Commedie (Aristofane - Romagnoli)/Prefazione
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I
Parecchi autori antichi han tramandato il ricordo di alcuni istrioni che sollazzavano il popolino in ogni parte del mondo greco. Essi eran distinti con nome diverso nelle diverse regioni: deikelistái (mimi) in Laconia; sophistái (virtuosi) ed autokábdaloi (improvvisatori o buffi) un po’ dappertutto; phlyakes (burloni)1 specialmente in Italia; ethelontái (dilettanti) in Tebe.
Tanto lusso di nomi non ci deve trarre in inganno. Uno era il genere, una l’arte di questi istrioni. Essi vagabondavano. specialmente per villaggi e borghi (en kómais), come ne rimase vivo il ricordo nella tradizione e nel nome stesso di commedia. Sollazzavano il grosso pubblico con lazzi, piú che altro, e buffonaggini, come si raccoglie già dal semplice significato di alcuni dei loro nomi, e anche con scenette realistiche e mimiche. Imitavano, per esempio, un cerretano che spacciava ai gonzi i suoi miracolosi specifici, dei ladri di frutta, un atleta tutto goffaggine e millanteria.
Da questa specie di monologhi-macchiette ebbe origine una specie di farsa che le notizie più tarde chiamano commedia di piazza (komoidía agoráia), e che a mano a mano si stabili in molti paesi, assumendo qua e là varia fisonomia. Nella conservatrice Sparta rimase a lungo nello stato embrionale. A Megara prese molta voga e rincarò in buffonaggini: gli Ateniesi del V secolo dicevano megarico come noi diremmo pulcinellesco. In Atene si fissò primieramente con Susarione: era una cosa senza capo né coda, e fu detta con disprezzo commedia buffonesca (phortikè komoidía). A Tebe sembrâ divenisse parte integrale delle feste in onore di Kábeiros, il Diòniso locale.
Disseminata e fissata a mano a mano, con incroci ed influssi reciproci che sarebbe folle e vano voler determinare, per tutto il mondo greco, questa caratteristica farsa mimica coniò ben presto certi tipi, certe situazioni, certi motivi comici caratteristici e divertenti, se non sempre fini ed artistici. Il popolino greco ne andò pazzo, come il napoletano per la commedia di Pulcinella. E un po per trarre partito da questa predilezione, un po’ per il fàscino che realmente esercitavano quelle forme rozze ma efficacissime, i poeti che tolsero la commedia dalla piazza per recarla a trionfare sulle scene di Diòniso, rimasero in molti punti fedeli anch’ essi alla bene amata tradizione. Non altrimenti si comportarono Molière e Goldoni di fronte alla commedia dell’arte, che se forse ai tempi loro era divenuta «ebbra vecchiarda», aveva però tanto a lungo ammaliate le plebi col fàscino e il capriccio d’una gioventú rigogliosa.
Fig. 1 (pag. XIII)
Cosí avviene che ad intendere precisamente la commedia di Aristofane, a vedere quanto essa deriva dal repertorio comune, quanto modifica, quanto innova, quanto crea, è indispensabile avere dinanzi agli occhi una immagine di quella commedia popolare. E fortunatamente noi possiamo oggi, se non disegnarne i minimi lineamenti, tracciarne però un contorno abbastanza sicuro, grazie ai motivi che ne riscontriamo dispersi, non solo nei drammi comici greci e latini sopravvissuti integri o in frammenti2, ma in tutta una serie d’opere letterarie, che, secondo ha ineccepibilmente dimostrato Ermanno Reich3, attinsero alla tradizione mimica. Altri
sussidi troviamo in una quantità di monumenti figurati,
tra cui devono in primissimo luogo annoverarsi le rappresentazioni ceramiche di scene fliaciche4.
II
Fra i tipi più interessanti che animarono quella originaria commedia dell’arte, va ricordato il cerretano, di cui abbiamo già fatto cenno. Un vero Dulcamara. Arrivava da lontano a corbellar la fiera; e i gonzi a sentire la sua pronuncia esotica andavano in estasi:
Se viene un medico
paesano, e ci dice: «A quel malato
dategli una scodella di tisana»,
lo disprezziamo. Ma se lo sentiamo
dir «scotella» e «disana», rimaniamo
a bocca aperta. E così via. Se dice
« bietola», e chi gli bada? Dice «pieta»?
Siam tutt’orecchi! Come se non fossero
bietola e pieta, zuppa e pan bagnato!
Parenti in primo grado dei cerretani erano i questuanti (menagýrtai), gente girovaga che presumeva compier miracoli con l’aiuto dei Numi. Anch’essi bazzicarono molto le scene, e diedero argomento e titolo a una commedia di Antifane e ad una di Menandro. Ecco uno dei loro prodigi, operato su uno storpio (Antifane, 154):
Alla fanciulla ingiunse che prendesse
gli unguenti della Diva, e glie n’ungesse
i piedi prima, indi i ginocchi; e appena
gli ebbe quella toccati e stropicciati
i piedi, saltò su bell’e guarito.
Non meno antica era la prosapia del dottore. Sofrone nei suoi mimi presentava un rètore, Bulías, che chiacchierava sempre senza saper quel che dicesse. In una commedia d’Epicarmo era divenuto filosofo eracli teo, e spiegava la geniale teoria del perenne tramutar d’ogni cosa a un progenitore di Strepsiade che ne faceva una pratica lepidissima applicazione (vedi introduzione alle Nuvole). Nuove sue incarnazioni sono il Socrate delle Nuvole, l’Euripide degli Acarnesi e delle Donne alla festa di Dèmetra, Metone e Cinesia degli Uccelli. Spesso entrava, curiosamente, nei panni di un cuoco.
Ma il blasone piú nobile e piú antico spetta forse al Capitan Fracassa. Già tra i frammenti d’Archiloco, troviamo questa figura che sembra scappata da una parabasi aristofanesca (55):
Non mi garba un condottiero grande e grosso e pien di spocchia
pei suoi riccioli, che a contropelo ha sempre raso il mento
Me ne basta uno piccino, ch’abbia ad arco le ginocchia,
ma le gambe non gli tremino, ma sia pieno d’ardimento.
In Attica, prima forse di vestir panni da soldato, cinse i fianchi con la fascia d’atleta. Fanfaroneggiava, e s’intende; ma spesso e volentieri si presentava col grugno così pieno di lividi da sembrare un cestello di more (Adesp., 779), o di prugne mature (Alesside, 273). Il vero suo valore brillava invece a desco. Un eroe del Pancraziaste di Teofilo così raccontava una sua scorpacciata (8):
A
Tre mine circa di bollito.
B
Avanti!
A
Una testa, un-prosciutto, e quattro zampe
di porco.
B
Sangue d’Èrcole!
A
Tre trippe
di bove.
B
Per Apollo! Avanti!
A
Due
mine di fichi.
B
E quanto ci hai trincato
sopra?
A
Dodici tazze di vin pretto.
B
Per Apollo, per Oro, per Sabazio!
Ma è roba da chiodi, che si debba
trattare cosí me, figlio di Bianco‐
cimiero, e nipote di Saccheggia.
Sotto le medesime spoglie, s’intravvede da frammenti, era presentato nei Tassiarchi, dello stesso poeta, Formione, il piú rigido e duro fra i generali, ateniesi. E suo gemello è il Lamaco degli Acarnesi. La piú bella replica del tipo in tutto il teatro d’Aristofane è certamente Fig. 3 (pag. XIII) il Diòniso delle Rane. E di lui e di Lamaco parleremo a suo tempo. Prima di salutare ora questi antichi Matamoros, ricordiamo il pranzetto a cui accennava un d’essi nel Filippo di Mnesimaco (7):
Sai tu con chi devi azzuffarti?
Noi mangiamo a pranzo spade acuminate,
fiaccole ardenti trangugiamo a cena;
e dopo il pranzo, un servo senza indugio
mette in tavola cuspidi cretesi
per frutta, a mo’ di ceci, e troncon’ franti
di lancia; e per guanciali usiam corazze,
per cuopripiedi frombole, archi e scudi,
e il (fronte inghirlandiam di catapulte!
Anche il tipo dello scroccone dovè essere antico, quanto l'assetto sociale. Eccone uno, già raffinato, in Epicarmo (35, Kaibel):
Pranzo da chi mi vuole, sol che m’inviti; e da
chi non mi vuol: d’ invito non c’è necessità.
E li, son tutto spirito, fo slogar le mascelle
per le risa: chi il pranzo pagò, levo alle stelle;
e ov’osi contraddirlo qualcuno in checchessia,
mi vien la mosca al naso, e gli fo’ villania.
Poi vo via, rimpinzato di vivande e di vino;
ma non l’ho mica un bimbo, che mi schiari il cammino!5
Solo soletto, incespico pel buio e m’ arrabatto;
e se per mala sorte nella ronda m’ imbatto,
l’ho per fortuna somma, rendo grazie ai Celesti,
se me la cavo solo con aver gli occhi pesti.
Quando così malconcio torno a casa, un giaciglio
per dormir, non lo trovo! E già, non me ne piglio,
sin che i fumi del pretto — m’annebbian l’intelletto!
Non c’è proprio bisogno di ricordare quante repliche abbia avuto questo motivo, dalla incomparabile pittura eupolidea (v. pag. 72) ai notissimi monologhi plautini. Il Páppos (nonno) della commedia di piazza era diretto progenitore del Pappus dell’atellana. Entrava canticchiando, brandiva un bastone, e ne carezzava le spalle a chiunque gli si parasse dinanzi, gridava «evviva, evviva!», squassava una fiaccola come Filocleone nelle scene finali dei Calabroni, e come l’eroe d’una rappresentazione fliacica (fig. 1). In una commedia di Ferecrate (la Coriannó) lo troviamo pervenuto al colmo della ridicolaggine: innamorato, e rivale di suo figlio. Delle numerose varietà che generò questo tipo, fa fede senz’altro la variopinta interminabile filastrocca, compilata da Polluce (IV, 16), dei titoli schernevoli escogitati a caratterizzarlo. In due vasi fliaceschi del Museo di Bari ne troviamo un paio che han proprio dipinto in viso il loro carattere. Uno è (fig. 2) un vecchietto corcontento, arguto ed arzillo. L’altro, nella bocca sdentata, la bazza allungata, le orecchie grandi a ventola, la fronte gonfia e bernoccoluta, il cocuzzolo a punta, dimostra tutta la protervia del vecchio duro ed arcigno (fig. 3). Di fronte a questi tipi ben definiti e distinti, la tradizione ne ricorda altri che già a prima vista mostrano una reciproca parentela.ú Beniamino del publico fu, com’è tuttora, una specie di stupido. Al Mórychos e al Mómar, che sembra tenessero un posto d’onore nella farsa sicula, fa riscontro un nuvolo di citrulli, caratterizzati con straordinario lusso d’epiteti, che spesso prendevano valore di sostantivi, consistenza di maschera. Tali il Blitomàmmas, bietolone di mamma, e il Mammàkythos, che era addirittura protagonista in commedie di Platone comico e di Aristagora. Ma accanto al vero c’era il finto stupido, il Myllós, il nesci, che fingeva di non vedere e non sentire, e sentiva e vedeva ogni cosa. Perfetto rappresentante del tipo era quel personaggio d’Eupoli che narrava (180):
E molto appresi nelle barbierie,
standomene in disparte a far lo gnorri.
Altre sfumature del furbo erano il Diasyron (beffeggiatore), il Naichiséres, che faceva la gente contenta e canzonata, e l’Èiron, infine, il volpone finto e fino. Piú grosso e meno tristo il Kankastés, il beffeggiatore volgare, il buffone, che era chiamato anche con altri nomi. Un perfetto Kankastés è il Buffo della farsa d’Oxyrhynchus, di cui riporto un frammento nel capitolo IV.
Frequentissimo e gratissimo era anche il contadino, chiamato Makkós nella farsa dorica, e caratterizzato dai commediografi attici con nomi che sembrano di maschera. Teofrasto ne ha tracciata una vivacissima pittura (Carattere IV).
Famigerato e ricordatissimo nella tradizione era anche il tipo del mangione. Ercole lo incarnò sovente, e lui già cosí descriveva un personaggio del Busiride epicarmeo (21, Kaibel):
Tu lo vedessi quando mangia! C’è
da scoppiar dalle risa! Il gorgozzule
dentro gli freme, le mascelle suonano,
batte il molare, ed il canino schricchiola,
le nari friggono, e l’orecchie s’agitano!
Tante altre macchiette di mangioni troviamo nei frammenti attici. Eccone in Ferecrate uno che (173)
di cavïal s’impiastricciò la barba;
un altro che (159)
per mangiar ceci fritti soffocò.
Fig. 4 (pag. XL) Un personaggio d’Ermippo era capace di trangugiare tutto il Peloponneso (45). Uno di Platone scandalizzava i servi che avevano contato sugli avanzi di tavola (74)
A
Di’, quanto pochi avanzi, sulla tavola!
B
Quel nemico di Dio, tutto ha ingollato!
D’un certo Agirrio si raccontava (Filemone, 42).
A
C’era sul desco una ragusta. Come
la vide Agirrio, «Oh babbo mio, salute!»
dicendo...
B
Che mai fece?
A
Ingozzò il babbo!
Non meno prediletto era l’ubbriacone. Platonio6 dice che Cratete mostrò primo degli ebbri sulle scene; ma io crederei che vi abbian bazzicato da ben piú lungo tempo. Eschilo ne aveva introdotti perfino in una tragedia, i Lemni; e tutta la tradizione comica antica ne rigurgita. Le allusioni all’aborrimento delle femmine per l’acqua non finivano mai (cfr. pag. 90). Uno dei motivi comici del Ciclope euripideo è appunto l’ubriachezza. La sbornia era il titolo d’una commedia di Menandro. Anche il pauroso divertiva assai. In uno dei frammenti ceramici di Tebe, ispirati senza dubbio a burle comiche, forse degli ethelontái, vediamo Cadmo farsela sotto, alla vista d’un mostruoso serpente. Lo sfoggio che fanno di simili azioni e del sentimento che le ispira moltissimi personaggi di Aristofane, ci risparmia di andare a spigolare altri esempi. Qua e là troviamo anche dei dormiglioni. I due servi dei Calabroni e lo Scita delle Donne alla festa di Dèmetra avevano degni colleghi in due commedie d’Eupoli. In una (I disertori) un personaggio diceva a un altro (51):
Oh coso, dormi? Alzati e chiama gente!
Chi m’ha svegliato? Gli pigliasse un canchero!
m’ha fatto saltar su dal primo sonno!
Già vedemmo come il ladruncolo fosse tra gli archetipi della commedia di piazza. Tendenze al furto dimostrano anche parecchi personaggi di Aristofane, e tra poco potremo anche apprezzare le aspirazioni del Buffo nella farsa d’Oxyrhynchus. Intanto osserviamo che questi ultimi tipi si direbbero congiunti come da un’aria di parentela. I tratti che li caratterizzano non sono già rigidamente distinti: anzi senilità, rustichezza, furberia contadinesca, spirito beffeggiatore, ghiottoneria, tendenza al furto, salacia, sono qualità che facilmente sfumano e s’inseriscono l’una nell’altra.
