Il libro del Cortegiano/Libro terzo
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IL TERZO LIBRO DEL CORTEGIANO
del conte baldesar castiglione
A MESSER ALFONSO ARIOSTO
I. Leggesi1 che Pitagora sottilissimamente e con bel modo trovò la misura del corpo d’Ercole; e questo, che sapendosi, quel spazio nel quale ogni cinque anni si celebravan i giochi Olimpici in Acaja presso Elide inanzi al tempio di Giove Olimpico esser stato misurato da Ercole, e fatto un stadio di seicento e venticinque piedi, de’ suoi proprii; e gli altri stadii, che per tutta Grecia dai posteri poi furono instituiti, esser medesimamente di seicento e venticinque piedi, ma con tutto ciò alquanto più corti di quello: Pitagora facilmente conobbe a quella proporzion quanto il piè d’Ercole fosse stato maggior degli altri piedi umani; e così, intesa la misura del piede, a quella comprese, tutto ’l corpo d’Ercole tanto esser stato di grandezza superiore agli altri uomini proporzionalmente, quanto quel stadio agli altri stadii. Voi adunque, messer Alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto ’l corpo potete chiaramente conoscer quanto la corte d’Urbino fosse a tutte l’altre della Italia superiore, considerando quanto i giochi, li quali son ritrovati per recrear gli animi affaticati dalle faccende più ardue, fossero a quelli che s’usano nell’altre corti della Italia superiori. E se queste eran tali, imaginate quali eran poi l’altre operazion virtuose, ov’eran gli animi intenti e totalmente dediti; e di questo io confidentemente ardisco di parlare con speranza d’esser creduto, non laudando cose tanto antiche che mi sia licito fingere, e possendo approvar quant’io ragiono col testimonio di molti uomini, degni di fede, che vivono ancora; e presenzialmente hanno vedato e conosciuto la vita e i costumi che in quella casa fiorirono un tempo; ed io mi tengo obligato, per quanto posso, di sforzarmi con ogni studio vendicar dalla mortal oblivione questa chiara memoria, e scrivendo farla vivere negli animi dei posteri. Onde forse per l’avvenire non mancherà chi per questo ancor porti invidia al secol nostro; chè non è alcun che legga le maravigliose cose degli antichi, che nell’animo suo non formi una certa maggior opinion di coloro di chi si scrive, che non pare che possano esprimer quei libri, avvenga che divinamente siano scritti. Così noi desideramo che tutti quelli, nelle cui mani verrà questa nostra fatica, se pur mai sarà di tanto favor degna che da nobili cavalieri e valorose donne meriti esser veduta, presumano e per fermo tengano, la Corte d’Urbino esser stata molto più eccellente ed ornata d’uomini singolari, che noi non potemo scrivendo esprimere; e se in noi fosse tanta eloquenza, quanto in essi era valore, non aremmo bisogno d’altro testimonio per far che alle parole nostre fosse da quelli che non l’hanno veduto dato piena fede.
II. Essendosi2 adunque ridotta il seguente giorno all’ora consueta la compagnia al solito loco, e postasi con silenzio a sedere, rivolse ognun gli occhi a messer Federico ed al Magnifico Juliano, aspettando qual di lor desse principio a ragionare. Onde la Signora Duchessa, essendo stata alquanto cheta, Signor Magnifico, disse, ognun desidera veder questa vostra Donna ben ornata; e se non ce la mostrate di tal modo che le sue bellezze tutte si veggano, estimaremo che ne siate geloso. — Rispose il Magnifico: Signora, se io la tenessi per bella, la mostrarei senza altri ornamenti, e di quel modo che volse veder Paris le tre Dee; ma se queste donne, che pur lo sanno fare, non mi ajutano ad acconciarla, io dubito che non solamente il Signor Gasparo e ’l Frigio, ma tutti quest’altri signori aranno giusta causa di dirne male. Però, mentre che ella sta pur in qualche opinion di bellezza, forse sarà meglio tenerla occulta, e veder quello che avanza a messer Federico a dir del Cortegiano, che senza dubio è molto più bello che non può esser la mia Donna.