Il libro del Cortegiano/Libro secondo
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IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO
del conte baldesar castiglione
A MESSER ALFONSO ARIOSTO
I. Non senza maraviglia ho più volte considerato, onde nasca un errore, il quale, perciò che universalmente ne’ vecchi si vede, creder si può che ad essi sia proprio e naturale: e questo è, che quasi tutti laudano i tempi passati e biasimano i presenti, vituperando le azioni e i modi nostri e tutto quello che essi nella lor gioventù non facevano; affermando ancor, ogni buon costume e buona maniera di vivere, ogni virtù, in somma ogni cosa, andar sempre di mal in peggio1. E veramente par cosa molto aliena dalla ragione e degna di maraviglia, che la età matura, la qual con la lunga esperienza suol far nel resto il giudicio degli uomini più perfetto, in questo lo corrompa tanto, che non si avveggano, che se ’l mondo sempre andasse peggiorando, e che i padri fossero generalmente migliori che i figlioli, molto prima che ora saremmo giunti a quell’ultimo grado di male, che peggiorar non può. E pur vedemo, che non solamente ai dì nostri, ma ancor nei tempi passati, fu sempre questo vizio peculiar di quella età; il che per le scritture di molti autori antichissimi chiaro si comprende, e massimamente dei Comici, i quali più che gli altri esprimeno la imagine della vita umana. La causa adunque di questa falsa opinione nei vecchi estimo io per me ch’ella sia, perchè gli anni fuggendo se ne portan seco molte commodità, e tra l’altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali; onde la complession si muta, e divengon debili gli organi, per i quali l’anima opera le sue virtù. Però dei cori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi, caggiono i soavi fiori di contento, e nel loco dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e torbida tristizia, di mille calamità compagnata; di modo che non solamente il corpo, ma l’animo ancora è infermo; nè dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria, e la imagine di quel caro tempo della tenera età, nella quale quando ci ritrovamo, ci pare che sempre il cielo e la terra ed ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri, e nel pensiero, come in un delizioso e vago giardino, fiorisca la dolce primavera d’allegrezza. Onde forse saria utile, quando giả nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita, spogliandoci di quei piaceri, andarsene verso l’occaso, perdere insieme con essi ancor la loro memoria, e trovar, come disse Temistocle, un’arte che a scordar insegnasse; perchè tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il giudicio della mente. Però parmi che i vecchi siano alla condizion di quelli, che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra, e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta, e pur è il contrario; chè il porto, e medesimamente il tempo ed i piaceri, restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalità fuggendo n’andiamo l’un dopo l’altro per quel procelloso mare che ogni cosa assorbe e devora, nė mai più ripigliar terra ci è concesso, anzi, sempre da contrarii venti combattuti, al fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per esser adunque l’animo senile subjetto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli può; e come ai febricitanti, quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, pajono tutti i vini amarissimi, benchè preziosi e delicati siano: così ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual però non manca il desiderio, pajon i piaceri insipidi e freddi, e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano, benchė i piaceri in sè siano i medesimi; però, sentendosene privi, si dolgono, e biasimano il tempo presente come malo, non discernendo che quella mutazione da sè e non dal tempo procede; e, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però lo laudano come buono, perchè pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiano quando era presente; perchė in effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono compagne de’ nostri dispiaceri, ed amano quelle che state sono compagne dei piaceri. Onde accade, che ad uno amante è carissimo talor vedere una finestra, benchè chiusa, perchè alcuna volta quivi arà avuto grazia di contemplar la sua donna; medesimamente, vedere uno anello, una lettera, un giardino o altro loco o qualsivoglia cosa, che gli paja esser stata consapevol testimonio de’ suoi piaceri; e, per lo contrario, spesso una camera ornatissima e bella sarà nojosa a chi dentro vi sia stato prigione, o patito v’abbia qualche altro dispiacere. Ed ho già io conosciuto alcuni, che mai non beveriano in un vaso simile a quello, nel quale già avessero, essendo infermi, preso bevanda medicinale; perchè, così come quella finestra, o l’anello o la leltera, all’uno rappresenta la dolce memoria che tanto gli diletta, per parergli che quella già fosse una parte de’ suoi piaceri: così all’altro la camera o ’l vaso par che insieme con la memoria rapporti la infermità o la prigionia. Questa medesima cagion credo che mova i vecchi a laudare il passato tempo, e biasimar il presente.
II. Però come del resto, così parlano ancor delle corti, affermando, quelle di che essi hanno memoria esser state molto più eccellenti e piene d’uomini singolari, che non son quelle che oggidì veggiamo; e subito che occorrono tai ragionamenti, cominciano ad estollere con infinite laudi i Cortegiani del duca Filippo, ovvero del duca Borso; e narrano i detti di Nicolò Piccinino; e ricordano che in quei tempi non si saria trovato, se non rarissime volte, che si fosse fatto un omicidio; e che non erano combattimenti, non insidie, non inganni, ma una certa bontà fedele ed amorevole tra tutti, una sicurtà leale; e che nelle corti allor regnavano tanti buoni costumi, tanta onestà, che i Cortegiani tutti erano come religiosi; e guai a quello che avesse detto una mala parola all’altro, o fatto pur un segno men che onesto verso una donna: e per lo contrario dicono, in questi tempi esser tutto l’opposito; e che non solamente tra i Cortegiani è perduto quell’amor fraterno e quel viver costumato, ma che nelle corti non regnano altro che invidie e malivolenze, mali costumi, e dissolutissima vita in ogni sorte di vizii; le donne lascive senza vergogna, gli uomini effeminati. Dannano ancora i vestimenti, come disonesti e troppo molli. In somma riprendono infinite cose, tra le quali molte veramente meritano riprensione, perchè non si può dir che tra noi non siano molti mali uomini e scelerati, e che questa età nostra non sia assai più copiosa di vizii, che quella che essi laudano. Parmi ben che mal discernano la causa di questa differenza, e che siano sciocchi; perchè vorriano che al mondo fossero tutti i beni senza male alcuno; il che è impossibile; perchè essendo il mal contrario al bene, e ’l bene al male, è quasi necessario che per la opposizione e per un certo contrapeso l’un sostenga e fortifichi l’altro, e mancando o crescendo l’uno così manchi o cresca l’altro, perchè niuno contrario è senza l’altro suo contrario. Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie? la magnanimità, se non fossero li pusillanimi? la continenza, se non fosse la incontinenza? la sanità, se non fosse la infermità? la verità, se non fosse la bugia? la felicità, se non fossero le disgrazie? Però ben dice Socrate appresso Platone2, maravigliarsi che Esopo non abbia fatto uno apologo, nel quale finga, Dio, poichè non avea mai potuto unire il piacere e ’l dispiacere insieme, avergli attaccati con la estremità, di modo che ’l principio dell’uno sia il fin dell’altro; perchè vedemo, niuno piacer poterci mai esser grato, se ’l dispiacere non gli precede3. Chi può aver caro il riposo, se prima non ha sentito l’affanno della stracchezza? chi gusta il mangiare, il bere e ’l dormire, se prima non ha patito fame, sete e sonno? Credo io adunque, che le passioni e le infermità sian date dalla natura agli uomini non principalmente per fargli soggetti ad esse, perchè non par conveniente, che quella che è madre d’ogni bene dovesse di suo proprio consiglio determinato darci tanti mali; ma facendo la natura la sanità, il piacere e gli altri beni, conseguentemente dietro a questi furono congiunte le infermità, i dispiaceri e gli altri mali. Però, essendo le virtů state al mondo concesse per grazia e don della natura, subito i vizii, per quella concatenata contrarietà, necessariamente le furono compagni; di modo che sempre, crescendo o mancando l’uno, forza è che così l’altro cresca o manchi.
III. Però quando i nostri vecchi laudano le corti passate, perchė non aveano gli uomini così viziosi come alcuni che hanno le nostre, non conoscono che quelle ancor non gli aveano così virtuosi come alcuni che hanno le nostre; il che non è maraviglia: perchè niun male è tanto malo, quanto quello che nasce dal seme corrotto del bene; e però producendo adesso la natura molto miglior ingegni che non facea allora, sì come quelli che si voltano al bene fanno molto meglio che non facean quelli suoi, così ancor quelli che si voltano al male fanno molto peggio. Non è adunque da dire, che quelli che restavano di far male per non saperlo fare, meritassero in quel caso laude alcuna; perchè avvenga che facessero poco male, faceano però il peggio che sapeano. E che gli ingegni di que’ tempi fossero generalmente molto inferiori a que’ che son ora, assai si può conoscere da tutto quello che d’essi si vede, così nelle lettere, come nelle pitture, statue, edificii, ed ogni altra cosa. Biasimano ancor questi vecchi in noi molte cose che in sè non sono nė buone nė male, solamente perchè essi non le faceano; e dicono, non convenirsi ai giovani passeggiar per le città a cavallo, massimamente nelle mule; portar fodre di pelle, nè robe lunghe nel verno; portar berretta, finchè almeno non sia l’uomo giunto a diciotto anni, ed altre tai cose: di che veramente s’ingannano; perchè questi costumi, oltra che sian commodi ed utili, son dalla consuetudine introdotti, ed universalmente piacciono, come allor piacea l’andar in giornea con le calze aperte e scarpette pulite, e, per esser galante, portar tutto di un sparvieri in pugno senza proposito, e ballar senza toccar la man della donna, ed usar molti altri modi, i quali, come or sariano goffissimi, allor erano prezzati assai. Però sia licito ancor a noi seguitar la consuetudine de’ nostri tempi, senza esser calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare, dicono: Io aveva vent’anni, che ancor dormiva con mia madre e mie sorelle, nè seppi ivi a gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i fanciulli non hanno a pena asciutto il capo, che sanno piú malizie che in que’ tempi non sapeano gli omini fatti», né si avveggono che, dicendo cosí, confirmano i nostri fanciulli aver più ingegno che non aveano i loro vecchi. Cessino adunque di biasmar i tempi nostri, come pieni de vicii perché, levando quelli, levariano ancora le virtú4; e ricordinsi che tra i boni antichi, nel tempo che fiorivano al mondo quegli animi gloriosi e veramente divini in ogni virtú e gli ingegni piú che umani, trovavansi ancor molti sceleratissimi; i quali, se vivessero, tanto sariano tra i nostri mali eccellenti nel male, quanto que’ boni nel bene; e de ciò fanno piena fede tutte le istorie.
IV. Ma a questi vecchi penso che omai a bastanza sia risposto. Però lasciaremo questo discorso, forse ormai troppo diffuso ma non in tutto for di proposito; e bastandoci aver dimostrato le corti de’ nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi, attenderemo ai ragionamenti avuti sopra il cortegiano, per i quali assai facilmente comprender si po in che grado tra l’altre corti fosse quella d’Urbino, e quale era quel Principe e quella Signora a cui servivano cosí nobili spiriti, e come fortunati si potean dir tutti quelli, che in tal commerzio viveano.
V. Venuto adunque il seguente giorno, tra i cavalieri e le donne della corte furono molti e diversi ragionamenti sopra la disputazion della precedente sera; il che in gran parte nasceva perché il signor Prefetto, avido di sapere ciò che detto s’era, quasi ad ognun ne dimandava e, come suol sempre intervenire, variamente gli era risposto; però che alcuni laudavano una cosa, alcuni un’altra, ed ancor tra molti era discordia della sentenzia propria del Conte, che ad ognuno non erano restate nella memoria così compiutamente le cose dette. Però di questo quasi tutto ’l giorno si parlò; e come prima incominciò a farsi notte, volse il signor Prefetto che si mangiasse e tutti i gentilomini condusse seco a cena; e subito fornito di mangiare, n’andò alla stanza della signora Duchessa; la quale vedendo tanta compagnia, e piú per tempo che consueto non era disse: — Gran peso parmi, messer Federico, che sia quello che posto è sopra le spalle vostre, e e grande aspettazion quella a cui corrisponder dovete. Quivi, non aspettando che messer Federico rispondesse: E che gran peso è però questo? — disse l’Unico Aretino: Chi è tanto sciocco, che quando sa fare una cosa non la faccia a tempo conveniente? — Così di questo parlandosi, ognuno sì pose a sedere nel loco o modo usato, con attentissima aspettazion del proposto ragionamento.
VI. Allora messer Federico, rivolto all’Unico, A voi adunque non par, disse, signor Unico, che faticosa parte e gran carico mi sia imposto questa sera, avendo a dimostrare in qual modo e maniera e tempo debba il Cortegiano usar le sue buone condizioni, ed operar quelle cose che già s’è detto convenirsegli? — A me non par gran cosa, rispose l’Unico; e credo che basti tutto questo, ‘dir che ’l Cortegiano sia di buon giudicio, come jersera ben disse il Conte essere necessario; ed essendo così, penso che senza altri precetti debba poter usare quello che egli sa a tempo e con buona maniera: il che volere più minutamente ridurre in regola, saria troppo difficile e forse superfluo; perchè non so qual sia tanto inetto, che volesse venire a maneggiar l’arme quando gli altri fossero nella musica; ovvero andasse per le strade ballando la moresca, avvenga che ottimamente far lo sapesse; ovvero andando a confortar una madre, a cui fosse morto il figliolo, cominciasse a dir piacevolezze e far l’arguto, Certo questo a niun gentiluomo, credo, interverria, che non fosse in tutto pazzo. — A me par, signor Unico, disse quivi messer Federico, che voi andiate troppo in su le estremità: perchè intervien qualche volta esser inetto di modo che non così facilmente si conosce, e gli errori non son tutti pari: e potrà occorrere che l’uomo si astenerà da una sciocchezza publica e troppo chiara, come saria quel che voi dite d’andar ballando la moresca in piazza, e non saprà poi astenersi di laudar sè stesso fuor di proposito, d’usar una prosunzion fastidiosa, di dir talor una parola pensando di far ridere, la qual, per esser detta fuor di tempo, riuscirà fredda e senza grazia alcuna, E spesso questi errori son coperti d’un certo velo, che scorger non gli lascia da chi gli fa, se con diligenza non vi si mira; e benchè per molte cause la vista nostra poco discerna, pur sopra tutto per l’ambizione divien tenebrosa: chè ognun volentier si mostra in quello che si persuade di sapere, o vera o falsa che sia quella persuasione. Però il governarsi bene in questo, parmi che consista in una certa prudenza e giudicio di elezione, e conoscere il più e ’l meno che nelle cose si accresce e scema per operarle opportunamente o fuor di stagione. E benchè il Cortegian sia di così buon giudicio che possa discernere queste differenze, non è però che più facile non gli sia conseguir quello che cerca essendogli aperto il pensiero con qualche precetto, e mostratogli le vie e quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al generale.
VII. Avendo adunque il Conte jersera con tanta copia e bel modo ragionato della Cortegiania, in me veramente ha mosso non poco timor e dubio di non poter così ben satisfare a questa nobil audienza in quello che a me tocca a dire, come esso ha fatto in quello che a lui toccava. Pur per farmi partecipe più ch’io posso della sua laude, ed esser sicuro di non errare almen in questa parte, non gli contradirò in cosa alcuna. Onde, consentendo con le opinioni sue, ed, oltre al resto, circa la nobilità del Cortegiano, e lo ingegno, e la disposizion del corpo e grazia dell’aspetto, dico, che per acquistar laude meritamente e buona estimazione appresso ognuno, e grazia da quei signori ai quali serve, parmi necessario che e’ sappia componere tutta la vita sua e valersi delle sue buone qualità universalmente nella conversazion di tutti gli uomini senza acquistarne invidia: il che quanto in sè difficil sia, considerar si può dalla rarità di quelli che a tal termine giunger si veggono; perchè in vero tutti da natura siamo pronti più a biasimar gli errori, che a laudar le cose ben fatte, e par che per una certa innata malignità molti, ancor che chiaramente conoscano il bene, si sforzino con ogni studio ed industria di trovarci dentro o errore, o almen similitudine d’errore. Però è necessario, che ’l nostro Cortegiano in ogni sua operazion sia cauto, e ciò che dice o fa sempre accompagni con prudenza; e non solamente ponga cura d’aver in sè parti e condizioni eccellenti, ma il tenor della vita sua ordini con tal disposizione, che ’l tutto corrisponda a queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa tal che non discordi da sè stesso, ma faccia un corpo solo di tutte queste buone condizioni; di sorte che ogni suo atto risulti e sia composto di tutte le virtù, come dicono i Stoici esser officio di chi è savio: benchè però in ogni operazion sempre una virtù è la principale; ma tutte sono talmente tra sè concatenate, che vanno ad un fine, e ad ogni effetto tutte possono concorrere e servire. Però bisogna che sappia valersene, e per lo paragone e quasi contrarietà dell’una talor far che l’altra sia più chiaramente conosciuta: come i buoni pittori, i quali con l’ombra fanno apparere e mostrano i lumi de’ rilievi; e così col lume profondano l’ombre dei piani, e compagnano i colori diversi insieme di modo, che per quella diversità l’uno e l’altro meglio si dimostra, e ’l posar delle figure contrario luna all’altra le ajuta a far quell’officio che è intenzion del pittore. Onde la mansuetudine è molto maravigliosa in un gentiluomo il qual sia valente e sforzato nell’arme; e come quella fierezza par maggiore accompagnata dalla modestia, così la modestia accresce e più compar per la fierezza. Però il parlar poco, il far assai, e’l non laudar sè stesso delle opere laudevoli, dissimulandole di buon modo, accresce l’una e l’altra virtù in persona che discretamente sappia usar questa maniera; e così intervien di tutte l’altre buone qualità. Voglio adunque che ’l nostro Cortegiano in ciò che egli faccia o dica usi alcune regole universali, le quali io estimo che brevemente contengano lutto quello che a me s’appartiene di dire; e per la prima e più importante, fugga, come ben ricordò il Conte jersera, sopra tutto l’affettazione. Appresso, consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice, e ’l loco dove la fa, in presenza di cui, a che tempo, la causa perchè la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende, e i mezzi che a quello condur lo possono; e così con queste avvertenze s’accomodi discretamente a tutto quello che fare o dir vuole,
VIII. Poi che così ebbe detto messer Federico, parve che si fermasse un poco, Allor subito, Queste vostre regole, disse il signor MoreLLo da Ortona, a me par che poco insegnino; ed.io per me tanto ne so ora, quanto prima che voi ce le mostraste; benchè mi ricordi ancor qualche altra volta averle udite da’ frati co’ quali confessato mi sono, e parmi che le chiamino le circostanze. — Rise allor messer Federico, e disse: Se ben vi ricorda, volse jersera il Conte che la prima profession del Cortegiano fosse quella dell’arme, e largamente parlò di che modo far la doveva; però questo non replicaremo più. Pur sotto la nostra regola si potrà ancor întendere, che ritrovandosi il Cortegiano nella scaramuzza o fatto d’arme o battaglia di terra, o in altre cose tali, dee discretamente procurar d’appartarsi dalla moltitudine, e quelle cose segnalate ed ardite che ha da fare farle con minor compagnia che può, ed al cospetto di tutti i più nobili ed estimati uomini che siano nell’esercito, e massimamente alla presenza e, se possibil è, inanzi agli occhi proprii del suo re o di quel signore a cui serve; perchè in vero è ben conveniente valersi delle cose ben fatte. Ed io estimo, che siccome è male cercar gloria falsa e di quello che non si merita, così sia ancor male defraudar sè stesso del debito onore, e non cercarne quella laude, che sola è vero premio delle virtuose fatiche. Ed io ricordomi aver già conosciuti di quelli, che, avvenga che fossero valenti, pur in questa parte erano grossieri; e così metteano la vita a pericolo per andar a pigliar una mandra di pecore, come per esser i primi che montassero le mura d’una terra combattuta: il che non farà il nostro Cortegiano, se terrà a memoria la causa che lo conduce alla guerra, che dee esser solamente l’onore, E se poi si ritroverà armeggiare nei spettacoli publici, giostrando, torneando, o giocando a canne, o facendo qualsivoglia altro esercizio della persona; ricordandosi il loco ove si trova, ed in presenza di cui, procurerà esser nell’arme non meno attilato e leggiadro che sicuro, e pascer gli occhi dei spettatori di tutte le cose che gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà cura d’aver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, ed invenzioni ingeniose, che a sè tirino gli occhi de’ circostanti, come calamita il ferro. Non sarà mai degli ultimi che compariscano a mostrarsi, sapendo che i popoli, e massimamente le donne, mirano con molto maggior attenzione i primi che gli ultimi; perchè gli occhi e gli animi, che nel principio son avidi di quella novità, notano ogni minuta cosa, e di quella fanno impressione; poi per la continuazione non solamente si saziano, ma ancora si stancano. Però fu un nobile istrione antico, il qual per questo rispetto sempre voleva nelle fabule esser il primo che a recitare uscisse. Così ancor, parlando pur d’arme, il nostro Cortegiano avrà risguardo alla profession di coloro con chi parla, ed a questo accomedarassi; altramente ancor parlandone con uomini, altramente con donne: e se vorrà toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà dissimulatamente, come a caso e per transito, e con quella discrezione ed avvertenza, che jeri ci mostrò il conte Ludovico.
IX. Non vi par ora, signor Morello, che le nostre regole possano insegnar qualche cosa? Non vi par che quello amico nostro, del qual pochi di sono vi parlai, s’avesse in tutto scordato con chi parlava e perchè, quando, per intertenere una gentildonna, la quale per prima mai più non aveva veduta, nel principio del ragionar le cominciò a dire che aveva morti tanti uomini, e come era fiero, e sapea giocar di spada a due mani? nè se le levò da canto, che venne a volerle insegnar come s’avessero a riparar alcuni colpi d’azza5 essendo armato, e come disarmato, ed a mostrar le prese di pugnale; di modo che quella meschina stava in sulla croce, e parvele un’ora mill’anni levarselo da canto, temendo quasi che non ammazzasse lei ancora come quegli‘altri. In questi errori incorrono coloro che non hanno riguardo alle circostanze, che voi dite aver intese dai frati,
Dico adunque, che degli esercizii del corpo sono alcuni che quasi mai non si fanno se non in publico, come il giostrare, il torneare, il giocare a canne, e gli altri tutti che dependono dall’arme. Avendosi adunque in questi da adoperare il nostro Cortegiano, prima ha da procurar d’esser tanto bene ad ordine di cavalli, d’arme e d’abbigliamenti, che nulla gli manchi; e non sentendosi ben assettato del tutto, non vi si metta per modo alcuno: perchè, non facendo bene, non si può escusare che questa non sia la profession sua. Appresso dee considerar molto, in presenza di chi si mostra, e quali siano i compagni; perchè non saria conveniente che un gentiluomo andasse ad onorare con la persona sua una festa di contado, dove i spettatori ed i compagni fossero gente ignobile.
X. Disse allor il signor Gasparo Pallavicino: Nel paese nostro di Lombardia non s’hanno questi rispetti; anzi molti gentiluomini giovani trovansi, che le feste ballano tutto ’l di nel sole coi villani, e con essi giocano a lanciar la barra6, lottare, correre e saltare: ed io non credo che sia male, perchè ivi non si fa paragone della nobilità, ma della forza e destrezza, nelle quai cose spesso gli uomini di villa non vaglion meno che i nobili; e par che quella domestichezza abbia in sè una certa liberalità amabile. — Quel ballar nel sole, rispose messer Federico, a me non piace per modo alcuno, nè so che guadagno vi si trovi. Ma chi vuol pur lottar, correr e saltar coi villani, dee, al parer mio, farlo in modo di provarsi, e, come si suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l’uomo esser quasi sicuro di vincere: altramente non vi si metta; perchè sta troppo male e troppo è brutta cosa e fuor della dignità vedere un gentiluomo vinto da un villano, e massimamente alla lotta: però credo io che sia ben astenersene, almeno in presenza di molti, perchè il guadagno nel vincere è pochissimo, e la perdita nell’esser vinto è grandissima. Fassi ancor il gioco della palla quasi sempre in publico; ed è uno di que’ spettacoli, a cui la moltitudine apporta assai ornamento. Voglio adunque che questo e tutti gli altri, dall’armeggiar in fuora, faccia il nostro Cortegiano come cosa che sua professione non sia, e di che mostri non cercar o aspettar laude alcuna, nè si conosca che molto studio o tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia; nè sia come alcuni che si dilettano di musica, e parlando con chi si sia, sempre che si fa qualche pausa nei ragionamenti, cominciano sotto voce a cantare; altri, camminando per le strade e per le chiese vanno sempre ballando; altri, incontrandosi in piazza o dove si sia con qualche amico, si metton subito in atto di giocar di spada o di lottare, secondo che più si dilettano. — Quivi disse messer Cesare Gonzaga: Meglio fa un cardinale giovane che avemo in Roma, il qual, perchè si sente ajutante della persona, conduce tutti quelli che lo vanno a visitare, ancorchè mai più non gli abbia veduti, in un suo giardino, ed invitagli con grandissima instanza a spogliarsi in giuppone e giocar seco a saltare.
XI. Rise messer Federico; poi soggiunse: Sono alcuni altri esercizi, che far si possono nel publico e nel privato, come è il danzare; ed a questo estimo io che debba aver rispetto il Cortegiano: perchè danzando in presenza di molti ed in loco pieno di popolo parmi che si gli convenga servare una certa dignità, temperata però con leggiadra ed aerosa dolcezza di movimenti; e benchè si senta leggierissimo, e che abbia tempo e misura assai, non entri in quelle prestezze dei piedi e duplicati rebattimenti, i quali veggiamo che nel nostro Barletta stanno benissimo, e forse in un gentiluomo sariano poco convenienti: benchè in camera privatamente, come or noi ci troviamo, penso che licito gli sia e questo, e ballar moresche e brandi; ma in publico non così, fuorchè travestito, e benchè fosse di modo che ciascun lo conoscesse, non dà noja; anzi per mostrarsi in tai cose nei spettacoli publici, con arme e senza arme, non è miglior via di quella; perchè lo esser travestito porta seco una certa libertà e licenza; la quale tra l’altre cose fa che l’uomo può pigliare forma di quello in che si sente valere, ed usar diligenza ed attilatura circa la principal intenzione della cosa in che mostrar si vuole, ed una certa sprezzatura circa quello che non importa, il che accresce molto la grazia: come saria vestirsi un giovane da vecchio, ben però con abito disciolto, per potersi mostrare nella gagliardia; un cavaliero in forma di pastor selvatico o altro tale abito, ma con perfetto cavallo, e leggiadramente acconcio secondo quella intenzione: perchè subito l’animo de’ circostanti corre ad imaginar quello che agli occhi al primo aspetto s’appresenta; e vedendo poi riuscir molto maggior cosa che non prometteva quell’abito, si diletta e piglia piacere.
Però ad un principe in tai giochi e spettacoli, ove intervenga fizione di falsi visaggi, non si converria il voler mantener la persona del principe proprio, perchè quel piacere che dalla novità viene ai spettatori mancheria in gran parte, chè ad alcuno non è nuovo che il principe sia il principe; ed esso, sapendosi che. altre allo esser principe, vuol aver cor forma di principe, perde la libertà di far tutte quelle cose che sono fuor della dignità di principe; e se in questi giochi fosse contenzione alcuna, massimamente con arme, poria ancor far credere di voler tener la persona di principe per non esser battuto, ma riguardato dagli altri; oltra che, facendo nei giochi quel medesimo che dee far da dovero quando fosse bisogno, levaria l’autorità al vero, e pareria quasi che ancor quello fosse gioco: ma in tal caso, spogliandosi il principe la persona di principe, e mescolandosi egualmente con i minori di sè, ben però di modo che possa esser conosciuto; col rifiutar la grandezza piglia un’altra maggior grandezza; che è il voler avanzar gli altri non d’autorità ma di virtù, e mostrar che ’l valor suo non è accresciuto dallo esser principe.
