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quella siffatta parte, così goffa, e così ridicola, che non può nominarsi senza riso. Questa, sì questa è propriamente quella sacra fonte, da cui traggon la loro origine i numi e i mortali.

Suvvia, chi è mai colui che avvinghiar vorrebbesi al nodo matrimoniale, se prima, come sogliono fare ordinariamente i filosofi, avesse ben riflettuto agli incomodi che accompagnano tal condizione? Qual donna vorrebbe sottomettersi al debito coniugale, se tutti conoscesse, o presenti avesse alla mente, i perigliosi dolori del parto e le pene della educazione? Se voi dunque dovete la vita al matrimonio, e il matrimonio alla irriflessione, che una è delle mie seguaci, giudicate di quanto mi siate debitori. Inoltre una donna passata una volta per le spine dell’indissolubile nodo, e che ardisce di rientrarvi, nol fa forse in virtù dell’assistenza della Ninfa Obblio, mia cara compagna? Dicasi pure, a dispetto del poeta Lucrezio, e Venere stessa non ardirebbe di negarlo, che senza la nostra possanza e la nostra protezione la sua forza e la sua virtù languirebbero e svanirebbero del tutto 1.

Egli è pertanto da quest’amabile giuoco, da me condito col riso, col piacere e coll’amorosa ubriachezza, che sono usciti gli accigliati filosofi, cui ora subentrarono quegli uomini, volgarmente chiamati Monaci, i purpurei monarchi, i pii sacerdoti e i pontefici tre volte santissimi. Finalmente da questo giuoco è parimente sboccata tutta la turba delle poetiche divinità; turba così immensa, che appena il cielo, quantunque spaziosissimo, la può contenere. Ma poco per verità sarebbe, se avendovi provato che da me avete avuto il germe e lo sviluppo

  1. Lucrezio riconosce in Venere il principio di ogni generazione.