— Quello ch’io mi aveva posto in animo, rispose messer Federico, non è tanto appartenente al Cortegiano, che non si possa lasciar senza danno alcuno; anzi è quasi diversa materia da quella che sin qui s’è ragionata. — E che cosa è egli adunque? — disse la signora Duchessa. Rispose, messer Federico: Io m’era deliberato, per quanto poteva, di chiarir3 le cause di queste compagnie ed ordini di cavalieri fatti da gran principi sotto diverse insegne: com’è quel di San Michele nella casa di Francia; quel del Gartier, che è sotto il nome di San Giorgio, nella casa d’Inghilterra; il Toison d’oro in quella di Borgogna: ed in che modo si diano queste dignità, e come se ne privino quelli che lo meritano; onde siano nate, chi ne siano stati gli autori, ed a che fine l’abbiano instituite: perchè pur nelle gran corti son questi cavalieri sempre onorati. Pensava ancor, se ’l tempo mi fosse bastato, oltre alla diversità de’ costumi che s’usano nelle corti de’ principi cristiani nel servirgli, nel festeggiare, e farsi vedere nei spettacoli publici, parlar medesimamente qualche cosa di quella del Gran Turco, ma molto più particolarmente di quella del Sofi re di Persia: chè, avendo io inteso da mercatanti che lungamente son stati in quel paese, gli uomini nobili di là esser molto valorosi e di gentil costumi, ed usar nel conversar l’un con l’altro, nel servir donne, ed in tutte le sue azioni molta cortesia e molta discrezione, e, quando occorre, nell’arme, nei giochi e nelle feste molta grandezza, molta liberalità e leggiadria, sonomi dilettato di saper quali siano in queste cose i modi di che essi più s’appressano4, in che consisteno le lor pompe ed attilature d’abiti e d’arme; in che siano da noi diversi ed in che conformi; che maniera d’intertenimenti usino le lor donne, e con quanta modestia favoriscano chi le serve5 per amore. Ma invero non è ora conveniente entrar in questo ragionamento, essendovi massimamente altro che dire, e molto più al nostro proposito che questo.
III. Anzi, disse il signor Gasparo, e questo e molte altre cose son più al proposito, che ’l formar questa Donna di Palazzo; atteso che le medesime regole che son date per lo Cortegiano, servono ancor alla Donna; perchè così deve ella aver rispetto ai tempi e lochi, ed osservar, per quanto comporta la sua imbecillità, tutti quegli altri modi di che tanto s’è ragionato, come il Cortegiano. E però in loco di questo, non sarebbe forse stato male insegnar qualche particolarità di quelle che appartengono al servizio della persona del Principe, che pur al Cortegian si convien saperle, ed aver grazia in farle; o veramente dir del modo che s’abbia a tener negli esercizii del corpo, e come cavalcare, maneggiar l’arme, lottare, ed in che consiste la difficoltà di queste operazioni. Disse allor la signora Duchessa ridendo: I Signori non si servono alla persona di così eccellente Cortegiano, come è questo: gli esercizii poi del corpo, e forze e destrezze della persona, lasciaremo che messer Pietro Monte nostro abbia cura d’insegnar, quando gli parerà tempo più commodo; perchè ora il Magnifico non ha da parlar d’altro che di questa Donna, della qual parmi che voi già cominciate aver paura; e però vorreste farci uscir di proposito. — Rispose il Frigio: Certo è, che impertinente e fuor di proposito è ora il parlar di donne, restando massimamente ancora che dire del Cortegiano, perchè non si devria mescolar una cosa con l’altra. — Voi sete in grande errore, rispose messer Cesar Gonzaga; perchè come corte alcuna, per grande che ella sia, non può aver ornamento 0 splendore in sè nè allegria senza donne, nè Cortegiano alcun essere aggraziato, piacevole o ardito, nè fa6 mai opera leggiadra di cavalleria, se non mosso dalla pratica e dall’amore e piacer di donne: così ancora il ragionar del Cortegiano è sempre imperfettissimo, se le donne, interponendovisi, non danno lor parte di quella grazia, con la quale fanno perfetta ed adornano la Cortegiania. — Rise il signor Ottaviano; e disse: Eccovi un poco di quell’esca che fa impazzir gli uomini.