XII. Dico adunque che ’l Cortegiano dee in questi spettacoli d’arme aver la medesima avvertenza, secondo il grado suo. Nel volteggiar poi a cavallo, lottar, correre saltare, piacemi molto fuggir la moltitudine della plebe, o almeno lasciarsi veder rarissime volte; perchè non è al mondo. cosa tanto eccellente, della quale gli ignoranti non si sazieno, o non tengan poco conto, vedendola spesso. Il medesimo giudico della musica: però non voglio che ’l nostro Cortegiano faccia come molti, che subito che son giunti ove che sia; e alla presenza ancor di signori de’ quali non abbiano notizia alcuna, senza lasciarsi molto pregare, si mettono a far ciò che sanno, e spesso ancor quel che non sanno; di modo che par che solamente per quello effetto siano andati d farsi vedere, e che quella sia la loro principal professione. Venga adunque il Cortegiano a far musica, come a cosa per passar tempo, e quasi sforzato, e non in presenza di gente ignobile, nè di gran moltitudine; e benchè sappia ed intenda ciò che fa, in questo ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica che è necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e mostri estimar poco in sè stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia estimar assai dagli altri.
XIII. Allor il signor Gaspar Pallavicino, molte sorti di musica, disse, si trovan, così di voci vive, come d’instrumenti: però a me piacerebbe intender qual sia la miglior tra tutte, ed a che tempo debba il Cortegiano operarla. — Bella musica, rispose messer Federico, parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto più il cantare alla viola, perchè tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con molto maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e l’aria non essendo occupate le orecchie in più che in una sol voce, e meglio ancor vi si discerne ogni piccolo errore; il che non accade cantando in compagnia, perchè l’uno ajuta l’altro. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran maraviglia. Sono ancor armoniosi tutti gli instrumenti da tasti, perchè hanno le consonanze molto perfette, e con facilità vi si possono far molte cose che empiono l’animo della musical dolcezza. E non meno diletta la musica delle quattro viole da areo, la qual è soavissima ed artificiosa. Dà ornamento e grazia assai la voce umana a tutti questi instrumenti, de’ quali voglio che al nostro Cortegian basti aver notizia: e quanto più però in essi sarà eccellente, tanto sarà meglio; senza impacciarsi molto di quelli che Minerva rifiutò ad Alcibiade, perchè pare che abbiano del schifo. Il tempo poi nel quale usar si possono queste sorti di musica estimo io che sia, sempre che l’uomo. si trova in una domestica e cara compagnia, quando altre faccende non vi sono; ma sopra tutto conviensi in presenza di donne, perchè quegli aspetti indolciscono gli animi di chi ode, e più i fanno penetrabili dalla soavità della musica, e ancor svegliano i spiriti di chi la fa: piacemi ben, come ancor ho detto, che si fugga la moltitudine; e massimamente degl’ignobili. Ma il condimento. del tutto bisogna che sia la discrezione; perchè in effetto saria.impossibile imaginar tutti i casi che occorrono; e se il Cortegiano sarà giusto giudice di sè stesso, s’accommoderà bene ai tempi, e conoscerà quando gli animi degli auditori saranno disposti ad udire, e quando no; conoscerà l’età sua: chè in vero non si conviene e dispare assai vedere un uomo di qualche grado, vecchio, canuto e senza denti, pien di rughe, con una viola in braccio sonando, cantare in mezzo d’una compagnia di donne, avvenga ancor che mediocremente lo facesse; e questo; perchè il più delle volte cantando si dicon parole amorose, e ne’ vecchi l’amor è cosa ridicola; benchè qualche volta paja che egli si diletti, tra gli altri suoi miracoli, d’accendere in dispetto degli anni i cori agghiacciati.
XIV. Rispose allora il Magnifico: Non private, messer Federico, i poveri vecchi di questo piacere; perchè io già ho conosciuti uomini di tempo, che hanno voci perfettissime, e mani dispostissime agl’instrumenti, molto più che alcuni giovani. — Non voglio, disse messer Federico, privare i vecchi di questo piacere, ma voglio ben privar voi e queste donne del ridervi di quella inezia; e se vorranno i vecchi cantare alla viola, faccianlo in secreto, e solamente per levarsi dell’animo que’ travagliosi pensieri e gravi molestie di che la vita nostra è piena, e per gustar quella divinità ch’io credo che nella musica sentivano Pitagora e Socrate. E se bene non la eserciteranno, per aver fattone già nell’animo un certo abito la gustaran molto più udendola, che chi non avesse cognizione: perchè, sì come spesso le braccia d’un fabro, debile nel resto, per esser più esercitate sono più gagliarde che quelle d’un altro uomo robusto, ma non assueto a faticar le braccia, così le orecchie esercitate nell’armonia molto meglio e più presto la discerneno, e con molto maggior piacer la giudicano, che l’altre, per buone ed acute che siano, non essendo versate nelle varietà delle consonanze musicali; perchè quelle modulazioni non entrano, ma senza lasciare gusto di sè via trapassano da canto all’orecchie non assuete d’udirle: avvenga che insino alle fiere sentano qualche dilettazion della melodia. Questo è adunque il piacer, che si conviene ai vecchi pigliare della musica. Il medesimo dico del danzare; perchè in vero questi esercizii si deono lasciare prima che dalla età siamo sforzati a nostro dispetto lasciargli. — Meglio è adunque, rispose quivi il signor Morello quasi adirato, escludere tutti i vecchi, e dir che solamente i giovani abbiam da esser chiamati Cortegiani. — Rise allor messer Federico, e disse: Vedete voi, signor Morello, che quelli che amano queste cose, se non son giovani, si studiano d’apparere; e però si tingono i capelli, e fannosi la barba due volte la settimana7: e ciò procede, che la natura tacitamente loro dice, che tali cose non si convengono se non a’ giovani. — Risero tutte le donne, perchè ciascuna comprese che quelle parole toccavano al signor Morello; ed essa parve che un poco se ne turbasse.
XV. Ma sono ben degli altri intertenimenti con donne, soggiunse subito messer Federico, che si convengono ai vecchi, — E quali? disse il signor Morello; dir le favole? — E questo ancor, rispose messer Federico. Ma ogni età, come sapete, porta seco i suoi pensieri, ed ha qualche peculiar virtù e qualche peculiar vizio; chè i vecchi, come che siano ordinariamente prudenti più che i giovani, più continenti e più sagaci, sono anco poi più parlatori, avari, difficili, timidi; sempre gridano in casa, asperi ai figlioli, vogliono che ognun faccia a modo loro: e per contrario i giovani, animosi, liberali, sinceri, ma pronti alle risse, volubili, che amano e disamano in un punto, dati a tutti i lor piaceri, nimici a chi lor ricorda il bene. Ma di tutte le età la virile è più temperata, che già ha lasciato le male parti della gioventù, ed ancor non è pervenuta a quelle della vecchiezza, Questi adunque, posti quasi nelle estremità, bisogna che con la ragion sappiano correggere i vizii che la natura porge. Però deono i vecchi guardarsi dal molto laudar sè stessi, e dall’altre cose viziose che avemo detto esser loro proprie, e valersi di quella prudenza e cognizion che per lungo uso avranno acquistata, ed esser quasi oracoli a cui ognun vada per consiglio, ed aver _ grazia in dir quelle cose che sanno, accommodatamente ai propositi, accompagnando la gravità degli anni con una certa temperata e faceta piacevolezza. In questo modo saranno buoni Cortegiani, ed interterrannosi bene con uomini e con donne, ed in ogni tempo saranno gratissìmi, senza cantare o danzare; e quando occorrerà il bisogno, mostreranno il valor loro nelle cose d’importanza.
XVI. Questo medesimo rispetto e giudicio abbian i giovani, non già di tener lo stile dei vecchi, chè quello che all’uno conviene non converrebbe in tutto all’altro, e suolsi dir che ne’ giovani troppo saviezza è mal segno, ma di corregger in sè i vizii naturali. Però a me piace molto veder un giovane, e massimamente nell’arme, che abbia un poco del grave e del taciturno; che stia sopra di sè, senza que’ modi inquieti che spesso in (al età si veggono; perchè par che abbian non so che di più che gli altri giovani. Oltre a ciò quella maniera così riposata ha in sè una certa fierezza riguardevole, perchè par mossa non da ira ma da giudicio, e più presto governata dalla ragione che dallo appetito: e questa quasi sempre in tutti gli uomini di gran core si conosce; e medesimamente vedemola negli animali bruti, che hanno sopra gli altri nobilità e fortezza, come nello leone e nella aquila: nè ciò è fuor di ragione, perchè quel movimento impetuoso e subito, senza parole o altra dimostrazion di collera, che con tutta la forza unitamente in un tratto, quasi come scoppio di bombarda, erompe dalla quiete, che è il suo contrario, è molto più violento e furioso che quello che, crescendo per gradi, si riscalda a poco a poco. Però questi che, quando son per far qualche impresa, parlan tanto e saltano, nè posson star fermi, pare che in quelle tali cose si svampino; e, come ben dice il nostro messer Pietro Monte, fanno come i fanciulli, che andando di notte per paura cantano, quasi che con quel cantare da sè stessi si facciano animo. Così adunque come in un giovane la gioventù riposata e matura è molto laudevole, perchè par che la leggerezza, che è vizio peculiar di quella età, sia temperata e corretta, così in un vecchio è da estimare assai la vecchiezza verde e viva8, perchè pare che ’l vigor dell’animo sia tanto, che riscaldi e dia forza a quella debile e fredda età, e la mantenga in quello stato mediocre, che è la miglior parte della vita nostra.
XVII. Ma in somma, non bastaranno ancor tutte queste condizioni nel nostro Cortegiano per acquistar quella universal grazia de’ signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil e amabile maniera nel conversare cotidiano; e di. questo credo veramente che sia difficile dar regola alcuna, per le infinite e varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli uomini del mondo non si trovano dui, che siano d’animo totalmente simili. Però chi ha da accommodarsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio, e, conoscendo le differenze dell’uno e dell’altro, ogni di muti stile e modo, secondo la natura di quelli con chi a conversar si mette. Nè io per me altre regole circa ciò dar gli saprei, eccetto le già date, le quali sin da fanciullo, confessandosi, imparò il nostro signor Morello. Rise quivi la signora Emilia, e disse: Voi fuggite troppo la fatica, messer Federico: ma non vi verrà fatto, chè pur avete da dire fin che l’ora sia d’andare a letto. — E s’io, Signora, non avessi che dire? — rispose messer Federico. Disse la signora Emilia: Qui si vedrà il vostro ingegno; e se è vero quello ch’io già ho inteso, essersi trovato uomo tanto ingegnoso ed eloquente, che non gli sia mancato subjetto per comporre un libro in laude d’una mosca, altri in laude della febre quartana, un altro in laude del calvizio: non dà il core a voi ancor di saper trovar che dire per una sera sopra la Cortegianìa? — Ormai, rispose messer Federico; tanto ne avemo ragionato, che ne sariano fatti doi libri; ma poi che non mi vale escusazione, dirò pur fin che a voi paja ch’io abbia satisfatto, se non all’obligo, almeno al poter mio.
XVIII. Io estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il Cortegiano con ogni suo studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe; e benchè questo nome di conversare importi una certa parità, che pare che non possa cader tra ’l signore e ’l servitore, pur noi per ora la chiamaremo così. Voglio adunque che ’l Cortegiano, oltre lo aver fatto ed ogni dì far conoscere ad ognuno, sè esser di quel valore che già avemo detto, si volti con tutti i pensieri e forze9 dell’animo suo ad amare e quasi adorare il principe a chi serve, sopra ogni altra cosa; e le voglie sue e costumi e modi, tutti indirizzi a compiacerlo. — Quivi non aspettando più, disse Pietro da Napoli: Di questi Cortegiani oggidì trovarannosi assai, perchè mi pare che in poche parole ci abbiate dipinto un nobile adulatore. — Voi v’ingannate assai, rispose messer Federico; perchè gli adulatori non amano i signori nè gli amici, il che io vi dico che voglio che sia principalmente nel nostro Cortegiano; e ’l compiacere e secondar le voglie di quello a chi si serve si può far senza adulare, perchè io intendo delle voglie che siano ragionevoli ed oneste, ovvero di quelle che in sè non son nè buone nè male, come saria il giocare, darsi più ad uno esercizio che ad un altro; ed a questo voglio che il Cortegiano s’accommodi, sebben da natura sua vi fosse alieno, di modo che, sempre che ’l signore lo vegga, pensi che a parlar gli abbia di cosa che gli sia grata: il che interverrà, se in costui sarà il buon giudicio per conoscere ciò che piace al principe, e lo ingegno e la prudenza per sapersegli accommodare, e la deliberata volontà per farsi piacer quello che forse da natura gli dispiacesse; ed avendo queste avvertenze, inanzi al principe non starà mai di mala voglia nè melanconico, nè così taciturno, come molti che par che tenghino briga coi patroni, che è cosa veramente odiosa. Non sarà maledico, e specialmente dei suoi signori; il che spesso interviene, chè pare che nelle corti sia una procella che porti seco questa condizione, che sempre quelli che sono più beneficati dai signori, e da bassissimo loco ridotti in alto stato, sempre si dolgono e dicono mal d’essi: il che è disconveniente, non solamente a questi tali, ma ancor a quelli che fossero mal trattati. Non usarà il nostro Cortegiano prosunzion sciocca10; non sarà apportator di nuove fastidiose; non sarà inavvertito in dir talor parole che offendano in loco di voler compiacere; non sarà ostinato e contenzioso, come alcuni, che par che non godano d’altro che d’essere molesti e fastidiosi a guisa di mosche, e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno senza rispetto; non sarà cianciatore, vano o bugiardo, vantatore nè adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, e massimamente in publico, quella reverenza e rispetto che si conviene al servitor verso il signor; e non farà come molti, i quali, incontrandosi con qualsivoglia gran principe, se pur una sol volta gli hanno parlato, se gli fanno inanti con un certo aspetto ridente e da amico, così come se volessero accarezzar un suo equale, o dar favor ad un minor di sè. Rarissime volte o quasi mai non domanderà al signor cosa alcuna per sè stesso, acciò che quel signor avendo rispetto di negarla così a lui stesso, talor non la cenceda con fastidio, che è molto peggio. Domandando ancor per altri, osserverà discretamente i tempi, e domanderà cose oneste e ragionevoli; ed assettarà talmente la petizion sua; levandone, quelle parti che esso conoscerà poter dispiacere e facilitando con destrezza le difficoltà, che ’l signor la concederà sempre, o se pur la negherà, non crederà aver offeso colui a chi non ha voluto compiacere: perchè spesso i signori, poi che hanno negato una grazia a chi con molta importunità la domanda, pensano che colui che l’ha domandata con tanta instanza la desiderasse molto; onde, non avendo potuto ottenerla, debba voler male a chi glie l’ha negata; e per questa credenza essi cominciano ad odiar quel tale, e mai più nol posson veder con buon occhio.
XIX. Non cercherà d’intromettersi in camera o nei lochi secreti col signor suo non essendo richiesto, sebben sarà di molta autorità; perchè spesso i signori, quando stanno privatamente, amano una certa libertà di dire e far ciò che lor piace, e però non vogliono essere nè veduti nè uditi da persona da cui possano esser giudicati; ed è ben conveniente. Onde quelli che biasimano i signori che tengono in camera persone di non molto valore in altre cose che in sapergli ben servire alla persona, parmi che facciano errore, perchè non so per qual causa essi non debbano aver quella libertà per relasciare gli animi loro, che noi ancor volemo per relasciar i nostri. Ma se ’l Cortegiano, consueto di trattar cose importantì, si ritrova poi secretamente in camera, dee vestirsi un’altra persona, e differir le cose severe ad altro loco e tempo, ed attendere a ragionamenti piacevoli e grati al signor suo, per non impedirgli quel riposo d’animo. Ma in questo ed in ogni altra cosa sopra tutto abbia cura di non venirgli a fastidio, ed aspetti che i favori gli siano offerti più presto, che uccellargli così scopertamente come fan molti, che tanto avidi ne sono, che pare che, non conseguendogli, abbiano da perder la vita; e se per sorte hanno qualche disfavore, ovvero veggono altri esser favoriti, restano con tanta angonia, che dissimular per modo alcuno non possono quella invidia: onde fanno ridere di sè ognuno, e spesso sono causa che i signori dian favore a chi si sia, solamente per far loro dispetto. Se poi ancor si ritrovano in favor che passi la mediocrità, tanto s’inebriano in esso, che restano impediti d’allegrezza; nè par che sappian ciò che si far delle mani nè dei piedi, e quasi stanno per chiamar la brigata che venga a vedergli e congratularsi seco, come di cosa che non siano consueti mai più d’avere. Di questa sorte non voglio che sia il nostro Cortegiano. Voglio ben che ami i favori, ma nom però gli estimi tanto, che non paja poter ancor star senz’essi; e quando consegue non mostri d’esservi dentro nuovo nè forestiero, nè maravigliarsi che gli siano offerti; nè gli rifiuti di quel modo che fanno alcuni, che per vera ignoranza restano d’accettargli, e così fanno vedere ai circonstanti che se ne conoscono indegni. Dee ben l’uomo star sempre un poco più rimesso che non comporta il grado suo; non accettar così facilmente i favori ed onori che gli sono offerti, e rifiutarli modestamente; mostrando estimargli assai, con tal modo però, che dia occasione a chi gli offerisce d’offerirgli con molto maggior instanza; perchè quanto più resistenza con tal modo s’usa nello accettargli, tanto più pare a quel principe che gli concede d’esser estimato, e che la grazia che fa tanto sîa maggiore, quanto più colui che la riceve mostra apprezzarla e più di essa tenersi onorato. E questi son i veri e sodi favori, e che fanno l’uomo esser estimato da chi di fuor li vede; perchè, non essendo mendicati, ognun presume che nascano da vera virtù; e tanto più, quanto sono accompagnati dalla modestia. XX. Disse allor messer Cesare Gonzaga: Parmi che abbiate rubato questo passo allo Evangelio, dove dice11: Quando sei invitato a nozze, va, ed assettati nell’infimo loco, acciò che venendo colui che t’ha invitato, dica: Amico, ascendi più su; e così ti sarà onore alla presenza dei convitati. — Rise messer Federico, e disse: Troppo gran sacrilegio sarebbe rubare allo Evangelio; ma voi siete più dotto nella Sacra Scrittura ch’io non mi pensava; — poi soggiunse: Vedete come a gran pericolo si mettano talor quelli che temerariamente inanzi ad un signore entrano in ragionamento, senza che altri li ricerchi; e spesso quel signore, per far loro scorno, non risponde e volge il capo ad un’altra mano, e se pur risponde loro, ognun vede che lo fa con fastidio. Per aver adunque favor12 dai signori, non è miglior via che meritargli; nè bisogna che l’uomo si confidi, vedendo un altro che sia grato ad un principe per qualsivoglia cosa, di dover, per imitarlo, esso ancor medesimamente venire a quel grado: perchè ad ognun non si convien ogni cosa; e trovarassi talor un uomo, il qual da natura sarà tanto pronto alle facezie, che ciò che dirà porterà seco il riso, e parerà che sia nato solamente per quello: e sun altro che abbia maniera di gravità, avvenga che sia di buonissimo ingegno, vorrà mettersi a far il medesimo, sarà freddissimo e disgraziato, di sorte che farà stomaco a chi l’udirà; e riuscirà appunto quell’asino, che ad imitazion del cane volea scherzar col patrone. Però bisogna che ognun conosca sè stesso e le forze sue, ed a quello s’accommodi, e consideri quali cose ha da imitare e quali no.
XXI. Prima che più avanti passate, disse quivi Vincenzio calmeeta, s’io ho ben inteso, parmi che dianzi abbiate detto che la miglior via per conseguir favori sia il meritargli; e che più presto dee il Cortegiano aspettar che gli siano offerti, che prosuntuosamente ricercargli. Io dubito assai che questa regola sia poco al proposito, e parmi che la esperienza ci faccia molto ben chiari del contrario: perchè oggidì pochissimi sono favoriti da’ signori, eccetto i prosuntuosi; e so che voi potete esser buon testimonio d’alcuni, che, ritrovandosi in poca grazia dei lor principi, solamente con la prosunzione si son loro fatti grati; ma quelli che per modestia siano ascesi, io per me non conosco, ed a voi ancor do spazio di pensarvi, e credo che pochi ne trovarete. E se considerate la corte di Francia, la qual oggidì è una delle più nobili di cristianità, trovarete che tutti quelli che in essa hanno grazia universale, tengon del prosuntuoso; e non solamente l’uno con l’altro, ma col re medesimo. — Questo non dite già, rispose messer Federico; anzi in Francia sono modestissimi e cortesi gentiluomini: vero è che usano una certa libertà e domestichezza senza cerimonia, la qual ad essi è propria e naturale; e però non si dee chiamar prosunzione, perchè in quella sua così fatta maniera, benchè ridano, e piglino piacere dei prosuntuosi, pur apprezzano molto quelli che loro pajono aver in sè valore e modestia. — Rispose il Calmeta: Guardate i Spagnoli, i quali par che siano maestri della Cortegianì a, e considerate quanti ne trovate, che con donne e con signori non siano prosuntuosissimi;e tanto più de’ Franzesi, quanto che nel primo aspetto mostrano grandissima modestia: e veramente in ciò sono discreti, perchè, come ho detto, i signori de’ nostri tempi tutti favoriscono que’ soli che hanno tai costumi.
XXII. Rispose allor messer Federico: Non voglio già comportar, messer Vincenzio, che voi questa nota diate ai signori de’ nostri tempi; perchè pur ancor molti sono che amano la modestia, la quale io non dico però che sola basti per far l’uom grato: dico ben, che quando è congiunta con un gran valore, onora assai chi la possede; e se ella di sè stessa tace, l’opere laudevoli parlano largamente, e son molto più maravigliose che se fossero compagnate dalla prosunzione e temerità. Non voglio già negar che non si trovino molti Spagnoli prosuntuosi; dico ben, che quelli che sono assai estimati, per il più sono modestissimi. Ritrovansi poi ancor alcun’ altri tanto freddi, che fuggono il consorzio degli uomini troppo fuor di modo, e passano un certo grado di mediocrità, tal che si fanno estimare o troppo timidi o troppo superbi; e questi per niente non laudo, nè voglio che la modestia sia tanto asciutta ed arida, che diventi rusticità. Ma sia il Cortegiano, quando gli vien in proposito, facondo, e nei discorsi de’ stati prudente e savio, ed abbia tanto giudicio, che sappia accommodarsi ai costumi delle nazioni ove si ritrova; poi nelle cose più basse sia piacevole, e ragioni ben d’ogni cosa; ma sopra tutto tenda sempre al bene: non invidioso, non maldicente; nè mai s’induca a cercar grazia o favor per via viziosa, nè per mezzo di mala sorte. — Disse allora il Carmeta: Io v’assicuro che tutte l’altre vie son molto più dubiose e più lunghe che non è questa che voi biasimate; perchè oggidì, per replicarlo un’altra volta, i signori non amano se non que’ che son volti a tal cammino. — Non dite così, rispose allor messer Federico, perchè questo sarebbe troppo chiaro argomento, che i signori de’ nostri tempi fossero tutti viziosi e mali; il che non è, perchè pur se ne ritrovano alcuni buoni. Ma se ’l nostro Cortegiano per sorte sua si troverà esser a servizio d’un che sia vizioso e maligno, subito che lo conosca se ne levi, per non provar quello estremo affanno che sentono tutti i buoni che serveno ai mali.— Bisogna pregar Dio, rispose il Calmeta, che ce gli dia buoni, perchè quando s’hanno, è forza patirgli tali quali sono; perchè infiniti rispetti astringono chi è gentiluomo, poi che ha cominciato a servire ad un patrone, a non lasciarlo; ma la disgrazia consiste nel principio: e sono i Cortegiani in questo caso alla condizion di que’ malavventurati uccelli, che nascono in trista valle. — A me pare, disse messer Federico, che ’l debito debba valer più che tutti i rispetti; e pur che un gentiluomo non lasci il patrone quando fosse in su la guerra o in qualche avversità, di sorte che si potesse credere che ciò facesse per secondar la fortuna, o per parergli che gli mancasse quel mezzo del qual potesse trarre utilità, da ogni altro tempo credo che possa con ragion e debba levarsi da quella servitù, che tra i buoni sia per dargli vergogna; perchè ognun prosume che chi serve ai buoni sia buono, e chi serve ai mali sia malo.
XXIII. Vorrei, disse allor il signor Ludovico Pio, che voi mi chiariste un dubio ch’io ho nella mente; il qual’è, se un gentiluomo, mentre che serve ad un principe, è obligato ad ubedirgli in tutte le cose che gli comanda, ancor che fossero disoneste e vituperose. — In cose disoneste non siamo noi obligati ad ubedire a persona alcuna, — rispose messer Federico. E come, replicò il signor Ludovico, s’io starò al servizio d’un principe il qual mi tratti bene, e si confidi ch’io debba far per lui ciò che far si può, comandandomi ch’io vada ad ammazzare un uomo, o far qualsivoglia altra cosa, debbo io rifiutar di farla? — Voi dovete, rispose messer Federico, ubedire al signor vostro in tutte le cose che a lui sono utili ed onorevoli, non in quelle che gli sono di danno e di vergogna: però se esso vi comandasse che faceste un tradimento, non solamente non sete obligato a farlo, ma sete obligato a non farlo, e per voi stesso, e per non esser ministro della vergogna del signor vostro. Vero è che molte cose pajono al primo aspetto buone che sono male, e molte pajono male e pur son buone. Però è licito talor per servizio de’ suoi signori ammazzare non un uomo ma diece milia, e far molte altre cose, le quali, a chi non le considerasse come si dee, pareriano male, e pur non sono. — Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: Deh, per vostra fè, ragionate un poco sopra questo, ed insegnateci come si possan discerner le cose veramente buone dalle apparenti. — Perdonatemi, disse messer Federico; io non voglio entrar qua, chè troppo ci saria che dire, ma il tutto si rimetta alla discrezion vostra.