E come le troviamo piú o meno completamente riunite in Maccus, in Karagos, nel Gracioso, nel Clown, nel Vidusaka, nelle cento incarnazioni dei vetusti autokábdaloi, cosí questi doverono accoglierle tutte in sé e sfoggiarle a volta a volta su le piazze e per le fiere. Se non che, quando s’univano a recitare in parecchi, nasceva spontanea una divisione de! lavoro, si che uno di essi esagerasse alcune di quelle caratteristiche, altre un altro, con effetto specialmente di contrasto. Cosí le diverse caratteristiche del tipo originario poterono a grado a grado, mercé uno sviluppo subordinato ma personale, informare altrettanti tipi distinti, i quali non soppressero però affatto il tipo originario, anzi seguitarono a gravitargli intorno, facendo confluire in esso i tratti sviluppati indipendentemente, che, per l’ acuità acquisita nella libera espansione, ben sovente contrastano e si contraddicono.
I critici ed i grammatici, lavorando in un tempo in cui questo processo era già compiuto, e su un materiale (la commedia nuova o di carattere) in cui si scorgeva il punto d’arrivo solamente, e non piú la via percorsa, videro nettamente e disegnarono i rami, ma non s’accorsero del tronco, sparito sotto il fittissimo frondeggiamento.
La comprensione di questo processo ci fornisce il mezzo principale, mi sembra, d’intendere la singolare complicatissima tempra delle persone di Aristofane.
A nessun lettore può sfuggire la stretta somiglianza che intercede fra i personaggi principali, i protagonisti, delle commedie di Aristofane e che dipende dal costante ricorrere di certe condizioni e caratteri comuni.
Quasi tutti questi personaggi sono campagnuoli. Diceopoli, relegato in Atene dall’invasione laconica, non fa che rimpiangere i campi; e, stretta appena la tregua col nemico, vi torna a celebrar le Dionisie agresti (Acarn., 220). Popolo, il mangiafave (Cav., 46), recuperate le tregue sequestrate da Cleone, s’affretta a tornare in campagna (1494). Lesina adduce, a scusa dell’aver picchiato troppo forte alla porta, le proprie abitudini campagnuole (Nuvole, 156). Filocleone ricorda all’ingrato schiavo una certa operazione a cui lo sottopose quando lo trovò nel podere a rubar l’uva (Calabroni, 487); ora, per altro, la mania tribunalizia sembra l’abbia legato alla città.
Trigeo, il vignaiuolo, appena libera Eirene, torna alle sue viti (Pace, 74!). Sperabene possiede un poderetto e un paio di bovucci (Uccelli, 644); e di qui venne in città (539), a quel banchetto che gli costò un mantello di lana frigia; e della sua condizione sarà stato certo Fig. 5 (pas. XLI) l’amicone Gabbacompagno. Anche Mnesiloco pare concepito come campagnuolo; e tale è Scaracchia, nel Pluto (240).
Molti dei tratti con cui è dipinta la loro rusticità hanno carattere buffonesco e convenzionale. Diceopoli, giunto primo e solo nella Pnice, ammazza il tempo sbadigliando, strappandosi i peli, compiendo altre prodezze che lo designano precursore di Barbariccia. Ha portato in assemblea una torta condita col porro per cibarsene durante la discussione (181). Gli fa gola, come al bifolco di Teofrasto, una fantesca (276). Lesina si corica, la prima notte di matrimonio, fragrante di lane, d’aglio, di mosto (Nuvole, 55). Filocleone si comporta, nel simposio a cui lo mena il figliuolo (Calabroni, 1425), ben piú goffamente del bifolco d’Anassandride, il quale usa a tavola espressioni da funerale (Il bifolco, I). Sogno dei coreuti della Pace, è sollazzarsi con l’ancella quando la moglie è al bagno. E tutti poi questi messeri nutrono un vero entusiasmo per le cipolle e i porri, cosí aborriti dalI’ urbanus Orazio; simili in ciò, anche una volta, al bifolco di Teofrasto, il quale asseriva che la mirra non ha piú buon odore dei porri.
Altra caratteristica comune è la senilità. Lesina è rimbambito dagli anni (937, etc.), Filocleone invalido (391, 1516 etc.), Trigeo teme di doversi strapazzar troppo, all’età sua, con Pomona (744; cfr. 359); vecchierelli sono infine Gabbacompagno, Sperabene (353), il marito di Prassagora (Le Donne a Parlamento, 360) e Scaracchia (Pluto, 38; cfr. 273).
Sono poi quasi tutti d’una stupidità spesso inverosimile. Lesina dà tali prove di durezza mentale, che Socrate, scandalizzato a piú riprese, finisce per levarselo dai piedi (869). Anche Popolo, a malgrado della lode attribuitagli dal Salsicciaio (804), la quale, del resto, è piú che altro diretta al popolo ateniese simboleggiato in questo tipo scenico, è un citrullo che si lascia menar pel naso dal Paflagone. Filocleone, quando il figliuolo gl’insegna le maniere della buona società, noli intende cose che entrerebbero a un piòlo; e non parliamo neppure di Sperabene, campione di stupidità e citrullaggine.
Quasi tutti nutrono una straordinaria passione per le burle, spesso d’ultima goffaggine, e una tendenza a scorbacchiare grossolanamente la gente; e talvolta dimostrano poi una singolare furbizia, che fa vivo contrasto con l’abituale stupidità. Diceopoli piglia in giro come nulla il terribile Lamaco. Popolo sfrutta i due piaggiatori, e quando il Coro gli rimprovera la sua dabbenaggine, si sbottona con una dichiarazion di fede veramente inaspettata. Il baggiano Lesina è tutto prontezza ed acume quando si tratta di sbarazzarsi dei creditori e di rimbeccare i discepoli di Socrate, esterrefatti per l’incendio del Pensatoio. Filocleone ha trovate inesauribili per canzonar le persone che ha danneggiate e che gli si addensano alle calcagna esigendo risarcimenti. Mnesiloco, che intendeva addirittura di dovere zittir la porta, non è poi menomamente imbarazzato a bisticciarsi a tu per tu col sottile Agatone.
Anche notevole è la loro grande salacia, prorompente alla menoma occasione. Basta ricordare le uscite finali di Diceopoli e Filocleone, la città vagheggiata da Gabbacompagno (162), I’ entusiasmo di Trigeo e di Sperabene dinanzi a Pomona e alla rosignoletta (Pace, 743; Ucc., 734); e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
La gola è pure loro peccato prediletto, e come coronamento di qualsiasi impresa non sanno concepire se non i grassi godimenti del banchetto. E infine, tratto caratteristico e poco osservato, spesso questi signori sono ladruncoli e se ne tengono. Senza contare i servi, parzialmente foggiati su questo tipo, pei quali aver le dita lunghe pare fosse dignità professionale, Vincipiazza ricorda a propria gloria la beffa onde truffava i sentimentali sospiratoti delle rondinelle (Cav., 451); il discepolo di Socrate esalta l’astuzia con cui il maestro ha sgraffignata la cena (Nuvole, 202); Filocleone e i coreuti non finiscono mai di rievocare, come carissime memorie di gioventù, i furterelli commessi al campo. Il vecchio fanatico dei processi era anzi da giovinotto addirittura uno specialista. A Nasso aveva involato degli spiedi, certo guerniti di selvaggina, e un mortaio ad una panivendola; cita come gloriosissima fra le azioni di sua vita l’aver trafugato a un certo Ergasione i pali delle viti; e tra le invidiabili facoltà giovanili che il tempo ci toglie, annovera principalissima quella di poter rubare.
Il tipo, dunque, che signoreggia le commedie di Aristofane, è fondamentalmente unico, ed è una maschera. E i tratti che principalmente lo informano, sono, uno per uno, quelli che caratterizzavano il tradizionale autokábdalos, quale si può ricostruire accozzandone le membra disperse negli scritti dei grammatici. Naturalmente, avviene nella commedia aristofanesca quello che inducemmo avvenisse nella farsa popolare. Ora l’una, ora l’altra di queste qualità prende il sopravvento, e il personaggio ne riceve una colorazione speciale. così Sperabene è piuttosto un citrullo, Mnesiloco uno scorbacchiatore, Gabbacompagno un ironico, Lesina un bifolco.
Osserviamo infine che per molte delle incarnazioni aristofanesche di questo tipo, e solamente per esse, riesce provata la presenza del fallo. Risulta infatti dal contesto che si presentarono ornati di questa appendice Diceopoli (Acarn. 1248), Filocleone (Calabroni, 1037, Fig. 6 (pag.XLII) 1475 sg.), Trigeo (Pace, 1389 sg.), Mnesiloco (Le Donne alla festa di Dèmetra, 79, 271, 713, 1205), e infine, Gabbacompagno e Sperabene (Ucc., 354). Qualche altro personaggio, secondario, ma aggirantesi nell’orbita segnata dal protagonista, che oramai chiameremo per brevità il Buffo, fu levato all’onore del tradizionale simbolo: gli Odomanti degli Acarnesi (175), per esempio, e Cinesia, e gli ambasciatori della Lisistrata, pei quali, del resto, era quasi reso obbligatorio dall’intreccio della commedia. Ma dai rispettivi contesti non si raccoglie un solo accenno che dimostri il carattere fallico di tutti! personaggi che si allontanano dal tipo del Buffo; e risulta invece che Agatone e Clistene non furono fallici. Giustamente opinò il Thiele7 che la commedia attica fruisse, anche circa i costumi, della piú grande libertà. Ma questa libertà, converrà aggiungere, era disciplinata da una tradizionale imprescindibile norma.8 In mezzo ai personaggi secondarî, variamente e capricciosamente abbigliati, ed ai coreuti dai costumi fantastici, quelli e questi privi di fallo, il Buffo serbava integro il costume tradizionale: sf che al suo semplice apparire, come ora a quello di Pulcinella, il popolino riconoscesse giubilando l’eroe prediletto.
III
I tipi — diciam pure le maschere — costituivano l’elemento principale e piú caratteristico dell’antica commedia popolare. Tuttavia,^per meglio determinarne la fisonomia, non sarà inutile ricordare alcuni dei motivi comici che ella predilesse, e che si perpetuarono anche essi, infiltrandosi pure nelle opere d’arte riflesse, a venarle di capricciosi rabeschi.
Il buon Orazio del Teatro comico di Goldoni (III, 2) fa una carica a fondo contro il malvezzo di rivolger la parola agli spettatori: ma delle sue inibizioni si sarebbero molto meravigliati i bravi autokábdaloi, avvezzi, per tradizione secolare, a fraternizzare e discutere bravamente col pubblico, come fa tuttora il loro discendente Pulcinella. Spesso non si limitavano alle parole, ma gittavano addirittura agli spettatori noci, fichi secchi e simili leccornie. Aristofane ben due volte protesta contro questa goffaggine (Calabroni, 61; Pluto, 850); pure, durante la consacrazione di Eirene, Trigeo ordina come nulla al servo di gittare orzo agli uditori.
Non meno inveterato nei personaggi comici, e non meno accetto al pubblico, era il vezzo di giuocare a carte scoperte, di parlare come se si trovassero nel mondo reale anziché nella convenzione comica. Di tali strappi alla illusione scenica, se ne posson mietere in Aristofane. Qui ricorderemo quel Giove del Dedalo, commedia pure aristofanesca, perduta, che, tornando in cielo dopo una delle solite scappatelle, e prendendo posto in qualche macchina che doveva sollevarlo, diceva (Framm. 188).
Dà pur quando ti piace, o macchinista,
l’ordine che funzioni la carrucola.
Ma non concedendogli il primo posto abbiam fatto un grave torto a un altro motivo comico; la bastonatura. Le nerbate fioccano nella commedia d’Aristofane; e nessuno chiederà i titoli d’antichità di simile lazzo, che costituisce tuttora il piatto forte della commedia dei burattini.
Piuttosto è interessante ricordare certe imitazioni mimiche che presto si stilizzano e divengono canoniche. Tra le piú gradite conviene certo mettere in prima fila quella del barbiere. La sbarbificazione ha sempre dato negli occhi agli autori di farse; e tutta la tradizione comica popolare è piena di barbitonsori chiacchieroni, di rasoi mostruosi, di sbarbificazioni cruente, dagli Idáioi di Cratino9, il quale avrà certo avuto i suoi modelli, sino al Pexor rasticus di Pomponio, e giú giú, alla famigerata scena del Barbiere di Siviglia. Immancabile dovè essere il tratto del paziente in fuga con una gota rasa e una no. In un frammento, probabilmente comico, riferito da Alcifrone, vediamo un barbiere burlone conciare in tal modo un suo cliente (Adesp., 124):
Che briccone, che goffo! Non m’accorsi
che non mi rase intera la mascella,
ma solo in parte; e mi lasciò la guancia
ispida quasi tutta, e a pezzi liscia.
Simpatia non minore riscuotevano le scene di travestimento. Ecco, prima dei numerosi camuffamenti aristofaneschi, il Diòniso d’una commedia di Cratino10 tramutato in becco. Lo stesso Nume, mollissimo e voluttuoso, nei Comandanti ( Taxiarchoi) di Eupoli doveva indossare panni da soldataccio. — E qualche confronto che possiamo istituire con Pomponio ci fa poi vedere come, non solo nel motivo generale, ma anche in minuti particolari, i poeti d’arte sembra attingessero fedelmente da tipi abbastanza definiti. Un frammento dei Verniones (I, Ribbeck):
a peribo, non possum pati:
porcus est, quem amare coepi, pinguis, non pulcher puer.
ricorda la burla del Megarese negli Acarnesi e, di rimbalzo, la farsa megarica. Un altro dei Macci gemini:
[Ei] perii! non puellula est: numquid [nam] abscondidisti
inter nates?,
Fig. 7 (pag.XLII) sebbene suggerisca una scena piú propriamente erotica, fa pensare al famoso riconoscimento di Mnesiloco nelle Donne alla festa di Dèmetra. Ma l’unico frammento delle Kalendae Martiae, a momenti pare una traduzione delle parole di Euripide a Mnesiloco:
A
Vocem deducas oportet, ut videantur mulieris verba.
B
Iube modo adferatur munus, vocem reddam tenuem et tinnulam.
Fa delle prove.
Etiam nunc vocem deducam?
Frequente e apprezzata era anche la scena della visita. La visita è spediente assai ovvio per far trovare insieme con naturalezza due persone il cui incontro sia richiesto dall’azione drammatica. Però essa spesseggia in tutto il teatro comico popolare antico11, non meno che nella commedia dell’arte e nella tuttor viva farsa napoletana. Al repertorio comune attinse dunque Aristofane, sfoggiando, nei suoi drammi, tanto lusso di visite12. Né altro testo gli suggerí i lazzi piú o meno gustosi di cui i suoi personaggi fanno sciupio, quando si tratta di picchiare agli usci o di chiamar quei di casa.
