catullo lo ha imitato. Egli soleva dire, che un gran libro è un gran male.
- ↑ Nel tempio di Dodona, dedicato a Giove, erano disposti vasi di bronzo in tal guisa che battendo sul primo si propagava il suono fino all’ultimo, la qual cosa produceva fracasso.
- ↑ Omero dice che Stentore avea una voce così forte, che agguagliava quella di cinquanta persone insieme.
- ↑ Racconta Orazio che avendo Priapo veduto una volta le notturne cerimonie di Canidia e di Sagana, che scongiuravano in un giardino le Furie e le Ombre, restò talmente sbalordito, che uscì nei suoni del decurio dei demonj danteschi; le streghe spaventate da questo fragore troncarono i loro incantesimi, e si diedero precipitosamente a fuggire.
- ↑ I Feaci erano, secondo Omero, sì stupidi e materiali, che Ulisse loro dava ad intendere tutto ciò che voleva
- ↑ Omero dipinge gli amanti di Penelope come uomini del tutto dediti ai piaceri sensuali, i quali dopo aver ben mangiato e ben bevuto pensavano solo ai canti ed alle danze.
- ↑ Una volta tutt’i vescovi si chiamavano papi, cioè padri.
- ↑ Qui Erasmo allude alle annotazioni ch’ei fece al Nuovo Testamento, ed all’opera di S. Girolamo.
- ↑ A tre lingue, cioè l’Ebraica, la Greca e la Latina.
- ↑ Dell’Asino alla lira. Questo teologo si chiama Nicola de Lira.
- ↑ Cesare quando venne avvertito di stare in guardia contro Antonio rispose: “Non temo i pingui ghiottoni, ma i sobri e i pallidi;„ volendo indicare Bruto e Cassio, che infatti lo pugnalarono in pieno senato.
- ↑ Nerone fece svenar Seneca, perchè questo filosofo essendo stato suo precettore ardiva di censurare le pessime sue azioni.
- ↑ Platone fece espressamente il viaggio della Sicilia per tentare di umanizzar colla filosofia il cuor feroce di Dionigi tiranno di quell’isola; ma il suo divisamento andò totalmente fallito.
- ↑ Socrate trovandosi vicino a morte disse ai giudici, che aveano pronunziata la sua sentenza: Bramo d’essere per voi un buon indovino, perchè trovandomi vicino a morire sono in quel caso in cui gli uomini sogliono profetizzare.