XXIV. Chiaritemi almen un altro dubio, — replicò il signor Gasparo. E che dubio? — disse messer Federico. Questo, rispose il signor Gasparo. Vorrei sapere, essendomi imposto da un mio signor terminatamente quello ch’io abbia a fare in una impresa o negozio di qualsivoglia sorte, s’io, ritrovandomi in fatto, e parendomi con l’operare più o meno o altrimenti di quello che m’è stato imposto, poter fare succedere la cosa più prosperamente o con più utilità di chi m’ha dato tal carico, debbo io governarmi secondo quella prima norma senza passar i termini del comandamento, o pur far quello che a me pare esser meglio? — Rispose allora messer Federico: Io, circa questo, vi darei la sentenza con lo esempio di Manlio Torquato, che in tal caso per troppo pietà uccise il figliolo, se lo estimassi13 degno di molta laude, che in vero non l’estimo; benchè ancor non oso biasimarlo, contra la opinion di tanti secoli: perchè senza dubio è assai pericolosa cosa desviare dai comandamenti de’ suoi maggiori, confidandosi più del giudicio di sè stessi che di quegli ai quali ragionevolmente s’ha da ubedire; perchè se per sorte il pensier vien fallito, e la cosa succeda male, incorre l’uomo nell’error della disubedienza, e ruina quello che ha da far senza via alcuna di escusazione o speranza di perdono; se ancor la cosa vien secondo il desiderio, bisogna laudarne la ventura, e contentarsene: pur con tal modo s’introduce una usanza d’estimar poco i comandamenti de’ superiori; e per esempio di quello a cui sarà successo bene, il quale forse sarà prudente ed arà discorso con ragione, ed ancor sarà stato ajutato dalla fortuna, vorranno poi mille altri ignoranti e leggieri pigliar sicurtà nelle cose importantissime di far al lor modo, e, per mostrar d’esser savii ed aver autorità, desviar dai comandamenti de’ signori: il che è malissima cosa, e spesso causa d’infiniti errori. Ma io estimo che in tal caso debba quello a cui tocca considerar maturamente, e quasi porre in bilancia il bene e la commodità che gli è per venire del fare contra: il comandamento, ponendo chel disegno suo gli succeda secondo la speranza; dall’altra bandà, contrapesare il male e la incommodità che glie ne nasce se per sorte, contrafacendo al comandamento, la cosa gli vien mal fatta; e conoscendo che ’l danno possa esser maggiore e di più importanza succedendo il male, che la utilità succedendo il bene, dee astenersene, e servar apuntino quello che imposto gli è; e per contrario, se la utilità è per esser di più importanza succedendo il bene, che ’l danno succedendo il male, credo che possa ragionevolmente mettersi a far quello che più la ragione e ’l giudicio suo gli detta, e lasciar un poco da canto quella propria forma del comandamento; per fare come i buoni mercatanti, li quali per guadagnare l’assai avventurano il poco, ma non l’assai per guadagnar il poco. Laudo ben che sopra tutto abbia rispetto alla natura di quel signore a cui serve, e secondo quella si governi; perchè se fosse così austera, come di molti che se ne trovano, io non lo consigliarei mai, se amico mio fosse, che mutasse in parte alcuna l’ordine datogli: acciò che non gl’intravenisse quel che si iscrive esser intervenuto ad un maestro ingegnero d’Ateniesi, al quale, essendo Publio Crasso Muziano in Asia, e volendo combattere una terra, mandò a domandare un de’ dui alberi da nave che esso in Atene avea veduto, per far uno ariete da battere il muro, e disse voler il maggiore. L’ingegnero, come quello che era intendentissimo, conobbe quel maggiore esser poco a proposito per tal effetto; e per esser il minore più facile a portare, ed ancor più conveniente a far quella machina, mandollo a Muziano. Esso, intendendo come la cosa era ita, fecesi venir quel povero ingegnero, e domandatogli, perchè non l’avea ubedito, non volendo ammettere ragion alcuna che gli dicesse, lo fece spogliar nudo, e battere e frustare con verghe tanto che si morì, parendogli che in loco d’ubedirlo avesse voluto consigliarlo: sì che con questi così severi uomini bisogna usar molto rispetto.
XXV. Ma, lasciamo da canto omai questa pratica de’ signori, e vengasi alla conversazione coi pari o poco diseguali;. chè ancor a questa bisogna attendere, per esser universalmente più frequentata, e trovarsi l’uomo più spesso in questa che in quella de’ signori. Benchè son alcuni sciocchi, che se fossero in compagnia del maggior amico che abbiano al mondo, incontrandosi con un meglio vestito, subito a quel s’attaccano; se poi gli ne occorre un altro meglio, fanno pur il medesimo. E quando poi il principe passa per le piazze, chiese o altri lochi publici, a forza di cubiti si fanno far strada a tutti, tanto che se gli mettono al costato; e se ben non hanno che dirgli, pur lor voglion parlare, e tengono lunga la diceria, e rideno, e batteno le mani e ’l capo, per mostrar ben aver faccende d’importanza, acciò che ’l popolo gli vegga in favore. Ma poi che questi tali non si degnano di parlare se non coi signori, io non voglio che noi degnamo parlar d’essi.
XXVI. Allora il Magnifico Juliano, Vorrei, disse, messer Federico, poichè avete fatto menzion di questi che s’accompagnano così volontieri coi ben vestiti, che ci mostraste di qual maniera si debba vestire il Cortegiano, e che abito più se gli convenga, e circa tutto l’ornamento del corpo, in che modo debba governarsi; perchè in questo veggiamo infinite varietà: e chi si veste alla franzese, chi alla spagnola, chi vuol parer Tedesco; nè ci mancano ancor di quelli che si vestono alla foggia de’ Turchi; chi porta la barba, chi no. Saria adunque ben fatto, saper in questa confusione eleggere il meglio. — Disse messer Federico: Io in vero non saprei dar regola determinata circa il vestire, se non che l’uom s’accomodasse alla consuetudine dei più; e poichè, come voi dite, questa consuetudine è tanto varia, e che gl’Italiani tanto son vaghi d’abigliarsi alle altrui fogge, credo che ad ognuno sia licito vestirsi a modo suo. Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per italiano; che benchè lo aver posto in usanza questi nuovi faccia parer quelli primi goffissimi, pur quelli forse erano segno di libertà, come questi son stati augurio di servitù; il qual ormai parmi assai chiaramente adempiuto. E come si scrive, che, avendo Dario, l’anno prima che combattesse con Alessandro, fatto acconciar la spada che eglì portava a canto, la quale era persiana, alla foggia di Macedonia, fu interpretato dagl’indovini che questo significava, che coloro, nella foggia de’ quali Dario aveva tramutato la forma della spada persiana, verriano a dominar la Persia; così l’aver noi mutati gli abiti italiani negli stranieri parmi che significasse, tutti quegli, negli abiti de’ quali i nostri erano trasformati, dover venire a subjugarci; il che è stato troppo più che vero, chè ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda: tanto che poco più resta che predare, e pur ancor di predar non si resta.
XXVII. Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio: però ben sarà dir degli abiti del nostro Cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano fuor della consuetudine, nè contrarii alla professione, possano per lo resto tutti star bene, purchè satisfacciano a chi gli porta. Vero è ch’io per me amerei che non fossero estremi in alcuna parte, come talor suol essere il franzese in troppo grandezza, e il tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l’uno e l’altro corretti e ridotti in miglior forma dagl’Italiani. Piacemi ancor sempre, che tendano un poco più al grave e riposato, che al vano: però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almen tenda al scuro: e questo intendo del vestir ordinario, perchè non è dubio che sopra l’arme più si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi. Medesimamente nei spettacoli publici di feste, di giochi, di mascare, e di tai cose; perchè così divisati portan seco una certa vivezza ed alacrità, che in vero ben s’accompagna con l’armi e giochi: ma nel resto, vorrei che mostrassino quel riposo che molto serva la nazion spagnola, perchè le cose estrinseche spesso fan testimonio delle intrinseche. — Allor disse messer Cesare Gonzaga: Questo a me daria poca noja, perchè, se un gentiluom nelle altre cose vale, il vestire non gli accresce nè scema mai reputazione. — Rispose messer Federico: Voi dite il vero. Pur qual è di noi che, vedendo passeggiar un gentiluomo con una roba adosso quartata di diversi colori, ovvero con tante stringhette e fettuzze annodate e fregi traversali, non lo tenesse per pazzo o per buffone?— Nè pazzo, disse messer Pietro Bembo, nè buffone sarebbe costui tenuto da chi fosse qualche tempo vivuto nella Lombardia, perchè così vanno tutti. — Adunque, rispose la signora Duchessa ridendo, se così vanno tutti, opporre non se gli dee per vizio, essendo a loro questo abito tanto conveniente e proprio, quanto ai Veneziani il portar le maniche a corneo, ed a’ Fiorentini il cappuzzo. — Non parlo io, disse messer Federico, più della Lombardia che degli altri lochi, perchè d’ogni nazion se ne trovano e di sciocchi e d’avveduti. Ma per dir ciò che mi par d’importanza nel vestire, voglio che ’l nostro Cortegiano14 in tutto l’abito sia pulito e delicato, ed abbia una certa conformità di modesta andatura, ma non però di maniera feminile o vana, nè più in una cosa che nell’altra, come molti ne vedemo, che pongon tanto studio nella capigliara, che si scordano il resto; altri fan professione di denti15, altri di barba, altri di borzacchini, altri di berrette, altri di cuffie; e così intervien che quelle poche cose più colte pajono lor prestate, e tutte l’altre che sono sciocchissime si conoscono per le loro. E questo tal costume voglio che fugga il nostro Cortegiano, per mio consiglio; aggiugnendovi ancor, che debba fra sè stesso deliberar ciò che vuol parere, e di quella sorte che desidera esser estimato, della medesima vestirsi, e far che gli abili Io ajutino ad esser tenuto per tale ancor da quelli che non l’odono parlare, nè veggono far operazione alcuna.
XXVIII. A me non pare, disse allor il signor Gaspar Pallavicino, che si convenga, nè ancorché s’usi tra persone di valore, giudicar la condizion degli uomini agli abiti, e non alle parole ed alle opere, perchè molti s’ingannariano; nè senza causa dicesi quel proverbio, che l’abito non fa il monaco. — Non dico io, rispose messer Federico, che per questo solo s’abbiano a far i giudicii resoluti delle condizion degli uomini, nè che più non si conoscano per le parole e per l’opere che per gli abiti: dico ben, che ancor l’abito non è piccolo argomento della fantasia di chi lo porta, avvenga che talor possa esser falso; e non solamente questo, ma tutti i modi e costumi, oltre all’opere e parole, sono giudicio delle qualità di colui in cui si veggono. — E che cose trovate voi, rispose il signor Gasparo, sopre le quali noi possiam far giudicio, che non siano nè parole nè opere? — Disse allor messer Federico: Voi siete troppo sottile loico. Ma per dirvi come io intendo, si trovano alcune operazioni, che, poichè son fatte, restano ancora, come l’edificare, scrivere ed altre simili; altre non restano, come quelle di che io voglio ora intendere: però non chiamo in questo proposito che ’l passeggiare, ridere, guardare, e tai cose, siano operazioni; e pur tutto questo di fuori dà notizia spesso di quel dentro. Ditemi, non faceste voi giudicio che fosse un vano e leggier uomo quello amico nostro, del quale ragionammo pur questa mattina, subito che lo vedeste passeggiar con quel torzer di capo, dimenandosi tutto, ed invitando con aspetto benigno la brigata a cavarsegli la beretta? Così ancora quando vedete uno che guarda troppo intento con gli occhi stupidi a foggia d’insensato, o che rida così scioccamente come que’ mutoli gozzuti delle montagne di Bergamo16, avvenga che non parli o a non lo tenete voi per un gran babuasso? Vedete adunque che questi modi e costumi, che io non intendo per ora che siano operazioni; fanno in gran parte che gli uomini sian conosciuti.
XXIX. Ma un’altra cosa parmi che dia e lievi molto la riputazione, e questa è la elezion degli amici coi quali si ha da tenere intrinseca pratica; perchè indubitatamente la ragion vuol, che di quelli che sono con stretta amicizia ed dissolubil compagnia congiunti; siano ancor le volontà, gli animi, i giudicii e gl’ingegni conformi. Così chi conversa con ignoranti o mali, è tenuto per ignorante o malo; e per contrario chi conversa con buoni e savii e discreti, è tenuto per tale: chè da natura par che ogni cosa volentieri si congiunga col suo simile. Però gran riguardo credo che si convenga aver nel cominciar queste amicizie, perchè di dui stretti amici chi conosce l’uno, subito imagina l’altro esser della medesima condizione. — Rispose allor messer Pietro Bembo: Del ristringersi in amicizia così unanime, come voi dite, parmi veramente che si debba aver assai riguardo, non solamente per l’acquistar o perdere la riputazione, ma perchè oggidì pochissimi veri amici si trovano, nè credo che più siano al mondo quei Piladi ed Oresti, Tesei e Piritoi, nè Scipioni e Lelii; anzi non so per qual destin interviene ogni dì, che dui amici, quali saranno vivuti in cordialissimo amore molt’anni, pur al fine l’un l’altro in qualche modo s’ingannano, o per malignità, o per invidia, o per leggerezza; o per qualche altra mala causa; e ciascun dà la colpa al compagno: di quello, che forse l’uno e l’altro la merita. Però essendo a me intervenuto più d’una volta l’esser ingannato da chi più amava, e da chi sopra ogni altra persona aveva confidenza d’esser amato, ho pensato talor da me a me, che sia ben non fidarsi mai di persona del mondo, nè darsi così in preda ad amico, per caro ed amato che sia, che senza riservo l’uomo gli communichi tutti i suoi pensieri come farebbe a sè stesso; perchè negli animi nostri sono tante latebre e tanti recessi, che impossibil è che prudenza umana possa conoscer quelle simulazioni, che dentro nascose vi sono. Credo adunque che ben sia, amare e servire l’un più che l’altro, secondo i meriti e ’l valore; ma non però assicurarsi tanto con questa dolce esca d’amicizia, che poi tardi se n’abbiamo a pentire.
XXX. Allor messer Federico, Veramente, disse, molto maggior saria la perdita che ’l guadagno, se del consorzio umano si levasse quel supremo grado d’amicizia, che, secondo me, ci dà quanto di bene ha in sè la vita nostra; e però io per alcun modo non voglio consentirvi che razionevol sia, anzi mi daria il core di concludervi, e con ragioni evidentissime, che senza questa perfetta amicizia gli uomini sariano molto più infelici che tutti gli altri animali; e se alcuni guastano, come profani, questo santo nome d’amicizia, non è però da estirparla così degli animi nostri, e per colpa dei mali privar i buoni di tanta felicità; ed io per me estimo, che qui tra noi sia più di un par di amici, l’amor dei quali sia indissolubile e senza inganno alcuno, e per durar fin alla morte con le voglie conformi, non meno che se fossero quegli antichi che voi dianzi avete nominati; e così interviene quando, oltre alla inclinazion che nasce dalle stelle, l’uomo s’elegge amico a sè simile di costumi: e ’l tutto intendo che sia tra buoni e virtuosi, perchè l’amicizia de’ mali non è amicizia. Laudo ben che questo nodo così stretto non comprenda o leghi più che dui, che altramente forse saria pericoloso; perchè, come sapete, più difficilmente s’accordano tre instrumenti di musica insieme, che dui. Vorrei adunque che ’l nostro Cortegiano avesse un precipuo e cordial amico, se possibil fosse, di quella sorte che detto avemo; poi, secondo ’l valore e meriti, amasse, onorasse ed osservasse tutti gli altri, e sempre procurasse d’intertenersi più con gli estimati e nobili e conosciuti per buoni, che con gl’ignobili edi poco pregio; di maniera che esso ancor da loro fosse amato ed onorato: e questo gli verrà fatto se sarà cortese, umano, liberale, affabile e dolce in compagnia; officioso e diligente nel servire e nell’aver cura dell’utile ed onor degli amici così assenti come presenti, sopportando i lor difetti naturali e sopportabili, senza rompersi con essi per piccol causa, e correggendo in sè stesso quelli che amorevolmente gli saranno ricordati; non si anteponendo mai agli altri con cercar i primi e i più onorati lochi; nè con fare come alcuni, che par che sprezzino il mondo, e vogliano con una certa austerità molesta dar legge ad ognuno; ed oltre allo essere contenziosi in ogni minima cosa e fuor di tempo, riprender ciò che essi non fanno, e sempre cercar causa di lamentarsi degli amici: il che è cosa odiosissima.
XXXI. Quivi essendosi fermato di parlare messer Federico, Vorrei, disse il signor Gasparo Pallavicino, che voi ragionaste17 un poco più minutamente dî questo conversar con gli amici, che non fate; chè in vero vi tenete molto al generale, e quasi ci mostrate le cose per transito. — Come per transito? rispose messer Federico. Vorreste voi forse che io vi dicessi ancor le parole proprie che sì avessero ad usare? Non vi par adunque che abbiamo ragionato a bastanza di questo? — A bastanza parmi, rispose il signor Gasparo. Pur desidero io d’intendere qualche particolarità ancor della foggia dell’intertenersi con uomini e con donne: la qual cosa a me par di molta importanza, considerato che ’l più del tempo in ciò si dispensa nelle corti; e se questa fosse sempre uniforme, presto verria a fastidio. — A me pare, rispose messer Federico, che noi abbiam dato al Cortegiano cognizion di tante cose, che molto ben può variar la conversazione, ed accommodarsi alle qualità delle persone con le quai ha da conversare, presupponendo che egli sia di buon giudicio, e con quello si governi, e secondo i tempi talor intenda nelle cose gravi, talor nelle feste e giochi. — E che giochi? disse il signor Gasparo. Rispose allor messer Federico ridendo: Dimandiamone consiglio a fra Serafino, che ogni dì ne trova de’ nuovi. — Senza motteggiare, replicò il signor Gasparo, parvi che sia vizio nel Cortegiano il giocare alle carte ed ai dadi? — A me no, disse messer Federico, eccetto a cui nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l’altre cose dì maggior importanza, o veramente non peraltro che per vincer danari, ed ingannasse il compagno, e perdendo mostrasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argomento d’avarizia. — Rispose il signor Gasparo: E che dite del gioco de’scacchi?— Quello certo è gentile intertenimento ed ingegnoso, disse messer Federico, ma parmi che un sol difetto vi si trovi; e questo è, che si può saperne troppo, di modo che a cui vuol esser eccellente nel gioco de’scacchi credo bisogni consumarvi molto tempo, e mettervi tanto studio, quanto se volesse imparar qualche nobil scienza; o far qualsivoglia altra cosa ben d’importanza; e pur in ultimo con tanta fatica non sa altro che un gioco: però in questo penso che intervenga una cosa rarissima, cioè che la mediocrità sia più laudevole che la eccellenza. — Rispose il signor Gasparo: Molti Spagnoli trovansi eccellenti in questo ed in molti altri giochi, i quali però non vi mettono molto studio, nè ancor lascian di far l’altre cose. — Credete, rispose messer Federico, che gran studio vi mettano, benchè dissimulatamente, Ma quegli altri giochi che voi dite, oltre agli scacchi; forse sono come molti ch’io ne ho veduti far pur di poco momento, i quali non serveno se non a far maravigliare il valgo; però a me non pare che meritino altra laude nè altro premio, che quello che diede Alessandro Magno a colui, che, stando assai lontano, così ben infilzava i ceci in un ago18.
XXXII. Ma perchè par che la fortuna, come in altre cose, così ancor abbia grandissima forza nelle opinioni degli uomini, vedesi talor che un gentiluomo, per ben condizionato che egli sia e dotato di molte grazie, sarà poco grato ad un signore, e, come si dice, non gli arà sangue; e questo senza causa alcuna che si possa comprendere: però giungendo alla presenza di quello, e non essendo dagli altri per prima conosciuto, benchè sia arguto e pronto nelle risposte, e si mostri bene nei gesti, nelle maniere, nelle parole, ed în ciò che si conviene, quel signore poco mostrarà d’estimarlo, anzi più presto gli farà qualche scorno; e da questo nascerà che gli altri subito s’accommodaranno alla volontà del signore, e ad ognun parerà che quel tale non vaglia, nè sarà persona . che l’apprezzi o stimi, o rida de’ suoi detti piacevoli, o ne tenga conto alcuno; anzi cominciaranno tutti a burlarlo, e dargli la caccia; nè a quel meschino basteran buone risposte, nè pigliar le cose come dette per gioco, chè insino a’ paggi se gli metteranno19 attorno, di sorte che, se fosse il più valoroso uomo del mondo, sarà forza che resti impedito e burlato. E per contrario, se ’l principe si mostrarà inclinato ad un ignorantissimo, che non sappia nè dir nè fare, saranno spesso i costumi ed i modi di quello, per sciocchi ed inetti che siano, laudati con le esclamazioni e stupore da ognuno, e parerà che tutta la corte lo ammiri ed osservi, e ch’ognun rida de’ suoi motti, e di certe arguzie contadinesche e fredde, che più presto dovrian mover vomito che riso: tanto son fermi ed ostinati gli uomini nelle opinioni che nascono da’ favori e disfavori de’ signori. Però voglio che ’l nostro Cortegiano, il meglio che può, oltre al valore, s’ajuti ancor con ingegno ed arte; e sempre che ha d’andare in loco dove sia nuovo e non conosciuto, procuri che prima vi vada la buona opinion di sè che la persona, e faccia che ivi s’intenda che esso in altri lochi, appresso altri signori, donne e cavalieri, sia ben estimato; perchè quella fama che par che nasca da molti giudici genera una certa ferma credenza di valore, che poi, trovando gli animi così disposti e preparati, facilmente con l’opere si mantiene ed accresce: oltra che si fugge quel fastidio ch’io sento quando mi viene domandato chi sono, e quale è il nome mio.
XXXI. Io non so come questo giovi; rispose messer Bernardo Bibiena; perchè a me più volte è intervenuto; e, credo, a molt’altri, che avendomi formato nell’animo, per detto di persone di giudicio, una cosa esser di molta eccellenza, prima che veduta l’abbia, vedendola poi assai mi è mancata, e di gran lunga restato son ingannato di quello ch’io estimava; e ciò d’altro non è proceduto che dall’aver troppo creduto alla fama, ed aver fatto nell’animo mio un tanto gran concetto, che, misurandolo poi col vero, l’effetto, avvenga che sia stato grande ed eccellente, alla comparazion di quello che imaginato aveva m’è parso piccolissimo. Così dubito ancor che possa intervenir del Cortegiano. Però non so come sia bene dar queste aspettazioni, e mandar inanzi quella fama; perchè gli animi nostri spesso formano cose alle quali impossibil è poi corrispondere, e così più se ne perde che non si guadagna. — Quivi disse messer Federico: Le cose che a voi, ed a molt’altri riescono minori assai che la fama, son per il più di sorte, che l’occhio al primo aspetto le può giudicare; come se voi non sarete mai stato a Napoli o a Roma, sentendone ragionar tanto imaginarete più assai di quello che forse poi alla vista vi riuscirà; ma delle condizioni degli uomini non intervien così, perchè quello che si vede di fuori è il meno. Però se ’l primo giorno, sentendo ragionare un gentiluomo, non comprenderete che in lui sia quel valore che avevate prima imaginato, non così presto vi spogliarete della buona opinione come in quelle cose delle quali l’occhio subito è giudice, ma aspettarete di dì in dì scoprir qualche altra nascosta virtù, tenendo pur ferma sempre quella impressione che v’è nata dalle parole di tanti; ed essendo poi questo (come io presuppongo che sia il nostro Cortegiano) così ben qualificato, ogn’ora meglio vi confermarà a creder a quella fama, perchè con l’opere ve ne darà causa, e voi sempre estimarete qualche cosa più di quello che vederete.
XXXIV. E certo non si può negar che queste prime impressioni non abbiano grandissima forza, e che molta cura aver non vi si debba; ed acciò che comprendiate quanto importino, dicovi che io, ho a’ miei dì conosciuto un gentiluomo, il quale, avvenga che fosse di assai gentil aspetto e di modesti costumi, ed ancor valesse nell’arme, non era però in alcuna di queste condizioni tanto eccellente, che non se gli trovassino molti pari, ed ancor superiori: pur, come la sorte sua volse, intervenne che una donna si voltò ad amarlo ferventissimamente, e crescendo ogni dì questo amore per la dimostrazion di correspondenza che faceva il giovane, e non vi essendo modo alcun da potersi parlare insieme, spinta la donna da troppo passione scoperse il suo desiderio ad un’altra donna, per mezzo della quale sperava qualche commoditả. Questa nè di nobilità nè di bellezza non era punto inferior alla prima; onde intervenne che sentendo ragionare così affettuosamente di questo giovane, il qual essa mai non aveva veduto, e conoscendo che quella donna, la quale ella sapeva ch’era discretissima e d’ottimo giudicio, l’amava estremamente, subito imaginò che costui fosse il più bello e ’l piủ savio e ’l più discreto ed in somma il più degno uomo da esser amato, che al mondo si trovasse; e cosi, senza vederlo, tanto fieramente se ne innamorò, che non per l’amica sua ma per sė stessa cominciò a far ogni opera per acquistarlo, e farlo a sè corrispondente in amore: il che con poca fatica le venne fatto, perchè in vero era donna più presto da esser pregata, che da pregare altrui. Or udite bel caso. Non molto tempo appresso occorse che una lettera, la qual scrivea questa ultima donna allo amante, pervenne in mano d’un’altra pur nobilissima, e di costumi e di bellezza rarissima, la qual essendo, come è il più delle donne, curiosa e cupida di saper secreti, e massimamente d’altre donne, aperse questa lettera, e leggendola, comprese ch’era scritta con estremo affetto d’amore; e le parole dolci e piene di foco che ella lesse, prima la mossero a compassion di quella donna, perchè molto ben sapea da chi veniva la lettera ed a cui andava; poi tanta forza ebbero, che rivolgendole nell’animo, e considerando di che sorte doveva esser colui che avea potuto indur quella donna a tanto amore, subito essa ancor se ne innamoró; e fece quella lettera forse maggior effetto, che non averia fatto se dal giovane a lei fosse stata mandata. E come talor interviene, che ’l veneno in qualche vivanda preparato per un signore ammazza il primo che ’l gusta, così questa meschina, per esser troppo ingorda, bevvè quel veneno amoroso che per altrui era preparato. Che vi debbo io dire? la cosa fu assai palese, ed ando di modo, che molte donne, oltre a queste, parte per far dispetto all’altre, parte per far come l’altre, posero ogni industria e studio per goder dell’amore di costui, e ne fecero per un tempo alla grappa, come i fanciulli delle cerase: e tutto procedette dalla prima opinione che prese quella donna, vedendolo tanto amato da un’altra20.
XXXV. Or quivi ridendo rispose il signor Gasparo Pallavicino: Voi per confermare il parer vostro con ragione, m’allegate opere di donne, le quali per lo più son fuori d’ogni ragione; e se voi voleste dir ogni cosa, questo così favorito da tante donne dovea essere un nescio e da poco uomo in effetto; perchè usanza loro è sempre attaccarsi ai peggiori, e, come le pecore, far quello che veggon far alla prima, o bene o male che si sia: oltra che son tanto invidiose tra sè, che se costui fosse stato un mostro, pur averian voluto rubarselo l’una all’altra. — Quivi molti cominciarono, e quasi tutti a voler contradire al signor Gasparo; ma la signora Duchessa impose silenzio a tutti; poi, pur ridendo, disse: Se ’l mal che voi dite delle donne non fosse tanto alieno dalla verità, che nel dirlo piuttosto desse carico e vergogna a chi lo dice che ad esse, io lasciarei che vi fosse risposto; ma non voglio che col contradirvi con tante ragioni come si poria, siate rimosso da questo mal costume, acciò che del peccato vostro abbiate gravissima pena; la qual sarà la mala opinion che di voi pigliaran tutti quelli, che di tal modo vi sentiranno ragionare, Allor messer Federico, Non dite, signor Gasparo, rispose, che le donne siano così fuor di ragione, se ben talor si moveno ad amar più per l’altrui giudicio che per lo loro; perchè i signori e molti savii uomini spesso fanno il medesimo; e, se licito è dir il vero, voi stesso e noi altri tutti molte volte, ed ora ancor, credemo più all’altrui opinione che alla nostra propria. E che sia ’l vero, non è ancor molto tempo, che essendo appresentati qui alcuni versi sotto ’l nome del Sannazaro, a tutti parvero molto eccellenti, e furono laudati con le maraviglie ed esclamazioni; poi, sapendosi per certo che erano di un altro, persero subito la reputazione, e parvero men che mediocri. E cantandosi pur in presenza della signora Duchessa un mottetto, non piacque mai nè fu estimato per buono, fin che non si seppe che quella era composizion di Josquin de Pris21. Ma che più chiaro segno volete voi della forza della opinione? Non vi ricordate che, bevendo voi stesso d’un medesimo vino, dicevate talor che era perfettissimo, talor insipidissimo? e questo, perchè a voi era persuaso che eran dui vini, l’un di Riviera di Genoa e l’altro di questo paese; e poi ancor che fu scoperto l’errore, per modo alcuno non volevate crederlo: tanto fermamente era confermata nell’animo vostro quella falsa opinione, la qual però dalle altrui parole nasceva.