Altro lazzo benamato è la storpiatura delle lingue, che dall’Ulisse solecizzante di Sofrone all’inglese delle nostre farse, ha avuto sempre virtú esilarante. Ma addirittura entusiasmo sogliono destare le lingue straniere, che il commediografo componga con sillabe prese a casaccio (’) (;) e intrecciate bizzarramente con qualche elemento della propria lingua. Esempio cospicuo, l’indiano della farsa d’Oxyrhynchus.
Altri ed altri lazzi potremmo ancora ricordare, alcuni mimici, altri di fondamento grossamente etologico, altri puramente verbali. Ma il lettore che oramai ha capito il genere, li riconoscerà senz’altro nelle commedie aristofanesche, e saprà sotto che luce considerarli.
Voglio però ancora rilevare un principio generale, che Aristofane sfrutta largamente in ogni elemento dei suoi drammi, dalle grandissime linee ai più minuti particolari, e che certamente apprese, egli, come, senza dubbio, i suoi predecessori, dalla farsa popolare. Vo’ dire la simmetria. Con la contrapposizione piccante o la ripetizione, che è poi una categoria della simmetria, di due scene, di due motivi, il nostro poeta esalta mirabilmente un’idea sino al massimo dell’effetto. 11 finale degli Acarnesi offre, nel suo complesso, un esempio tipico. È la festa dei Boccali, e Diceopoli è tutto inteso a preparativi culinari. Giunge un araldo, e chiama Lamaco: corra, sotto il fioccar della neve, a difendere i confini, pigliando alla spiccia schiere e ciuffi. Ecco un altro araldo: corra Diceopoli, a pranzo dal prete di Diòniso, pigliando alla spiccia sporta e boccale. Segue un duetto, tutto intessuto di precisi contrasti. Infine, Lamaco va da una partii dicendo che il tempo mette a neve. Diceopoli dall’altra, dicendo che mette a bagordi. Dopo un breve intermezzo, ecco da una parte Lamaco, ferito, sostenuto da due commilitoni; e dall’altra Diceopoli, ebbro, puntellantesi a due cortigiane. Quegli canta una nenia dolorosa, questi un inno di gioia. L’uno dice agli amici:
Tenete, amici, il piede mio, tenetelo!
Oh spasimi inumani!
L’altro alle cortigiane:
Tenete a mezzo il pinco mio, tenetelo,
amiche, a quattro mani!
Molte volte la simmetria risultava semplicemente dalla mimica: come, per esempio, nel duplice spavento dell’uccel trochilo da una parte e dei due vecchi ateniesi dall’altra, quando s’incontrano la prima volta (Ucc., 72). E come in questo, cosí in altri casi, solo obicttivando innanzi ai nostri occhi le scene, riusciamo ad afferrarne tutta l’originaria vivacità. Una variante ancora, e la piú profondamente comica, della simmetria, consiste in certi rimbecchi a maggiore o minor distanza, pei quali alcun personaggio viene a trovarsi, o punto, o scorbacchiato, o punito, con le medesime parole ond’egli aveva offeso, o la comune legge morale, o il sentimento di una speciale persona. Il motivo, sfruttato dai commediografi d’ogni tempo, è assolutamente prediletto da Aristofane. Il lettore potrà ammirarne i mirabili svolgimenti nelle scene fra Gabbacompagno e i seccatori (Uccelli), tra Schifacleone e Filocleone (Calabroni), e tra Lesina e Tirchippide (Nuvole). In quest’ultima commedia il lazzo assume piú lunga vibrazione e profondo significato etico.
IV
Fin dalle prime origini, la farsa popolare contenne qualche elemento musicale. Aristofane, nel luogo delle Fig. 8 (pag.XLII) Nuvole già ricordato, accenna ad un tradizionale tipo di vecchio che canticchiava ariette e pigliava a bastonate la gente.
Ma oltre a questi elementi a solo, si ebbero anche, sin da principio, dei duetti buffi. Anche di questo ci dà testimonianza Aristofane. Nelle Donne a Parlamento, una giovine dice ad una vecchia che vuole, durante la sua assenza, rapirle l’amato con la lusinga del canto:
Prima di me ti sei, vecchia muffita,
messa alle poste. Eh, certo i topi ballano
quando il gatto non c’è! Te la credevi,
d’adescare col canto il mio diletto!
FaHo adesso, e col canto io ti rimbecco.
Ché, se agli spettatori questo pare
un vecchiume, peraltro è divertente
e comico. Avvicinati, accompagnaci,
tu, flautista!
Ora, mentre sul suolo attico questi elementi furono soffocati allorché la farsa, uscita dalla piazza, ebbe il suo Coro (vedi pag. 54) ed emulò la tragedia, in altre regioni si svilupparono indipendenti: e ne risultò una composizione in tutto simile alla nostra operetta, la hypóthesis mimica. Pochi anni fa la fortuna ci restituí, frammentaria e monca, ma facilmente ricostruibile, una di queste operette; che dunque è per ora la rappresentazione piú legittima, sebbene tarda e contaminata, dell’antichissima commedia degli autokábdaloi. Leggiamola, per precisare e concretare le nostre impressioni13.
Una bella ragazza, Caritione, diciamo Graziosa, si trova, forse naufraga, certo contro voglia, in una terra barbara, bagnata dal mare indiano e attraversata da un fiume; e l’hanno nominata, pare, sacerdotessa d’una Dea. 11 re del paese, naturalmente, se ne innamora, e non vorrebbe lasciarsela scappare. Ma un bel giorno arriva pure il fratello di lei, accompagnato da alcuni amici e da un tipo pulcinellesco, il Buffo.
Non emerge in modo sicuro dai frammenti rimasti, ma sembra ovvio supporre che il fratello mandi il Buffo, il piú ricco d’espedienti, e il capitano della nave, a tentare di salvar la fanciulla.
Ma prima di arrivare a lei, i selvaggi li scuoprono. Grande battaglia ad arma bianca... cioè un momento. Il Buffo è, come Diceopoli, anche lui un precursore; e con Fig. 9 (pag.XLII) l’arma di Barbariccia riesce a sgominare e mettere in fuga i nemici. Redimito di questi allori, si presenta a Graziosa.
buffo
Padrona bella, ti devi congratulare con me, come mi
son liberato da questa gente!
graziosa
I Numi sono grandi!
buffo
Che Numi, sei matta! Di’ la Dea dei venti!
GRAZIOSA
Finiscila^ galantuomo!
CAPITANO
Aspettami qui, e io corro, e faccio approdare il
battello.
GRAZIOSA
Corri, corri! Giusto vedi che adesso arrivano anche
le loro mogli: tornano 3a caccia.
Arrivano di corsa le Selvagge, brandendo degli archi.
Gràunu.
Lalle.
Cotacós.
UNA SELVAGGIA
UN ALTRA
UN ALTRA
BUFFO
Salute e bene..
TUTTE LE SELVAGGE
Laspàthia.
Tendono gli archi e stanno per saettare il Buffo.
BUFFO
Padrona mia, aiutami tu!
Alémaka.
Alémaka.
GRAZIOSA
alle Selvagge
LE SELVAGGE
convinte, l’una all’altra
Abbassano le armi.
BUFFO
Andate spicce, voialtre, per Atena!
GRAZIOSA
Poveretto, t’avevano preso per un nemico, e un altro
po’ ti saettavano!
BUFFO
Se non me ne va una bene! Dunque, si va o non
si va al fiume?
GRAZIOSA
Andiamo pure.
S’incamminano, e il Buffo dà prove del suo virtuosismo.
La scena della fuga è conservata in due redazioni.
E fondendole, si ricostruisce abbastanza sicuramente.!
fuggitivi sono dunque radunati tutti presso il fiume.
CAPITANO
Padroncina Graziosa, io guardo come si mette il
vento, per poterci salvare sul mare indiano: tu entra nel
tempio e prendi la roba tua.
BUFFO
E se ti riesce, vedi di sgraffignare qualcuno dei voti
della Dea.
GRAZIOSA
Che dici! Ma chi cerca aiuto, non lo deve chiedere
ai Numi rubando! Come vuoi che abbiano compassione
dei bricconi, e che diano retta alle loro preghiere! Le
cose della Dea devono essere sacre!
BUFFO
E allora, ^ non le toccare: le piglio io!
GRAZIOSA
Scherza coi fanti e lascia stare i santi!
CAPITANO
La roba tua, almeno, prendila!
GRAZIOSA
Ma non so che farmene! Mi basta rivedere il viso
di mio padre!
CAPITANO
Entra, dunque! (Graziosa entra) E tu, se arrivano i selvaggi, dagli da bere del vin pretto.
BUFFO
CAPITANO
Turlulu, in questi posti vino non se ne vende; e del
resto, quando avranno gustato il genere, vedrai che,’proibito o no, non lo vorranno che pretto.
Fis. IO (pag. XLII)
BUFFO
lo per me gli mesco anche la posatura!
CAPITANO
Eccoli che vengono!
Arriva infatti il re barbaro, seguito da un grande
stuolo di selvaggi con vari strumenti musicali, e specialmente timpani. Il fratello di Graziosa si nasconde, in
maniera da poter sempre però comunicare col Buffo. Il re
fa, col suo sèguito, lunghissimi sproloqui in indiano, in
terpunti da vigorosi e frequenti colpi di timpano. 11 Buffo
tiene lesta come può, con lazzi e imprecazioni, alla incomprensibile corìversazione, e soprattutto mesce vino. 11 re,
presto ine’briato, diventa poeta, anzi impara di botto anche
la lingua greca, e canta in versi altisonanti:
Con molle ritmo procedendo, un barbaro,
o dea Selene, Coro innumerevole,
io guido. Or tutti voi, dell’India principi,
intrecciate le danze all’uso serico.
E qui gran colpi di timpano, e clangor d’oricalchi, e quel
contrappunto che sappiamo del Buffo, e balli e balli,
finché i selvaggi, vinti dall’ebbrezza, cascano tutti a terra.
E si arriva così alla
SCENA FINALE
BUFFO
solenne
Questi son tutti già briachi fradici!
FRATELLO
Ora va bene. Oh Graziosa, esci fuori, adesso!
GRAZIOSA
Sono qui, fratello: tutto pronto?
FRATELLO
Tutto; la barchetta
ancorata è qui vicino. Timoniere, che s’aspetta?A te, dico: presto, approda!
IL PILOTO
Io che sono il comandante
ho a dar l’ordine per primo!
BUFFO
Non ti cheti, gran furfante?
Lo vogliam lasciare a terra a scolar la posatura?
FRATELLO
Siete dentro tutti quanti?
TUTTI
Tutti quanti!
GRAZIOSA
Che paura!
Sto tremando a verga a verga!... (Rivolte «1 cielo) Tu
benevola ti mostra,
ed in salvo la tua serva reca tu, Signora nostra.
