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della pazzia | 115 |
costoro meritano più compassione che invidia. Immersi in una continua applicazione, pensano, ripensano, aggiungono, cambiano, levano, rimettono, limano, rifondono, fanno, cancellano, consultano; e con tutte queste pene passano forse nove o dieci anni, giusta il precetto d’Orazio, prima che il manoscritto sia pubblicato colle stampe. Oh quanto mi fanno pietà questi scrittori! Essi non sono mai contenti del loro lavoro; e pure qual ricompensa hanno a sperare? Oh mè! un poco di fumo, un piccol numero di leggitori, una lode incerta. Ma ditemi proprio senza simulazione: queste tenui bagattelle contrappesano forse il sacrificio del sonno, più dolce d’ogni cosa, della tranquillità, dei piaceri; in una parola di tutte le dolcezze della vita? Bisogna ancora aggiungere, che questi ricercatori di una sognata immortalità rovinano la loro salute, impallidiscono, dimagrano, diventano cisposi, e talvolta anche ciechi; sono sempre miserabili, invidiati, privi d’ogni piacere; e ottengono alla fine di accelerarsi tutti i mali della vecchiaia ed anche la morte stessa. Quel nostro saggio però stima un rimedio sufficiente a tanti mali l’approvazione di uno o due cisposi della sua classe.
Ma parliamo un poco d’un autore che scriva sotto i miei auspicj, e di cui io sia la Minerva. Non conoscendo costui nè meditazione, nè tortura di cervello, nè veglie, scrive tutto ciò che si sogna, o che gli cade in mente, sembrandogli ogni cosa mirabile e divina. Appena la sua penna può tenner dietro alla rapidità della sua immaginazione e dei suoi pensieri. Non costandogli che un lieve consumo di carta, scrive un mondo di spropositi e d’impertinenze, persuaso che pubblicando delle scempiaggini incontrerà maggiormente l’approvazione della