popolino. A lui, ammirato, adorato, invocato nelle più
consuete esclamazioni, doverono molto esser rivolte le
menti. E come tutte le sue avventure avevano piu’o meno
il loro lato ridicolo, intorno a lui la parodia affilò specialmente le sue armi, ed il figlio di Giove divenne il
prototipo della spavalderia, della goffaggine, della lascivia, specialmente della ghiottoneria: un vero Falstaff,
insomma, senza però l’astuzia, ma anche senza la furberia
né la vigliaccheria del vetusto compagno d’Enrico.
E nelle rappresentazioni fliaciche egli ha infatti una
parte preponderante. Qui toglie di mano addirittura a
Giove un piatto di leccornie offerto da qualche fedele, e
senza punto darsi pensiero del minaccioso fulmine paterno,
si pappa ogni cosa con la massima irriverenza (fig. 22).
Altrove porta ad Euristeo, invece dei Cercopi richiesti,
un paio di scimmiette (fig. 23); riconduce alla luce del
giorno la rediviva Alcesti; rapisce, dinanzi a un tempio.
Auge invano reluttante (fig. 24). Eccolo vittima d’una
grave sciagura: mentre sta pranzando, una donna gli afferra il bicchiere e scappa. Né meno brutta è quella che
gli capita in un’altra figurazione, derivata forse da un
dramma satiresco. Dopo un’orgia egli è andato coi suoi
compagni, satiri e baccanti, a sdraiarsi sotto le finestre
della bella; e probabilmente s’improvvisa una piccola serenata. Ma ecco all’improvviso spalancarsi una finestra, ed
un’orribile megera versare il contenuto di un vaso sopra
l’eroe, che disperatamente si dibatte sotto quella inattesa,
poco celeste rugiada (fig. 25).
E leggiamo infine le ultime sorti dell’eroe in due rap