riguardi le varie forme di farsa popolare o popolareggiante dei moderni, dalla commedia dell’arte al teatro dei burattini, dalle scene di graciosi del dramma spagnolo al tuttora vivo e vegeto Karagòs dei Turchi, si distingue da tutte per un tratto che costantemente la caratterizza. Dagli albori epicarmei sino al rosso crepuscolo dell’atellana, fra i suoi personaggi prediletti essa annoverò sempre i Numi d’Olimpo. E oggi incominciamo a intravvedere per quale processo i Celesti discesero dalle cerule vette d’Olimpo sulle tavole della scèna vagabonda. Tutti hanno presente il bizzarro tipo degli attori dei phlyakes, le famose farse tarantine di cui vediamo un cosi fulgido riflesso nelle rappresentazioni ceramiche. La faccia dal naso camuso e la bocca sgangherata, il ventre e i glutei sviluppatissimi, il fallo sconciamente pendulo, i calzoni attillati e stretti in fondo da un lacciuolo, il camiciotto, e spesso anche il berretto, pulcinelleschi. Che simili fossero gli attori dell’atellana, si induce facilmente da parecchi frammenti e non può meravigliare. Più sorprende, a prima vista, che non ne differissero quelli della commedia di mezzo, awiantesi al tipo menandreo; ma il fatto è posto fuor di dubbio da un vaso del sec. IV, egregiamente illustrato dal Korte (fig. 4). Tre attori si vestono per la rappresentazione, e son pronti, meno le maschere, che tengono ancora in mano, e meno, forse, i camiciotti. Uno è anche imbacuccato in un mantello; ma gli altri due sono contraddistinti dallo sconcio simbolo. Con la disamina, poi, d’un gran numero di statuette di terracotta del V sec. (fig. 5) e più con inconfutabili illazioni dalle commedie aristofanesche, il Korte stabili che anche in queste i personaggi si presentavano con aspetto non dissimile. Già dissi in che limiti mi sembrava si dovessero restringere queste conclusioni. Che poi questi messeri fossero signori assoluti nella commedia megarica, e quindi, naturalmente, in tutta la commedia di piazza, riesce provato dal luogo delle Nuvole in cui Aristofane tesse l’elogio della propria commedia (v. 608): Vedete quanto ha garbo! Prima di tutto è giunta senza quel cuoio pendulo, marchiano e rosso in punta che fa ridere i bimbi. Non c’è dubbio che al bel numero appartenessero! due istrioni che su un vaso beotico si azzuffano con due oche (fig. 6), e che sono perfette repliche degli attori fliaceschi. E più che probabilmente i personaggi epicarmei esilararono il’ pubblico con analoghi effetti (’). A fianco di questi compagnoni calcarono le scene alcune orrende comari che erano, anche nell’aspetto, le loro degne sorelle. Moltissime ne troviamo nelle rappresentazioni fliaciche (figure 7, 8, 9, IO). E come si vede, oltre che dal solito anormale sviluppo del ventre e dei glutei, erano contraddistinte dai lineamenti spiccatamente etnici, camitici. Tutte si conformano a questo tipo le statuette attiche del V secolo, rappresentanti attori in vesti di donne (2). Né fondamentalmente ne differisce la vecchia tormentata da sat’ià, che pure troviamo in una rappresentazione ceramica del V° secolo, e che certamente era anch’essa una figura scenica (figura 11). Queste somiglianze, che si propagano da secolo a secolo, da regione a regione, non possono certo esser casuali. Esse accennano ad unità d’origine. E uno dei centri di irradiazione, probabilmente non unico, certo non originario, pare fosse il santuario dei Cabiri di Tebe. Nella sua cinta si son rinvenute in gran numero rappresentazioni ceramiche dedicate al Nume del luogo, a Diòniso cabirico. E in esse troviamo delle figure che nelle caratteristiche essenziali \si identificano appunto coi nostri tipi, e che eseguono, con particolari più o meno burleschi, una quantità di azioni mimiche. Ecco Perseo che trascina Belle(’) Cfr. Arnold von Salis: De Doriensium ludorum in comoedia attica vestigiis, p. 12. (!) Cfr. A. Koerte, Archaologischc Studien zur alten Komódie, in « Johrb. d. Inst. », p. 75. rofonte (fig. 12), i Pigmei che lottano con le gru (fig. 13), Ulisse che minaccia Circe porgentegli il beverone (figure 14-15), o che su due otri connessi in forma di’zattera, veleggia, spinto dal soffio che alita dalle gonfie gote d’un mostruoso Borea (fig. 16), Cadmo che vien meno’alla vista d’un terribile serpente. Questi mostricciattoli trovano poi i loro progenitori in tutta una serie di figurine che tornano numerosissime, su monumenti specialmente ceramici, occupate in danze dionisiache, in giuochi, in burlette mimiche. L’esempio più cospicuo è offerto dalla famosa anfora Dummler (fig. 17). In un arcaico vaso corinzio troviamo una processione, che è poi come una elementare azione drammatica: il ritorno d’Efesto in Olimpo (fig. 18). Chi son dunque, e di dove provengono questi esseri bizzarri? Il problema è certamente arduo, non però forse disperato. Ed io esporrò qui apoditticamente quanto cercai di dimostrare altrove con analisi minuta (’). In un tempo di molto anteriore al periodo classico, e che per ora diremo predorico, un certo numero di santuari della Grecia furono consacrati a dèmoni che tradizionalmente si concepivano o rappresentavano sotto forme camitico-pigmaiche; quelle appunto che, a parte l’esiguità della statura, distinguevano gl’istrioni mimici. (2) Sopraggiunsero, invasori, i Numi olimpi; e, impadronitisi dei santuari, ridussero gli antichi signori alla condizione di loro ministri. (’) Musica e poesia nell’antica Grecia, Bari, Laterza, 1911, p. 223 sg. O Vedi la descrizione di Ctesia in lav. cit., p. 11. Tanto gli antichi dèmoni quanto gl’intrusi avevano, naturalmente, le loro leggende. Altre nuove ne originò la contaminazione. E tutta questa materia mitica, sempre più rigogliosa e intralciata, dopo essere stata per lungo tempo narrata, ebbe infine drammatica rappresentazione. Attori naturali furono i ministri dei nuovi Numi, cioè gli antichi dèmoni; o, meglio, dei ministri reali del santuario, che per la solenne occasione si camuffavano nelle forme attribuite dalla tradizione a quei dèmoni. Alcune di queste rappresentazioni erano occulte, altre pubbliche; quelle si dicevano misteri, queste azioni (drómena). Alle seconde conveniva gran pubblico, anche dalle regioni vicine. E contribuendovi, un po’ la critica ironica dei filosofi, un po’ il carattere grottesco degli attori, divennero sempre più buffonesche, e i dèmoni finirono per assumere carattere d’istrioni. così, a mano a mano, rappresentarono anche miti non attinenti al loro santuario, così, infine, uscirono dal tempio, e si unirono e poi si confusero con gli istrioni girovaghi, prestando ad essi i propri bizzarri costumi. Tale, io credo, l’origine della farsa mitica. Ma bisogna ben guardarsi dal porre senz’altro in queste burle rituali l’origine della commedia popolare. L’elemento mimico è di certo anteriore ad ogni rappresentazione parodistica, e quindi tarda, dei miti. Possiamo tutto al più ritenere che sul suolo greco la farsa mitica sia l’elemento agglutinante, il centro che attira a sé e congloba tutti gli elementi buffoneschi e mimici, portati in giro dai mille autokàbdaloi, di paese in paese, attraverso tutto il mondo greco, con incessante formicolìo. Comunque sia di ciò, la parodia mitica è un elemento essenziale della commedia popolare, dalle sue origini al tramonto; e la commedia d’arte si proporziona ’ quella popolare anche in simile predilezione. Più che metà delle commedie d’Epicarmo trattavano soggetti mitici.’La commedia attica originaria, sino a Cratino, ne rigurgitava; e sebbene se ne distogliesse un po’ nel suo momento più strettamente politico, ad essi tornava con raddoppiato amore nella fase posteriore del suo sviluppo. L’eco più fedele di simili parodie è rimasta, oltre che in qualche brano di poeti attici, sui quali torneremo, nel lepido Anfitrione plautino, e, specialmente, nelle rappresentazioni fliaciche, spesso così evidenti, che permettono la ricostruzione d’intere scene. Vediamone qualcuna. Ecco, per esempio, l’avventura di Giove con Alemena (fig. 19). È notte. Il nuovo, o, meglio, l’antico Don Giovanni s’è recato col fido Leporello Ermète a dar la scalata al verone della bella. Egli tiene la scala sulle spalle, col capo infilato tra due piòli; Ermète impugna con la sinistra il caduceo, e nella destra regge una lucerna. Alcmena, dalla finestra, guarda teneramente l’amante avventuroso. Ecco la «nascita d’Elena. 11 re dei Numi, pare, in stretto incognito, s’è recato, in compagnia d’Efesto, a vedere che cosa mai nascerà dall’uovo che gli aveva partorito la bella Nemesi, e che era stato affidato a Leda (fig. 20). 11 fabbro celeste ha già vibrato un colpo, ed ha rialzato il mazzapicchio per calare il secondo, allorché, oh portento!, dal guscio infranto scatta fuori una bella bambinetta, che con gesto vivacissimo incomincia forse a declamare. Giove leva un alto grido di stupore: e intanto una donna anziana, nascosta dietro un uscio semiaperto, spia, tutta curiosità? la scena meravigliosa. Ed ecco la lotta fra Ercole ed Apollo pel tripode di Delfo (fig. 21). Il signore degli oracoli, sbigottito per l’arrivo dell’eroe, s’è rifugiato sur un trabiccolo, impugnando il suo arco ed il fatidico lauro. Ercole, porgendo con la sinistra un cestello di leccornie, forse per adescarlo, e brandendo con la destra la clava, l’ha preso alle spalle, ed è salito su uno sgabello. Ma è una finta. Mentre Apollo ha rivolto il viso verso il nemico, il fido Iolao s’avanza alla chetichella, e tende la destra in alto, verso l’arco e la rama: fra un momento avrà spiccato un salto, e il povero Apollo resterà privo dei suoi cari attributi. Ercole, del resto, era il beniamino del pubblico. Ricchissimo di quell’energia fisica tanto ammirata dal volgo, punitore indefesso di malvagi, e raddrizzatore di torti da non temere rivali e da pigliarsela con l’istessa morte, valido in amore come alla guerra, poco pronto di mente e assai di mano, egli realizzava e sintetizzava gl’ideali del popolino. A lui, ammirato, adorato, invocato nelle più consuete esclamazioni, doverono molto esser rivolte le menti. E come tutte le sue avventure avevano piu’o meno il loro lato ridicolo, intorno a lui la parodia affilò specialmente le sue armi, ed il figlio di Giove divenne il prototipo della spavalderia, della goffaggine, della lascivia, specialmente della ghiottoneria: un vero Falstaff, insomma, senza però l’astuzia, ma anche senza la furberia né la vigliaccheria del vetusto compagno d’Enrico. E nelle rappresentazioni fliaciche egli ha infatti una parte preponderante. Qui toglie di mano addirittura a Giove un piatto di leccornie offerto da qualche fedele, e senza punto darsi pensiero del minaccioso fulmine paterno, si pappa ogni cosa con la massima irriverenza (fig. 22). Altrove porta ad Euristeo, invece dei Cercopi richiesti, un paio di scimmiette (fig. 23); riconduce alla luce del giorno la rediviva Alcesti; rapisce, dinanzi a un tempio. Auge invano reluttante (fig. 24). Eccolo vittima d’una grave sciagura: mentre sta pranzando, una donna gli afferra il bicchiere e scappa. Né meno brutta è quella che gli capita in un’altra figurazione, derivata forse da un dramma satiresco. Dopo un’orgia egli è andato coi suoi compagni, satiri e baccanti, a sdraiarsi sotto le finestre della bella; e probabilmente s’improvvisa una piccola serenata. Ma ecco all’improvviso spalancarsi una finestra, ed un’orribile megera versare il contenuto di un vaso sopra l’eroe, che disperatamente si dibatte sotto quella inattesa, poco celeste rugiada (fig. 25). E leggiamo infine le ultime sorti dell’eroe in due rap presentazioni che, pur non essendo fliaciche, riflettono certo scene di analoghe farse. Ecco l’apoteosi. L’eroe sta sulla quadriga, tratta da quattro focosi centauri con orribili ceffi, a fianco d’una Vittoria’ negra, col naso camuso. Un satiraccio, ballonzolando, fa da battistrada (fig. 26). E siamo finalmente in Olimpo. Egli deve celebrar le nozze con Ebe, e occorrono i pesci pel banchetto. Poseidone, specialista di cose di mare, e l’inevitabile Ermète, Io conducono alia pesca: l’eroe se ne sta tranquillamente fra gli scogli, con la sua brava canna da cui pende un tonno, mentre Erméte gli dà, al solito, dei consigli. La rappresentazione è forse ispirata alle Nozze d’Ebe d’Epicarmo (fig. 27). Tutte queste figurazioni s’ispirano, è certo, alle farse fliacesche. Una, però, sembra attinga alla commedia attica: quella in cui vediamo un Ercole che picchia con la clava ad una porta, ed un suo servo a cavalcioni su un asino, e con un grosso pacco sulle spalle (fig. 28). Chi potranno essere se non il Diòniso travestito e il Santia delle prime scene delle Rane? VI Parliamo ora d’un elemento che segnò d’un suo sigillo specialissimo la sola commedia attica: del Coro. Il Coro, a quanto sembra, ebbe prima origine dalle cerimonie falloforiche in onore di Diòniso. Una in miniatura ne troviamo negli A comesi; ma con ben altra pompa doverono esser celebrate le reali falloforie, che duravano ancora ai tempi d’Aristotele. A noi ne rimane un’abbreviata ma pur vivace immagine in due caratteristiche figurazioni vascolari. Sopra due specie di macchine, rappresentanti con ingegnosa stilizzazione il segno della fecondità, e portate a spalle rispettivamente da sette e da sei uomini, vediamo qui un sileno, li un altro dèmone (fig. 29-30) che ricorda assai da vicino gli eroi cabirici; sulla groppa del primo sta a cavalcioni un uomo, con in pugno il corno dell’abbondanza. Sono veri e propri carri carnascialeschi. E anche più, almeno per la sua forma, merita questo nome il carro curiosamente rostrato e caudato, nel quale appare Diòniso in mezzo a due satirelli. (fig. 31). Oltre che per le strade, le falloforie si celebravano anche nei teatri. O, almeno, questi erano la mèta delle processioni falloforiche. 11 periegeta Semo cosi’ descrive la cerimonia celebrata dai fallofori e dagli itifalli, due facce, evidentemente, della medesima medaglia: «Gli itifalli si inghirlandano, si cuoprono il viso con maschere Aristofane - Prefazione - 4’. da ebbri, infilano guanti ricamati, indossano un chitone a righe bianche, e cingono una veste tarentina che scende sino alle calcagna. S’avanzano silenziosi fino all’ingresso, e, giunti in mezzo all’orchestra, si volgono verso gli spettatori, e" dicono: Largo al Nume, scostatevi! Ch’egli vuole, da un pezzo tutto eccitato, e in fregola, a voi venire in mezzo! I fallofori poi non adoperano maschera, ma una visiera di sermollino e d’acanto, sulla quale pongono una fitta corona d’ellera e di viole. Cingono una lunga veste, entrano, alcuni dalla pàrodos, altri dalla porta di mezzo, e, movendo a passo di danza, dicono: Gittando in ritmo schietto l’agil cantico, per te questa canzone omiam, Diòniso, intatta, nuova, che d’antica musica non s’abbella: ma un inno originale intoneremo. E poi, correndo qua e là, beffano chi gli càpita ». (Kaibel, Fragm. Comic., 74). Ad una di queste invasioni avrà in qualche modo appartenuto un misterioso e vaghissimo frammento di Pratina, che sembra accennare ad una elementare complicazione. I fallofori trovano il teatro già occupato da intrusi,
danzanti, probabilmente, al suono d’un flauto, e li di
scacciano, proclamando la propria privativa nelle faccende
dionisiache (Bergk-Hiller4, I).
Che è questo frastuono? Che è mai questa danza?
Qual tracotanza
ruppe su le sonore dionisiache scene?
È mio, Bacco, mio solo! Solo a me s’appartiene
strepitare, e gran voci tra le Ninfe dei fonti
levar sui monti,
come cigno che spiega l’armonioso canto.
Alla voce, la Diva pieria il regno dié:
in coda resti il flauto, che servo egli sol è!
Sia fra l’orge soltanto
egli duce, e degli ebbri giovani fra le lotte!
Giù, botte
al rospo gracidante! Ardi quel calamo
garrulo, rozzo,
che va fuori di tempo, che di saliva è sozzo,
quel serpentello
forato col trivello!
Incominciano a danzare.
Mira, per te la mano ed il piede agili
leviamo a volta a volta:
questa dorica danza, o cinto d’ellera
Signore, o Re del ditirambo, ascolta!
E manca giusto l’inno, la parte sostanziale. Ma l’immagine completa d’una di queste falloforie già evolute,
possediamo nella pàrodos delle Rane.