XXXVI. Deve adunque il Cortegiano por molta cura nei principii, di dar buona impression di sè, e considerar come dannosa e mortal cosa sia lo incorrer nel contrario: ed a tal pericolo stanno più che gli altri quei che voglion far profession d’esser molto piacevoli, ed aversi con queste sue piacevolezze acquistato una certa libertà, per la qual lor convenga e sia licilo e fare e dire ciò che loro occorre così senza pensarvi. Però spesso questi tali entrano in certe cose, delle quai non sapendo uscire, voglion poi ajutarsi col far ridere; e quello ancor fanno così disgraziatamente che non riesce: tanto che inducono in grandissimo fastidio chi gli vede ed ode, ed essi restano freddissimi. Alcuna volta, pensando per quello esser arguti e faceti, in presenza d’onorate donne, e spesso a quelle medesime, si mettono a dir sporchissime e disoneste parole; e quanto più le veggono arrossire, tanto più si tengon buon Cortegiani, e tuttavia ridono, e godono tra sè di così bella virtù, come lor par avere. Ma per niuna altra causa fanno tante pecoragini, che per esser estimati buon compagni: questo è quel nome solo che lor pare degno di laude, e del quale più che di niun altro essi si vantano; e per acquistarlo si dicon le più scorrette e vituperose villanie del mondo, Spesso s’urtano giù per le scale, si dan de’ legni e de’ mattoni l’un l’altro nelle reni, mettonsi pugni di polvere negli occhi, fannosi ruinar i cavalli adosso ne’ fossi o giù di qualche poggio; a tavola poi, minestre, sapori, gelatine; tutte si danno nel volto: e poi ridono; e chi di queste cose sa far più, quello per meglior Cortegiano e più galante da sè stesso s’apprezza, e pargli aver guadagnato gran gloria; e se talor invitano a cotai sue piacevolezze un gentiluomo, e che egli non voglia usar questi scherzi selvatichi, subito dicono ch’egli si tien troppo savio e gran maestro, e che non è buon compagno. Ma io vi vo’ dir22 peggio. Sono alcuni che contrastano e mettono il prezzo a chi può mangiare e bere più stomacose e fetide cose; e trovanle tanto aborrenti dai sensi umani, che impossibil è ricordarle senza grandissimo fastidio.
XXXVII. E che cose possono esser queste? — disse il signor Lupovico Pio. Rispose messer Federico: Fatevele dire al marchese Febus, che spesso l’ha vedute in Francia, e forse gli è intervenuto. — Rispose il marchese Febus: Io non ho veduto far cosa in Francia di queste, che non si faccia ancor in Italia; ma ben ciò che hanno di buon gl’Italiani nei vestimenti, nel festeggiare, banchettare, armeggiare, ed in ogni altra cosa che a Cortegian si convenga, tutto l’hanno dai Franzesi. — Non dico io, rispose messer Federico, che ancor tra Franzesi non si trovino dei gentilissimi e modesti cavalieri; ed io per me n’ho conosciuti molti veramente degni d’ogni laude; ma pur alcuni se ne trovan poco riguardati; e, parlando generalmente, a me par che con gli Italiani più si confaccian nei costumi i Spagnoli che i Franzesi, perchè quella gravità riposata peculiar dei Spagnoli mi par molto più conveniente a noi altri, che la pronla vivacità, la qual nella nazion franzese quasi in ogni movimento si conosce; il che in essi non disdice, anzi ha grazia, perchè loro è così naturale e propria, che non si vede in loro affettazione alcuna. Trovansi ben molti Italiani che vorriano pur sforzarsi d’imitare quella maniera; e non sanno far altro che crollar la testa parlando, e far riverenze in traverso di mala grazia, e quando passeggian per la terra camminar tanto forte, che i staffieri non possano lor tener drieto: e con questi modi par loro esser buon Franzesi, ed aver di quella libertà; la qual cosa in vero rare volte riesce, eccetto a quelli che son nutriti in Francia e da fanciulli hanno presa quella maniera. Il medesimo intervien del saper diverse lingue; il che io laudo molto nel Cortegiano, e massimamente la spagnola e la franzese: perchè il commercio dell’una e dell’altra nazione è molto frequente in Italia, e con noi sono queste due più conformi che alcuna dell’altre; e que’ dui principi, per esser potentissimi nella guerra e splendidissimi nella pace, sempre hanno la corte piena di nobili cavalieri, che per tutto ’l mondo si spargono; ed a noi pur bisogna conversar con loro.
XXXVIII. Or io non voglio seguitar più minutamente in dir cose troppo note, come che ’l nostro Cortegian non debba far profession d’esser gran mangiatore, nè bevitore, nè dissoluto in alcun mal costume, nè laido e mal assettato nel vivere, con certi modi da contadino, che chiamano la zappa e l’aratro mille miglia di lontano; perchè chi è di tal sorte, non solamente non s’ha da sperar che divenga buon Cortegiano, ma non se gli può dar esercizio conveniente, altro che di pascer le pecore. E, per concluder, dico, che buon saria che ’l Cortegian sapesse perfettamente ciò che detto avemo convenirsigli, di sorte che tutto ’l possibile a lui fosse facile, ed ognuno di lui si maravigliasse, esso di niuno; intendendo però che in questo non fosse una certa durezza superba ed inumana, come hanno alcuni, che mostrano non maravigliarsi delle cose che fanno gli altri, perchè essi presumon poterle far molto meglio, e col tacere le disprezzano, come indegne che di lor si parli; e quasi voglion far segno che niuno altro sia non che lor pari, ma pur capace d’intendere la profondità del saper loro. Però deve il Cortegian fuggir questi modi odiosi, e con umanità e benivolenza laudar ancor le buone opere degli altri; e benchè esso si senta ammirabile, e di gran lunga superior a tutti, mostrar però di non estimarsi per tale. Ma perchè nella natura umana rarissime volte e forse mai non si trovano queste così compite perfezioni, non dee l’uomo che si sente in qualche parte manco diffidarsi però di sè stesso, nè perder la speranza di giungere a buon grado, avvenga che non possa conseguir quella perfetta e suprema eccellenza dove egli aspira; perchè in ogni arte son molti lochi, oltr’al primo, laudevoli; e chi tende alla sommità, rare volte interviene che non passi il mezzo. Voglio adunque che ’l nostro Cortegiano, se in qualche cosa, oltr’all’arme, si trovarà eccellente, se ne vaglia e se ne onori di buon modo; e sia tanto discreto e di buon giudicio, che sappia tirar con destrezza e proposito le persone a vedere ed udir quello, in che a lui par d’essere eccellente, mostrando sempre farlo non per ostentazione, ma a caso; e pregato d’altrui più presto che di volontà sua; ed in ogni cosa che egli abbia da far o dire, se possibil è, sempre venga premeditato e preparato, mostrando però il tutto esser all’improviso. Ma le cose nelle quai si sente mediocre, tocchi per transito, senza fondarsici molto, ma di modo, che si possa credere che più assai ne sappia di ciò ch’egli mostra: come talor alcuni poeti che accennavano cose sottilissime di filosofia o d’altre scienze, e per avventura n’intendevan poco. Di quello poi di che si conosce totalmente ignorante non voglio che mai faccia professione alcuna, nè cerchi d’acquistarne fama; anzi, dove occorre, chiaramente confessi di non saperne.
XXXIX. Questo, disse il Calmeta, non arebbe fatto Nicoletto, il quale essendo eccellentissimo filosofo, nè sapendo più leggi che volare, benchè un Podestà di Padoa avesse deliberato dargli di quelle una lettura, non volse mai, a persuasion di molti scolari, desingannar quel Podestà e confessargli di non saperne, sempre dicendo, non si accordar in questo con la opinione di Socrate, nè esser cosa da filosofo il dir mai di non sapere. — Non dico io, rispose messer Federico, che ’l Cortegian da sè stesso, senza che altri lo ricerchi, vada a dir di non sapere; chè a me ancor non piace questa sciocchezza d’accusar o disfavorir sè medesimo: e però talor mi rido di certi uomini, che ancor senza necessità narrano volentieri alcune cose, le quali, benchè forse siano intervenute senza colpa loro, portan però seco un’ombra d’infamia; come faceva un cavalier che tutti conoscete, il qual sempre che udiva far menzion del fatto d’arme che si fece in Parmegiana contra ’l re Carlo, subito cominciava a dir in che modo egli era fuggito, nè parea che di quella giornata altro avesse veduto o inteso; parlandosi poi d’una certa giostra famosa, contava pur sempre come egli era caduto; e spesso ancor parea che nei ragionamenti andasse cercando di far venire a proposito il poter narrar che una notte, andando a: parlar ad una donna, avea ricevuto di molte bastonate. Queste sciocchezze non voglio io che dica il nostro Cortegiano, ma parmi ben che offerendoseli occasion di mostrarsi che non sappia punto, debba fuggirla; e se pur la necessità lo stringe, confessar chiaramente di non saperne, piú presto che mettersi a quel rischio; e cosí fuggirà un biasimo che oggidí meritano molti i quali, non so per qual loro perverso instinto o giudicio fuor di ragione, sempre si mettono23 far quel che non sanno e lascian quel che sanno. E per confirmazion di questo, io conosco uno eccellentissimo musico, il qual, lasciata la musica, s’è dato totalmente a compor versi e credesi in quello esser grandissimo omo, e fa ridere ognun di sé e omai ha perduta ancor la musica. Un altro de’ primi pittori del mondo24 sprezza quell’arte dove è rarissimo ed èssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha così strani concetti e nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle. E di questi tali infiniti si trovano. Son bene alcuni, i quali, conoscendosi avere eccellenzia in una cosa, fanno principal professione d’un’altra, della qual però non sono ignoranti; ma ogni volta che loro occorre mostrarsi in quella dove si senton valere, si mostran gagliardamente; e vien lor talor fatto che la brigata, vedendogli valer tanto in quello che non è sua professione25, estima che vaglian molto piú in quello di che fan professione. Quest’arte, s’ella è compagnata da bon giudicio, non mi dispiace punto. —
XL. Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: — Questa a me non par arte, ma vero inganno; né credo che si convenga, a chi vol esser omo da bene, mai lo ingannare. — Questo, — disse messer Federico, — è piú presto un ornamento, il quale accompagna quella cosa che colui fa, che inganno; e se pur è inganno, non è da biasimare. Non direte voi ancora, che di dui che maneggian l’arme quel che batte il compagno lo inganna! e questo è perché ha piú arte che l’altro. E se voi avete una gioia, la qual dislegata mostri esser bella, venendo poi alle mani d’un bon orefice, che col legarla bene la faccia parer molto piú bella, non direte voi che quello orefice inganna gli occhi di chi la vede! E pur di quello inganno merita laude, perché col bon giudicio e con l’arte le maestrevoli mani spesso aggiungon grazia ed ornamento allo avorio o vero allo argento, o vero ad una bella pietra circondandola di fim oro. Non diciamo adunque che l’arte o tal inganno, se pur voi lo volete così chiamare, meriti biasimo alcuno. Non è ancor disconveniente che un uomo che si senta valere in una cosa, cerchi destramente occasion di mostrarsi in quella, e medesimamente nasconda le parti che gli pajan poco laudevoli, il tutto però con una certa avvertita dissimulazione. Non vi ricorda come, senza mostrar di cercarle, ben pigliava l’occasioni il re Ferrando di spogliarsi talor in giuppone? e questo, perchè si sentiva dispositissimo; e perchè non avea troppo buone mani, rare volte o quasi mai non si cavava i guanti? e pochi erano che di questa sua avvertenza s’accorgessero. Parmi ancor aver letto che Julio Cesare portasse volentieri la laurea, per nascondere il calvizio. Ma circa questi modi bisogna esser molto prudente e di buon giudicio, per non uscire de’ termini; perchè molte volte l’uomo per fuggir un errore incorre nell’altro, e per voler acquistar laude acquista biasimo.
XLI. È adunque securissima cosa, nel modo del vivere e nel conversare, governarsi sempre con una certa onesta mediocrità, che nel vero è grandissimo e fermissimo scudo contra la invidia, la qual si dee fuggir quanto più si può. Voglio ancor che ’l nostro Cortegiano si guardi di non acquistar nome di bugiardo, nè di vano; il che talor interviene a quegli ancora che nol meritano: però ne’ suoi ragionamenti sia sempre avvertito di non uscir della verisimilitudine, e di non dir ancor troppo spesso quelle verità che hanno faccia di menzogna26, come molti che non parlan mai se non di miracoli, e voglion esser di tanta autorità, che ogni incredibil cosa a loro sia creduta. Altri nel principio d’una amicizia, per acquistar grazia col nuovo amico, il primo dì che gli parlano giurano non aver persona al mondo che più amino che lui, e che vorrebben volontier morir per fargli servizio, e tai cose fuor di ragione; e quando da lui si partono27, fanno le viste di piangere, e di non poter dir parola per dolore; così, per voler esser tenuti troppo amorevoli, si fanno estimar bugiardi, e sciocchi adulatori. Ma troppo lungo e faticoso saria voler discorrer tutti i vizii che possono occorrere nel modo del conversare: però per quello ch’io desidero nel Cortegiano basti dire, oltre alle cose già dette, ch’el sia tale, che mai non gli manchin ragionamenti buoni, e commodati a quelli co’ quali parla, e sappia con una certa dolcezza recrear gli animi degli auditori, e con motti piacevoli e facezie discretamente indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai a fastidio o pur a saziare, continuamente diletti.
XLII. Io penso che ormai la signora Emilia mi darà licenza di tacere; la qual cosa s’ella mi negarà, io per le parole mie medesime sarò convinto non esser quel buon Cortegiano di cui ho parlato; chè non solamente i buoni ragionamenti, i quali nè mo nè forse mai da me avete uditi, ma ancor questi miei, come voglia che si siano, in tutto mi mancano. Allor disse, ridendo, il signor Prefetto: Io non voglio che questa falsa opinion resti nell’animo d’alcun di noi, che voi non siate buonissimo Cortegiano; chè certo il desiderio vostro di tacere più presto procede dal voler fuggir fatica, che da mancarvi ragionamenti. Però, acciò che non paja che in compagnia così degna come è questa, e ragionamento tanto eccellente, si sia lasciato a drieto parte alcuna, siate contento d’insegnarci come abbiamo ad usar le facezie28, delle quali avete or fatta menzione, e mostrarci l’arte che s’appartiene a tutta questa sorte di parlar piacevole, per indurre riso e festa con gentil modo, perchè in vero a me pare che importi assai, e molto si convenga al Cortegiano. — Signor mio, rispose allor messer Federico, le facezie e i motti sono più presto dono e grazia di natura che d’arte; ma bene in questo si trovano alcune nazioni pronte più l’una che l’altra, come i Toscani, che in vero sono acutissimi. Pare ancor che ai Spagnoli sia assai proprio il motteggiare. Trovansi ben però molti, e di queste29 e d’ogni altra nazione, i quali per troppo loquacità passan talor i termini, e diventano insulsi ed inetti, perchè non han rispetto alla sorte delle persone con le quai parlano, al loco ove si trovano, al tempo, alla gravità ed alla modestia che essi proprii mantenere devriano.
XLIII. Allor il signor Prefetto rispose: Voi negate che nelle facezie sia arte alcuna; e pur, dicendo mal di que’ che non servano in esse la modestia e gravità, e non hanno rispetto al tempo ed alle persone con le quai parlano, parmi che dimostriate che ancor questo insegnar si possa, ed abbia in sè qualche disciplina. Queste regole, Signor mio, rispose messer Federico, son tanto universali, che ad ogni cosa si confanno e giovano. Ma io ho detto nelle facezie non esser arte, perchè di due sorti solamente parmi che se ne trovino; delle quai l’una s’estende nel ragionar lungo e continuato; come si vede di alcun’uomini, che con tanto buona grazia e così piacevolmente narrano ed esprimono una cosa che sia loro intervenuta, o veduta o udita l’abbiano, che coi gesti e con le parole la mettono inanzi agli occhi, e quasi la fan toccar con mano: e questa forse, per non ci aver altro vocabolo, si poria chiamar festività, ovvero urbanità. L’altra sorte di facezie è brevissima, e consiste solamente nei detti pronti ed acuti, come spesso tra noi se n’odono, e de’ mordaci30; nè senza quel poco di puntura par che abbian grazia: e questi presso agli antichi ancor si nominavano detti; adesso alcuni le chiamano arguzie. Dico adunque che nel primo modo, che è quella festiva narrazione, non è bisogno arte alcuna, perchè la natura medesima crea e forma gli uomini atti a narrare piacevolmente; e dà loro il volto, i gesti, la voce e le parole appropriate ad imitar ciò che voglio no. Nell’altro, delle arguzie, che può far l’arte? con ciò sia cosa che quel salso detto dee esser uscito ed aver dato in brocca, prima che paja che colui che lo dice v’abbia potuto pensare; altramente è freddo, e non ha del buono. Però estimo, che ’l tutto sia opera dell’ingegno e della natura, — Riprese allor le parole messer Pietro Bembo, e disse: Il signor Prefetto non vi nega quello che voi dite, cioè che la natura e lo ingegno non abbiano le prime parti, massimamente circa la invenzione; ma certo è che nell’animo di ciascuno, sia pur l’uomo di quanto buono ingegno può essere, nascono dei concetti buoni e mali, e più e meno; ma il giudicio poi e l’arte i lima e corregge, e fa elezione dei buoni e rifiuta i mali. Però, lasciando quello che s’appartiene allo ingegno, dechiarateci quello che consiste nell’arte: cioè, delle facezie e dei motti che inducono a ridere, quai son convenienti al Cortegiano e quai no, ed in qual tempo e
modo si debbano usare; chè questo è quello che ’l signor Prefetto v’addimanda.
XLIV. Allor messer Federico, pur ridendo, disse: Non è alcun qui di noi al qual io non ceda in ogni cosa, e massimamente nell’esser faceto; eccetto se forse le sciocchezze, che spesso fanno rider altrui più che i bei detti, non fossero esse ancora accettate per facezie. – E cosi, voltandosi al conte Ludovico ed a messer Bernardo Bibiena, disse: Eccovi i maestri di questo; dai quali, s’io ho da parlare de’ detti giocosi, bisogna che prima impari ciò che m’abbia a dire. Rispose il conte Ludovico: A me pare che giả cominciate ad usar quello di che dite non saper niente, cioè di voler far ridere questi signori, burlando messer Bernardo e me; perchè ognun di lor sa, che quello di che ci laudate, in voi è molto più eccellentemente. Perỏ se siete faticato, meglio è dimandar grazia alla signora Duchessa, che faccia differire il resto del ragionamento a domani, che voler con inganni sutterfugger la fatica. - Cominciava messer Federico a rispondere; ma la signora Emilia subito l’interruppe e disse: Non è l’ordine, che la disputa se ne vada in laude vostra; basta che tutti siete molto ben conosciuti. Ma perchè ancor mi ricordo che voi, Conte, jersera mi deste imputazione ch’io non partiva egualmente le fatiche, sarà bene che messer Federico si riposi un poco, e ’l carico del parlar delle facezie daremo a messer Bernardo Bibiena, perchè non solamente nel ragionar continuo lo conoscemo facetissimo, ma avemo a memoria che di questa materia più volte ci ha promesso voler scrivere, e però possiam creder che già molto ben vi abbia pensato, e per questo debba compiatamente satisfarci. Poi, parlato che si sia delle facezie, messer Federico seguirà in quello che dir gli avanza del Cortegiano. – Allor messer Federico disse: Signora, non so ciò che più mi avanzi; ma io, a guisa di viandante già stanco dalla fatica del lungo camminare a mezzo giorno, riposerommi nel ragionar di messer Bernardo al suon delle sue parole, come sotto qualche amenissimo ed ombroso albero al mormorar soave d’un vivo fonte; poi forse, un poco ristorato, potrò dir qualche altra cosa. - Rispose, ridendo, messer Bernardo: S’io vi mostro il capo, vederete che ombra si può aspettar dalle foglie del mio albero. Di sentire il mormorio di quel fonte vivo, forse vi verrà fatto, perch’io fui già converso in un fonte, non d’alcuno degli antichi Dei, ma dal nostro Fra Mariano, e da indi in qua mai non m’è mancata l’acqua. Allor ognun cominciò a ridere, perchè questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva, essendo intervenuta in Roma alla presenza di Galeotto cardinale di san Pietro in Vincula, a tutti era notissima.
XLV. Cessato il riso, disse la signora Emilia: Lasciate voi adesso il farci ridere con l’operar le facezie, e a noi insegnate come l’abbiamo ad usare, e donde si cavino, e tutto quello che sopra questa materia voi conoscete. E, per non perder più tempo, cominciate omai. – Dubito, disse messer Bernardo, che l’ora sia tarda; ed acció che ’l mio parlar di facezie non sia infaceto e fastidioso, forse buon sarà differirlo insino a domani. — Quivi subito risposero molti, non esser ancor, nè a gran pezza, l’ora consueta di dar fine al ragionare. Allora, rivoltandosi messer Bernardo alla signora Duchessa ed alla signora Emilia, Io non voglio fuggir, disse, questa fatica; bench’io, come soglio maravigliarmi dell’audacia di color che osano cantar alla viola in presenza del nostro Jacomo Sansecondo, così non devrei in presenza d’auditori che molto meglio intendon quello che io ho a dire che io stesso, ragionar delle facezie. Pur, per non dar causa ad alcuno di questi signori di ricusar cosa che imposta loro sia, dirò quanto più brevemente mi sarà possibile ciò che mi occorre circa le cose che movono il riso; il qual tanto a noi è proprio, che per descriver l’uomo, si suol dir che egli è un animal risibile: perchė questo riso solamente negli uomini si vede, ed è quasi sempre testimonio d’una certa ilarità che dentro si sente nell’animo, il qual da natura è tirato al piacere, ed appetisce il riposo e ’l recrearsi; onde veggiamo molte cose dagli uomini ritrovate per questo effetto, come le feste, e tante varie sorti di spettacoli. E perchè noi amiamo que’ che son causa di tal nostra recreazione, usavano i re antichi, i Romani, gli Ateniesi, e molti altri, per acquistar la benivolenza dei popoli, e pascer gli occhi e gli animi della moltitudine, far magni teatri ed altri publici edifici; ed ivi mostrar nuovi giochi, corsi di cavalli e di carrette, combattimenti, strani animali, comedie, tragedie e moresche; nè da tal vista erano alieni i severi filosofi, che spesso e coi spettacoli di tal sorte e conviti rilasciavano gli animi affaticati in quegli alti lor discorsi e divini pensieri; la qual cosa volentier fanno ancor tutte le qualità d’uomini: chè non solamente i lavoratori de’ campi, i marinari, e tutti quelli che hanno duri ed asperi esercizii alle mani, ma i santi religiosi, i prigionieri che d’ora in ora aspettano la morte, pur vanno cercando qualche rimedio e medicina per recrearsi. Tutto quello adunque che move il riso, esilara l’animo e dà piacere, nè lascia che in quel punto l’uomo si ricordi delle nojose molestie, delle quali la vita nostra è piena. Però a tutti, come vedete, il riso è gratissimo, ed è molto da laudare chi lo move a tempo e di buon modo. Ma che cosa sia questo riso, e dove stia, ed in che modo talor occupi le vene, gli occhi, la bocca e i fianchi, e par che ci voglia far scoppiare, tanto che per forza che vi mettiamo, non è possibile tenerlo, lasciarò disputare a Democrito; il quale, se forse ancor lo promettesse, non lo saprebbe dire.
XLVI. Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridicoli consiste in una certa deformità; perchè solamente si ride di quelle cose che hanno in sè disconvenienza, e par che stian male, senza però star male. Io non so altrimenti dichiarirlo; ma se voi da voi stessi pensate, vederete che quasi sempre quel di che si ride è una cosa che non si conviene, e pur non sta male. Quali adunque siano quei modi che debba usar il Cortegiano per mover il riso, e fin a che termine, sforzerommi di dirvi, per quanto mi mostrerà il mio giudicio; perchè il far rider sempre non si convien al Cortegiano, né ancor di quel modo che fanno i pazzi e gl’imbriachi, ed i sciocchi ed inetti, e medesimamente i buffoni; e benchè nelle corti queste sorti d’uomini par che si richieggano, pur non meritano esser chiamati Cortegiani, ma ciascun per lo nome suo, ed estimati tali quai sono. Il termine e misura di far ridere mordendo bisogna ancor esser diligentemente considerato, e chi sia quello che si morde; perchè non s’induce riso col dileggiar un misero e calamitoso, nè ancora un ribaldo e scelerato publico: perchè questi par che meritino maggior castigo che ’l esser burlati; e gli animi umani non sono inclinati a beffar i miseri, eccetto se quei tali nella sua infelicità non si vantassero, e fossero superbi e prosuntuosi. Deesi ancora aver rispetto a quei che sono universalmente grati ed amati da ognuno e potenti, perchè talor col dileggiar questi poria l’uom acquistarsi inimicizie pericolose. Però conveniente cosa è beffare e ridersi dei vizii collocati in persone nè misere tanto che movano compassione, nè tanto scelerate che paja che meritino esser condennate a pena capitale, nè tanto grandi che un loro piccol sdegno possa far gran danno.
XLVII. Avete ancor a sapere, che dai lochi donde si cavano motti da ridere, si posson medesimamente cavare sentenze gravi, per laudare e per biasimare, e talor con le medesime parole: come, per laudar un uomo liberale, che metta la roba sua in commune con gli amici, suolsi dire che ciò ch’egli ha non è suo; il medesimo si può dir per biasimo d’uno che abbia rubato, o per altre male arti acquistato quel che tigne. Dicesi ancor: Colei è una donna d’assai, — volendola laudar di prudenza e bontà; il medesimo poria dir chi volesse biasimarla, accennando che fosse donna di molti. Ma più spesso occorre servirsi dei medesimi lochi a questo proposito, che delle medesime parole: come a questi dì, stando a messa in una chiesa tre cavalieri ed una signora, alla quale serviva d’amore uno dei tre, comparve un povero mendico, e postosi avanti alla signora, cominciolle a domandare elimosina; e così con molta importunità e voce lamentevole gemendo replicò più volte la sua domanda: pur con tutto questo, essa non gli diede mai elimosina, nè ancor gliela negò con’ fargli segno che s’andasse con Dio, ma stette sempre sopra di sè, come se pensasse in altro. Disse allor il cavalier inamorato a’ dui compagni: Vedete ciò ch’io posso sperare dalla mia signora, che è tanto crudele, che non solamente non dà elimosina a quel poveretto ignudo morto di fame, che con tanta passion e tante volte a lei la domanda, ma non gli dà pur licenza; tanto gode di vedersi inanzi una persona che languisca in miseria, e in van le domandi mercede. — Rispose un dei dui: Questa non è crudeltà; ma un tacito ammaestramento di questa signora a’ voi, per farvi conoscere che essa non compiace mai a chi le domanda con molta importunità. — Rispose l’altro: Anzi è un avvertirlo, che ancor ch’ella non dia quello che se le domanda, pur le piace d’esserne pregata. — Eccovi, dal non aver quella signora dato licenza al povero31, nacque un detto di severo biasimo, uno di modesta laude, ed un altro di gioco mordace.
