Pagina:Elogio della pazzia.djvu/59

46 elogio

stro, s’impegna a trattare la sua causa da valente difensore; apre la bocca pur adempiere sì buon uffizio; ma spaventato dal rumore dell’adunanza, si confonde alla metà del primo periodo. Che dirò di Teofrasto, discepolo di Aristotele, che meritossi un tal nome colla sua eloquenza? Volendo parlare al popolo non trova più la sua voce, talchè sarebbesi detto «che avesse veduto il lupo». Dimando io se questi uomini sarebbero stati eccellenti per incoraggiare il soldato? Isocrate, che sapea comporre tante bellissime orazioni, ardì egli mai di parlare al pubblico? Lo stesso Cicerone, padre della romana eloquenza, solea tremare, e balbettare come un fanciullo sul principio delle sue orazioni. È vero che Fabio interpreta questa timidezza come il carattere distintivo d’un oratore penetrante, e che conosce il periglio a cui si trova esposto; ma col dir questo non viene forse a confessare, che la filosofia non è assolutamente compatibile coi pubblici affari? Come mai questi sapienti potrebbero sostenere il ferro e il fuoco della guerra, se muoiono di paura quando pur non trattasi di combattere che colla sola lingua?

E dopo tutto quanto abbiam detto, sarà possibile di decantare ancora quella celebre massima di Platone, la quale afferma: «Che le repubbliche sarebbero felici, se le reggessero i filosofi, o se i principi filosofassero?» Ho l’onore di dirvi che la cosa è tutto all’opposto. Se consultate gli storici, ritroverete senza dubbio, che principi alla repubblica più perniciosi furono quelli, che amarono le lettere e la filosofia. Parmi che i due Catoni siano una prova sufficente di quanto asserisco; l’uno turbò la tranquillità di Roma con moltissime stolte delazioni, e l’altro per voler difendere con soverchia saviezza gli