Si è discusso se questa pàrodos riproduca una cerimonia in onore di Dèmetra in Eieusi, o non piuttosto di
bisogna intanto dimenticare che i culti dei due Numi erano strettamente cbllegati. Del resto, è indiscutibile che ambedue vehgono esaltati in egual misura in questo brano aristofanésco, in cui dunque il poeta, senza specialissimo riferimento, avrà imitato le cerimonie dei loro culti, che non dovevano differire se non in particolari di second’ordine. Ma la preoccupazione di riprodurre fedelmente, coi mezzi dell’arte, una scena presa dal vero, si rivela anche nel fatto che questo brano, pur compiendo nella commedia l’ufficio di pàrodos, dal tipo della pàrodos si distacca assolutamente si per la forma, si pe ’l contenuto. Esso comprende: a) suoni di flauto (353); b) invocazioni a Diòniso (363-373); c) invito ai profani che si ritirino e parole al pubblico (389-410); d) inno a Dèmetra e lacco, con ritornello (423-454); e) beffe al pubblico (457-472). Tutti gli elementi, dunque, che Semo enumera costitutivi delle cerimonie falloforiche. Basta ora dare un’occhiata alla parabasi aristofanesca, la quale è poi il modello su cui vengono foggiate tutte le parti corali della commedia, per vedere come essa sia composta proprio nella stessa maniera. Inni alle divinità — ché ad inni erano in origine riserbate la strofe e l’antistrofe: (2) — beffe e insulti agli spettatori; e la protesta dei fallofori di Semo di aver composto un inno nuovo nelle (’) Origine ed elementi, p. 89 sg. O Origine ed elementi, p. 221, nota 1. note e nelle parole, trova riscontro nei numerosi luoghi delle parabasi in cui Aristofane si vanta di aver fatto cosa originale, di non imbandire agli uditori i soliti vecchiumi. E qualche altro indizio, esterno, sembra anche accennare alla derivazione dei coreuti comici dai fallofori. Quelli, Fi». 14 (pag. XLIIl) al pari di questi, sovente s’inghirlandavano di fiori (cfr. pag. 50). E certo, si presentavano avvolti anch’essi in un lungo mantello, del quale dovevano poi sbarazzarsi per danzare liberamente. (’) Ora diamo uno sguardo ad un interessante monumento che pure riflette, più o meno direttamente, una di queste feste Dionisiache (z). Dietro un uomo che suona il flauto, se ne stanno fermi due personaggi imbacuccati in due mantelloni che scendono sino ai calcagni: proprio, dunque, gl’itifalli di Semo (fig. 32) (n). Se non che, non hanno (’) Origine ed elementi, p. 93 sg. (’) «Joum. of Hellen. Stud. », II, tav. XIV. (3) IlfQlt^COVTUl XaQttVTlVOV XCt).V7CT0V uirOVS X&V BfpVQÒlV, LIV viso umano, sia pure nascosto da visiere di fiori o da ghirlande, bensì maschere ferine, tra il porco e il gallo. Sa ranno fallofori) e dovremo supporre che le falloforie spontaneamente si complicassero sino a presentare mascherati i propri personaggi, come dal frammento di Pratina pareva che indipendentemente s’animassero di qualche contrasto drammatico? O non piuttosto dovremo scorgere in essi dei fallofori già tramutati in coreuti comici, e partecipanti ad una vera commedia? Tutti pensano già che il vecchio Magnete aveva presentato ai suoi concittadini un coro d’uccelli (Cavalieri, v. 556). E certo ha sapor di commedia un’altra figurazione, in cui dei personaggi molto simili a questi, gittati, come vedemmo facevano i coreuti d’Aristofane, gl’incomodi mantelli, hanno messo in libertà le loro membra pennute, e si abbandonano ad animatissima danza (fig. 33). Ma come i fallofori si trasformarono in coreuti? Anche a questa domanda possiamo rispondere ipoteticamente ma pur con qualche sicurezza. Nelle feste di Diòniso, quando le falloforie si celebravano con gran pompa, dovevano anche convenire in Atene, attratte dalla solennità, compagnie di istrioni vagabondi. Allora avvenne la fusione. E in origine gli istrioni non avranno fatto che interpungere di loro beffe gl’inni dei fallofori, che rimanevano pur sempre la parte sostanziale della composizione contaminata; onde si vede come giustamente Aristotele dicesse la commedia nata dai corifei dei canti fallici. Ma a mano a mano le due parti andarono equilibrandosi, anzi quella più propriamente drammatica, meglio accetta agli spettatori, fini’, alla lunga, per prevalere. I primi prodotti della fusione furono, nel contenuto, cose senza capo né coda. Lo asseverano concordi le testimonianze antiche; e i commediografi del gran periodo attico, i quali del resto, quanto a condotta scenica, non erano ineccepibili maestri, non finiscono mai di beffare le composizioni dei loro predecessori. Causa non certo unica, ma pure precipua, di tale disordine, fu certo il Coro falloforico, elemento per natura sua ingombrante e antidrammatico. Esso diede invece alla commedia attica la sua leggiadrissima euritmia; e se ne intravvede il processo. (‘) Le prime forme dovevano essere semplicissime. Entravano dapprima i fallofori coreuti e cantavano il nuovo inno, diciamo pure, la parabasi. Seguiva, al loro cospetto, un intermezzo burlesco degli istrioni. E con un addio corale agli spettatori si chiudeva il breve spettacolo. A questo tipo semplice ed arcaico si riferisce senza dubbio l’antica notizia pubblicata dall’Usener, (’) secondo la quale le più vetuste commedie contavano su per giù trecento versi. Ma come s’intravvede chiaramente dalla struttura della commedia aristofanea. questo nucleo primitivo si raddoppiò, triplicò, quadruplicò. Naturalmente, la parabasi non conservava in ciascuna delle repliche il medesimo àmbito, ma, o divideva fra quelle il suo contenuto, o sacrificava or questa or quella delle sue parti, a seconda delle azioni drammatiche, che andavano a mano a mano acquistando maggiore determinatezza e congruità. Così la commedia riusciva divisa in tanti pezzi corali, misurati, dunque, se(’) Origine ed elementi, p. 92. (’) « Rhein. Mus.., XXVIII, 418. condo proporzioni musicali, alternati da scene recitate, che pur esse, naturalmente, uniformavano la loro estensione: veniva pd acquistare, insomma, quella forma peculiare che Ja fa rassomigliar piuttosto al moderno melodramma.. Questa era su per giù la materia che la tradizione aveva accumulata allorché giunsero a plasmarla in forme di bellezza meravigliosa i tre grandi, cui stringe in infrangibile nodo di gloria un verso famoso d’Orazio: Eupoli, Cratino ed Aristofane. VII Tre sideri scintillanti, intorno a cui s’accese tutta una pleiade. E noi ne distinguiamo oggi solo uno, forse il maggiore, Aristofane. Pur non riesce impossibile scorgere almeno un barlume della luce che effusero anche gli altri. Ecco Cratino. Le lodi unanimi degli antichi salutavano in lui il più spontaneo, il più geniale e ispirato fra i poeti comici, una specie d’ Eschilo della commedia. Aristofane stesso non gli lesina l’elogio (Cavalieri, v. 564): Come torrente, un giorno, gonfio correa di lode per le vaste pianure, scalzando dalle prode, travolgendo le querce, gli abeti, ed i rivali. E al coro d’elogi il vecchio poeta aggiungeva egli stesso la sua voce, e non era la meno piena e vibrante (cfr. pag. 67). Certo, ed è naturale, egli per alcuni riguardi rimane legato alla tradizione assai più dei suoi grandi rivali Eupoli ed Aristofane. Circa la metà dei suoi drammi svolgevano soggetti mitici; e d’un paio, il Dionisalessandro e l’Ulisse, possiamo tuttora riordinare la tela. Quella del primo, anzi, Fig. 15 (pag. XL1II) ci è data senz’altro da un papiro trovato pochi anni fa ad Oxyrhynchus. (’) Diòniso, conosciuta la deliberazione di Giove intorno al famoso pomo della discordia, assume le sembianze di Paride, e va in sua vece a dare il giudizio. Poi si reca a Sparta, rapisce Elena, e torna sull’lda a godersi la luna di miele. Ma saputo che gli Achei hanno invaso il paese, si rifugia tutto impaurito nella capanna di Alessandro (Paride). Li camuffa Elena da oca e la ficca in un cesto, sé stesso da montone; e attende gli eventi. A questo punto probabilmente, il Coro, che sembra fosse di satiri, e che
(’) The Oxyrhynchus Papyri, IV. p. 61 sg.
già gli aveva data la berta per la prima metamorfosi, lo
beffeggia col famoso verso (43, Kock):
Citrullo come un pecoro, va facendo beh beeh!
Sopraggiunge Paride, scopre gli amanti, e ordina di
trasportar l’uno e l’altra alle navi e consegnarli agli Achei.
Ma poi, intenerito dalle preghiere d’Elena, la trattiene
per farla sua sposa, e spedisce il solo Diòniso. E i satiri
seguono il Nume, giurando che mai non l’abbandoneranno.
Così finiva la commedia, della quale scopo precipuo
era, dice l’autore del riassunto, beffeggiare Pericle. Sarà.
Ma si doveva ad ogni modo trattare di allusioni spicciole:
in realtà questa commedia non fu che una bella e buona
parodia mitica.
E carattere simile aveva certamente VUlisse. L’azione
pare s’aprisse sulla nave, in mezzo al pelago. E i compagni d’Ulisse dicevano una specie di prologo (144):
Via, zitti tutti, che sul momento
da cima a fondo udrete l’argomento.
Itaca è nostra terra natale:
navighiam con Ulisse ai Numi eguale.
Ma scoppiava ad un tratto una furiosa tempesta (138):
Che venti ancora incombono
sull’acque? Un nembo asconde il firmamento.
Sia docile al timone il bastimento!
Approdano infine all’isola, scoprono l’antro del Ci
mostro e li acchiappa (142): A ingozzar fior di latte siete rimasti tutta la giornata, a scialar con la crema, a riempirvi il buzzo di giuncata? « lo e i diletti compagni — rispondeva Ulisse — siamo naufraghi: siamo guerrieri venuti da Troia. Rispetta Giove ospitale, e non fare scempio di noi ». E forse gli prometteva o gli ricordava qualche beneficio. E il Ciclope, rimbeccando alcune delle sue espressioni (143): Ecco, per questo, diletti compagni, acciuffandovi tutti, vi farò fritti, lessi, vi rosolerò sui carboni, e in salamoia, in salsa di porro ed in salsa piccante tuffandovi, al calduccio, chi più sarà cotto a puntino, fra quanti ce ne siete, mel vo’, guerrieri, pappare! E spingeva nella caverna i poveretti. Poco dopo tornava Ulisse, riuscito a sgattaiolarsela, e narrava la strage. Orrori, s’intende, da farsa: fra altro,! tapini (137): Si vanno a rifugiar sotto i divani! (’) Nel riordinare la tela, ho presente la condotta del Ciclope euripideo, che per molti particolari accenna ad una larga derivazione dal
dramma di Cratino.
Usciva il Ciclope, e s’intavolava una conversazione.
Il callido eroe gli porgeva da bere, e gli tendeva il tra. nello del nome, intercalandovi una graziosissima beffa
(141):
To’ dunque, adesso prendi e bevi questo;
e dopo, il nome mio chiedimi... presto!
11 Ciclope trincava (135):
Un Marone così, non l’ho bevuto
nè lo berrò più mai!
Ma tra i fumi del vino passava una nube di tristezza.
La predizione del suo accecamento per opera d’un certo
Laerziade, gli tornava a mente. E ne chiedeva all’eroe
(136):
CICLOPE
Dimmi, quell’uomo, l’hai veduto mai?
ULISSE
Chi? Di Laerte il prediletto figlio?
L’ho visto a Paro. Comperava un grosso
cocomero da semi.
Il finale comprendeva, è naturale, l’accecamento del
mostro. E non è impossibile che fosse tracciato sullo
schema buffonesco che troviamo nella conclusione del
Ciclope euripideo e delle Dome alla festa di Demetra
d’Aristofane.
Qualche altra ricostruzione riuscirebbe possibile, ma
la via ci sospinge. Cogliamo ancora qualche grazioso
frammento. Nella Nemesi, che svolgeva il tema così brillantemente rappresentato in un vaso fliacico det Museo
di Bari (fig. 20), Erméte porgeva a Leda l’uovo partorito
da Nemesi, con queste parole (108):
Fig. 16 (pag. XL111)
O Leda, a te: conviene che ti regoli
di tutto punto come una gallina.
Ponti alla cova, e sguscia da quest’uovo
qualche meraviglioso e strano augello!
E nei Serifi, in cui Perseo impietrava col capo di
Medusa tutti gli abitanti di quell’isola, per vendicare le
pretese del loro re su Danae, mentre l’eroe si apparecchiava alla spedizione contro la Gorgone, un personaggio
lo ammaestrava sulla via da percorrere con tali parole
(207-208):
Di qui verso la Siria, spinto dall’aure, andrai.
La Siria? (’) Se soffia Tramontana, son guai! Già i Sabei, già i Sidoni, già gli Erembi hai raggiunti, città di servi turpi, di pidocchi riunti, al par d’Andròcle. (s) Nell’ultimo emistichio abbiamo un esempio tipico dello skómma, la beffa od insulto personale. Elementi scommatici si rinvenivano già, lo vedemmo, nelle falloforie; e in niun periodo della commedia essi diedero così lussureggiante e spinosa fioritura come nella fase politica, che culmina appunto con la triade gloriosa. In Cratino, a giudicare dai frammenti, lo skómma rivestiva la forma più rude ed arcaica: non esprimeva per via di simboli ingegnosi, ma specificava con nude e precise parole. Ecco, per un sopraintendente agli spettacoli, sciocco e briccone (15): Non diede un coro a Sofocle, che glie lo chiedea: Io diede a Cleomane, ch’io non vorrei, per maestro, nelle Adonie. Per uno scroccone (57): (’) Siria era chiamala presso i Serifi una veste molto pesante — dicono su per giù i grammatici. Ma non si capisce il poco eroico scherzo di Perseo, se non s’intende che ad ogni modo fosse poco adatta a riparare dal freddo. (’) Segue un nome forse non bene inteso e trascritto dagli amanuensi. Lampone! Nessun biasimo, per quanto acuto, il punge tanto, che dalla tavola degli amici stia lunge. Per Pericle ed Aspasia fabbrica questa bella genealogia (240-241): Sommossa ed il vecchione Crono diero i natali all’immane tiranno che adunator di testa (’) chiamano gl’immortali. E poi Lussuria a lui generò figlia Eraspasia, bagascia che di cagna ha le ciglia. Si tratta d’iscrivere Iperbolo, il fabbricante di lucerne, in qualche lista di pubblici funzionari? Iperbolo? Scancellalo, segnalo fra i lumai! (196) Si parla di Gnesippo? Uomo non vidi mai si sciocco e vuoto! (97) Ed ecco, per finire, una delle sue freccie più velenose e meglio dirette. Aristofane, pur dicendo corna d’Euripide, non riusciva a sottrarre la propria arte all’influsso del gran tragediografo. E Cratino faceva dire ad un suo personaggio (307):! Chi sei tu? — dimandare può qualche spettatore di buon gusto. — Un uom tutto finezza, cacciatore di concetti, un euripidaristofaneggiante! (’) Cosf, comicamente riducendo l’epiteto adunator di nubi, proprio di Giove, il poeta chiama Pericle con allusione alla suo esagerata dolicocefalia. Ma l’acre bile non ottundeva in lui né il sentimento fine della bellezza, né la facoltà e la passione di esprimerlo con imVnagini colorite, con musiche parole. Egli si compiace’ perfino di descrizioni floreali minute, accarezzate, nelle quali a me sembra di sentire un sapore quasi direi più romantico che nelle aristofanesche. Appena un cenno è nella reminiscenza di gioventù (239): All’orecchio portavo o rosa o giglio o molle spigo, in mano qualche pomo, un bastoncino; e me n’andavo a spasso. Ma ecco una contrada nella quale (325): l’asparagio, l’euforbia, il suol di per sé stesso e la salvia ed il citiso produce. Nel recesso degli ombrosi valloni è in fior lo spigonardo; e verbasco, pei campi, dove tu volga il guardo. Negli Sfiaccolati (Malthakói), il corifeo, se non tutti i doreuti, si presentava col viso nascosto di fiori, e li descriveva con evidente compiacimento (98): Ho velato il mio crine di fior’ d’ogni maniera: le rose, i gigli, i fiori di lavanda, il narciso, l’anemone che i petali dischiude a primavera, il giaggiolo, il giacinto, i gambi d’elicriso, il croco, la vitalba, i ciuffi di cerfoglio, la campanella; e il capo mi velo col trifoglio che ognor sui prati è in fiore; e a cinger la mia fronte,
il citiso spontaneo mi giunge... da Medonte.