IV. Allor il signor Magnifico, voltatosi alla signora Duchessa, Signora, disse, poichè pur così a voi piace, io dirò quello che m’occorre, ma con grandissimo dubio di non satisfare; e certo molto minor fatica mi saria formar una Signora che meritasse esser regina del mondo, che una perfetta Cortegiana: perchè di questa non so io da che pigliarne lo esempio; ma della regina non mi bisogneria andar troppo lontano, e solamente basteriami imaginar le divine condizioni d’una Signora ch’io conosco, e, quelle contemplando, indrizzar tutti i pensier miei ad esprimer chiaramente con le parole quello che molti veggon con gli occhi; e quando altro non potessi, lei nominando solamente, avrei satisfatto all’obligo mio.— Disse allora la signora Duchessa: Non uscite dei termini, signor Magnifico, ma attendete all’ordine dato, e formate la Donna di Palazzo, acciò che questa così nobil Signora abbia chi possa degnamente servirla. — Seguitò il Magnifico: Io adunque, Signora, acciò che si vegga che i comandamenti vostri possono indurmi a provar di far quello ancora ch’io non so fare, dirò di questa Donna eccellente come io la vorrei; e formata ch’io l’averò a modo mio, non potendo poi averne altra, terrolla come mia a guisa di Pigmalione7. E perchè il signor Gaspar ha detto, che le medesime regole che son date per lo Cortegiano, serveno ancor alla Donna: io son di diversa opinione; chè, benchè alcune qualità siano communi, e così necessarie all’uomo come alla donna, sono poi alcun’altre che più si convengono alla donna che all’uomo, ed alcune convenienti all’uomo, dalle quali essa deve in tutto esser aliena. Il medesimo dico degli esercizii del corpo; ma sopra tutto parmi che nei modi, maniere, parole, gesti, portamenti suoi, debba la donna essere molto dissimile dall’uomo; perchè come ad esso conviene mostrar una certa virilità soda e ferma, così alla donna sta ben aver una tenerezza molle e delicata, con maniera in ogni suo movimento di dolcezza feminile, che nell’andar e stare e dir ciò che si voglia sempre la faccia parer donna; senza similitudine alcuna d’uomo. Aggiungendo adunque questa avvertenza alle regole che questi signori hanno insegnato al Cortegiano, penso ben che di molte di quelle ella debba potersi servire, ed ornarsi d’ottime condizioni; come dice il signor Gaspar; perchè molte virtù dell’animo estimo io che siano alla donna necessarie così come all’uomo; medesimamente la nobilità, il fuggire l’affettazione, l’esser aggraziata da natura in tutte l’operazion sue, l’esser di buoni costumi, ingeniosa, prudente, non superba, non invidiosa, non maledica, non vana, non contenziosa, non inetta, sapersi guadagnar e conservar la grazia della sua Signora e di tutti gli altri, far bene ed aggraziatamente gli esercizi che si convengono alle donne. Parmi ben che in lei sia poi più necessaria la bellezza che nel Cortegiano, perchè in vero molto manca a quella donna a cui manca la bellezza. Deve ancor esser più circonspetta, ed aver più riguardo di non dar occasion che di sè si dica male, e far di modo che non solamente non sia macchiata di colpa, ma nè anco di sospiziome, perchè la donna non ha tante vie da difendersi dalle false calunnie, come ha l’uomo. Ma perchè il conte Ludovico ha esplicato molto minutamente la principal profession del Cortegiano, ed ha voluto ch’ella sia quella dell’arme; parmi ancora conveniente dir, secondo il mio giudicio, qual sia quella della Donna di Palazzo: alla qual cosa quando io averò satisfatto, pensarommi d’esser uscito della maggior parte del mio debito.