XLVIII. Tornando adunque a dechiarire le sorti delle facezie appartenenti al proposito nostro, dico che, secondo me, di tre maniere se ne trovano, avvenga che messer Federico solamente di due abbia fatto menzione: cioè di quella urbana e piacevole narrazion continuata, che consiste nell’effetto d’una cosa; e della subita ed arguta prontezza; che consiste in un detto solo. Però noi ve ne giungeremo la terza sorte, che chiamamo burle; nelle quali intervengon le narrazioni lunghe, e i detti brevi, ed ancor qualche operazione. Quelle prime adunque, che consistono nel parlar continuato, son di maniera tale, quasi che l’uomo racconti una novella. E, per darvi un esempio: In que’ proprii giorni che morì papa Alessandro Sesto, e fu creato Pio Terzo, essendo in Roma e nei palazzo messer Antonio Agnello, vostro mantuano, signora Duchessa, e ragionando appunto della morte dell’uno e creazion dell’altro, e di ciò facendo varii giudicii con certi suoi amici, disse: Signori, fin al tempo di Catullo cominciarono le porte32 a parlare senza lingua ed udir senza orecchie, ed in tal modo scoprir gli adulterii; ora, se ben gli uomini non sono di tanto valor com’erano in que’ tempi, forse che le porte, delle quai molte, almen qui in Roma, si fanno de’ marmi antichi, hanno la medesima virtù che aveano allora; ed io per me credo che queste due ci saprian chiarir tutti i nostri dubii, se noi da loro i volessimo sapere. — Allor quei gentiluomini stettero assai sospesi, ed aspettavano dove la cosa avesse a riuscire; quando messer Antonio, seguitando pur l’andar inanzi e ’ndietro, alzò gli occhi, come all’improviso, ad una delle due porte della sala nella qual passeggiavano, e fermatosi un poco, mostrò col dito a’ compagni la inscrizion di quella, che era il nome di papa Alessandro, nel fin del quale era un V ed I, perchè significasse, come sapete, Sesto; e disse: Eccovi che questa porta dice: Alessandro papa vi, che vuol significare, che è stato papa per la forza che egli ha usata, e più di quella si è valuto che della ragione. Or veggiamo se da quest’altra potemo intender qualche cosa del nuovo pontifice; — e voltatosi, come per ventura, a quell’altra porta, mostré la inscrizione d’un N, dui PP, ed un V, che significava Nicolaus Papa Quintus; e subito disse: Oimè male nove; eccovi che questa dice: Nihil Papa Valet. XLIX. Or vedete come questa sorte di facezie ha delle elegante e del buono, come si conviene ad uom di corte, o vero o finto che sia quello che si narra; perchè in tal caso è licito fingere quanto all’uom piace, senza colpa; e dicendo la verità, adornarla con qualche bugietta, crescendo o diminuendo secondo ’l bisogno. Ma la grazia perfetta e vera virtù di questo è il dimostrar tanto bene e senza fatica, così coi gesti come con le parole, quello che l’uomo vuole esprimere, che a quelli che odono paja vedersi inanzi agli occhi far le cose che si narrano. E tanta forza ha questo modo così espresso, che talor adorna e fa piacer sommamente una cosa, che in sè stessa non sarà molto faceta nè ingeniosa. E benchè a queste narrazioni si ricerchino i gesti, e quella efficacia che ha la voce viva, pur ancor in scritto qualche volta si conosce la lor virtù. Chi non ride quando, nella ottava Giornata delle sue Cento Novelle, narra Giovan Boccaccio, come ben si sforzava di cantare un Chìrie ed un Sanctus il prete di Varlungo quando sentia la Belcolore in chiesa? Piacevoli narrazioni sono ancora in quelle di Calandrino, ed in molte altre. Della medesima sorte pare che sia il far ridere contrafacendo o imitando, come noi vogliam dire; nella qual cosa fin qui non ho veduto alcuno più eccellente di messer Roberto nostro da Bari.
L. Questa non sarà poca laude; disse messer Roberto; se fosse vera, perch’io certo m’ingegnerei d’imitare più presto il ben che ’l male, e s’io potessi assimigliarmi ad alcuni ch’io conosco, mi terrei per molto felice; ma dubito non saper imitare altro che le cose che fanno ridere, le quali voi dianzi avete detto che consistono in vizio. — Rispose messer Bernardo: In vizio sì, ma che non sta male. E sa per dovete, che questa imitazione di che noi parliamo non può essere senza ingegno; perchè, oltre alla maniera d’accommodar le parole e i gesti, e mettere inanzi agli occhi degli auditori il volto e i costumi di colui di cui si parla, bisogna essere prudente, ed aver molto rispetto al loco, al tempo, ed alle persone con le quali si parla, e non descendere alla buffoneria, nè uscire de’ termini; le quai cose voi mirabilmente osservate, e però estimo che tutte le conosciate. Chè in vero ad un gentiluomo non si converria fare i volti piangere e ridere, far le voci, lottare da sè a sè, come fa Berto, vestirsi da contadino in presenza d’ognuno, come Strascino33; e tai cose, che in essi son convenientissime, per esser quella la lor professione. Ma a noi bisogna per transito e nascosamente rubar questa imitazione, servando sempre la dignità del gentiluomo, senza dir parole sporche o far atti men che onesti, senza distorcersi il viso o la persona così senza ritegno; ma far i movimenti d’un certo modo, che chi ode e vede per le parole e gesti nostri imagini molto più di quello che vede ed ode, e perciò s’induca a ridere. Deesi ancor fuggir in questa imitazione d’esser troppo mordace nel riprendere, massimamente le deformità del volto o della persona; chè sì come i vizii del corpo danno spesso bella materia di ridere a chi discretamente se ne vale, così l’usar questo modo troppo acerbamente è cosa non sol da buffone, ma ancor da inimico. Però bisogna, benchè difficil sia, circa questo tener, come ho detto, la maniera del nostro messer Roberto, che ognun contrafà, e non senza pungerl’in quelle cose dove hanno difetti, ed in presenza d’essi medesimi; e pur niuno se ne turba, nè par che possa averlo per male: e di questo non ne darò esempio alcuno, perchè ogni dì in esso tutti ne vedemo infiniti.
LI. Induce ancor molto a ridere, che pur si contiene sotto la narrazione, il recitar con buona grazia alcuni difetti d’altri, mediocri però, e non degni di maggior supplicio, come le sciocchezze talor semplici, talor accompagnate da un poco di pazzia pronta e mordace; medesimamente certe affettazioni estreme; talor una grande e ben composta bugia.. Come narrò pochi dì sono, messer Cesare nostro una bella sciocchezza, che fu, che ritrovandosi alla presenza del Podestà di questa terra, vide, venire un contadino a dolersi che gli era stato rubato un asino; il qual, poi che ebbe detto della povertà sua e dell’inganno fattogli da quel ladro, per far più grave la perdita sua, disse: Messere, se voi aveste veduto il mio asino, ancor più conoscereste, quanto io. ho ragion di dolermi; chè quando aveva il suo basto adosso, parea propriamente un Tullio. — Ed un de’ nostri incontrandosi in una matta di capre; inanzi alle quali era un gran becco, si fermò, e con un volto maraviglioso disse: Guardate bel becco! pare un san Paolo. — Un altro dice il signor Gasparo aver conosciuto, il qual per essere antico servitore del duca Ercole di Ferrara, gli avea offerto dui suoi piccoli figlioli per paggi; e questi, prima che potessero venirlo a servire, erano tutti dui morti: la qual cosa intendendo il signore, amorevolmente si dolse col padre, dicendo. che gli pesava molto, perchè in avergli veduti una sol volta gli eran parsi molto belli e discreti figlioli; il padre gli rispose: Signor mio, voi non avete veduto nulla; chè da pochi giorni in qua erano riusciti molto più belli e virtuosi. ch’io non arei mai potuto credere, e già cantavano insieme come dui sparvieri. — E stando a questi di un dottor de’ nostri a vedere uno, che per giustizia era frustato intorno alla piazza, ed avendone compassione, perchè ’l meschino, benchè le spalle fieramente gli sanguinassero, andava così lentamente come se avesse passeggiato a piacere per passar tempo, gli disse: Cammina, poveretto, ed esci presto di questo affanno. — Allor il buon uomo rivolto, guardandolo quasi con maraviglia, stette un poco senza parlare, poi disse: Quando sarai frustato tu, anderai a modo tuo; ch’io adesso voglio andar al mio. Dovete ancora ricordarvi quella sciocchezza, che poco fa raccontò il signor Duca di quell’abbate; il quale essendo presente. un dì che ’l duca Federico ragionava di ciò che sì dovesse far di così gran quantità di terreno, come s’era cavata per far i fondamenti di questo palazzo, che. tuttavia si lavorava, disse: Signor mio, io ho pensato benissimo dove e’ s’abbia a mettere. Ordinate che si faccia una grandissima fossa; e quivi riponere si potrà, senza altro impedimento. Rispose il duca Federico; non senza risa: E dove metteremo noi quel terreno che si caverà di questa fossa? — Soggiunse l’abbate: Fatela far tanto grande, che l’uno e l’altro vi stia. — Così, benchè il Duca più volte replicasse, che quanto la fossa si facea maggiore, tanto più terren si cavava, mai non gli potè caper nel cervello ch’ella non si potesse far tanto grande, che l’uno e l’altro metter non vi si potesse, nè mai rispose altro se non: Fatela tanto maggiore. — Or vedete, che buona estimativa avea questo abbate.
LII. Disse allor messer Pietro Bembo: E perchè non dite voi quella del vostro commissario fiorentino? il qual era assediato nella Castellina dal duca di Calavria, e dentro essendosi trovato un giorno certi passatori avvelenati, che erano stati tirati dal campo; scrisse al Duca, che se la guerra s’aveva da far così crudele, esso ancor farebbe por il medicame in su le pallotte dell’artigliaria, e poi chi n’avesse il peggio, suo danno. — Rise messer Bernardo, e disse: Messer Pietro, se voi non state cheto, io dirò tutte quelle che io stesso ho vedute e udite de’ vostri Veneziani; chè non son poche, e massimamente. quando, voglion fare il cavalcatore. — Non dite, di grazia; rispose messer Pietro; che io ne tacerò due altre bellissime che so de’ Fiorentini, — Disse messer Bernardo: Deono esser più presto Sanesi, che spesso vi cadeno. Come a questi dì uno, sentendo leggere in consiglio certe lettere, nelle quali, per non dir tante volte il nome di colui di chi si parlava era replicato questo termine, il prelibato, disse a colui che leggeva: Fermatevi un poco qui, e ditemi; cotesto Prelibato, è egli. amico del nostro commune? — Rise messer Pietro, poi disse: Io parlo de’ Fiorentini, e non de’ Sanesi, — Dite adunque liberamente, soggiunse la signora Emilia, e non abbiate tanti rispetti. — Seguitò messer Pietro: Quando i signori Fiorentini faceano la guerra contra Pisani, trovaronsi talor per le molte spese esausti di denari; e parlandosi un giorno in consiglio del modo di trovarne per i bisogni che occorreano, dopo l’essersi proposto molti partiti, disse un cittadino de’ più antichi: Io ho pensato dui modi, per li quali senza molto impazzo presto potrem trovar buona somma di denari; e di questi l’uno è, che noi, perchè non avemo le più vive intrate che le gabelle delle porte di Firenze, secondo che v’abbiam undeci porte, subito ve ne facciam far undeci altre, e così raddoppiaremo quella entrata. L’altro modo è, che si dia ordine che subito in Pistoja e Prato s’aprino le zecche, nè più nè meno come in Firenze, e quivi non si faccia altro, giorno e notte, che batter denari, e tutti siano ducati d’oro; e questo partito, secondo me, è più breve, e ancor di minor spesa.
LIII. Risesi molto del sottil avvedimento di questo cittadino; e, racchetato il riso, disse la signora Emilia: Comportarete voi, messer Bernardo, che messer Pietro burli così i Fiorentini, senza farne vendetta? — Rispose, pur ridendo, messer Bernardo: Io gli perdono questa ingiuria, perchè s’egli m’ha fatto dispiacere in burlar i Fiorentini, hammi compiaciuto in obedir voi, il che io ancor farei sempre. Disse allor messer Cesare: Bella grosseria udi’ dir io da un Bresciano, il quale essendo stato quest’anno a Venezia alla festa dell’Ascensione, in presenza mia narrava a certi suoi compagni le belle cose che v’avea vedute; e quante mercanzie, e quanti argenti, speziarie, panni e drappi v’erano; poi la Signoria con gran pompa esser uscita a sposar il mare in Bucentoro, sopra il quale erano tanti gentiluomini ben vestiti, tanti suoni e canti, che parea un paradiso; e dimandandogli un di que’ suoi compagni, che sorte di musica più gli era piaciuta di quelle che avea udite, disse: Tutte eran buone; pur tra l’altre io vidi un sonar con certa tromba strana, che ad ogni tratto se ne ficcava in gola più di dui palmi, e poi subito la cavava, e di nuovo la reficcava; che non vedeste mai la più gran maraviglia. — Risero allora tutti, conoscendo il pazzo pensier di colui, che s’avea imaginato che quel sonatore si ficcasse nella gola quella parte del trombone, che rientrando si nasconde. —
LIV. Soggiunse allor messer Bernardo: Le affettazioni poi mediocri fanno fastidio; ma quando son fuor di misura, inducono da ridere assai: come talor se ne sentono di bocca d’alcuni circa la grandezza, circa l’esser valente, circa la nobilità; talor di donne circa la bellezza, circa la delicatura. Come a questi giorni fece una gentildonna, la qual stando in una gran festa di mala voglia e sopra di sè, le fu domandato a che pensava, che star la facesse così mal contenta; ed essa rispose: Io pensava ad una cosa, che sempre che mi si ricorda mi dà grandissima noja, nè levar me la posso del core; e questo è, che avendo il dì del giudicio universale tutti i corpi a resuscitare e comparir ignudi inanzi al tribunal di Cristo, io non posso tolerar l’affanno che sento, pensando che il mio ancor abbia ad esser veduto ignudo. — Queste tali affettazioni, perchè passano il grado, inducono più riso che fastidio. Quelle belle bugie mo, così ben assettate, come movano a ridere, tutti lo sapete. E quell’amico nostro, che non ce ne lassa mancare, a questi di me ne raccontò una molto eccellente.
LV. Disse allora il Magnifico Juliano: Sia come si vuole, nè più eccellente nè più sottile non può ella esser di quella che l’altro giorno per cosa certissima affermava un nostro Toscano, mercatante lucchese. — Ditela, — soggiunse la signora Duchessa. Rispose il Magnifico Jutrano, ridendo: Questo mercatante, siccome egli dice, ritrovandosi una volta in Polonia, deliberò di comperare una quantità di zibellini, con opinion di portargli in Italia e farne un gran guadagno; e dopo moltè pratiche, non potendo egli stesso in persona andar in Moscovia, per la guerra che era tra ’l re34 di Polonia e ’l duca di Moscovia, per mezzo d’alcuni del paese ordinò che un giorno determinato certi mercatanti moscoviti coi lor zibellini venissero ai confini di Polonia, e promise esso ancor di trovarvisi35, per praticar la cosa. Andando adunque il Lucchese coi suoi compagni verso Moscovia, giunse al Boristene, il qual trovò tutto duro di ghiaccio come un marmo, e vide che i Moscoviti, li quali per lo sospetto della guerra dubitavano essi ancor de’ Poloni, erano già su l’altra riva, ma non s’accostavano, se non quanto era largo il fiume. Così conosciutisi l’un l’altro, dopo alcuni cenni, li Moscoviti cominciarono a parlar alto, e domandar il prezzo che volevano dei loro zibellini, ma tanto era estremo il freddo, che non erano intesi; perchè le parole, prima che giungessero all’altra riva, dove era questo Lucchese e i suoi interpreti, si gielavano in aria, e vi restavano ghiacciate e prese di modo, che quei Poloni che sapeano il costume, presero per partito di far un gran foco proprio al mezzo del fiume, perchè, al lor parere, quello era il termine dove giungeva la voce ancor calda prima che ella fosse dal ghiaccio intercetta; ed ancora il fiume era tanto sodo, che ben poteva sostenere il foco. Onde, fatto questo, le parole, che per spazio d’un’ora erano state ghiacciate, cominciarono a liquefarsi e discender giù mormorando, come la neve dai monti il maggio; e così subito furono intese benissimo, benchè già gli uomini di là fossero partiti: ma perchè a lui parve che quelle parole dimandassero troppo gran prezzo per i zibellini, non volle accettare il mercato, e così se ne ritornò senza.
LVI. Risero allora tutti: e messer Bernardo, In vero, disse, quella ch’io voglio raccontarvi non è tanto sottile; pur è bella, ed è questa. Parlandosi pochi dì sono del paese o Mondo novamente trovato dai marinari portoghesi, e dei varii animali e d’altre cose che essi di colà in Portogallo riportano, quello amico del qual v’ho detto affermò, aver veduto una scimia di forma diversissima da quelle che noi siamo usati di vedere, la quale giocava a scacchi eccellentissimamente; e, tra l’altre volte, un dì essendo inanzi al re di Portogallo il gentiluom che portata l’avea, e giocando con lei a scacchi, la scimia fece alcuni tratti sottilissimi, di sorte che lo strinse molto; in ultimo gli diede scaccomatto: perchè il gentiluomo turbato, come soglion esser tutti quelli che perdono a quel gioco, prese in mano il re, che era assai grande, come usano i Portoghesi, e diede in su la testa alla scimia una grande scaccata; la qual subito saltò da banda, lamentandosi forte, e parea che domandasse ragione al re del torto che le era fatto. Il gentiluomo poi la reinvitò a giocare; essa avendo alquanto ricusato con cenni, pur si pose a giocar di nuovo, e, come l’altra volta avea fatto, così questa ancora lo ridusse a mal termine: in ultimo, vedendo la scimia poter dar scaccomatto al gentiluom, con una nuova malizia volse assicurarsi dì non esser: più battuta; e chetamente, senza mostrar che fosse suo fatto, pose la man destra sotto ’l cubito sinistro del gentiluomo, il qual esso per delicatura riposava sopra un guancialetto di taffettà, e prestamente levatoglielo, in un medesimo tempo con la man sinistra gliel diede malto di pedina, e con la destra si pose il guancialetto in capo, per farsi scudo alle percosse; poi fece un salto inanti al re allegramente, quasi per testimonio della vittoria sua. Or vedete se questa scimia era savia, avveduta e prudente, — Allora messer Cesare Gonzaga, Questa, è forza, disse, che tra l’altre scimie fosse dottore, e di molta autorità; e penso che la Republica delle Scimie Indiane la mandasse in Portogallo per acquistar reputazione in paese incognito, — Allora ognun rise e della bugia, e della aggiunta fattagli per messer Cesare.
LVII. Così, seguitando il ragionamento, disse messer Bernardo: Avete adunque inteso delle facezie che sono nell’effetto e parlar continuato, ciò che m’occorre; perciò ora è ben dire di quelle che consistono in un detto solo, ed hanno quella pronta acutezza posta brevemente nella sentenza o nella parola: e siccome in quella prima sorte di parlar festivo s’ha da fuggir, narrando ed imitando, di rassimigliarsi ai buffoni e parasiti, ed a quelli che inducono altrui a ridere per le lor sciocchezze; così in questo breve devesi guardare il Cortegiano di non parer maligno e velenoso, e dir motti ed arguzie solamente per far dispetto e dar nel core; perchè tali uomini spesso per difetto della lingua meritamente hanno castigo in tutto ‘1 corpo.
LVII. Delle facezie adunque pronte, che stanno in un breve detto, quelle sono acultssime, che nascono dalla ambiguità; benchè non sempre inducono a ridere, perchè più presto sono laudate per ingeniose che per ridicole: come pochi di sono disse il nostro messer Annibal Paleotto ad uno che gli proponea un maestro per insegnar grammatica a’ suoi figlioli, e poi che gliel’ebbe laudato per molto dotto, venendo al salario disse, che oltre ai denari volea una camera fornita per abitare e dormire, perchè esso non avea letto: allor messer Annibal subito rispose: E come può egli esser dotto, se non ha letto?36 — Eccovi come ben si valse del vario significato di quel non aver letto37. Ma perchè questi molti ambigui hanno molto dell’acuto, per pigliar l’uomo le parole in significato diverso da quello che le pigliano tutti gli altri, pare, come ho detto, che più presto movano maraviglia che riso, eccetto quando sono congiunti con altra maniera di detti. Quella sorte adunque di motti che più s’usa per far ridere è quando noi aspettiamo d’udir una cosa, e colui che risponde ne dice un’altra, e chiamasi fuor d’opinione. E se a questo è congiunto lo ambiguo, il motto diventa salsissimo; come l’altr’jeri, disputandosi di fare un bel mattonato nel camerino della signora Duchessa, dopo molte parole voi, Joanni Cristoforo, diceste: Se noi potessimo avere il vescovo di Potenza, e farlo ben spianare, saria molto a proposito, perchè egli è il più bel matto nato ch’io vedessi mai. — Ognun rise molto, perchè dividendo quella parola matto nato faceste lo ambiguo; poi dicendo che sî avesse a spianare un vescovo, e metterlo per pavimenio d’un camerino, fu fuor di opinione di chi ascoltava; così riusci il motto argutissimo e risibile.
LIX. Ma dei motti ambigui sono molte sorti; però bisogna essere avvertito, ed uccellar sottilissimamente alle parole, e fuggir quelle che fanno il motto freddo, o che paja che siano tirate per i capelli; ovvero; secondo che avemo detto, che abbian troppo dello acerbo. Come ritrovandosi alcuni compagni in casa d’un loro amico, il quale era cieco da un occhio, e invitando quel cieco la compagnia a restar quivi a desinare, tutti si partirono eccetto uno; il qual disse: Ed io vi restarò, perchè veggo esserci vuoto il loco per uno; — e così col dito mostrò quella cassa d’occhio vuota. Vedete che questo è acerbo e discortese troppo, perchè morse colui senza causa, e senza esser stato esso prima punto, e disse quello che dir si poria contra tutti i ciechi; e tai cose universali non dilettano, perchè pare che possano essere pensate. E di questa sorte fu quel detto ad un senza naso: E dove appicchi tu gli occhiali? — o: Con che fiuti tu l’anno le rose?
LX. Ma tra gli altri motti, quegli hanno bonissima grazia, che nascono quando dal ragionar mordace del compagno l’uomo piglia le medesime parole nel medesimo senso, e contra di lui le rivolge, pungendolo con le sue proprie arme; come un litigante, a cui in presenza del giudice dal suo avversario fu detto: Che baji tu? — subito rispose: Perchè veggo un ladro. — E di questa sorte fu ancor, quando Galeotto da Narni, passando per Siena, si fermò in una strada a domandar dell’ostaria38; e vedendolo un Sanese così corpulento come era, disse ridendo: Gli altri portano le bolgie dietro, e costui le porta davanti. — Galeotto subito rispose: Così si fa in terra di ladri39.
LXI. Un’altra sorte è ancor, che chiamiamo bischizzi, e questa consiste nel mutare ovvero accrescere o minuire una lettera o sillaba; come colui che disse: Tu dei esser più dotto nella lingua latrina40 che nella greca. — Ed a voi, Signora, fu scritto nel titolo d’una lettera: Alla signora Emilia Impia.— È ancora faceta cosa interporre un verso o più, pigliandolo in altro proposito che quello che lo piglia l’autore, o qualche altro detto volgato; talor al medesimo proposito41, ma mutando qualche parola: come disse un gentiluomo che avea una brutta e dispiacevole moglie, essendogli dimandato come stava, rispose: Pensalo tu, chè Furiarum maxima juxta me cubat42. — E messer Jeronimo Donato, andando alle Stazioni di Roma la Quadragesima insieme con molti altri gentiluomini, s’incontrò in una brigata di belle donne romane, e dicendo uno di quei gentiluomini:
Quot cœolum stellas, tot habet tua Roma puellas;43—
Pascua quotque hædos, tot habet tua Roma cinæedos,—
mostrando una compagnia di giovani, che dall’altra banda venivano. Disse ancora messer Marc’Antonio dalla Torre al vescovo di Padoa di questo modo. Essendo un monasterio di donne in Padoa sotto la cura d’un religioso estimato molto di bona vita e dotto, intervenne che ’l padre, praticando nel monasterio domesticamente, e confessando spesso le madri, cinque d’esse, che altrettante non ve n’erano, s’ingravidorono; e scoperta la cosa, il Padre volse fuggire, e non seppe; il vescovo lo fece pigliare, ed esso subito confessò, per tentazion del diavolo aver ingravidate quelle cinque monache; di modo che monsignor il vescovo era deliberatissimo castigarlo acerbamente. E perchè costui era dotto, avea molti amici, i quali tutti fecer prova d’ajutarlo; e con gli altri ancor andò messer Marc’Antonio al vescovo per impetrargli qualche perdono. Il vescovo per modo alcuno non gli voleva udire; alfine, facendo pur essi instanza, e raccomandando il reo, ed escusandolo per la commodità del loco, per la fragilità umana, e per molte altre cause, disse il vescovo: Io non ne voglio far niente, perchè di questo ho io a render ragione a Dio; — e replicando essi, disse il vescovo: Che responderò io a Dio il dì del giudicio quando mi dirà: Redde rationem villicationis tuæ?44 — rispose allor subito messer Marc’Antonio: Monsignor mio, quello che dice lo Evangelio: Domine, quinque talenta tradidisti mihi; ecce alia quinque superlucratus sum45. — Allora il vescovo non si potè tenere di ridere, e mitigò assai l’ira sua e la pena preparata al malfattore.
LXII. È medesimamente bello interpretare i nomi e finger qualche cosa, perchè colui di chi si parla si chiami così, ovvero perchè una qualche cosa si faccia; come pochi di sono domandando il Proto da Luca, il qual, come sapete, è molto piacevole, il vescovato di Caglio, il papa gli rispose: Non sai tu che Caglio in lingua spagnola vuol dire taccio? e tu sei un cianciatore; però non si converria ad un vescovo non poter mai nominare il suo titolo senza dir bugia; or caglia adunque. — Quivi diede il Proto una risposta, la quale, ancor che non fosse di questa sorte, non fu però men bella della proposta; chè avendo replicato la domanda sua più volte, e vedendo che non giovava, in ultimo disse: Padre Santo, se la Santità Vostra mi dà questo vescovato, non sarà senza sua utilità, perch’io le lasciarò dui officii. — E che officii hai tu da lasciare? — disse il papa. Rispose il Proto: Io lasciarò l’officio grande, e quello della Madonna. — Allora non potè il papa, ancor che fosse severissimo, tenersi di ridere, Un altro ancor a Padoa disse, che Calfurnio si domandava così, perchè solea scaldare i forni. E domandando io un giorno a Fedra, perchè era, che facendo la Chiesa il vener santo orazioni non solamente per i Cristiani, ma ancor. per i Pagani e per i Giudei, non si facea menzione dei Cardinali, come dei Vescovi e d’altri Prelati, risposemi, che i Cardinali s’intendevano in quella orazione che dice: Oremus pro hæreticis et scismaticis. E ’l conte Ludovico nostro disse, che io riprendeva una signora che usava un certo liscio che molto lucea, perchè in quel volto, quando era acconcio, così vedeva me stesso come nello specchio; e però, per esser brutto, non avrei voluto vedermi. Di questo modo fu quello di messer Camillo Palleotto a messer Antonio Porcaro, il qual parlando d’un suo compagno, che confessandosi diceva al sacerdote che digiunava volentieri, ed andava alle messe ed agli officii divini, e facea tutti i beni del mondo, disse: Costui in loco d’accusarsi si lauda; — a cui rispose messer Camillo: Anzi si confessa di queste cose, perchè pensa che il farle sia gran peccato. — Non vi ricorda, come ben disse l’altro giorno il signor Prefetto? quando Giovantomaso Galeotto si maravigliava d’un che domandava ducento ducati d’un cavallo; perchè dicendo Giovantomaso che non valeva un quattrino, e che, tra gli altri difetti, fuggiva dall’arme tanto, che non era possibile farglielo accostare, disse il signor Prefetto (volerdo riprender colui di viltà); Se ’l cavallo ha questa parte di fuggir dall’arme, maravegliomi che egli non ne domandi mille ducati.