Anche piegò egli volentieri l’orecchio alle leggende
popolari, così trascurate fino al suo tempo dalla grande
letteratura. A quella del paese di Bengodi, che fu poi
tanto cara ai suoi successori, aveva dedicata tutta una
Fis. 17 (p»8. XUII)
commedia. Le Ricchezze (Ploutoi), di cui sono rimasti
pochi frammenti. In uno (165) son ricordati gli uomini
cui Saturno imperava, ai tempi antichi,
quando per dadi usavan le focacce,
e in palestra 1 pan bianchi s’ammucchiavano
maturati e fiorenti su le zolle.
In un altro (164) si fa menzione d’un luogo in cui la vita
scorre tuttora facile e beata. Chiede un personaggio:
Davvero ogni straniero, come m’è stato detto,
si siede, appena giunge, ad un lauto banchetto,
e ne gli alberghi trovasi la salsiccia pendente
dai muri, onde ogni vecchio possa affondarvi il dente?
Altri due tocchi rimangono delle Leggi, che pur doAristofane - Prefazione - 5".
Nel primo (125) campeggia una frittella che all’aurora distilla la rugiada. 11 secondo (121) nella sua brevità ha una grazia indicibile: E presto Giove pioverà zibibbo! E prima d’abbandonare il nostro poeta, diamo ancora un’occhiata alla sua Damigiana, del cui soggetto è possibile una sommaria ricostruzione. Molto noto è l’aneddoto che diede origine a questa specie di apologia drammatica. Cratino era più che ardente cultore di Bacco, e gli altri commediografi lo proverbiavano, asserendo che le sue ultime composizioni non sapevano che di mosto (cfr. specialmente la prima parabasi dei Cavalieri, v. 563 sg.). Punto sul vivo, il canuto artista scrisse la Damigiana, e con essa trionfò nella gara sui suoi competitori, uno dei quali era pure Aristofane. La Commedia, sposa legittima del poeta, sdegnata perché il marito la trascuri per una femminuccia di minor conto, la Damigiana, pensa al divorzio, e si consiglia con amici comuni esponendo le proprie ragioni (182-183): Una volta ero io la moglie sua, or non più: come scorge, ora, un vinetto Mendèo di primo pelo, ei lo pedina, gli fa la corte, e dice: — Oh come brilla! Che candor! Reggerà tre parti d’acqua? — Qualche amico prendeva le difese dell’assente: — Si sa, ci vuole anche per lui un po’ di svago; del resto troverà sempre un po’ di tempo da curare la sposa legittima. — No, sembra rispondesse la Commedia (181): Confuterò le tue ragioni. Un tempo, pur avendo pe’l capo un’altra donna, s’occupava di me, di quando in quando; ma ora, un po’ l’età, molto il bicchiere, non ci posso contare affatto affatto. Abboccamento di Cratino con gli amici che lo rimproverano: «Tu trascuri troppo tua moglie per quella femminuccia; o — uscendo di metafora —: per quel maledetto bere tu non sei più il poeta d’una volta. Oh smetti! ». « Ma se il vino — rispondeva il vecchio — è l’anima della poesia! Chi beve acqua non farà mai nulla di buono!» (Framm. 199; cfr. Kock). Gli amici dubitano; e allora, per dimostrare la sua tèsi, il poeta s’abbandona al proprio estro, e così impetuosi gli sgorgano i versi dalle labbra, che un amico — si ricordi la similitudine di Aristofane — esclama (186): Che torrente di versi, o nume Apollo! Romoreggian le fonti, dai suoi labbri dodici polle, dalle fauci sgorga tutto un Ilisso. Oh che vi devo dire! Tappategli la bocca, od ogni cosa con un fiume di carmi inonderà! 11 primo argomento degli amici è dimostrato falso.
Essi pensano allora a qualche altro espediente (187):
Come, come impedirgli di trincare,
di cioncare a diluvio?
Io l’ho, il rimedio!
Gl’infrangerò le coppe, come un fulmine
piomberò sui bicchieri a farli in cenere,
e su quanti altri vasi a ber gli servono,
che non glie ne rimanga il più minuscolo.
Chi sa se avveniva codesta strage d’innocenti? Certo
alla fine il beone riconosceva i propri torti, e si rappaciava
con la sposa (188). Ma, prima di lasciar la Damigiana,
ricordiamo una situazione comica che traspare da un verso.
Cratino, probabilmente mezzo ebbro, mirava una bottiglia vuota, e tristemente sdamava (190):
Dunque il tuo ventre è pien di ragnateii!
’’’
Eupoli, almeno a giudicare dai frammenti, si distaccò
più d’ogni altro dai tipi tradizionali. Non pare che alcuno
dei suoi drammi avesse fondamentale carattere di parodia
mitica; mentre molti erano consacrati a svellere le male
piante che soffocavano Atene sotto la lor trista fioritura.
Ai vili erano dedicati gli Uomini-donne, ai sozzi compagni celebranti con Alcibiade le invereconde orgie della
dea tracia Cotitto gli Iniziali, agli scrocconi i Parasiti.
ai magistrati disonesti i Giudici prevaricatori, ai cinedi
gli Amasi.
I suoi attacchi personali non la cedevano, per virulenza, a qufelli di Cratino. Ne possiamo intrecciar tuttora
una pungente collana:
31
Presso il Pattòlo a campo fu Lisandro’,
e il peggior fra i soldati si mostrò.
48
Generale Aristarco! Ahimè, che cruccio!
207
Siracosio somiglia, allor ch’ei parla,
ai cagnolini sopra i muri. Sale
sulla bigoncia, corre in giro, e abbaia.
209
O di riffe o di raffe. Aminia deve
scontarla. Un villanzon suo pari, starsene
dal profumiere!
215
Ogni uom correva li— come ci fosse
stata la moglie di Licone.
Chi è quello? — È una caccola di volpe!
306
L’hai mai veduto, un corifeo più sudicio?
338
Hanno la pelle liscia come anguille!
352
Anche Socrate ho in tasca, quel pitocco
ciarlatano, che pensa a tutto il resto,
e poi non pensa a guadagnarsi il pane.
354
Non troveresti, in tutta la casa, un buco vuoto!
In una commedia si compilava addirittura una lista di
persone crudelmente beffate per loro difetti fisici o magagne morali. È un duetto (276):
Dodici l’orbo, tredici l’ernioso,
quattordici il marchiato, il rosso quindici,
sedici quello con le gambe torte.
Così fino ad Archèstrato son sedici.
E diciassette fino al calvo!
Basta!
Diciotto quello del gabbano!
Non meno pronta aveva la beffa per intere cittadinanze. Nelle Città i coreuti, vestiti in maniera da figurar
simbolicamente ciascuno una città, sfilano dinanzi ad un
illustratore, che commenta benevolmente. Passa Teno
(231):
Or Teno viene avanti,
effe scorpioni in gran numero produce, e sicofanti.
E Cizico (233):
E quell’ultima?
È Cizico, che di quattrini è piena.
Vi fui di guarnigione. Per un denaro appena
fottevo una ragazza, un vecchio ed un fanciullo;
e tutto il di’ si stava con femmine a trastullo.
Ma, direbbe il buon Diceopoli, l’eroe degli Acarnesi, anche la commedia sa dire il giusto. E chi ha così
spietatamente bollate le due prime città, intesse un elogio,
non certo disinteressato, di Chio (232):
È questa Chio, gran bella città: che navi grandi
manda al bisogno ed uomini?, e obbedisce ai comandi
senza spron, con piacere — come un buon destriere.
alle più intricate e minute pitture di genere, mostra la vaghissima apologia dell’arte di scroccare che intesseva il corifeo dei Parasiti (159): Ma i costumi descrivervi vogliam dei parasiti: via, sentite se proprio siam uomini compiti. Primo, un servitorino ci vien dietro per via, per lo più roba d’altri... ma un pochino anche mia. (’) Posseggo questi due vaghi mantelli; (2) meco or l’uno tolgo, or l’altro, ed in piazza mi reco. Giunto che sono, come sbircio qualch’uomo ricco ma un po’ dolce di sale, subito me gli appicco; e come quel riccone apre bocca, lo lodo pei suoi detti, e stupisco, vo di giuggiole in brodo. Chi qua, chi là, su l’ora di cena, ove c’invita il pranzo altrui, moviamo. Qui pronto il parasita sfoggi molte facezie di buon gusto; se no, c’è l’uscio; e so che Acestore, quel birbo, c’incappò. Disse una burla insipida; e il servo te Io prese, gli strinse un laccio al collo, lo mandò a quel paese. Questa predilezione per la satira etica, evidentemente più viva in lui che nei suoi rivali, sembra si estrinsecasse nella sua arte e culminasse in forme complessivamente più elevate. Certo gli antichi, oltre all’ingegnosità, all’eleganza, all’acerbezza, rammentavano come qualità sua pe(’) Passo un po’ incerto: forse vi si cela qualche poco decente allusione. (’) Qui probabilmente il corifeo faceva vedere al pubblico il diritto
e il rovescio dell’unico suo mantello.
cullare la sublimità. Quest’ultima dote ebbe pieno campo
d’estrinsecarsi in due specialmente dei suoi drammi, le
Città, già ricordate, e i Demi. (’) Del primo, di cui pur
Fig. 19 (pag. XLV)
ci resta qualche bel frammento — non avrebbe stonato
sulle labbra di Dante l’amara rampogna: Quei che già
per lumài sdegnati avreste — ora duci eleggete: oh Atene,
0) I demi attici corrispondono a un dipresso ai nostri comuni come
basi della cittadinanza.
— sappiamo solamente che il poeta vi esortava i concittadini ad esercitare mitemente il loro imperio sulle città alleate:.grande e savio ammaestramento che, se ascoltato, avrebbe evitati agli Ateniesi gravi lutti. Dei Demi possiamo tracciare un disegno abbastanza ampio. Ed essi ci mostrano un tipo di commedia politica, o, meglio direi, civile, differente, e innanzitutto più elevato di quelli immaginati da Aristofane. I Demi furono rappresentati circa il tempo della spedizione di Sicilia, quando i mali che travagliavano la città erano giunti allo stadio acuto. 11 poeta immaginava che gli Ateniesi, nel decadere d’ogni istituzione, nel languore d’ogni sentimento civile e guerresco, nella deficienza assoluta d’uomini capaci di regger lo Stato, mandassero un’ambasciata all’Orco, a richiamar quegli uomini che, vivi, avevano resa un giorno grande e temuta la città, perché anche ora la soccorressero coi loro consigli, e vi ripristinassero quelle virtù che parevan bandite per sempre da Atene. Il sapiente legislatore Solone, l’integerrimo Aristide, Milziade e l’olimpio Pericle, tornavano alla luce del giorno; e li accoglieva il Coro, composto di vegliardi ateniesi rappresentanti i Demi. All’arrivo, si faceva l’apologia di ciascuno di quei grandi: e due di questi elogi ci rimangono, almeno frammentariamente. Meravigliandosi il generale Nicia di Aristide, domandava com’egli potè mai esser così giusto; e rispondeva Aristide stesso (91): 11 più fece natura: io la natura
volenteroso quindi secondai.
Ed ecco in qual modo si descriveva la meravigliosa
eloquenza di Pericle, la quale, a dir d’Aristofane (Acam,
538), fulminava, tuonava, sconvolgeva tutta la Grecia (94):
Rapfa nell’eloquenza a ogni uom la palma.
Come il buon corridor che a l’avversario
dà dieci passi giunta, e pur Io supera;
tal sorpassava tutti ei gli oratori.
Veloce nel parlare; e a lui Suada
parea sedesse su fe labbra: tanto
piacea su tutti; e agli uditori in seno
lasciava infissa del suo dir la punta.
Ad ognuna delle apologie seguiva il confronto —
triste confronto — con le attuali condizioni d’Atene. Domandava un personaggio, probabilmente Pericle (95-96);
Dunque nessuno ornai più resta, degno
del nome d’oratore?
E gli si rispondeva:
C’è Buzùge,
fior di canaglia, ottima a cicalare,
a parlare impotente.
Lo spirito militare è decaduto, e nessun generale ha
più rinnovellate le glorie del vincitor di Maratona (116);
i figli degeneri dai padri, la progenie del valoroso Mironide e dello stesso Pericle, montoni lascivi e stupidi;
la giustizia (non poteron mancare questi tratti, se pur non
risultano dai frammenti) in mano a cavillatori infami,
l’educazione a sofistici o effeminati corruttori; la cosa
pubblica — il poeta insiste su questo punto (100-121) —
in mano a ragazzi. Deh, supplicava il Coro (100):
Deh, Milziade, Pende, o voi grandi,
non lasciate il governo a quegl’impuri
ragazzi, ch’anno il genio militare
nelle calcagna!
No, sciamava, non più contenendo lo sdegno, Milziade, con parole che hanno nel testo il mordente dell’acciaro (90):
No, per la mia pugna di Maratona,
niuno s’allegrerà che il cuor mio crucci!
Questo, secondo ogni probabilità, lo svolgimento della
prima parte della commedia. Il Coro faceva poi nella
parabasi la descrizione dell’antico riposato e bello viver
di cittadini. Ecco quanto ce ne rimane (117):
Quante cose avrei da dire! Ma la gola mi si serra,
tanto duolo il cor m’opprime, s’io contemplo la mia
terra.
Oh, le cose ai tempi nostri, di noi vecchi, non fur tali;
ma in città, prima di tutto, avevamo i generali,
di gran case, di gran censo, di gran nome, cui rispetto
avevam si come ai Numi: e Numi erano in effetto.