V. Lasciando adunque quelle virtù dell’animo che le hanno da esser communi col Cortegiano, come la prudenza, la magnanimità, la continenza, e molte altre; e medesimamente quelle condizioni che si convengono a tutte le donne, come l’esser buona e discreta, il saper governar le facoltà del marito e la casa sua e i figlioli quando è maritata, e tutte quelle parti che si richieggono ad una buona madre di famiglia: dico, che a quella che vive in corte parmi convenirsi sopra ogni altra cosa una certa affabilità piacevole, per la qual sappia gentilmente intertenere ogni sorte d’uomo con ragionamenti grati ed onesti, ed accommodati al tempo e loco, ed alla qualità di quella persona con cui parlerà, accompagnando coi costumi placidi e modesti, e con quella onestà che sempre ha da componer tutte le sue azioni, una pronta vivacità d’ingegno, donde si mostri aliena da ogni grosseria; ma con tal maniera di bontà, che si faccia estimar non men pudica, prudente ed umana, che piacevole, arguta e discreta: e però le bisogna tener una certa mediocrità difficile, e quasi composta di cose contrarie, e giugner a certi termini appunto, ma non passargli. Non deve adunque questa Donna, per volersi far estimar buona ed onesta, esser tanto ritrosa e mostrar tanto d’aborrire e le compagnie e i ragionamenti ancor un poco lascivi, che ritrovandovisi8 se ne levi; perchè facilmente si poria pensar ch’ella fingesse d’esser tanto austera per nascondere di sè quello ch’ella dubitasse ch’altri potesse risapere; e i costumi così selvatichi son sempre odiosi. Non deve tampoco, per mostrar d’esser libera e piacevole, dir parole disoneste, nè usar una certa domestichezza intemperata e senza freno, e modi da far creder di sè quello che forse non è; ma ritrovandosi a tai ragionamenti, deve ascoltargli con un poco di rossore e vergogna. Medesimamente fuggir un errore, nel quale io ho veduto incorrer molte; che è, il dire ed ascoltare volentieri chi dice mal d’altre donne: perchè quelle che, udendo narrar modi disonesti d’altre donne, se ne turbano e mostrano non credere, ed estimar quasi un mostro che una donna sia impudica, danno argomento che, parendo lor quel difetto tanto enorme, esse non lo commettano; ma quelle che van sempre investigando gli amori dell’altre, e gli narrano così minutamente e con tanta festa, par che lor n’abbiano invidia, e che desiderino che ognun lo sappia, acciò che il medesimo ad esse non sia ascritto per errore; e così vengon in certi risi, con certi modi, che fanno testimonio che allor senton sommo piacere. E di qui nasce che gli uomini, benchè paja che le ascoltino volentieri, per lo più delle volte le tengono in mala opinione, ed hanno lor pochissimo riguardo, e par loro che da esse con que’ modi siano invitati a passar più avanti, e spesso poi scorrono a termini che dan loro meritamente infamia, ed in ultimo le estimano così poco, che non curano il lor commercio, anzi le hanno in fastidio: e, per contrario, non è uomo tanto procace ed insolente, che non abbia riverenza a quelle che sono estimate buone ed oneste; perchè quella gravità temperata di sapere e bontà è quasi un scudo contra la insolenza e bestialità dei prosontuosi; onde si vede che una parola, un riso, un atto di benivolenza, per minimo ch’egli sia, d’una donna onesta, è più apprezzato da ognuno, che tutte le demostrazioni e carezze di quelle che così senza riservo mostran poca vergogna; e se non sono impudiche, cen quei risi dissoluti, con la loquacità, insolenza, e tai costumi scurrili, fanno segno d’essere.
VI. E perchè le parole sotto le quali non è subjetto di qualche importanza son vane e puerili, bisogna che la Donna di Palazzo, oltre al giudicio di conoscere la qualità di colui con cui parla, per intertenerlo gentilmente, abbia notizia di molte cose; e sappia, parlando, elegger quelle che sono a proposito della condizion di colui con cui parla, e sia cauta in non dir talor non volendo parole che lo offendano. Si guardi, laudando sè stessa indiscretamente, ovvero con l’esser troppo prolissa, non gli generar fastidio. Non vada mescolando nei ragionamenti piacevoli e da ridere cose di gravità, nè meno nei gravi facezie e burle. Non mostri inettamente di saper quello che non sa, ma con modestia cerchi d’onorarsi di quello che sa, fuggendo, come si è detto l’affettazione in ogni cosa. In questo modo sarà ella ornata di buoni costumi, e gli esercizi del corpo convenienti a donna farà con suprema grazia, e i ragionamenti suoi saranno copiosi, e pieni di prudenza, onestà e piacevolezza; e così sarà essa non solamente amata ma reverita da tutto ’l mondo, e forse degna d’esser agguagliata a questo gran Cortegiano, così delle condizioni dell’animo come di quelle del corpo.