LXIII. Dicesi ancora qualche volta una parola medesima, ma ad altro fin di quello che s’usa. Come essendo il signor Duca per passar un fiume rapidissimo, e dicendo ad un trombetta: Passa; — il trombetta si voltò con la berretta in mano, e con alto di reverenza disse: Passi la Signoria Vostra.46 — È ancor piacevol maniera di motteggiare, quando l’uomo par che pigli le parole e non la sentenza di colui che ragiona; come quest’anno un Tedesco a Roma, incontrando © una sera il nostro messer Filippo Beroaldo; del qual era discepolo, disse: Domine magister, Deus det vobis bonum sero; e ’l Beroaldo subito rispose: Tibi malum cito. — Essendo ancor a tavola col Gran Capitano Diego. de Chignones, disse un altro Spagnolo, che pur vi mangiava, per domandar da bere: Vino47;— rispose Diego, Y no lo conocistes, — per mordere colui d’esser marrano. Disser ancor messer Jacomo Sadoleto48 al Beroaldo, che affermava voler in ogni modo andare a Bologna: Che causa v’induce così adesso lasciar Roma, dove son tanti piaceri, per andar a Bologna, che tulta è involta nei travagli? — Rispose il Beroaldo: Per tre conti m’è forza andar a Bologna, — e già aveva alzati tre dita della man sinistra per assignar tre cause dell’andata sua; quando messer Jacomo subito interruppe, e disse: Questi tre conti che vi fanno andare a Bologna sono, l’uno il conte Ludovico da san Bonifacio, l’altro il conte Ercole Rangone, il terzo il conte de’ Pepoli. — Ognun allora rise, perchè questi tre conti eran stati discepoli del Beroaldo, e bei giovani, e studiavano in Bologna. Di questa sorte di motti adunque assai si ride, perchè portan seco risposte contrarie a quello che l’uomo aspetta d’udire, e naturalmente dilettaci in tai cose il nostro errore medesimo; dal quale quando ci troviamo ingannati di quello che aspettiamo, ridemo.
LXIV. Ma i modi del parlare e le figure che hanno grazia, i ragionamenti gravi e severi, quasi sempre ancor stanno ben nelle facezie e giochi. Vedete che le parole contraposte danno ornamento assai, quando una clausola contraria s’oppone all’altra. Il medesimo modo spesso è facetissimo. Come un Genoese, il quale era molto prodigo nello spendere, essendo ripreso da un usurario avarissimo che gli disse: E quando cessarai tu mai di gittar via le tue facoltà? — Allor, rispose, che tu di rubar quelle d’altri— E perchè, come già avemo detto, dai lochi donde si cavano facezie che mordano, dai medesimi spesso si possono cavar detti gravi che laudino, per l’uno e l’altro effetto è molto grazioso e gentil modo quando l’uomo consente o conferma quello che dice colui che parla, ma lo interpreta altramente di quello che esso intende. Come a questi giorni, dicendo un prete di villa la messa ai suoi popolani, dopo l’aver publicato le feste di quella settimana, cominciò in nome del popolo la confession generale; e dicendo: Io ho peccato in mal fare, in mal dire, in mal pensare, — e quel che seguita, facendo menzion di tutti i peccati mortali; un compare, e molto domestico del prete, per burlarlo disse ai circostanti: Siate testimonii tutti di quello che per sua bocca confessa aver fatto, perch’io intendo notificarlo al vescovo. — Questo medesimo modo usò Sallaza dalla Pedrada per onorar una signora, con-la quale parlando, poi che l’ebbe laudata, oltre le virtuose condizioni, ancor di bellezza, ed essa rispostogli che non meritava tal laude, per esser già vecchia, le disse49: Signora, quello che di vecchio avete, non è altro che lo assomigliarvi agli angeli, che furono le prime e più antiche creature che mai formasse Dio. LXV. Molto servono ancor così i detti giocosi per pungere, come i detti gravi per laudar, le metafore bene accommodate, e massimamente se son risposte, e se colui che risponde persiste nella medesima metafora detta dall’altro. E di questo modo fu risposto a messer Palla de’ Strozzi, il quale essendo forauscito di Fiorenza, e mandandovi un suo per altri negozii, gli disse, quasi minacciando: Dirai da mia parte a Cosimo de’ Medici, che la gallina cova. — Il messo fece l’ambasciata impostagli; e Cosimo, senza pensarvi, subito gli rispose: E tu da mia parte dirai a messer Palla, che le galline mal possono covar fuor del nido. — Con una metafora laudò ancor messer Camillo Porcaro gentilmente il signor Marc’Antonio Colonna; il quale avendo inteso, che messer Camillo in una sua orazione aveva celebrato alcuni signori italiani famosi nell’arme, e, tra gli altri, d’esso aveva fatto onoratissima menzione, dopo l’averlo ringraziato, gli disse: Voi, messer Camillo, avete fatto degli amici vostri, quello che de’ suoi denari talor50 fanno alcuni mercatanti, li quali quando si ritrovano aver qualche ducato falso, per spazzarlo pongon quel solo tra molti buoni, ed in tal modo lo spendeno; così voi per onorarmi, bench’io poco vaglia, m’avete posto in compagnia di così virtuosi ed eccellenti signori, ch’io col merito loro forsi passerò per buono. — Rispose al lor messer Camillo: Quelli che falsifican li ducati sogliono così ben dorargli51, che all’occhio pajon molto più belli che i buoni; però se così si trovassero alchimisti d’uomini, come si trovano de’ ducati, ragion sarebbe sospettar che voi foste falso, essendo, come sete, di molto più bello e lucido metallo, che alcun degli altri. — Eccovi che questo loco è commune all’una e l’altra sorte di motti; e così sono molt’altri, dei quali si potrebbon dar infiniti esempii, e massimamente in detti gravi; come quello che disse il Gran Capitano, il quale, essendosi posto a tavola, ed essendo già occupati tutti i lochi, vide che in piedi erano restati dui gentiluomini italiani, i quali avean servito nella guerra molto bene; e subito esso medesimo si levò, e fece levar tutti gli altri e far loco a que’ doi, e disse: Lasciate sentare a mangiar questi signori, che se essi non fossero stati, noi altri non aremmo ora che mangiare. — Disse ancor a Diego Garzia, che lo confortava a levarsi d’un loco pericoloso, dove batteva l’artigliaria: Dapoi che Dio non ha messo paura nell’animo vostro, non la vegliate voi metter nel mio. — E ’l re Luigi, che oggi è re di Francia, essendogli, poco dapoi che fu creato re, detto che allor era il tempo di castigar i suoi nemici, che lo aveano tanto offeso mentre era duca d’Orliens, rispose, che non toccava al re di Francia vendicar l’ingiurie fatte al duca d’Orliens.
LXVI. Si morde ancora spesso facetamente con una certa gravità senza indur riso; come disse Gein Ottomani, fratello del Gran Turco, essendo prigione in Roma, che ’l giostrare, come noi usiamo in Italia, gli parea troppo per scherzare, e poco per far da dovero. E disse, essendogli referito quanto il re Ferando minore fosse agile e disposto della persona nel correre, saltare, volteggiare e tai cose: che nel suo paese i schiavi facevano questi esercizi, ma i signori imparavano da fanciulli la liberalità, e di questa si laudavano. Quasi ancora di tal maniera, ma un poco più ridicolo, fu quello che disse l’arcivescovo di Fiorenza al cardinale Alessandrino: che gli uomini non hanno altro che la roba, il corpo e l’anima; la roba è lor posta in travaglio dai jurisconsulti, il corpo dai medici, e l’anima dai teologi. — Rispose allor il Magnifico Juliano: A questo giunger si potrebbe. quello che diceva Nicoletto, cioè che di raro si trova mai risconsulto che litighi, nè medico che pigli medicina, nè teologo che sia buon cristiano.
LXVII. Rise messer Bernardo, poi soggiunse: Di questi sono infiniti esempii, detti da gran signori ed uomini gravissimi. Ma ridesi ancora spesso delle comparazioni, come scrisse il nostro Pistoja a Serafino: Rimanda il valigion che l’assimiglia; — chè, se ben vi ricordate, Serafino52 s’assimigliava molto ad una valigia. Sono ancora alcuni che si dilettano di comparar uomini e donne a cavalli, a cani, ad uccelli, e spesso a casse, a scanni, a carri, a candelieri; il che talor ha grazia, talor è freddissimo. Però in questo bisogna considerare il loco, il tempo, le persone, e l’altre cose che già’ tante volte avemo detto, — Allor il signor Gaspar Pallavicino, Piacevole comparazione, disse, fu quella che fece il signor Giovanni Gonzaga nostro, di Alessandro Magno al signor Alessandro suo figliolo. — Io non lo so, — rispose messer Bernardo. Disse il signor Gasparo: Giocava il signor Giovanni a tre dadi, e, come è sua usanza, aveva perduto molti ducati, e tuttavia perdea; ed il signor Alessandro suo figliolo, il quale, ancor che sia fanciullo, non gioca men volentieri che ’l padre, stava con molta attenzione mirandolo, e parea tutto tristo. Il conte di Pianella, che con molti altri gentiluomini era presente, disse: Eccovi, signore, che ’l signor Alessandro sta mal contento della vostra perdita, e si strugge aspettando pur che vinciate, per aver qualche cosa di vinta; però cavatelo53 di questa angonia, e prima che perdiate il resto, donategli almen un ducato, acciò che esso ancor possa andare a giocare co’ suoi compagni. — Disse allor il signor Giovanni: Voi v’ingannate, perchè Alessandro non pensa a così piccol cosa; ma, come si scrive che, Alessandro Magno, mentre che era fanciullo, intendendo che Filippo suo padre avea vinto una gran battaglia ed acquistato un certo regno, cominciò a piangere, ed essendogli domandato perchè piangeva, rispose, perchè dubitava che suo padre vincerebbe tanto paese, che non lasciarebbe che vincere a lui: così ora Alessandro mio figliolo si duole e sta per pianger vedendo ch’io suo padre perdo, perchè dubita ch’io perda tanto, che non lasci che perder a lui.—
LXVIII. E quivi essendosi riso alquanto, soggiunse messer BernarDo: È ancora da fuggire che ’l motteggiar non sia impio; chè la cosa passa poi al voler esser arguto nel biastemare, e studiare di trovar in ciò nuovi modi: onde di quello che.l’uomo merita non solamente biasimo ma grave castigo, par che ne cerchi gloria; il che è cosa abominevole: e però questi tali, che voglion mostrar di esser faceti con poca reverenza di Dio, meritano esser cacciati dal consorzio d’ogni gentiluomo. Nè meno quelli che son osceni e sporchi nel parlare, e che in presenza di donne non hanno rispetto alcuno, e pare che non piglino altro piacer che di farle arossire di vergogna, e sopra di questo vanno cercando motti ed arguzie. Come quest’anno in Ferrara ad un convito in presenza di molte gentildonne ritrovandosi un Fiorentino ed un Sanese, i quali per lo più, come sapete, sono nemici; disse il Sanese per mordere il Fiorentino: Noi abbiam maritato Siena allo imperatore, ed avemogli dato Fiorenza in dota; e questo disse, perchè di que’ di s’era ragionato che Sanesi avean dato una certa quantità di danari allo imperatore, ed esso aveva tolto la lor protezione. Rispose subito il Fiorentino: Siena sarà la prima cavalcata (alla franzese, ma disse il vocabolo italiano); poi la dote si litigherà a bell’agio. — Vedete che il motto fu ingenioso, ma, per esser in presenza di donne, diventò osceno e non conveniente.
LXIX. Allora il signor Gaspar Pallavicino, Le donne, disse, non hanno piacere di sentir ragionar d’altro; e voi volete levargliele. Ed io per me sonomi trovato ad arossirmi di vergogna per parole dettemi da donne, molto54 più spesso che da uomini. — Di queste tai donne non parlo io, disse messer Bernardo; ma di quelle virtuose, che meritano reverenza ed onore da ogni gentiluomo. — Disse il signor Gasparo: Bisogneria ritrovare una sottil regola per conoscerle, perchè il più delle volte quelle che sono in apparenza le migliori, in effetto sono il contrario. — Allor messer Bernardo ridendo disse: Se qui presente non fosse il signor Magnifico nostro, il quale in ogni loco è allegato per protettor delle donne, io pigliarei l’impresa di rispondervi; ma non voglio far ingiuria a lui. — Quivi la signora Emilia, pur ridendo, disse: Le donne non hanno bisogno di difensore alcuno contra accusatore di così poca autorità; però lasciate pur il signor Gasparo in questa perversa opinione, e nata più presto dal suo non aver mai trovato donna che l’abbia voluto vedere, che da mancamento alcuno delle donne; e seguitate voi il ragionamento delle facezie.
LXX. Allora messer Bernardo, Veramente, signora,. disse, omai parmi aver detto de’ molti lochi onde cavar si possono motti arguti, i quali poi hanno tanto più grazia, quanto sono accompagnati da una bella narrazione. Pur ancor molt’altri si potrian dire; come quando, o per accrescere o per minuire, si dicon cose che eccedono incredibilmente la verisimilitudine; e di questa sorte fu quella che disse Mario da Volterra d’un prelato, che si tenea tanto grand’uomo, che quando egli entrava in San Pietro s’abbassava per non dare della testa nell’architravo della porta. Disse ancora il Magnifico nostro qui, che Golpino suo servitore era tanto magro e secco, che una mattina, soffiando sott’il foco per accenderlo, era stato portato dal fumo su per lo camino insino alla cima; ed essendosi per sorte traversato ad una di quelle finestrette, aveva avuto tanto di ventura, che non era volato via insieme con esso. Disse ancor messer Augustino Bevazzano, che uno avaro, il qual non aveva volato vendere il grano mentre che era caro, vedendo che poi s’era molto avvilito, per disperazione s’impiccò ad un trave della sua camera; ed avendo un servitor suo sentito il strepito, corse, e vide il patron impiccato, e prestamente tagliò la fune, e così liberollo dalla morte; dapoi l’avaro, tornato in sè, volse che quel servitor gli pagasse la sua fune che tagliata gli avea. Di questa sorte pare ancor che sia quello che disse55 Lorenzo de’ Medici ad un buffon freddo: Non mi fareste ridere se mi solleticasti. — E medesimamente rispose ad un altro sciocco, il quale una mattina l’avea trovato in letto molto tardi, e gli rimproverava il dormir tanto, dicendogli: Io a quest’ora sono stato in Mercato Nuovo e Vecchio, poi fuor della Porta a San Gallo, intorno alle mura a far esercizio, ed ho fatto mill’altre cose; e voi ancor dormite? Disse allora Lorenzo: Più vale quello che ho sognato in un’ora io, che quello che avete fatto in quattro voi.
LXXI. È ancor bello, quando con una risposta l’uomo riprende quello che par che riprendere non voglia. Come il marchese Federico di Mantua, padre della signora Duchessa nostra, essendo a tavola con molti gentiluomini, un d’essi, dapoi che ebbe mangiato tutto un minestro, disse: Signor Marchese, perdonatemi; — e così detto, cominciò a sorbire quel brodo che gli era avanzato. Allora il Marchese subito disse: Domanda pur perdono ai porci, chè a me non fai tu ingiuria alcuna. — Disse ancora messer Nicolò Leonico, per tassar un tiranno ch’avea falsamente fama di liberale: Pensate quanta liberalità regna in costui, che non solamente dona la roba sua, ma ancor l’altrui.
LXXIII. Assai gentil modo di facezie è ancor quello che consiste in una certa dissimulazione, quando si dice una cosa, e tacitamente se ne intende un’altra; non dico già di quella maniera totalmente contraria, come se ad un nano si dicesse gigante, e ad un negro bianco, ovvero ad un bruttissimo bellissimo, perchè son troppo manifeste contrarietà, benchè queste ancor alcuna volta fanno ridere; ma quando con un parlar severo e grave. giocando si dice piacevolmente quello che non s’ha in animo. Come dicendo un gentiluomo una espressa bugia a messer Augustin Foglietta, ed affermandola con efficacia, perchè gli parea pur che esso assai difficilmente la credesse, disse in ultimo messer Augustino: Gentiluomo, se mai spero aver piacer da voi, fatemi tanta grazia che siate contento, ch’io non creda cosa che voi diciate56. Replicando pur costui, e con sacramento, esser la verità, in fine disse: Poichè voi pur così volete, io lo crederò per amor vostro, perchè in vero io farei ancor maggior cosa per voi. Quasi di questa sorte disse don Joanni di Cardona d’uno che si voleva partir di Roma: Al parer mio, costui pensa male; perchè è tanto scelerato, che stando in Roma ancor col tempo potria esser cardinale. — Di questa sorte è ancor quello che disse Alfonso Santacroce; il qual avendo avuto poco prima alcuni oltraggi dal Cardinale di Pavia, e passeggiando fuori di Bologna con alcuni gentiluomini presso al loco dove si fa la giustizia, e vedendovi un uomo poco prima impiccato, se gli rivoltò con un certo aspetto cogitabondo, e disse, tanto forte che ognun lo sentì: Beato tu, che non hai che fare col Cardinale di Pavia.
LXXIII. E questa sorte di facezie che tiene dell’ironico pare molto conveniente ad uomini grandi, perchè è grave e salsa, e puossi usare nelle cose giocose ed ancor nelle severe. Però molti antichi, e dei più estimati, l’hanno usata, come Catone, Scipione Africano minore; ma sopra tutti in questa dicesi esser stato eccellente Socrate filosofo, ed a’ nostri tempi il re Alfonso Primo di Aragona; il quale essendo una mattina per mangiare, levossi molte preziose anella che nelli diti avea, per non bagnarle nello lavar delle mani, e così le diede a quello che prima gli occorse, quasi senza mirar chi fosse. Quel servitore pensò che ’l re non avesse posto cura a cui date l’avesse, e che, per i pensieri di maggior importanza, facil cosa fosse che in tutto se lo scordasse: ed in questo più si confermò, vedendo che ‘1 re più non le ridomandava; e stando giorni e settimane e mesi senza sentirne mai parola, si pensò di certo esser sicuro. E così essendo vicino all’anno che questo gli era occorso, un’altra mattina, pur quando il re voleva mangiare, si rapresentò, e porse la mano per pigliar le anella; allora il re, accostatosegli all’orecchio, gli disse: Bastinti le prime, chè queste saran buone per un altro. — Vedete come il motto è salso, ingegnoso e grave, e degno veramente della magnanimità d’uno Alessandro.
LXXIV. Simile a questa maniera che tende all’ironico è ancora un altro modo, quando con oneste parole si nomina una cosa viziosa. Come disse il Gran Capitano ad un suo gentiluomo, il quale dopo la giornata della Cirignola, e quando le cose già erano in securo, gli venne incontro armato riccamente quanto dir si possa, come apparecchiato di combattere; ed allor il Gran Capitano, rivolto a don Ugo di Cardona, disse: Non abbiate ormai più paura di tormento di mare, chè Santo Ermo57 è comparito; — e con quella onesta parola lo punse, perchè sapete che Santo Ermo sempre ai marinari appar dopo la tempesta, e dà segno di tranquillità; e così volse dire il Gran Capitano, che essendo comparito questo gentiluomo, era segno che il pericolo già era in tutto passato. Essendo ancor il signor Ottaviano Ubaldino a Fiorenza in compagnia d’alcuni cittadini di molta autorità; e ragionando di soldati, un di quei gli adimandò se conosceva Antonello da Forlì, il qual allor si era fuggito dal stato di Fiorenza. Rispose il signor Ottaviano: Io non lo conosco altrimenti, ma sempre l’ho sentito ricordate per un sollecito soldato; — disse allor un altro Fiorentino: Vedete come egli è sollecito, che si parte prima che domandi licenza.
LXXV. Arguli motti son ancor quelli, quando del parlar proprio del compagno l’uomo cava quello che esso non vorria; e di tal modo intendo che rispose il signor duca nostro a quel castellano che perdè San Leo, quando questo stato fu tolto da papa Alessandro e dato al duca Valentino; e fu, che essendo il signor duca in Venezia in quel tempo ch’io ho detto, venivano di continuo molti de’ suoi sudditi a dargli secretamente notizia come passavan le cose del stato, e fra gli altri vennevi ancor questo castellano; il quale dopo l’aversi escusato il meglio che seppe, dando la colpa alla sua disgrazia, disse: Signor, non dubitate, chè ancor mi basta l’animo di far di modo, che si potrà recuperar San Leo58. Allor rispose il signor Duca: Non ti affaticar più in questo; chè già il perderlo è stato un far di modo, che ’l si possa recuperare. — Son alcun’altri detti, quando un uomo, conosciuto per ingenioso, dice una cosa che par che proceda da sciocchezza. Come l’altro giorno disse messer Camillo Palleotto d’uno: Questo pazzo, subito che ha cominciato ad arricchire, si è morto. — È simile a questo modo una certa dissimulazion salsa ed acuta, quando un uomo, come ho detto, prudente, mostra non intender quello: che intende. Come disse il marchese Federico di Mantua; il quale, essendo stimolato da un fastidioso, che si lamentava che alcuni suoi vicini con lacci gli pigliavano i colombi della sua colombara, e tuttavia in mano ne tenea uno impiccato per un piè col laccio, che così morto trovato l’aveva, gli rispose che si provedaria. Il fastidioso non solamente una volta ma molte replicando questo suo danno, col mostrar sempre il colombo così impiccato, dicea pur: E che vi par, Signor, che far si debba di questa cosa? — Il marchese in ultimo, A me par, disse, che per niente quel colombo non sia sepelito in chiesa, perchè essendosi impiccato da sè stesso, è da credere che fosse disperato. — Quasi di tal modo fu quel di {{wl|Q453860|Scipione Nasica]] ad Ennio; che essendo andato Scipione a casa d’Ennio per parlargli, e chiamandol giù dalla strada, una sua fante gli rispose che egli non era in casa; e Scipione udì manifestamente, che Ennio proprio avea detto alla fante che dicesse ch’egli non era in casa: così si parti. Non molto appresso venne Ennio a casa di Scipione, e pur medesimamente lo chiamava stando da basso; a cui Scipione alta voce esso medesimo rispose, che non era in casa. Allora Ennio, Come? non conosco io, rispose, la voce tua? — Disse Scipione: Tu sei troppo discortese; l’altro giorno io credetti alla fante tua che tu non fossi in casa, e ora tu nol vuoi credere a me stesso.
LXXVI. È ancor bello, quando uno vien morso in quella medesima cosa che esso prima ha morso il compagno; come essendo Alonso Carillo alla corte di Spagna, ed avendo commesso alcuni errori giovenili e non di molta importanza, per comandamento del re fu posto in prigione, e quivi lasciato una notte. Il dì seguente ne fu tratto, e così venendo a palazzo la mattina, giunse nella sala dove eran molti cavalieri e dame; e ridendosi di questa sua prigionia, disse la signora Boadilla: Signor Alonso, a me molto pesava di questa vostra disavventura, perchè tutti quelli che vi conoscono pensavano che ’l re dovesse farvi impiccare. — Allora Alonso subito, Signora, disse, io ancor ebbi gran paura di questo; pur aveva speranza che voi mi dimandaste per marito. — Vedete come questo è acuto ed ingenioso; perchè in Spagna, come ancor in molti altri lochi, usanza è che quando si mena uno alle forche, se una meretrice publica l’addimanda per marito, donasegli la vita. Di questo modo rispose ancor Rafaello pittore a dui cardinali suoi domestici, i quali, per farlo dire, tassavano in presenza sua una favola che egli avea fatta, dove erano san Pietro e san Paolo, dicendo che quelle due figure eran troppo rosse nel viso. Allora Rafaello subito disse: Signori, non vi maravigliate; chè io questi ho fatto a sommo studio, perchè è da credere che san Pietro e san Paolo siano, come qui gli vedete, ancor in cielo così rossi, per vergogna che la Chiesa sua sia governata da tali uomini come sete voi.
LXXVII. Sono ancor arguti quei motti che hanno in sè una certa nascosta suspizion di ridere; come lamentandosi un marito molto, e piangendo sua moglie, che da sè stessa s’era ad un fico impiccata, un altro se gli accostò, e, tiratolo per la veste, disse: Fratello, potrei io per grazia grandissima aver un rametto di quel fico, per inserire in qualche albero dell’orto mio? — Son alcuni altri motti pazienti, e detti lentamente con una certa gravità; come, portando un contadino una cassa in spalla, urtò Catone con essa, poi disse: Guarda. — Rispose Catone: Hai tu altro in spalla che quella cassa? — Ridesi ancor quando un uomo, avendo fatto un errore, per rimediarlo dice una cosa a sommo studio, che par sciocca, e pur tende a quel fine che esso disegna, e con quella s’ajuta per non restar impedito. Come a questi dì, in consiglio di Fiorenza ritrovandosi doi nemici, come spesso interviene in queste republiche, l’uno d’essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; e quello che gli sedeva vicino, per ridere, benchè ’l suo avversario, che era di casa Alamanni, non parlasse nè avesse parlato, toccandolo col cubito lo risvegliò, e disse: Non odi tu ciò che il tal dice? rispondi, chè i Signori domandan del parer tuo.— Allor l’Altoviti, tutto sonnacchioso e senza pensar altro, si levò in piedi e disse: Signori, io dico tutto il contrario di quello che ha detto l’Alamanni. Rispose l’Alamanni: Oh, io non ho detto nulla. — Subito disse l’Altoviti: Di quello che tu dirai. — Disse ancor di questo modo maestro Serafino, medico vostro urbinate, ad un contadino, il qual, avendo avuta una gran percossa in un occhio, di sorte che in vero glielo avea cavato, deliberò pur d’andar per rimedio a maestro Serafino; ed esso vedendolo, benchè conoscesse esser impossibile il guarirlo, per cavargli denari delle mani, come quella percossa gli avea cavato l’occhio della testa, gli promise largamente di guarirlo; e così ogni dì gli addimandava denari, affermando che fra cinque o sei di cominciaria a riaver la vista. Il pover contadino glì dava quel poco che aveva; pur, vedendo che la cosa andava in lungo, cominciò a dolersi del medico, e dir che non sentiva miglioramento alcuno, nè discernea con quell’occhio59 più che se non l’avesse avuto in capo. In ultimo, vedendo maestro Serafino che poco più potea trargli di mano, disse: Fratello mio, bisogna aver pazienza: tu hai perduto l’occhio, nè più v’è rimedio alcuno; e Dio voglia che tu non perdi anco quell’altro. — Udendo questo il contadino, si mise a piangere e dolersi forte, e disse: Maestro, voi m’avete assassinato e rubato i miei denari: io mi lamentarò al signor Duca; — e facea i maggiori stridi del mondo. Allora maestro Serafino in collera, e per svilupparsi, Ah villan traditor, disse, dunque tu ancor vorresti aver dui occhi, come hanno i cittadini e gli uomini da bene? vattene in malora: — e queste parole accompagnò con tanta furia, che quel povero contadino spaventato si tacque, e cheto cheto se n’andò con Dio, credendosi d’aver il torto.
LXXVIII. È anco bello quando si dechiara una cosa, o sì interpreta giocosamente. Come alla corte di Spagna comparendo una mattina a palazzo un cavaliero, il quale era bruttissimo, e la moglie, che era bellissima; l’uno e l’altro vestiti di damasco bianco, disse la Reina ad Alonso Carillo: Che vi par, Alonso, di questi dui? — Signora, rispose Alonso, parmi che questa sia la dama e questo lo asco; — che vuol dir schifo60. Vedendo ancor Rafael de’ Pazzi una lettera del Prior di Messina, ch’egli scriveva ad una sua signora, il soprascritto della qual dicea: Esta charta s’ha de dar a quien causa mi penar; Parmi, disse, che questa lettera vada a Paolo Tolosa. — Pensate come risero i circostanti, perchè ognuno sapea che Paolo Tolosa aveva prestato al Prior diece mila ducati; ed esso, per esser gran spenditor, non trovava modo di rendergli. A questo è simile, quando si dà una ammonizion famigliare in forma di consiglio, pur dissimulatamente. Come disse Cosimo de’ Medici ad un suo amico, il qual era assai ricco, ma di non molto sapere, e per mezzo pur di Cosimo aveva ottenuto un officio fuori di Firenze; e dimandando costui nel partir suo a Cosimo, che modo gli parea che egli avesse a tenere per governarsi bene in questo suo officio, Cosimo gli rispose: Vesti di rosato, e parla poco. — Di questa sorte fu quello che disse il conte Ludovico ad uno che volea passar incognito per un certo loco pericoloso, e non sapea come travestirsi; ed essendone il conte addimandato, rispose: Vestiti da dottore, o di qualche altro abito da savio.Disse ancor Giannotto de’ Pazzi ad un che volea far un sajo d’arme dei più diversi colori che sapesse trovare: Piglia parole ed opre del Cardinale di Pavia.