Onde in pace vivevamo. Or se muovesi a battaglia,
chi ne guidi andiamo a scegliere tra l’empissima canaglia.
della seconda parte del dramma, occupata certamente però dalle azioni dei redivivi e dai loro consigli, fra’ i quali quello di immolar qualche triste uomo come ostia espiaFia- 20 ( pag. XLVI e LXI) toria (120); ma due versi ci permettono di ricostruire il finale. I quattro grandi si apparecchiavano a far ritorno alle eterne dimore; e i coreuti, stringendo nelle mani, come i vegliardi che muovono lungo il fregio del Partenone, ramoscelli d’olivo, si facevano loro incontro, e, inviando l’estremo saluto, gettavan quelle frondi ai loro piedi (119); era l’omaggio che si prestava alle divinità. (’) (’) 1 nuovi importanti frammenti dei Demi, ritrovati circa dieci anni fa. ci consentono una più ampia ricostruzione di questa commedia. Vedi il mio libro Nel regno di Diòniso, p. 143 sg. ’’ In più mite atmosfera ci trasporta Cratete. In una commedia narrava chi sa che strane avventure di Lamia, la fantasirpa che tanto impressionava la fantasia del popolino ateniese. In un’altra esponeva, certo comicamente, il ritorno all’età felice in cui gli uomini avevano dimestichezza e menavano vita fraterna con le fiere. I Giuochi erano imbastiti, come dice il titolo, sui vari giuochi e passatempi più cari agli Ateniesi. Dei Sami ci resta un grifo, simile come due gocce d’acqua a quelle filastrocche senza capo né coda, tanto care, anche oggi, ai bambini (29): La marina testuggine dell’eburnea fece salamoia lessare in guazzetto di pece, entro un pentol di cuoio. I granci han pie’ di vento, i lupi l’ali stendono. Sono del firmamento ritagli tutti gli uomini. Picchiami quello là, torci il collo a quell’altro. In Ceo, che tempo fa? Nella prima parabasi dei Cavalieri, Aristofane, rimproverando al pubblico la sua volubilità in fatto d’arte, forma sul nostro poeta il seguente giudizio (577): E quante vostre bizze ebbe a soffrir Cratete! Quanti maltrattamenti! Pur, v’ammanma con poco dispendio, bei pranzetti, da finissimo cuoco, impastando urbanissime invenzioni! Del resto,
mi reggo e non mi reggo, se la cavò sol questo.
Quanto fosse giusto il biasimo malignamente nascosto
in quel <i poco dispendio » non sapremmo dire. Che l’elogio fosse giusto e calzante, prova a sufficienza nn brano
superstite delle Fiere, già ricordate, in cui si svolge il
motivo, tanto caro alla fiaba, degli oggetti Semoventi.
È un dialoghetto fra uno che propugna il ritorno allo
stato di natura, e un altro che esalta invece i comodi della
civiltà (14):
Né più servi né serve alcun possederà?
E dovrà dunque un uomo già avanti con l’età
far da servo a sé stesso?
No, no, ché semovente
ogni cosa io vo’ rendere!
Bell’util per la gente!
Certo! Perché ogni oggetto correrà da sé stesso
quando uno lo chiama. — Tavola, vien qui presso,
apparécchiati. — Oh sacco, giù, e impasta la farina!
Oh boccia, mesci! — Ov’è la tazza? — Va’ in
cucina,
e sciàcquati. — Scodella le bietole, marmitta!
Pane, sul desco! — Ehi, triglia! Ma se non sono
fritta
da questa parte, ancora! — E dunque, ungiti un poco,
sprùzzatici del sale, poi rivolgila al fuoco.
Minori facoltà artistiche sembra avesse il modernista,
che rispondeva (15):
lo poi, tutto al contrario, l’acqua calda
pel. bagno, ai miei seguaci porterò
dentro acquedotti, come all’ospedale,
dal mare: si che ognun potrà vederla
entrar nella tinozza. E li dirà
da sé: « Basta!» — E da sé verranno pure
ampolline di mirra, spugna,sandali.
’’’
Più ricca, più fantasiosa e varia fu l’opera di Ferecrate, l’atticissimo. Egli ebbe, pare, speciale predilezione
per le macchiette. Una sua commedia era intitolata lo
Smemorato, un’altra i Selvatici. E sentite che po’ po’
di mangione:
A capo al giorno mangio, se mi forzano,
si e no cinque moggia!
Si e no!
Di poco pasto, sei! Mangi da solo
le provvigioni d’una gran trireme!
Ammirate che amore d’ un brontolone (parla sua
moglie):
E se sto zitta, lui si strugge e sbuffa,
e dice: « Che, non hai lingua?» — Rispondo? —
« Pover’a me, stroscia il torrente! » — dice.
Fig. 21 (pag. XLVI)
Talora porge l’orecchio e ripete freschi spunti di poesia
popolare. Per esempio (33):
Invia la colombella messaggera.
E talvolta, non si perita di contaminarli con aggiunte
scommatiche (175):
O colombella che somigli a distene,
vola, e guidami a Cipro ed a Citerà.
Aiislofane - Prefazione - 6’.
vivaci e definiti possedeva al pari dei suoi grandi rivali. Questi due «versi sembrano di Goethe: Oh sbrigati ad uscir, ché si fa buio! Porta qui fuori la lucerna e accendila. Questi altri, nel testo, dànno proprio l’immediata visione d’una mattina limpida operosa (10): Niuno avea servo, allora, né» fantesca: da sé tutto quanto le mogli faceano in casa loro. E inoltre, il grano a bruzzolo macinavan: si che di strepiti di macine il borgo era sonoro. Né soltanto suggerire, sapeva, ma esprimere anche e tratteggiare. Per esempio, nei Minatori, un giardino d’incanto (109): Sotto aerei pampani correa la loro strada, su spighi, su fittissimi fior’ di loto, su aiuole di morbide viole, su trifogli, su ciperi infusi di rugiada. Ed ecco, nella stessa commedia, addirittura un quadro. Una donna scendeva nel Tartaro per le miniere argentifere del Laurio; e, tornata a riveder le stelle, così descriveva alle compagne la felice condizione dei morti (168): Ogni cosa vedevi nuotar nell’abbondanza,
e beni d’ogni specie avean qui loro stanza.
Sconeano gorgogliando dei fiumi che nel letto
onde di farinata volgeano e di brodetto
per inzupparvi i pani: cosicché grasso grasso
schiudeasi ogni boccone in gola ai morti il passo.
Salsicce, ed involtini di carne che bolliva,
i fiumi come ciottoli gittavano a la riva.
C’eran pezzi di carne rosolata, con mille
contorni; fra le bietole sepolte eran le anguille.
Qua si miravan viscere di bovi; sui taglieri
più colà tenerissimi prosciutti intieri intieri.
Costolette di porco, d’un ghiotto color d’oro
sedean sui pan buffetti; stavano accanto a loro
nei catini, bevande d’orzo e latte, e ricotte.
Grati effluvi spandevansi da le spalle stracotte.
Ohimè, ma tu m’uccidi! Tanto qui ti trattieni?
Corriam, corriamo al Tartaro, tuffiamoci in quei beni!
Che dirai dunque udendo quanto ancor deggio dirti?
A voi, sotto una nuvola d’anemoni e di mirti,
venian, già belli e arrosto, già nei crostini, i tordi
vicino alla tua bocca, e dicean: mordi, mordi!
Ti pendevan sul capo, cresciuti da sé stessi,
dei pomis i più leggiadri pomi che tu vedessi;
e fanciulle freschissime, cinte di tenui drappi,
mesceano, a chi volesse bere, ricolmi nappi
di vin rosso fragrante. Chi poi fra tante grasce
alcuna o beva o mangi, il doppio, ecco, ne nasce.
assoluta, ma è ben degno di lui quest’altro vaghissimo frammento tii una commedia intitolata: 1 Persiani. Qualcuno prometteva il ritorno dell’età dell’oro, della ricchezza ^Nr’S\S\SvS’S\SvS’S’S’S’SvSsSvSvSsSvSvS\S’I\S\S\S>S\S<SSS’S\i\S\S\S\S\S\SvS’ Fu. 22 ( pag. XLVII) universale: altri obiettava che allora nessuno avrebbe più voluto compiere i lavori manuali. E il primo (130): D’aratori, di chi fabbrichi gioghi e falci, di ramai, di semenza e palizzate, che bisogno avrem più mai: Dalle fonti giù di Pluto. a irrigare ogni sentiero fiumi gonfi e romorosi scenderan di brodo nero, travolgendo, a mo’ di ciottoli, pan buffetti e berlingozzi: verserà, piovendo, il cielo, vin fumoso giù nei pozzi; il purè cadrà dagli embrici caldo caldo, con frittelle tutte gigli, tutte anemoni, con ravioli a cascatelle; e pei monti, sopra gli alberi, sbocceran salsicce al posto
delle foglie, calamari delicati, e tordi arrosto.
Neppure gli mancavano il coraggio dell’attacco personale, il senso umoristico animatore della beffa. Ma parrebbe che di preferenza consacrasse queste facoltà a polemiche d’arte, specialmente musicali. Nei Selvatici alcuni personaggi ragionavano (6):
11 peggior, via, chi è, dei citaredi?
11 figlio di Pisia, Meléte!
E dopo
Melète, chi?
Sta, sta, lo so io: Chèride!
E di reale importanza per la storia della musica è il
noto e lungo frammento del Chirone. La Musica, in veste
donnesca, cqn il corpo e gli abiti miseramente straziati, si
presenta, ad una persona che le chiede come si sia potuta
ridurre a tanta miseria.
Ed ella risponde (145):
Volentier parlerò: ché uguale brama
nutriam, tu d’ascoltare, io di sfogarmi.
Melamppide fu l’autor primiero
de’ miei malanni, fra costor: mi prese
ei, mi disfece, e con dodici corde
mi snervò tutta. E nonostante, egli era
un uom discreto: il peggio viene in seguito.
Frinide vien, che co’ suoi girigogoli
m’annebbiò, mi scontorse, mi condusse
a fine esizlal, traendo dodici
modi da sette corde; e nondimeno
fu anch’ei discreto, e s’ebbe qualche pecca,
ne fe’ poscia l’emenda. Ecco Cinesia,
l’attico maledetto. Introducendo
dissonanti passaggi ne le strofe,
tanto m’assassinò, che il ditirambo
ebbe con lui le gambe dove andava
la testa: come negli specchi concavi!
E nonostante anch’ei fu sopportabile.
Ma Timòteo fu, diletta mia,
che mi scavò la fossa, ed in turpissima
maniera mi disfece.
MUSICA Quel di Mileto... il Rosso! In farmi danno tutti i colleghi superò: con lui la melodia divenne un formicaio: e imbattutosi in me, che derelitta me n’andava, spogliommi, e mi diè il colpo di grazia con le sue dodici corde. (‘) Mentre per tanti lati Ferecrate si isola e distacca dall’indirizzo più specialmente politico ed aggressivo, per altri sembra preannunciare addirittura la commedia nuova. A giudicare dai titoli, dai soggetti, dai frammenti, non avrebbero stonato nell’epoca di Menandro le tre commedie d’etère, Thàlassa, Pelale, Coriannó. E alcuni frammenti dell’ultima si compongono naturalmente in una scenetta di pretto sapor menandreo. Luogo d’ azione, I’ atrio della casa di Glice, etèra. Arriva dal bagno la padrona, accaldata e stanca, in compagnia d’un’amica, e chiede alla figliuola (o alla schiava?) da sedere e da rinfrescarsi. Mentre chiacchiera di cose indifferenti, giunge la protagonista, Coriannó, anch’essa infiammata ed assetata; e Glice le fa mescer vino dalla fanciulla. Questa, come vedremo, non riesce però a compiere in maniera soddisfacente il proprio ufficio (Framm. 67-70):
(’) Tralascio qualche verso che mi sembra addirittura intraducibile.
GLICE
Fammi sedere! e il desco ora tu recami
e il calice qui fuori, e qualche ninnolo
da mandare giù il vino.
Fi». 24 ( pai. XLVII )
FIGLIA
Eccoti calice,
desco, e un po’ di lenticchie.
GLICE
No, lenticchie
non me ne dar, per Giove, che l’ho in uggia!
Come ne mangi ti putisce l’alito!
Dei fichi al forno vo’ piuttosto. Spicciati,
dei fichi neri, intendi!
La fanciulla parte.
CUCE
all? compagna
Fra quei barbari.
dei Mariandini, oh non li chiaman pentole
i fichi neri?
Fig. 25 (pag. XLVII)
CORIANNÓ
Arriva tutta affamata e accaldata
Giungo dal bagno, e sono un fuoco, e arido
ho il gorgozzule.
GLICE
Siediti e rinfrescati.
CORIANNÓ
Per le Dee, la saliva mi s’agglutina!
FIGLIA
In che coppa t’ho a mescer? Nella piccola?
CORIANNÓ
Piccole coppe, no: mi fanno recere
da che cl bevvi un purgante! Via mescimi
in qùesta mia ch’è più grande...
La fanciulla mesce. Coriannó accosta la toppa alle labbra e fa una smorfia
Impossibile
mandarlo giù, Glice mia!
GLICE
Troppo languido?
CORIANNÓ
Acqua!
CUCE
alla figlia
Oh briccona, com’hai fatto a mescere?
FIGLIA
Due d’acqua, o mamma...
GLICE
E di vin?
FIGLIA
Quattro.
GLICE
AI diavolo!
Tu puoi far la coppiera alle ranocchie!
Meno artista di Ferecrate, ma pur copioso e vario si rivela Platone. Egli aveva un debole pei soggetti e i personaggi mitici. Adone, Dedalo, Europa, Menelao, Anfitrione, i Cercopi furono ospiti delle sue scene. Nel Giove citato in giudizio, si vedeva il re dei Numi ridotto sulla panca degli accusati per le scappatelle del figliolo Ercole. Eccone una di cui possiamo tuttavia giudicar la gravità. Ercole sta insieme con un’etèra, e con una, diciam così, guardiana della fanciulla. Le due brave femmine tirano a spennacchiarlo, e in attesa del pranzo, la guardiana pensa di far giuocare al còltabo i due colombi. II giuoco, in cui si trattava di lanciare con mossa agile e precisa la feccia d’una coppa entro un’altra coppa galleggiante in un vaso più ampio, a fine di sommergerla, si prestava a mettere in rilievo la pesante goffaggine dell’eroe (46): GUARDIANA Mentr’io vo il pranzo ad ammannire, il cottabo dare sollazzo a voi potrà. ERCOLE Benissimo!
Ma il vaso ov’è?
GUARDIANA
Farete col mortaio.
Fin. 26 (p«j. XLVIII )
ERCOLE
a un servo
Porta il mortaio e l’acqua, metti in ordine
le coppe. Guiderdone della vincita
saranno baci.
GUARDIANA
Gioco tanto insipido
noi soffrirò: saran poste del còttabo
di costei le scarpine, e quel tuo calice.
ERCOLE
Corbezzoli, che gara! Altro che l’istmiche!
e gli dà ammaestramenti (47); ma, cattivo scolare, 1 amoroso fa poco profitto, e il bel calice passa alla vincitrice (48). Probabilmente il gioco seguitava; e quando Fig. 27 ( pag. XLVill ) al povero merlo non erano rimaste che rare piume, lo mettevano alla porta, senz’altro parlar di pranzo. Egli, per consolarsi, andava a bere quei pochi che gli restavano alla taverna (49). Oh sentite ora che bella figura faceva Afrodite nel Faone di Platone! Faone era un battelliere che per mercede tragittava! passeggeri da Lesbo sul continente. Una volta accolse gratis nella sua barca Afrodite, tramutatasi in vecchia, e la Dea riconoscente gli die’ un’ampollina di balsamo, col quale ungendosi avrebbe innamorato di sé tutte le donne; una reminiscenza, forse, comicamente esagerata, del dono che altra volta aveva fatto Afrodite, di Elena
a Paride.