VII. Avendo insin qui detto il Magnifico, si tacque, e stette sopra di sè, quasi come avesse posto fine al suo ragionamento. Disse allora il signor Gasparo: Voi avete veramente, signor Magnifico, molto adornata questa Donna, e fattola di eccellente condizione: nientedimeno parmi che vi siate tenuto assai al generale, e nominato in lei alcune cose tanto grandi, che credo vi siate vergognato di chiarirle; e più presto le avete desiderate, a guisa di quelli che bramano talor cose impossibili e sopranaturali, che insegnate. Però vorrei che ci dichiariste un poco meglio quai siano gli esercizii del corpo convenienti a Donna di Palazzo, e di che modo ella debba intertenere, e quai sian queste molte cose di che voi dite che le si conviene aver notizia; e se la prudenza, la magnanimità, la continenza, e quelle molte altre virtù che avete detto, intendete che abbian ad ajutarla solamente circa il governo della casa, dei figlioli e della famiglia; il che però voi non volete che sia la sua prima professione: o veramente allo intertenere, e far aggraziatamente questi esercizii del corpo; e per vostra fè guardate a non mettere queste povere virtù a così vile officio, che abbiano da vergognarsene. — Rise il Magnifico, e disse: Pur non potete far, signor Gasparo, che non mostriate mal animo verso le donne; ma in vero a me pareva aver detto assai, e massimamente presso a tali auditori; chè non penso già che sia alcun qui che non conosca, che, circa gli esercizii del corpo, alla donna non si convien armeggiare, cavalcare, giocare alla palla, lottare, e molte altre cose che si convengono agli uomini. — Disse allora l’Unico Aretino: Appresso gli antichi s’usava che le donne lottavano nude con gli uomini; ma noi avemo perduta questa buona usanza insieme con molt’altre. — Soggiunse messer Cesare Gonzaga: Ed io a’ miei dì ho veduto donne giocare alla palla, maneggiar l’arme, cavalcare, andare a caccia, e far quasi tutti gli esercizii che possa fare un cavaliero.
VIII. Rispose il Magnifico: Poi ch’io posso formar questa Donna a modo mio, non solamente non voglio ch’ella usi questi esercizii virili così robusti ed asperi, ma voglio che quegli ancora che son convenienti a donna faccia con riguardo, e con quella molle delicatura che avemo detto convenirsele; e però nel danzar non vorrei vederla usar movimenti troppo gagliardi e sforzati, nè meno nel cantar o sonar quelle diminuzioni forti e replicate, che mostrano più arte che dolcezza: medesimamente gl’instrumenti di musica che ella usa, secondo me, debbono esser conformi a questa intenzione. Imaginatevi come disgraziata cosa saria veder una donna sonare tamburi, piffari o trombe, o altri tali instrumenti; e questo perchè la loro asprezza nasconde e leva quella soave mansuetudine, che tanto adorna ogni atto che faccia la donna. Però quando ella viene a danzar o far musica di che sorte si sia, deve indurvisi con lasciarsene alquanto pregare, e con una certa timidità, che mostri quella nobile vergogna che è contraria della impudenza9. Deve ancor accommodar gli abiti a questa intenzione, e vestirsì di sorte, che non paja vana e leggiera. Ma perchè alle donne è licito e debito aver più cura della bellezza che agli uomini, e diverse sorti sono di bellezza; deve questa donna aver giudicio di conoscer quai sono quegli abiti che le acerescon grazia, e più accommodati a quegli esercizii ch’ella intende di fare in quel punto, e di quelli servirsi: e conoscendo in sè una bellezza vaga ed allegra, deve ajutarla coi movimenti, con le parole e con gli abiti, che tutti tendano10 allo allegro; così come un’altra, che si senta aver maniera mansueta e grave, deve ancor accompagnarla coi modi di quella sorte, per accrescer quello che è dono della natura. Così essendo un poco più grassa 0 più magra del ragionevole, o bianca o bruna, ajutarsi con gli abiti, ma dissimulatamente più che sia possibile; e tenendosi delicata e polita, mostrar sempre di non mettervi studio o diligenza alcuna.
