L’antica eomniedia greca, mentre rammenta per tanti
riguardi le varie forme di farsa popolare o popolareggiante
dei moderni, dalla commedia dell’arte al teatro dei burattini, dalle scene di graciosi del dramma spagnolo al tuttora vivo e vegeto Karagòs dei Turchi, si distingue da
tutte per un tratto che costantemente la caratterizza. Dagli
albori epicarmei sino al rosso crepuscolo dell’atellana, fra
i suoi personaggi prediletti essa annoverò sempre i Numi
d’Olimpo. E oggi incominciamo a intravvedere per quale
processo i Celesti discesero dalle cerule vette d’Olimpo
sulle tavole della scèna vagabonda.
Tutti hanno presente il bizzarro tipo degli attori dei
phlyakes, le famose farse tarantine di cui vediamo un
cosi fulgido riflesso nelle rappresentazioni ceramiche. La
faccia dal naso camuso e la bocca sgangherata, il ventre
e i glutei sviluppatissimi, il fallo sconciamente pendulo,
i calzoni attillati e stretti in fondo da un lacciuolo, il camiciotto, e spesso anche il berretto, pulcinelleschi. Che
simili fossero gli attori dell’atellana, si induce facilmente
da parecchi frammenti e non può meravigliare. Più sorprende, a prima vista, che non ne differissero quelli della
commedia di mezzo, awiantesi al tipo menandreo; ma
il fatto è posto fuor di dubbio da un vaso del sec. IV,
egregiamente illustrato dal Korte (fig. 4). Tre attori si
vestono per la rappresentazione, e son pronti, meno le
maschere, che tengono ancora in mano, e meno, forse,
i camiciotti. Uno è anche imbacuccato in un mantello;
ma gli altri due sono contraddistinti dallo sconcio simbolo.