Untosi del prezioso elisire, Faone non si salva più;
ma ecco quale diavoleria inventa la Dea per ispecular
anche sul benèficio da lei conceduto. Serra in una casa
il fortunato Nemorino, e le femmine, accorrenti come
mosche al miele, rampogna ed ammonisce così (174):
Ben la vostra sciocchezza, o donne, v’auguro
che in sale si converta; poi che sembrami
che sale in zucca — e giusto c’è il proverbio —
voi non ne abbiate punto! Chi desidera
veder Faone, deve prima compiere
tai sacrifizi. Alla custode Venere
(che poi sono io) doni un panino gravido
e intiera intiera una focaccia, e sedici
uccelli, ben di miele infusi, e dodici
lepri, e torte lunate. Poi rimangono
ancor quest’altre offerte: son bazzecole.
Tre mezzetti di porri a Rizzalpinco (’).
A Spolvera, e al suo paio d’assistenti,
una guantiera di mortella, svelta
con le mani: ché i dèmoni gradiscono
poco l’odore di lucerna (=). Al Cane
e ai Bracconieri, un quarto di culaccio;
una dramma a Dimèna, a Capinsotto
un triòbolo; pelle ed interiori
(’) Intorno a questi demonietti, vedi il mio scrttto Ninfe e Cabiri, in
Musica e poesia nell’antica Creda, Bari. Laterza.
( ) Si leggano i primi versi delle Donne a Parlamento.
a Cavalca, l’eroe. Questa è la tassa
d’ingresso. Chi la paga, entri. Se no,
restatevene pure a dormir sole.
In un’altra sua commedia, infine, ci presentava una
specie di burattino, simile agli arcaici idoli di legno.
Duetto con un personaggio (188):
Coso, chi sei? Parla alla svelta! — Taci?
Vuoi parlare?
IDOLO
Un Ermète, opra di Dèdalo,
sono io, di legno; e favellare io posso;
e son venuto qui con le mie gambe!
Da qualche esempio risulta poi come Platone sapesse
fondere con ingegnosità oraziana l’attacco personale nel
contesto. Nel Laio, l’infelice protagonista così consolava
Giocasta che aveva sognato di partorire chi sa che mostro (64):
Lèagro, non lo vedi, della magna
di Glauco stirpe, è un cucco scimunito,
un citrullo, con due stinchi che paiono
cucuzze sfatte, senza seme! Oh il figlio
di Filònide, Mèleto? La mamma
lo partorì somaro. E in che ci scàpita?
Altri skòmmata non meno pepati potremmo cogliere
qua e là (119, 122, 128). Spigoliamo invece una ingegnosa immagine (22):
I #
Somigliano fra noi, le leggi, a quelle
ragnatele sottili, che suol tessere
sulle pareti il ragno —;
Fig. 28 (pag. XLVIII )
e un vivace quadretto, incorniciato pure in una comparazione (153):
Somigliano a quei bimbi, che costumano
tracciare un segno, per istrada; e poi
s’aggruppano in due schiere, e se ne stanno
questi al di qua, quelli al di là dal segno.
Uno poi, ritto in mezzo, lancia in aria
un coccio; e se ricade con la faccia
bianca in su, gli uni debbono fuggire,
gli altri inseguirli. —
E prima di lasciare anche questo poeta, vediamo una
sua ineffabile macchietta di studente di culinaria. L’amico
s’è rifugiato in una solitudine; ma qualcuno, sembra, lo
viene a frastornare (173):
Fij. 29 (pa|. XUX)
CUOCO
lo qui, solo soletto, voglio scorrere,
tra me e me, codesto libriccino!
SECCATORE
Che libro è. per favore?
CUOCO
La Nuova
Arie della cucina, di Filosseno!
Annoiane - Prefazioni - 7".
SECCATORE
Fainini yeder di che si tratta!
CUOCO
Ascolta!
I-egge solenne
Prima dirò del porro, del tonno alla fine vo’ dire!
SECCATORE
Del lonno, dici 5 II meglio non sarebbe
incominciare dalla coda, allora? (’)
CUOCO
Sotto la brace i porri fa cuocer, di salsa li umetta,
e quanti puoi ne ingolla; ché tengono su le persone.
E basti ornai di questo. Ai figli del pelago or vengo!
Scòrfani, scari, squali, non fare, né dentici, a pezzi,
se sovra te dal cielo non vuoi che la Nemesi spiri.
Cuocili interi, e arrosto presentali: valgono meglio!
Servir può la padella; ma meglio si presta il tegame.
I tentacol dei polpi, che pria maciullare conviene,
se sono grossi, meglio saran cotti a lesso che arrosto;
ma fra due grossi uguali, il lesso tu manda in malora!
Di dar vigore ai nervi la triglia rifiuta: ché sacra
è d’Artemis fanciulla, e i bischeri eretti detesta.
Lo scorpione...
(’) Il testo ani è tutt’altro che chiaro. Questo dev’essere però il
senso.
SECCATORE
Addosso ti venga, e ti pizzichi il culo.
11 seccatore non ha avuto torto a seccarsi. Ma gè sapeva
di più l’ineffabile Catius oraziano?
’’’
Tra la nebbia che sempre più densa comincia a velare
le fisonomie degli altri poeti comici, accennano ancora,
abbastanza nitidi, i lineamenti di Frinico. A lui si dovè
una commedia di carattere, se non c’ingannano il titolo e
i frammenti del suo Misantropo (Monólropos). Il protagonista tracciava il proprio ritratto (18):
Solitario è il mio nome; e fo una vita
da Timone. Sto a me, senza né moglie,
né famiglia, cruccioso, taciturno,
ostinato; né so che sia sorriso.
Un interlocutore, un visitatore, forse, del suo eremitaggio, lo compiangeva (19):
Un uomo a quell’età, senza né moglie,
né figliuoli!
Ma ben presto se l’intendevano nel dar di morso ai
loro concittadini (20):
Ti posso nominare altri scimmioni:
Licèa. Telèa, Pisandro, Esecestide.
Scimmioni, hai detti fuor dell’ordinario!
Uno scroccone, un vile ed un bastardo!
Fu. 30 (pan. XL1X)
Comicissima era la scenetta d’un’altra commedia, in
cui un personaggio collocava, forse consacrava, un’erma,
e le diceva (50):
Oh carissimo Ermète, attento bene,
che non abbia a cadere, e mutilarti,
e la calunnia occasionar di qualche
Dioclefde male intenzionato!
E l’erma, pronta:
Ci baderò! Non vo’ che buschi taglie
Teucro, il forestiere scellerato.
Anche in Frinico, e questo non lo distingueva dai suoi
rivali, era vivissimo il culto dei tempi andati. E gl’ispirò
un elogio di Sofocle che divenne famoso (31):
Fu. 31 lp>8. XUX)
Oh avventurato Sofocle, che dopo
un viver lungo, si spengea! Felice
e fino! Scritte assai belle tragedie,
muore in buon punto, e non aspetta i guai!
Frughiamo ancora un po’ nel prezioso volume dei frammenti. Togliamo dagli Amfizioni di Teleclide, un’altra
descrizione dell’età dell’oro. Un personaggio narra d’aver
compiute le seguenti meraviglie:
La vita che ai mortali apparecchiai, mi piace
dal principio descriverti. Intanto, era la pace
bene comune a tutti, come l’acqua ai di nostri,
né producea malanni la terra allor, né mostri.
Ogni util cosa, invece, crescea spontaneamente.
Scorrea, volgendo gorghi di vino, ogni torrente;
i pani e le focacce fra loro avean gran liti
nelle bocfthe degli uomini, per essere inghiottiti,
gareggiando in candore; e a casa, dritti dritti,
da sé, sopra le tavole, veniano i pesci fritti.
Un gran fiume di brodo, volgendo carni lesse,
scorrea presso i lettucci; v’eran, chi ne volesse,
rivoletti d’intingolo; sicché, pria d’inghiottirlo,
spruzzarne ogni boccone poteasi e ammorbidirlo.
Più là vedevi, dentro vassoi, delle stiacciate
guarnite di dolciumi; e a voi, tra le giuncate,
a cacciartisi in bocca veniano i tordi arrosto.
Intorno alle mascelle contendevansi il posto
i pampepati; i bimbi animelle e interiora
usavano per dadi; e pingui erano allora
gli uomini tutti quanti e pezzi di giganti.
Ancora un gioiello d’Ermippo. La lode dei vini greci
che in una sua commedia risuonava forse sulle labbra dello
stesso Diòniso (82):
Del vin di Mende, anche gl’Iddei travaso
fan su i morbidi letti; e vo’ ch’encomi
anche quel di Magnesia e quel di Taso,
che manda olezzo di fiorenti pomi:
questo è re d’ogni vino, mi cred’io,
dopo il salubre ed impeccabil Chio.
Un altro èwene, detto odor di fiore.
Come tu n’apri un orcio, da la bocca
di giacinti e di rose ne trabocca; è un nettare, un’ambrosia, e di fragranza tutta riempie ogni capace stanza. Questo, nei gai convivi, ai nostri cari daremo, e il Pepareto agli avversari. Ed ora il tesoro incomincia davvero ad essere impoverito. Cioè no. Vi brillano d’incomparabile luce molte perle sgranate di Aristofane. Ma la figura di questo poeta non dobbiamo ricostruirla faticosamente su miseri frammenti: essa ci balza incontro piena di colore e di vita dalle undici sue commedie conservate incolumi alla nostra ammirazione. ’’’ E qui vorrei, non già mettere in luce i pregi di questo « impertinente beniamino delle Grazie », ma rilevare la sua modernità; vorrei, se potessi, togliere al lettore qualsiasi paurosa prevenzione. Antiquato, Aristofane? Lontano da noi? Potrebbe sentir così solo uno spirito imbevuto di rancidità libresca. Cambiate il nome a quel Cleone, a quel Socrate, ad Agatone, a Cinesia, a Clistene, ai mille scimmiotti ghignanti nella gran selva dell’opera aristofanesca, e vi sembrerà che il divino calvo abbia scritto ora, e alluda a fatti e a persone che ci vediamo d attorno. E attuale parrà la sua opera sempre, finché vi saranno demagoghi impudenti, stolti guerrafondai, dilapidatori del pubblico erario, filosofi acchiappanuvole, scienziati cerretani, poeti asini e presuntuosi, finché la chiacchiera trion ferà sul senno, la retorica sulla eleganza, la ostentazione ciarlatanesca sull’arte, finché Popolo apparterrà al comune di Boccaperta, e il graveolente Cleone studierà l’arte d’imboccarlo. ’ Questa modernità vorrei dunque mostrare con minuti esempi e raffronti. Ma giova togliere un simile diletto all’arguto lettore? E del resto, io ho voluto far opera d’esegeta e non di critico. E dico questo anche perché non si cerchi nel mio lavoro quello che non ho voluto ci fosse. Tanto la introduzione generale, quanto le singole alle varie commedie, vogliono avere, al pari delle brevi osservazioni aggiunte in nota, mero carattere esegetico. In esse io ho inteso for nire al lettore non propriamente filologo gli elementi che servissero a una agevole intelligenza dell’opera aristofanesca. Potrà parere che talvolta sia andato un po’" troppo per le spicce. Ma non volevo appesantire di troppa erudizione un lavoro che aspira unicamente a render più popolare in Italia l’opera dell’arguto poeta d’Atene. E la parte Fig. 33 (pag. L1V) essenziale ne riesce intelligibile senza troppe glosse ad ogni attento lettore. Se non fosse così, mi sarei risparmiata la decenne fatica di farla italiana. Non mi rimane che ringraziare quanti più o meno direttamente s’interessarono al mio lavoro. E in primo luogo il mio pensiero corre al mio maestro Enea Piccolomini, che ne vide e incoraggiò i primissimi saggi, a Salvatore di Giacomo e a Genuino Ciccone, che collaborarono addirittura con me, traducendo nei loro dialetti, napoletano e evi abruzzese, le parti del Megarese e del Beota negli Acarnesi, a Giuseppe Fraccaroli, che rivide quasi tutte le stampe, e mi fu largo di preziosi suggerimenti. Nella revisione delle bozze mi aiutarono pure, in varia misura, ma con uguale affetto, Nicola Festa, Giovanni Setti, Emanuele Loewy; e a ciascuno d’essi devo più d’un utile consiglio. Al povero Franchetti non possono più giungere, ahimè, i miei ringraziamenti. A lui debbo, oltre che la scritta con affetto fraterno per i miei Uccelli, un importante impulso ideale. La sua mirabile versione delle Rane rivelò primamente a me giovinetto, l’arte d’Aristofane. E da quel giorno, solo oggi (’), con la pubblicazione di questo lavoro, son riuscito a frangere il cerchio magico in cui sùbito m’avvinse il poeta nella cui anima le Grazie avevano edificato il loro tempio. (’) La primo edizione di questo Aristofane fu pubblicata nel 1907 dall’editore Bocca, la seconda nel 1914 presso l’Istituto editoriale italiano.
Note
- ↑ Cosí il nome è genialmente interpretato dal Thiele (Neue Jahrb. f. klass. Altert., 192, p. 405 sg.). Quanto ai fallofori, vedi il mio lavoro Origine ed elementi della commedia d’Aristofane. in «Studi italiani di filologia classica», XIII, 86 sg.
- ↑ Cfr. Origine ed elementi, p. 100.
- ↑ Der Mimus, Berlino. Weidmann. 1903.
- ↑ V. Heydemann, Phlyakendarstellungen, in «Jahib. d. Inst.», 1886 p. 282 sg. Si veda anche il mio studio: La commedia di Pulcinella nell’antica Grecia nel volume Nel regno di Diòniso (Bologna, Zanichelli).
- ↑ Cfr. la pórodos dei Calabroni.
- ↑ Fragmenta comicorum graecorum, ediz. Kaibel, p. 7.
- ↑ Artic. citato, p 420.
- ↑ Cfr. Origine ed elementi, p. 108 sg.
- ↑ Cfr. Scol. Tesmof., 215
- ↑ Il Dionysaléxandros: clr. pag. LVII.
- ↑ Oltre Plauto e Terenzio, cfr. Eupoli, Framm. 42. e Menandro, Framm. 124, 860-61.
- ↑ Diceopoli fa una visita ad Euripide (Acarnesi), Lesina a Socrate (Nuvole), Trigeo ad Ermete (Pace). Gabbacompagno e Sperabene al Bubbola (Uccelli), Mnesiloco ed Euripide ad Agatone (Le Donne alla festa di Dànetra), Diòniso e Rosso ad Ercole (Rane).
- ↑ The Oxyrhynchus Papyri, III, p. 41 sg