LXXIX. Ridesi ancor d’alcune cose discrepanti; come disse uno l’altro giorno a messer Antonio Rizzo d’un certo Forlivese: Pensate s’è pazzo, che ha nome Bartolommeo. Ed un altro: Tu cerchi un maestro Stalla61, e non hai cavalli: ed, A costui non manca però altro che la roba e ’l cervello. — E d’alcun’altre che pajon consentanee; come, a questi dì, essendo stato suspicione che uno amico nostro avesse fatto fare una renunzia falsa d’un beneficio, essendo poi malato un altro prete, disse Antonio Torello a quel tale: Che stai tu a far, che non mandi per quel tuo notaro, e vedi di carpir quest’altro beneficio? — Medesimamente d’alcune che non sono consentanee; come l’altro giorno avendo il papa mandato per messer Joan Luca da Pontremolo e per messer Domenico dalla Porta, i quali, come sapete, son tutti dui gobbi, e fattogli Auditori, dicendo voler indrizzare la Rota, disse messer Latin Juvenale: Nostro Signore s’inganna, volendo con dui torti indrizzar la Rota.
LXXX. Ridesi ancor spesso quando l’uomo concede quello che se gli dice62, ed ancor più, ma mostra intenderlo altramente. Come, essendo il capitan Peralta già condotto in campo per combattere con Aldana, e domandando il capitan Molart, che era patrino d’Aldana, a Peralta il sacramento, s’avea adosso brevi o incanti che lo guardassero da esser ferito: Peralta giurò, che non avea adosso nè brevi nè incanti nè reliquie nè devozione alcuna in che avesse fede. Allor Molart, per pungerlo che fosse marrano, disse: Non vi affaticate in questo, chè senza giurare credo che non abbiate fede nè ancor in Cristo. — È ancor bello usar le metafore a tempo in tai propositi; come il nostro maestro Marc’Antonio, che disse a Botton da Cesena, che lo stimolava con parole: Botton, Bottone, tu sarai un dì il bottone, e ’l capestro sarà la fenestrella. — Ed avendo ancor maestro Marc’Antonio composto una molto lunga comedia e di varii atti, disse il medesimo Botton pur a maestro Marce” Antonio: A far la vostra comedia bisogneranno per lo apparato quanti legni sono in Schiavonia; — rispose maestro Marc’Antonio: E per l’apparato della tua tragedia basteran tre solamente.
LXXXI. Spesso si dice ancor una parola, nella quale è una nascosta significazione lontana da quello che par che dir si voglia. Come il signor Prefetto qui, sentendo ragionare d’un capitano, il quale in vero a’ suoi di il più delle volte ha perduto, ed allor pur per avventura avea vinto; e dicendo colui che ragionava, che nella entrata che egli avea fatta in quella terra s’era vestito un bellissimo sajo di velluto chermosi, il qual portava sempre dopo le vittorie; disse il signor Prefetto: Dee esser nuovo. — Non meno induce il riso, quando talor si risponde a quello che non ha detto colui con cui si parla, ovver si mostra creder che abbia fatto quello che non ha fatto, e dovea fare. Come Andrea Coscia, essendo andato a visitare un gentiluomo, il quale discortesemente lo lasciava stare in piedi, ed esso sedea, disse: Poichè Vostra ‘ Signoria me lo comanda, per obedire io sederò; — e così si pose a sedere.
LXXXII. Ridesi ancor quando l’uomo con buona grazia accusa sè stesso di qualche errore; come |’ altro giorno, dicendo io al capellan del signor Duca, che Monsignor mio avea un capellano che dicea messa più presto di lui, mi rispose: Non è possibile; — ed accostatomisi all’orecchio, disse Sappiate, ch’io non dico un terzo delle secrete. — Biagin Crivello ancor, essendo stato morto un prete a Milano, domandò il beneficio al Duca, il qual pure stava in opinion di darlo ad un altro. Biagin in ultimo, vedendo che altra ragione non gli valea, E come? disse; s’io ho fatto amazzar il prete, perchè non mi volete voi dar il beneficio? — Ha grazia ancor spesso desiderare quelle cose che non possono essere; come l’altro giorno un dei nostri, vedendo questi signori che tutti giocavano d’arme, ed esso stava colcato sopra un letto, disse: Oh come mi piaceria, che ancor questo fosse esercizio da valente uomo e buon soldato! — È ancor bel modo e salso di parlare, e massimamente in persone gravi e d’autorità, rispondere al contrario di quello che vorria colui con chi si parla, ma lentamente, e quasi con una certa considerazione dubiosa e sospesa. Come già il re Alfonso primo d’Aragona, avendo donato ad un suo servitore arme, cavalli e vestimenti, perchè gli avea detto che la notte avanti sognava che Sua Altezza gli dava tutte quelle cose; e non molto poi dicendogli pur il medesimo servitore, che ancor quella notte avea sognato che gli dava una buona quantità di fiorin d’oro, gli rispose: Non crediate da mo inanzi ai sogni, chè non sono veritevoli. — Di questa sorte rispose ancor il papa al vescovo di Cervia, il qual, per tentar la volontà sua, gli disse: Padre Santo, per tutta Roma e per lo palazzo ancora si dice, che Vostra Santità mi fa governatore. — Allor il papa, Lasciategli dire, rispose, che son ribaldi; non dubitate, che non è vero niente.
LXXXIII. Potrei forse ancor, signori, raccorre molti altri lochi, donde si cavano motti ridicoli; come le cose dette con timidità, con maraviglia, con minaccia63, fuor d’ordine, con troppo collera; oltra di questo, certi casi nuovi, che intervenuti inducono il riso; talor la taciturnità, con una certa maraviglia; talor il medesimo ridere senza proposito: ma a me pare ormai aver detto a bastanza, perchè le facezie che consistono nelle parole credo che non escano64 di que’ termini di che noi avemo ragionato. Quelle poi che sono nell’effetto, avvenga che abbian infinite parti, pur si riducono a pochi capi: ma nell’una e nell’altra sorte la principal cosa è lo ingannar la opinion, e rispondere altramente che quello che aspetta l’auditore; ed è forza, se la facezia ha d’aver grazia, sia condita di quello inganno, o dissimulare o beffare o riprendere o comparare, o qual altro modo voglia usar l’uomo. E benchè le facezie inducano tutte a ridere, fanno però ancor in questo ridere diversi effetti; perchè alcune hanno in sè una certa eleganza e piacevolezza modesta, altre pungono talor copertamente, talor publico, altre hanno del lascivetto, altre fanno ridere subito che s’odono, altre quanto più vi si pensa, altre col riso fanno ancor arrossire, altre inducono un poco d’ira; ma in tatti i modi s’ha da considerar la disposizion degli animi degli auditori, perchè agli afflitti spesso i giochi danno maggior afflizione; e sono alcune infermità che, quanto più vi si adopra medicina, tanto più si incrudiscono65. Avendo adunque il Cortegiano nel motteggiare e dir piacevolezze rispetto al tempo, alle persone, al grado suo, e di non esser in ciò troppo frequente; chè în vero dà fastidio, tutto il giorno, in tutti i ragionamenti, e senza proposito, star sempre su questo: potrà esser chiamato faceto; guardando ancor di non esser tanto acerbo e mordace, che si faccia conoscer per maligno, pungendo senza causa, ovver con odio manifesto; ovver persone troppo potenti, che è imprudenza; ovvero troppo misere, che è crudeltà; ovver troppo scelerate, che è vanità; ovver dicendo cose che offendan quelli che esso non vorria offendere, che è ignoranza; perchè si trovano alcuni che si credon esser obligati a dir e punger senza rispetto ogni volta che possono, vada pur poi la cosa come vuole. E tra questi tali son quelli, che per dire una parola argutamente, non guardan di macular l’onor d’una nobil donna; il che è malissima cosa, e degna di gravissimo castigo, perchè in questo caso le donne sono nel numero dei miseri66, e però non meritano in ciò essere mordute, chè non hanno arme da difendersi. Ma, oltre a questi rispetti; bisogna che colui che ha da esser piacevole e faceto, sia formato d’una certa natura atta a tutte le sorti di piacevolezze, ed a quelle accommodi i costumi, i gesti e ’l volto; il quale quant’è più grave e severo e saldo, tanto più fa le cose che son dette parer salse ed argute.
LXXXIV. Ma voi, messer Federico, che pensaste di riposarvi sotto questo sfogliato albero e nei miei secchi ragionamenti, credo che ne siate pentito, e vi paja esser entrato nell’osteria di Montefiore67: però ben sarà che, a guisa di pratico corrieri, per fuggir un tristo albergo, vi leviale un poco più per tempo che l’ordinario, e seguitiate il cammin vostro. — Anzi, rispose messer Federico, a così buon albergo sono io venuto, che penso di starvi più che prima non aveva deliberato: però riposerommi pur ancor fin a tanto che voi diate fine a tutto ’l ragionamento proposto, del quale avete lasciato una parte che al principio nominaste, che son le burle; e di ciò non è buono che questa compagnia sia defraudata da voi. Ma sì come circa le facezie ci avete insegnato molte belle cose, e fattoci audaci nello usarle, per esempio di tanti singolari ingegni e grand’uomini, e principi e re e papi, credo medesimamente che nelle burle ci darete tanto ardimento, che pigliaremo segurtà di metterne in opera qualch’una ancor contra di voi. — Allora messer Bernardo ridendo, Voi non sarete, disse, i primi; ma forse non vi verrà fatto, perchè omai tante n’ho ricevute, che mi guardo da ogni cosa; come i cani, che, scottati dall’acqua calda, hanno paura della fredda. Pur, poichè di questo ancor volete ch’io dica, penso potermene espedire con poche parole.
LXXXV. E parmi che la burla non sia altro, che un inganno amichevole di cose che non offendano, o almen poco; e sì come nelle facezie il dir contra l’aspettazione, così nelle burle il far contra l’aspettazione induce riso. E queste tanto più piacciono e sono laudate, quanto più hanno dello ingenioso e modesto; perchè chi vuol burlar senza rispetto spesso offende, e poi ne nascono disordini e gravi inimicizie. Ma i lochi donde cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie. Però, per non replicarli, dico solamente, che di due sorti burle si trovano, ciascuna delle quali in più parti poi divider si poria. L’una è, quando s’inganna ingeniosamente con bel modo e piacevolezza chi si sia; l’altra, quando si tende quasi una rete, e mostra un poco d’esca, talchè l’uomo corre ad ingannarsi da sè stesso. Il primo modo è tale, quale fu la burla che a questi di due gran signore, ch’io non voglio nominare, ebbero per mezzo d’uno Spagnuolo chiamato Castiglio. — Allora la signora Duchessa, E perchè, disse, non le volete voi nominare? — Rispose messer Bernardo: Non vorrei che lo avessero a male. — Replicò la signora Duchessa ridendo: Non si disconvien talor usare le burle ancor coi gran signori; ed io già ho udito molte esserne state fatte al Duca Federico, al Re Alfonso d’Aragona, alla Reina donna Isabella di Spagna, ed a molti altri, gran principi; ed essi non solamente non lo aver avuto a male, ma aver premiato largamente i burlatori. — Rispose messer Bernardo: Nè ancor con questa speranza le nominarò io. — Dite come vi piace, — soggiunse la signora Duchessa; Allor seguitò messer Bernardo, e disse: Pochi di sono, che nella corte di chi io intendo68 capitò un contadin bergamasco per servizio di un gentiluom cortegiano, il qual fu tanto ben divisato di panni, ed acconcio così altilatamente, che; avvenga che fosse usato solamente a guardar buoi, nè sapesse far altro mestiero, da chi non l’avesse sentito ragiomare saria stato tenuto per un galante cavaliero; e così essendo detto a quelle due signore, che quivi era capitato un Spagnolo servitore del cardinale Borgia, che si chiamava Castiglio, ingeniosissimo, musico, danzatore, ballatore, e più accorto cortegiano che fosse in tutta Spagna, vennero in estremo desiderio di parlargli, e subito mandarono per esso; e dopo le onorevoli accoglienze, lo fecero sedere, e cominciarono a parlargli con grandissimo riguardo in presenza d’ognuno; e pochi eran di quelli che si trovavano presenti, che. non sapessero che costui era un vaccaro bergamasco. Però, vedendosi che quelle signore l’intertenevano con tanto rispetto e tanto l’onoravano, furono le risa grandissime; tanto più che ’l1 buon uomo sempre parlava del suo nativo parlare zaffi bergamasco. Ma quei gentiluomini che faceano la burla aveano prima detto a queste signore, che costui, tra l’altre cose, era gran burlatore, e parlava eccellentemente tutte le lingue, e massimamente lombardo contadino: di sorte che sempre estimarono che fingesse; e spesso si voltavano l’una all’altra con certe maraviglie, e diceano: Udite gran cosa, come contrafà questa lingua! — In somma, tanto durò questo ragionamento, che ad ognuno doleano gli fianchi per le risa; e fu forza che esso medesimo desse tanti contrasegni della sua nobilità, che pur in ultimo queste signore, ma con gran fatica, credettero ch’el fosse quello che egli era.
LXXXVI. Di questa sorte burle ogni dì veggiamo; ma - tra l’altre quelle son piacevoli, che al principio spaventano, e poi riescono in cosa secura; perchè il medesimo burlato si ride di sè stesso, vedendosi aver avuto paura di niente. Come essendo io una notte alloggiato in Paglia, intervenne che nella medesima osteria ov’ero io; erano ancor tre altri compagni, dui da Pistoja, l’altro da Prato, i quali dopo cena si misero, come spesso si fa, a giocare: così non v’andò molto che uno dei dui Pistolesi, perdendo il resto; restò senza un quattrino, di modo che cominciò a disperarsi, e maledire e biastemare fieramente; e così rinegando, se n’andò a dormire. Gli altri dui avendo alquanto giocato, deliberarono fare una burla a questo che era ito al letto. Onde, sentendo che esso già dormiva, spensero tutti i lumi, e velarono il foco; poi si misero a parlar alto, e far i maggiori rumori del mondo, mostrando venire a contenzion del gioco, dicendo uno: Tu hai tolto la carta di sotto; — l’altro negandolo, con dire: E tu hai invitato sopra flusso; il gioco vadi a monte; e cotai cose, con tanto strepito, che colui che dormiva si risvegliò; e sentendo che costoro giocavano e parlavano. così come se vedessero le carte, un poco aperse gli occhi, e non vedendo lume alcuno in camera, disse: E che diavol farete voi tutta notte di gridare? — Poi subito si rimise giù, come per dormire. I dui compagni non gli diedero altrimenti risposta, ma seguitarono l’ordine suo; di modo che costui, meglio risvegliato, cominciò a maravigliarsi; e vedendo certo che ivi non era nè foco nè splendor alcuno, e che pur costor giocavano e contendevano, disse: E come potete voi veder le carte senza lume? — Rispose uno delli dui: Tu dei aver perduto la vista insieme con li denari: non vedi tu, se qui abbiam due candele? — Levossi quello che era in letto su le braccia, e quasi adirato, disse: O ch’io sono ebriaco o cieco, o voi dite le bugie. — Li dui levaronsi, ed andarono al letto tentoni, ridendo, e mostrando di credere che colui si facesse beffe di loro; ed esso pur replicava: Io dico che non vi veggo. — In ultimo li dui cominciarono a mostrar di maravigliarsi forte, e l’uno disse all’altro: Oimè, parmi ch’el dica da dovero: dà qua quella candela, e veggiamo se forse gli si fosse intorbidata là vista. — Allor quel meschino tenne per fermo d’esser diventato cieco, e piangendo dirottamente disse: O fratelli miei, io son cieco; — e subito cominciò a chiamar la Nostra Donna di Loreto, e pregarla che gli perdonasse le biastemme e le maledizioni che gli aveva date per aver perduto i denari. I dui compagni pur lo confortavano, e dicevano: E’ non è possibile che tu non ci vegghi; egli è una fantasia che tu t’hai posta in capo. — Oimè, replicava l’altro, che questa non è fantasia, nè vi veggo io altrimenti che se non avessi mai avuti occhi in testa. — Tu hai pur la vista chiara, — rispondeano li dui, e diceano l’un l’altro: Guarda come egli apre ben gli occhi! e come gli ha belli! e chi poria creder ch’ei non vedesse? — Il poveretto tuttavia piangea più forte, e domandava misericordia a Dio. In ultimo costoro gli dissero: Fa voto d’andare alla nostra Donna di Loreto devotamente scalzo ed ignudo, che questo è il miglior rimedio che si possa avere; e noi frattanto andaremo ad Acqua Pendente e quest’altre terre vicine, per veder di qualche medico, e non ti mancaremo di cosa alcuna possibile. — Allora quel meschino subito s’inginocchiò nel letto, e con infinite lacrime ed amarissima penitenza dello aver biastemato, fece voto solenne d’andare ignudo a Nostra Signora di Loreto, ed offerirle un pajo d’occhi d’argento, e non mangiar carne il mercore, nè ova il venere, e digiunar; pane ed acqua ogni sabbato ad onore di Nostra Signora, se gli concedeva grazia di recuperar la vista. I dui compagni, entrati in un’altra camera, accesero un lume, e se ne vennero con le maggior risa del mondo davanti a questo poveretto; il quale, benchè fosse libero di così grande affanno, come potete pensare, pur era tanto attonito della passata paura, che non solamente non potea ridere, ma nè pur parlare; e li dui compagni non faceano altro che stimolarlo, dicendo, che era obligato a pagar tutti questi voti, perchè avea ottenuta la grazia domandata.
LXXXVII. Dell’altra sorte di burle, quando l’uomo inganna sè stesso, non darò io altro esempio, se non quello che a me intervenne, non è gran tempo: perchè a questo carneval passato, Monsignor mio di San Pietro ad Vincula, il qual sa come io mi piglio piacer, quando son maschera, di burlar Frati, avendo prima ben ordinato ciò che fare intendeva, venne insieme un dì con Monsignor d’Aragona ed alcuni altri cardinali a certe finestre in Banchi, mostrando voler star quivi a veder passar le maschere, come è usanza di Roma. Io, essendo maschera, passai, e vedendo un Frate così da un canto che stava un poco sospeso, giudicaì aver trovata la mia ventura, e subito gli corsi come un famelico falcone alla preda; e prima domandatogli chi egli era, ed esso rispostomi, mostrai di conoscerlo, e con molte parole cominciai ad indurlo a credere che ’l barigello l’andava cercando per alcune male informazioni che di lui s’erano avute, e confortarlo che venisse meco insino alla cancellaria, chè io quivi lo salvarei. Il Frate, pauroso e tutto tremante, parea che non sapesse che si fare, e dicea dubitar, se si dilungava da San Celso, d’esser preso. Io pur facendogli buon animo, gli dissi tanto, che mi montò in groppa; ed allor a me parve d’aver appien compito il mio disegno: così subito comincia a rimettere il cavallo per Banchi, il qual andava saltellando, e e traendo calci. Imaginate or voi, che bella vista facea un Frate in groppa d’una maschera, col volare del mantello è scuotere il capo inanzi e ’ndrieto, che sempre parea che andasse per cadere. Con questo bel spettacolo cominciarono que’ signori a tirarci ova dalle finestre, poi tutti i banchieri, e quante persone v’erano; di modo che non con maggior impeto cadde dal cielo mai la grandine, come da quelle finestre cadeano l’ova, le quali per la maggior parte sopra di me venivano; ed io per esser maschera non mi curava, e pareami che quelle risa fossero tutte per lo Frate e non per me; e per questo più volte tornai inanzi e ’ndietro per Banchi, sempre con quella furia alle spalle: benchè il Frate quasi piangendo mi pregava ch’io lo lasciassi scendere, e non facessi questa vergogna all’abito; poi di nascosto il ribaldo si facea dar ova ad alcuni staffieri posti quivi per questo effetto, e mostrando tenermi stretto per non cadere, me le schiacciava nel petto, spesso in sul capo, e talor in su la fronte medesima; tanto ch’io era tutto consumato. In ultimo, quando ognuno era stanco e di ridere e di tirar ova, mi saltò di groppa, e calatosi indietro lo scapolaro, mostrò una gran zazzara, e disse: Messer Bernardo, io son un famiglio di stalla di San Pietro ad Vincula, e son quello che governa il vostro muletto, — Allor io non so qual maggiore avessi o dolore o ira o vergogna; pur, per men male, mi posi a fuggire verso casa, e la mattina seguente non osava comparere; ma le risa di questa burla non solamente il dì seguente, ma quasi insino adesso son durate.
LXXXVIII. E così essendosi per lo raccontarla alquanto rinovato il ridere, soggiunse messer Bernardo: È ancor un modo di burlare assai piacevole, onde medesimamente si cavano facezie, quando si mostra credere che l’uomo voglia fare una cosa, che in vero non vuol fare. Come essendo io in sul ponte di Leone una sera dopo cena, e andando insieme con Cesare Beccadello scherzando, cominciammo l’un l’altro a pigliarsi alle braccia, come se lottare volessimo; e questo perchè allor per sorte parea, che in su quel ponte non fosse persona: e stando così, sopragiunsero dui Franzesi, i quali vedendo questo nostro debatto, dimandarono che cosa era, e fermaronsi per volerci spartire, con opinion che noi facessimo questione da dovero. Allor io tosto, Ajutatemi, dissi, signori, chè questo povero gentiluomo a certi tempi di luna ha mancamento di cervello; ed ecco che adesso si vorria pur gittar dal ponte nel fiume. — Allora quei dui corsero, e meco presero Cesare, e tenevanlo strettissimo; ed esso, sempre dicendomi ch’io era pazzo, mettea più forza per svilupparsi loro dalle mani, e costoro tanto più lo stringevano: di sorte, che la brigata cominciò a vedere questo tumulto, ed ognun corse; e quanto più il buon Cesare battea delle mani e piedi, chè già cominciava entrare in collera, tanto più gente sopragiungea; e per la forza grande che esso metteva, estimavano fermamente che volesse saltar nel fiume, e per questo lo stringevan più: di modo che una gran brigata d’uomini lo portarono di peso all’osteria, tutto scarmigliato e senza berretta, pallido dalla collera e dalla vergogna, chè non gli valse mai cosa che dicesse, tra perchè quei Franzesi non lo intendevano, tra perchè io ancor conducendogli all’osteria sempre andava dolendomi della disavventura del poveretto, che fosse così impazzito.
LXXXIX. Or, come avemo detto, delle burle si poria parlar largamente; ma basti il replicare, che i lochi onde si cavano sono i medesimi delle facezie. Degli esempii poi n’avemo infiniti, chè ogni di ne veggiamo; e tra gli altri, molti piacevoli ne sono nelle Novelle del Boccaccio, come quelle che facevano Bruno e Buffalmacco al suo Calandrino ed a Maestro Simone, e molte altre di donne, che veramente sono ingeniose e belle. Molti uomini piacevoli di questa sorte ricordomi ancor aver conosciuti a miei dì, e tra gli altri in Padoa uno scolar siciliano, chiamato Ponzio; il qual vedendo una volta un contadino che aveva un paro di grossi capponi, fingendo volergli comperare fece mercato con esso, e disse che andasse a casa seco, chè, oltre al prezzo, gli darebbe da far colazione: e così lo condusse in parte dove era un campanile, il quale è diviso dalla chiesa, tanto che andar vi si può d’intorno; e proprio ad una delle quattro facce del campanile rispondeva una stradetta piccola69. Quivi Ponzio, avendo prima pensato ciò che far intendeva, disse al contadino: Io ho giocato questi capponi con un mio compagno, il qual dice che questa torre circonda ben quaranta piedi, ed io dico di no; e appunto allora quand’io ti trovai aveva comperato questo spago per misurarla; però, prima che andiamo a casa, voglio chiarirmi chi di noi abbia vinto: — e così dicendo, trassesi della manica quel spago, e diello da un capo in mano al contadine, e disse: Dà qua; e tolse i capponi, e prese il spago dall’altro capo; e, come misurar volesse, cominciò a circondar la torre, avendo prima fatto affermar il contadino e tener il spago dalla parte che era opposta a quella faccia che rispondeva nella stradetta; alla quale come esso fu giunto, così ficcò un chiodo nel muro, a cui annodò il spago; e-lasciatolo in tal modo, cheto cheto se n’andò per quella stradetta coi capponi. Il contadino per buon spazio stette fermo aspettando pur colui finisse di misurare; in ultimo, poi che più volte ebbe detto: Che fate voi tanto? — volse vedere, e trovò quello che tenea lo spago70 non era Ponzio, ma era un fitto nel muro, il qual solo gli restò per pagamento dei capponi. Di questa sorte fece Ponzio infinite burle. Molti altri sono ancora stati uomini piacevoli di tal maniera, come il Gonella, il Meliolo in quei tempi, ed ora il nostro frate Mariano, e frate Serafino qui, e molti che tutti conoscete. Ed in vero, questo modo è lodevole in uomini che non facciano altra professione; ma le burle del Cortegiano par che si debbano allontanar un poco più dalla scurrilità. Deesi ancora guardar che le burle non passino alla barraria; come vedemo molti mali uomini che vanno per lo mondo con diverse astuzie per guadagnar denari, fingendo or una cosa ed or un’altra: e che non siano anco troppo acerbe; e sopra tutto aver rispetto e reverenza, così in questo come in tutte l’altre cose, alle donne, e massimamente dove intervenga offesa della onestà.
XC. Allora il signor Gasparo, Per certo, disse, messer Bernardo, voi sete pur troppo parziale a queste donne. E perchè volete voi che più rispetto abbiano gli uomini alle donne, che le donne agli uomini? Non dee a noi forse esser tanto caro l’onor nostro, quanto ad esse il loro? A voi pare adunque che le donne debban pungere e con parole e con beffe gli uomini in ogni cosa senza riservo alcuno, e gli uomini se ne stiano muti, e le ringrazino da vantaggio? — Rispose allor messer Bernardo: Non dico io che le donne non debbano aver nelle facezie e nelle burle quei rispetti agli uomini che avemo già detti: dico ben che esse possono con più licenza morder gli uomini di poca onestà, che non possono gli uomini mordere esse; e questo perchè noi stessi avemo fatta una legge, che in noi non sia vizio nè mancamento nè infamia alcuna la vita dissoluta, e nelle donne sia tanto estremo obbrobrio e vergogna, che quella di chi una volta si parla male, o falsa o vera che sia la calunnia71 che se le dà, sia per sempre vituperata. Però essendo il parlar dell’onestà delle donne tanto pericolosa cosa d’offenderle gravemente, dico che dovemo morderle in altro, e astenerci da questo; perchè pungendo la facezia o la burla troppo acerbamente, esce del termine che già avemo detto convenirsi a gentiluomo.
XCI. Quivi, facendo un poco di pausa messer Bernardo, disse il signor Ottavian Fregoso ridendo: Il signor Gaspar potrebbe rispondervi, che questa legge che voi allegate che noi stessi avemo fatta non è forse così fuor di ragione come a voi pare; perchè essendo le donne animali imperfettissimi, e di poca o niuna dignità a rispetto degli uomini, bisognava, poi che da sè non erano capaci di far atto alcuno virtuoso, che con la vergogna e timor d’infamia si ponesse loro un freno, che quasi per forza in esse introducesse qualche buona qualità; e parve che più necessaria loro fosse la continenza che alcuna altra, per aver certezza dei figlioli: onde è stato forza con tutti gl’ingegni ed arti e vie possibili far le donne continenti, e-quasi conceder loro che in tutte l’altre cose siano di poco valore, e che sempre facciano il contrario di ciò che devriano. Però essendo lor licito far tutti gli altri errori senza biasimo, se noi le vorremo mordere di quei difetti i quali, come avemo detto, tutti ad esse sono conceduti, e però a loro non sono disconvenienti nè esse se ne curano, non moveremo mai il riso; perchè già voi avete detto che ’l riso si move con, alcune cose che son disconvenienti.
