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della pazzia 37

non è condita dalla Pazzia. E tanto vero questo, che se nessuno de’ convitati sente del matto, o almeno non finge di esserlo, si paga qualche buffone o si invita qualche lepido parassito, affinchè co’ suoi sali, co’ suoi scherzi, colle sue buffonerie sbandisca dalla tavola il silenzio e la malinconia. Infatti a che ci gioverebbe il riempire lo stomaco di tante sontuose, squisite ed appetitose vivande, se gli occhi, le orecchie, lo spirito e il cuore non venissero pasciuti egualmente da giuochi, da risa e da piacevoli concetti? Ora io sola sono l’inventrice di tali delizie. Sono forse stati i sette savj della Grecia quelli, che hanno ritrovati tutti i diletti d’un convito, come sarebbe gittar la sorte per vedere a chi tocca d’essere il re della mensa, giuocar a’ dadi, bere in giro nello stesso bicchiere, cantare a vicenda col ramo di mirto alla mano, danzare, saltare, mettersi in diversi atteggiamenti? No certamente: io sola poteva inventarli per la felicità del genere umano. Tutte le cose sono di tal natura, che quanto più abbondante è la dose di pazzia che contengono, tanto maggiore è il bene che procurano ai mortali. La vita umana senz’allegria non merita neppure il nome di vita. Bisognerebbe condurre tutti i suoi giorni nella tristezza, se con tal sorta di piaceri non si dissipasse quella noia, che sembra nata con noi.

Vi saran forse delle persone, le quali, nulla contando questa sorta di passatempi, ripongono tutta la loro felicità nel possedere veri amici, e spesso van ripetendo, che la dolcezza d’una tenera e fedele amicizia sorpassa tutti gli altri piaceri, e che alla vita è tanto necessaria, quanto l’aria, l’acqua, il fuoco. Così gioconda è poi l’amicizia, soggiungono essi, che, se toglier si volesse dal mondo, sarebbe come togliere il sole; è finalmente tanto