scacciano, proclamando la propria privativa nelle faccende
dionisiache (Bergk-Hiller4, I).
Che è questo frastuono? Che è mai questa danza?
Qual tracotanza
ruppe su le sonore dionisiache scene?
È mio, Bacco, mio solo! Solo a me s’appartiene
strepitare, e gran voci tra le Ninfe dei fonti
levar sui monti,
come cigno che spiega l’armonioso canto.
Alla voce, la Diva pieria il regno dié:
in coda resti il flauto, che servo egli sol è!
Sia fra l’orge soltanto
egli duce, e degli ebbri giovani fra le lotte!
Giù, botte
al rospo gracidante! Ardi quel calamo
garrulo, rozzo,
che va fuori di tempo, che di saliva è sozzo,
quel serpentello
forato col trivello!
Incominciano a danzare.
Mira, per te la mano ed il piede agili
leviamo a volta a volta:
questa dorica danza, o cinto d’ellera
Signore, o Re del ditirambo, ascolta!
E manca giusto l’inno, la parte sostanziale. Ma l’immagine completa d’una di queste falloforie già evolute,
possediamo nella pàrodos delle Rane.
Si è discusso se questa pàrodos riproduca una cerimonia in onore di Dèmetra in Eieusi, o non piuttosto di