XCII. Allor la signora Dochessa, In questo modo, disse, signor Ottaviano, parlate delle donne; e poi vi dolete che esse non v’amino? — Di questo non mi doglio io, rispose il signor Ottaviano, anzi le ringrazio, poichè con lo amarmi non m’obligano ad amar loro72; nè parlo di mia opinione, ma dico che’l signor Gasparo potrebbe allegar queste ragioni. — Disse messer Bernardo: Gran guadagno in vero fariano le donne se potessero riconciliarsi con dui suoi tanto gran nemici, quanto siete voi e ’l signor Gasparo. — Io non son lor nemico, rispose il signor Gasparo, ma voi siete ben nemico degli uomini; chè se pur volete che le donne non siano mordute circa questa onestà, dovreste mettere una legge ad esse ancor, che non mordessero gli uomini in quello che a noi così è vergogna, come alle donne la incontinenza. E perchè non fu così conveniente ad Alonso Carillo la risposta che diede alla signora Boadilla73 della speranza che avea di camparla vita, perchè essa lo pigliasse per marito; come a lei la proposta, che ognun che lo conoscea pensava che ’l Re lo avesse da far impiccare! E perchè non fu così licito a Riciardo Minutoli gabbar la moglie di Filippello e farla venir a quel bagno, come a Beatrice far uscire del letto Egano suo marito, e fargli dare delle bastonate da Anichino, poi che un gran pezzo con lui giaciuta si fu? E quell’altra che si legò lo spago al dito del piede, e fece creder al marito proprio non esser dessa? Poichè voi dite che quelle burle di donne nel Jovan Boccaccio son così ingeniose e belle.
XCIII. Allora messer Bernardo ridendo, Signori, disse, essendo stato la parte mia solamente disputar delle facezie, io non intendo passar quel termine; e già penso aver detto, perchè a me non paja conveniente morder le donne nè in detti nè in fatti circa l’onestà, e ancor ad esse aver posto regola, che non pungan gli uomini dove lor duole. Dico ben che delle burle e motti che voi, signor Gasparo, allegate, quello che disse Alonso alla signora Boadilla, avvenga che tocchi un poco la onestà, non mi dispiace, perchè è tirato assai da lontano, ed è tanto occulto che si può intendere semplicemente, di modo che esso potea dissimularlo, ed affermare non l’aver detto a quel fine. Un altro ne disse al parer mio disconveniente molto; e questo fu, che passando la Reina davanti la casa pur della signora Boadilla, vide Alonso la porta tutta dipinta con carboni, di quegli animali disonesti che si dipingono per l’osterie in tante forme; ed accostatosi alla Contessa di Castagneto, disse: Eccovi, Signora, le teste delle fiere che ogni giorno ammazza la signora Boadilla alla caccia. — Vedete che questo, avvenga che sia ingeniosa metafora, e ben tolta dai cacciatori, che hanno per gloria aver attaccate alle lor porte molte teste di fiere, pur è scurrile e vergognoso: oltra che non fu risposta; chè il rispondere ha molto più del cortese, perchè par che l’uomo sia provocato; e forza è che sia all’improviso. Ma, tornando a proposito delle burle delle donne, non dico io che faccian bene ad ingannar i mariti, ma dico che alcuni di quegl’inganni che recita Jovan Boccaccio delle donne son belli ed ingeniosi assai, e massimamente quelli che voi proprio avete detti. Ma, secondo me, la burla di Riciardo Minutoli passa il termine, ed è più acerba assai che quella di Beatrice, chè molto più tolse Riciardo Minutoli alla moglie di Filippello, che non tolse Beatrice ad Egano suo marito; perchè Riciardo con quello inganno sforzò colei, e fecela far di sè stessa quello che ella non voleva; e Beatrice ingannò suo marito. per far essa di sè stessa quello che le piaceva.
XCIV. Allor il signor Gasparo, Per niuna altra causa, disse, si può escusar Beatrice, eccetto che per amore; il che si deve così ammettere negli uomini, come nelle donne, — Allora messer Bernardo, In vero, rispose, grande escusazione d’ogni fallo portan seco le passioni d’amore; nientedimeno io per me giudico che un gentiluomo di valore il qual ami, debba, così in questo come in tutte l’altre cose, esser sincero e veridico; e se è vero che sia viltà e mancamento tanto abominevole l’esser traditore ancora contra un nemico, considerate quanto più si deve estimar grave tal errore contra persona che s’ami: ed io credo che ogni gentil innamorato toleri tante fatiche, tante vigilie, si sottoponga a tanti pericoli, sparga tante lacrime, usi tanti modi e vie di compiacere l’amata donna, non per acquistarne principalmente il corpo, ma per vincer la ròcca di quell’animo, spezzare quei durissimi diamanti, scaldar que’ freddi ghiacci, che spesso ne’ delicati petti stanno di queste donne; e questo credo sia il vero e sodo piacere, e ’l fine dove tende la intenzione d’un nobil core: e certo io per me amerei meglio, essendo innamorato, conoscer chiaramente che quella a cui io servissi mi redamasse di core e m’avesse donato l’animo, senza averne mai altra satisfazione, che goderla ed averne ogni copia contra sua voglia; chè in tal caso a me pareria esser patrone d’un corpo morto. Però quelli che conseguono i suoi desiderii per mezzo di queste burle, che forse piuttosto tradimenti che burle chiamar si poriano, fanno ingiuria ad altri; nè con tutto ciò han quella satisfazione che in amor desiderar si deve, possedendo il corpo senza la volontà. Il medesimo dico d’alcun’altri, che in amore usano incantesmi, malie, e talor forza, talor sonniferi, e simili cose; e sappiate, che li doni ancora molto diminuiscono i piaceri d’amore, perchè l’uomo può star in dubio di non essere amato, ma che quella donna faccia dimostrazion d’amarlo per trarne utilità. Però vedete gli amori di gran donne essere estimati, perchè par che non possano proceder d’altra causa che da proprio e vero amore, nè si dee credere che una gran signora mai dimostri amare un suo minore, se non l’ama veramente.
XCV. Allor il signor Gaspar, Io non nego, rispose, che la intenzione, le fatiche e i pericoli degl’innamorati non debbano aver principalmente il fin suo indrizzato alla vittoria dell’animo più che del corpo della donna amata; ma dico che questi inganni, che voi negli uomini chiamate tradimenti e nelle donne burle, son ottimi mezzi per giugnere a questo fine, perchè sempre chi possede il corpo delle donne è ancora signor dell’animo; e, se ben vi ricorda, la moglie di Filippello, dopo tanto rammarico per lo inganno fattole da Riciardo, conoscendo quanto più saporiti fossero i basci dell’amante che quei del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Riciardo, tenerissimamente da quel giorno inanzi l’amò. Eccovi che quello che non aveva potuto far il sollicito frequentare, i doni, e tant’altri segni così lungamente dimostrati, in poco d’ora fece lo star con lei. Or vedete che pur questa burla, o tradimento, come vogliate dire, fa buona via per acquistar la ròcca di quell’animo. — Allora messer Bernardo, Voi, disse, fate un presupposto falsissimo; chè se le donne dessero sempre l’animo a chi lor tiene il corpo, non se ne trovaria alcuna che non amasse il marito più che altra persona del mondo; il che si vede in contrario. Ma Jovan Boccaccio era, come sete ancor voi, a gran torto nemico delle donne.
XCVI. Rispose il signor Gaspar: Io non son già lor nemico; ma ben pochi uomini di valor si trovano, che generalmente tengan conto alcuno di donne, se ben talor per qualche suo disegno mostrano il contrario. — Rispose allora messer Bernardo: Voi non solamente fate ingiuria alle donne, ma ancor a tutti gli uomini che l’hanno in reverenza; - nientedimeno io, come ho detto, non voglio per ora uscir del mio primo proposito delle burle, ed entrar in impresa così difficile, come sarebbe il difender le donne contra voi, che sete grandissimo guerriero: però darò fine a questo mio ragionamento, il qual forse è stato molto più lungo che non bisognava, ma certo men piacevole che voi non aspettavate. E poi ch’io veggio le donne starsi così chete, e sopportar le ingiurie da voi così pazientemente come fanno, estimarò da mo inanzi esser vera una parte di quello che ha detto il signor Ottaviano, cioè che esse non si curano che di lor sia detto male in ogni altra cosa, pur che non siano mordute di poca onestà. — Allora una gran parte di quelle donne, ben per averle la signora Duchessa fatto così cenno, si levarono in piedi, e ridendo tutte corsero verso il signor Gasparo, come per dargli delle busse, e farne come le Baccanti d’Orfeo, tuttavia dicendo: Ora vedrete, se ci curiamo che di noi si dica male.
XCVII. Così, tra per le risa, tra per lo levarsi ognun in piedi, parve che ’l sonno, il quale omai occupava gli occhi e l’animo d’alcuni, si partisse; ma il signor Gasparo cominciò a dire: Eccovi, che per non aver ragione voglion valersi della forza, ed a questo modo finire il ragionamento, dandoci, come si suol dire, una licenza bracciesca74. — Allor, non vi verrà fatto, rispose la signora Emilia; che, poichè avete veduto messer Bernardo stanco del lungo ragionare, avete cominciato a dir tanto mal delle donne, con opinione di non aver chi vi contradica; ma noi metteremo in campo un cavalier più fresco, che combatterà con voi, acciò che l’error vostro non sia così lungamente impunito. — Così, rivoltandosi al Magnifico Juliano, il qual fin allora poco parlato avea, disse: Voi sete estimato protettor dell’onor delle donne; però adesso è tempo che dimostriate non aver acquistato questo nome falsamente: e se per lo adietro di tal professione avete mai avuto remunerazione alcuna, ora pensar dovete, reprimendo così acerbo nemico nostro, d’obligarvi molto più tutte le donne, e tanto, che, avvenga che mai non si faccia altro che pagarvi, pur l’obligo debba sempre restar vivo, nè mai si possa finir di pagare.
XCVIII. Allora il Magnifico Juliano, Signora mia, rispose, parmi che voi facciate molto onore al vostro nemico, e pochissimo al vostro difensore; perchè certo insin a qui niuna cosa ha detta il signor Gasparo contra le donne, che messer Bernardo non gli abbia ottimamente risposto; e credo che ognun di noi conosca, che al Cortegiano si convien aver grandissima reverenza alle donne, e che chi è discreto e cortese non deve mai pungerle di poca onestà, nè scherzando nè da dovero: però il disputar questa così palese verità è quasi un metter dubio nelle cose chiare. Parmi ben che ’l signor Ottaviano sia un poco uscito de’ termini, dicendo che le donne sono animali imperfettissimi, e non capaci di far atto alcuno virtuoso, e di poca o niuna dignità a rispetto degli uomini: e perché spesso si dà fede a coloro che hanno molta autorità, se ben non dicono così compitamente il vero, ed ancor quando parlano da beffe, hassi il signor Gaspar lasciato indur dalle parole del signor Ottaviano a dire che gli uomini savii d’esse non tengon conto alcuno; il che è falsissimo; anzi, pochi uomini di valore ho io mai conosciuti, che non amino ed osservino le donne: la virtù delle quali, e conseguentemente la dignità, estimo io che non sia punto inferior a quella degli uomini. Nientedimeno, se si avesse da venire a questa contenzione, la causa delle donne averebbe grandissimo disfavore; perchè questi signori hanno formato un Cortegiano tanto eccellente, e con tante divine condizioni, che chi averà il pensiero a considerarlo tale, imaginerà i meriti delle donne non poter aggiungere a quel termine. Ma, se la cosa avesse da esser pari, bisognarebbe prima che un tanto ingenioso e tanto eloquente quanto sono il conte Ludovico e messer Federico, formasse una Donna di Palazzo con tutte le perfezioni appartenenti a donna, così come essi hanno formato il Cortegiano con le perfezioni appartenenti ad uomo; ed allor se quel che difendesse la lor causa fosse d’ingegno e d’eloquenza mediocre, penso che, per esser ajutato dalla verità, dimostreria chiaramente, che le donne son così virtuose come gli uomini.— Rispose la signora Emilia: Anzi molto più; e che così sia, vedete che la virtù è femina, e ’l vizio maschio.
XCIX. Rise allor il signor Gasparo, e voltatosi a messer Nicolò Frigio, Che ne credete voi, Frigio? — disse. Rispose il Frigio: Io ho compassione al signor Magnifico, il quale, ingannato dalle promesse e lusinghe della signora Emilia, è incorso in errore di dir quello di che io75 in suo servizio mi vergogno. — Rispose la signora Emilia; pur ridendo: Ben vi vergognarete voi di voi stesso quando vedrete il signor Gasparo, convinto, confessar il suo e ’l vostro errore, e domandar quel perdono, che noi non gli vorremo concedere. Allora la signora Dochessa: Per esser l’ora molto tarda, voglio, disse, che differiamo il tutto a domani; tanto più perchè mi par ben fatto pigliar il consiglio del signor Magnifico: cioè che, prima che si venga a questa disputa, così si formi una Donna di Palazzo con tutte le perfezioni, come hanno formato questi signori il perfetto Cortegiano. — Signora, disse allor la signora Emira, Dio voglia che noi non ci abbattiamo a dar questa impresa a qualche congiurato col signor Gasparo, che ci formi una Cortegiana76 che non sappia far altro che la cucina e filare. — Disse il Frigio: Ben è questo il suo proprio officio. — Allor la signora Duchessa, Io voglio, disse, confidarmi del signor Magnifico, il qual, per esser di quello ingegno e giudicio che son certa, imaginerà quella perfezion maggiore che desiderar si può in donna, ed esprimeralla ancor ben con le parole, e così averemo che opporre alle false calunnie del signor Gasparo.
C. Signora mia, rispose il Magnifico, io non so come buon consiglio sia il vostro, impormi impresa di tanta importanza, ch’io in vero non mi vi sento77 sufficiente; nè sono io come il Conte e messer Federico, i quali con la eloquenza sua hanno formato un Cortegiano che mai non fu nè forse può essere. Pur se a voi piace ch’io abbia questo carico, sia almen con quei patti che hanno avuti quest’altri signori; cioè che ognun possa dove gli parerà contradirmi, ch’io questo estimarò non contradizione, ma ajuto; e forse col correggere gli errori miei, scoprirassi quella perfezion della Donna di Palazzo, che si cerca. — Io spero, rispose la signora Duchessa, che ’l vostro ragionamento sarà tale, che poco vi si potrà contradire. Sicchè, mettete pur l’animo a questo sol pensiero, e formateci una tal donna, che questi nostri avversarii si vergognino a dir ch’ella non sia pari di virtù al Cortegiano: del quale ben sarà che messer Federico non ragioni più, chè pur troppo l’ha adornato, avendogli massimamente da esser dato paragone d’una donna. — A me, Signora, disse allor messer Federico, ormai poco o niente avanza che dir sopra il Cortegiano; e quello che pensato aveva, per le facezie di messer Bernardo m’è uscito di mente, — Se così è, disse la signora Duchessa, dimani riducendoci insieme a buon’ora, aremo tempo di satisfar all’una cosa e l’altra. — E, così detto, si levarono tutti in piedi; e, presa riverentemente licenza dalla signora Duchessa, ciascun si fu alla stanza sua.
Note
- ↑ [p. 346 modifica]È l’Oraziano laudator temporis acti. (De Arte Poetica, v. 173.)
- ↑ [p. 346 modifica]Plato in Phœdone, ed. Henr. Stephani, Vol. I, pag. 60, B.
- ↑ [p. 346 modifica]precede. Così le Aldine degli anni 1545 e 1547; male le quattro anteriori procede.
- ↑ [p. 346 modifica]Forse il Signore alluse a ciò nella parabola della zizania con quelle parole: Sinite utraque crescere usque ad messem. Matth. XIII, 30. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 346 modifica]azza. Le Aldine degli anni 1533, 1538, 1541, 1547, acchia; e forse così scrisse l’Autore.
- ↑ [p. 346 modifica]Male le Aldine degli anni 1528 e del 1545, bara.
- ↑ [p. 346 modifica]Dubito che dir voglia due volte al giorno, come fanno alcuni zerbini d’oggidì; chè a niuno parrà certo soverchio il farsi la barba due volte la settimana. Del resto, è degno di nota, che questa accusa appunto venne a’ suoi tempi fatta da alcuni al Castiglione, come sappiamo dal Giovio, e dopo lui dal Marliani, che si tingesse i capegli, e che sformandosi di parer giovane, andasse pulitamente vestito.
- ↑ [p. 346 modifica]Tratto dal Virgiliano:
. . . . . sed cruda Deo viridisque senectus.
(Æn. VI, 304.) - ↑ [p. 347 modifica]forze. Così le Aldine del IMI e del 1547; le altre forse.
- ↑ [p. 347 modifica]prosunzion sciocca. Così l’ultima Aldina; le altre prosunzione sciocca.
- ↑ [p. 347 modifica]Luc. XIV, 8, 10.
- ↑ [p. 347 modifica]favor. Così le Aldine degli anni 1541 e 1547; le altre favore, il che non concorda col seguente meritargli.
- ↑ [p. 347 modifica]se lo estimassi. Così corresse il Volpi; le edizioni anteriori hanno se lo estimasse.
- ↑ [p. 347 modifica]nel vestire, voglio che ’l nostro Cortegiano. Così le Aldine degli anni 1528, 1535 e 1545; le altre del vestire, voglio che ’l Cortegiano; e questa forse è la vera lezione.
- ↑ [p. 347 modifica]di denti. Le Aldine degli anni 1525, 1533, 1545, de denti.
- ↑ [p. 347 modifica]Bergamo abbonda nelle sue montagne di certi scimuniti gozzuti e mutoli, per alimentare i quali colà nel borgo Sant’Alessandro ha un ricco spedale detto la Maddalena. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 347 modifica]ragionaste. Le Aldine del 1541 e del 1547, ragionassi.
- ↑ [p. 347 modifica]Ossia una misura piena di ceci.
- ↑ [p. 347 modifica]se gli metteranno. Così corresse il Volpi; le Aldine e le altre antiche si gli metteranno, e così forse, con forma latina, scrisse il nostro Autore.
- ↑ [p. 347 modifica]Di questi innamoramenti per fama vedi esempio presso il Boccaccio, Giornata IV, Nov. IV, del Gerbino.
- ↑ [p. 347 modifica]Josquin de Prez, nativo di Cambrai, o secondo altri di Condé, ed uno dei più valenti ingegni di che siasi vantata l’arte della musica, fu maestro di cappella sotto Sisto IV (1471-1484), e più tardi alla corte di Ludovico XII.
- ↑ [p. 347 modifica] vi vo’ dir. Le Aldine del 1538, 1541, 1547, vi voglio dir.
- ↑ [p. 347 modifica]mettono. Così fra le Aldine la sola del 1545; le altre mettano.
- ↑ [p. 347 modifica]Il Volpi congettura, che qui il Castiglione accenni a Leonardo da Vinci.
- ↑ [p. 347 modifica]’che non è sua professione. Male le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, che è sua professione.
- ↑ [p. 348 modifica]Tolto da quello di Dante:
Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna.
Dee l’uom chiuder le labra, quanto ei puote,
Però che senza colpa fa vergogna.
Inf. XVI, 22. - ↑ [p. 348 modifica]partono. Le due prime Aldine partano.
- ↑ [p. 348 modifica]Nel resto di questo Libro, ossia in tutto il tratto relativo alle facezie, il nostro Autore segue principalmente Cicerone, De Oratore, lib. II, cap. 54-71, e ne trae alcune regole e molti esempii di facezie.
- ↑ [p. 348 modifica]queste. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, questa.
- ↑ [p. 348 modifica]de’ mordaci. Meno bene le Aldine degli anni 1541 e 1547, ne’ mordaci.
- ↑ [p. 348 modifica]Allude al carme LXVII di Catullo.
- ↑ [p. 348 modifica]porte. Male l’Aldina del 1538 parte, e quelle del 1541 e 1547, parti.
- ↑ [p. 348 modifica]Poesie di Strascino da Siena leggonsi nelle Raccolte di rime piacevoli. Giovanni Antonio Volpi.
- ↑ [p. 348 modifica]la guerra che era tra ’l re. Le Aldine del 1538, 1541 e 1547, e tutte le edizioni posteriori fino al Volpi, omettono le parole che era.
- ↑ [p. 348 modifica]di trovarvisi. Così l’antica edizione senza data, il Dolce, e le edizioni posteriori; le Aldine da trovarvisi.
- ↑ [p. 348 modifica]Antonio Alamanni pure scherza nello stesso modo sopra un tal vocabolo, in un sonetto a carte 82 delle rime del Burchiello dell’edizione fiorentina 1568:
Vorrei costì dal Tibaldeo sapessi
S’un crudo, senza legne, esser può cotto;
E se quel ch’è d’un sol, può esser d’otto;
O se non può aver letto un che leggessi.Gaetano Volpi. - ↑ [p. 348 modifica]di quel non aver letto. Male le due prime Aldine di qual non aver letto.
- ↑ [p. 348 modifica]domandar dell’ostaria. Con supino errore le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, domandar de l’historia.
- ↑ [p. 348 modifica]terra di ladri. Così primo il Dolce; le Aldine terra de ladri.
- ↑ [p. 348 modifica]lingua latrina. L’Aldina dell 547 e parecchie posteriori hanno, per errore, lingua latina.
- ↑ [p. 349 modifica]al medesimo proposito. Così primo il Volpi; le due prime Aldine ad medesimo proposito; le altre quattro a medesimo proposito; il Dolce a un medesimo proposito.
- ↑ [p. 349 modifica]Verso d’Ovidio, Artis Amatoriae, I, 39.
- ↑ [p. 349 modifica]Verso d’Ovidio, Artis Amatoriae, I, 39.
- ↑ [p. 349 modifica]Luc. XV, 2.
- ↑ [p. 349 modifica]Matth. XXV, 20.
- ↑ [p. 349 modifica]Matth. XXV, 20.
- ↑ [p. 349 modifica]Matth. XXV, 20.
- ↑ [p. 349 modifica]Monsignor Saba Castiglione ne’ suoi Ricordi insegna, che nel guadare le acque e nel mangiare il cacio si ceda sempre il primo luogo al compagno. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 349 modifica]le disse. Le Aldine ed altre antiche gli disse, e forse così scrisse il Castiglione.
- ↑ [p. 349 modifica]talor. Manca nelle Aldine degli anni 1541 e 1547.
- ↑ [p. 349 modifica]dorargli. Male le Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547, dotargli.
- ↑ [p. 349 modifica]Il Volpi pensa che qui s’intenda o fra Serafino, del quale, Lib. I, cap. 29, e Lib. Il, cap. 89; o fra Serafino Aquilano, poeta celebre. Ma quel primo era presente, laddove le parole qui se ben vi ricordate alludono a persona morta, o da lungo tempo assente; e nulla v’ha qui che paja alludere al poeta Aquilano. Nè questo Serafino è qui detto frate; e forse non è altri che il medico, del quale più sotto, al cap. 77.
- ↑ [p. 349 modifica]cavatelo. Così emendò il Dolce; le edizioni anteriori cavatilo.
- ↑ [p. 349 modifica]molto. Non male le Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547, e molto.
- ↑ [p. 349 modifica]quello che disse. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, quella che disse.
- ↑ [p. 349 modifica]diciate. Così primo il Dolce; le Aldine dicate.
- ↑ [p. 350 modifica]Santo Ermo, certo fuoco fatuo che apparisce in su le antenne delle navi dopo le tempeste, ed è segno di tranquillità. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 350 modifica]Tolto da quello che Fabio Massimo disse di Marco Livio, che aveva lasciato occupare dai Cartaginesi Taranto, ma che, avendo conservata e difesa la ròcca, si vantava che Taranto era stato recuperato per opera sua: Fateri se, opera Livii Tarentum receptum....; neque enim recipiundum fuisset, nisi amissum foret. Livii, Histor. XXVII, xxv.
- ↑ [p. 350 modifica]con quell’occhio. Le Aldine degli anni 1528, 1533, 1545, con quello occhio.
- ↑ [p. 350 modifica]Lo scherzo nasce dal dividere in due la parola damasco.
- ↑ [p. 350 modifica]maestro Stalla. Così le Aldine ed altre antiche; il Dolce e le edizioni posteriori maestro di stalla, lezione priva di sale e di senso.
- ↑ [p. 350 modifica]se gli dice. Così corresse il Dolce; le Aldine si gli dice.
- ↑ [p. 350 modifica]con minaccia. Le Aldine degli anni 1528, 1533, 1545, con minaccie.
- ↑ [p. 350 modifica]escano. Così le Aldine degli anni 1528, 1533, 1545; le altre escono.
- ↑ [p. 350 modifica]incrudiscono. Male le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, incrudeliscono; lezione conservata anche dal Dolce.
- ↑ [p. 350 modifica]dei miseri. Le Aldine ed altre antiche di miseri.
- ↑ [p. 350 modifica]A Montefiore era una magrissima osteria, ita in proverbio. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 350 modifica]di chi io intendo. Così l’edizione originale, e quella del 1545; l’Aldina del 1533 di ch’io intendo; onde quelle del 1538, 1541, 1547, di che io intendo.
- ↑ [p. 350 modifica]Fu forse quel di San Giacomo; non essendocene altri che si possano circondare, ed essendo appunto dirimpetto ad esso una stradetta, che si chiama Scalfura. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 350 modifica]tenea lo spago. Le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, tenea o teneva il spago, che forse è la vera scrittura dell’Autore.
- ↑ [p. 350 modifica]Notisi la voce calunnia, per imputazione maligna, ancorché vera.
- ↑ [p. 351 modifica]Frase alquanto intricata; più chiaro escirebbe il senso mutando l’ordine delle parole: poiché non m’obligano con lo amarmi ad amar loro.
- ↑ [p. 351 modifica]In questo luogo nelle Aldine, e quindi nelle altre edizioni, è scritto Boadiglia e Cariglio, secondo la pronunzia spagnuola; sopra a pag. 145, lin. 19, 23; pag. 147, lin. 22, Boadilla e Carillo, secondo l’ortografia; e questa forma abbiamo preferto, attenendoci alla consuetudine dell’autore.
- ↑ [p. 351 modifica]bracciesca. Così le Aldine del 1533, del 1543, e l’edizione originale o del 1528, ma questa con lettera majuscola Bracciesca; quelle del 1538, del 1541 e del 1547, hanno bracesca.
- ↑ [p. 351 modifica]quello di che io. Male le Aldine degli anni 1538, 1511 e 1547, quello che io
- ↑ [p. 351 modifica]Cortegiana. S’astiene l’autore di chiamare la Dama di Corte con questo nome, chiamandola in vece Donna di Palazzo; perché Cortegiana per lo più è preso in cattivo significato. Fra le Orazioni del nostro M. Sperone Speroni ve n’ha una scritta ne’ giorni santi alle Cortegiane, per rimuoverle dalla pessima lor consuetudine. Alle volte però il Castiglione è pur caduto in ciò che non volea, chiamandola con un tal nome, come a carte 166 e 172, e forse in qualche altro luogo. Gaetano Volpi. Il Castiglione fa uso parimente di questa voce nella Lettera 8 fra le Famigliari: Io mi parlo assai accarezzato dalla Illustrissima Signora, che mi ha onorato ed accarezzato assaissimo più che non merito, e ’l medesimo tutte quest’altre Donne Cortegiane e non Cortegiane.
- ↑ [p. 350 modifica]