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Ma trattando io dell’amor proprio, perchè mi restringerò ad una o due specie soltanto di pazzi? Il mio caro amor proprio, che qui presente vedete, quanti mezzi stupendi ei non possede per impedire all’uomo d’essere malcontento di sè medesimo? Gettate gli occhi su quel volto: non v’ha scimia nè più brutta, nè più deforme, e nulladimeno si crede un bellissimo giovinotto. È giunto colui a tirare due o tre linee con esattezza a forza di compasso? Ei già s’applaude in suo cuore, e si crede un altro Euclide. Questo qui canta un po’ peggio d’un gallo? Non importa; egli si crede di avere una voce da paradiso. Ma eccovi un’altra specie di pazzia veramente amena. Vi sono alcuni che hanno un numeroso stuolo di servi, ognuno de’ quali ha qualche buona qualità, ed essi s’immaginano che tutte queste buone qualità siano una dote loro particolare. Tale era appunto presso Seneca quel ricco doppiamente felice, il quale volendo raccontare una qualche storiella, gli schiavi stavangli sempre d’intorno per aiutare la sua memoria, e suggerirgli i nomi propri, anche i più comuni. Era d’altra parte così debole quel padrone, che bastava un picciol soffio di vento per gittarlo a terra; e ciò non ostante era sempre pronto a battersi coi pugni, fidandosi nella forza de’ suoi schiavi, come se fosse stata sua.

È inutile far qui passare in rivista coloro, che professano le arti; imperocchè ben a ragione chiamar si ponno i prediletti, i favoriti del mio amor proprio. Queste persone sono ordinariamente così idolatre del piccolo lor merito, che cederebbero piuttosto una porzione del loro patrimonio, che confessarsi mancanti d’abilità. I comici, i musici, gli oratori, i poeti: ecco, ecco i migliori amici dell’amor proprio! Costoro quanto più sono ignoranti, tanto