IX. E perchè il signor Gasparo domanda ancor, quai siano queste molte cose di che ella deve aver notizia, e di che modo intertenere, e se le virtù deono servire a questo intertenimento: dico che voglio che ella abbia cognizion di ciò che questi signori han voluto che sappia il Cortegiano; e di quelli esercizii che avemo detto che a lei non si convengono, voglio che ella n’abbia almen quel giudicio che possono aver delle cose coloro che non le oprano: e questo per saper laudare ed apprezzar i cavalieri più e meno, secondo i meriti. E per replicar in parte in poche parole quello che già s’è detto, voglio che questa Donna abbia notizia di lettere, di musica, di pittura, e sappia danzar e festeggiare; accompagnando con quella discreta modestia e col dar buona opinion di sè ancora le altre avvertenze che son state insegnate al Cortegiano. E così sarà nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel motteggiare, in somma in ogni cosa, gratissima; ed intertenerà accommodatamente, e con motti e facezie convenienti a lei, ogni persona che le occorrerà. E benchè la continenza, la magnanimità, la temperanza, la fortezza d’animo, la prudenza e le altre virtù paja che non importino allo intertenere, io voglio che di tutte sia ornata, non tanto per lo intertenere, benchè però ancor a questo possono servite, quanto per esser virtuosa, ed acciò che queste virtù la faccian tale che meriti esser onorata, e che ogni sua operazion sia di quelle composta.
X. Maravigliomi pur, disse allora ridendo il signor Gaspar, che poichè date alle donne e le lettere e la continenza e la magnanimità e la temperanza, che non vogliate ancor che esse governino le città, e faccian le leggi, e conducano gli eserciti; e gli uomini si stiano in cucina o a filare. — Rispose il Magnifico, pur ridendo: Forse che questo ancora non sarebbe male; — poi soggiunse: Non sapete voi che Platone, il quale in vero non era molto amico delle donne, dà loro la custodia della città; e tutti gli altri officii marziali dà agli uomini? Non credete voi che molte se ne trovassero, che saprebbon così ben governar le città e gli eserciti, come si faccian gli uomini? Ma io non ho lor dati questi officii, perchè formo una Donna di Palazzo, non una Regina. Conosco ben che voi vorreste tacitamente rinovar quella falsa calunnia, che jeri diede il signor Ottaviano alle donne; cioè, che siano animali imperfettissimi, e non capaci di far atto alcun virtuoso, e di pochissimo valore e di niuna dignità, a rispetto degli uomini: ma in vero ed esso e voi sareste in grandissimo errore se pensaste questo.
XI. Disse allora il signor Gaspar: Io non voglio rinovar le cose già dette, ma voi ben vorreste indurmi a dir qualche parola che offendesse l’animo di queste signore, per farmele nemiche, così come voi col lusingarle falsamente volete guadagnar la loro grazia. Ma esse sono tanto discrete sopra le altre, che amano più la verità, ancora che non sia tanto in suo favore, che le laudi false; nè hanno a male, che altri dica che gli uomini siano di maggior dignità, e confessaranno che voi avete detto gran miracoli, ed attribuito alla Donna di Palazzo alcune impossibilità ridicole, e tante virtù, che Socrate e Catone e tutti i filosofi del mondo vi sono per niente; chè, a dir pur il vero, maravigliomi che non abbiate avuto vergogna a passar i termini di tanto. Chè ben bastar vi dovea far questa Donna di Palazzo bella, discreta, onesta, affabile, e che sapesse intertenere, senza incorrere in infamia, con danze, musiche, giochi, risi, motti, e l’altre cose che ogni di vedemo che s’usano in corte; ma il volerle dar cognizion di tutte le cose del mondo, ed attribuirle quelle virtù che così rare volte si son vedute negli uomini, ancora nei secoli passati, è una cosa che nè sopportare nè appena ascoltar si può. Che le donne siano mo animali imperfetti, e per conseguente di minor dignità che gli uomini, e non capaci di quelle virtù che sono essi, non voglio io altrimenti affermare, perchè il valor di queste signore bastaria a farmi mentire: dico ben che uomini sapientissimi hanno lasciato scritto che la natura, perciò che sempre intende e disegna far le cose più perfette, se potesse, produrria continuamente uomini; e quando nasce una donna, è difetto o error della natura, e contra quello che essa vorrebbe fare: come si vede ancor d’uno che nasce cieco, zoppo, o con qualche altro mancamento, e negli arbori molti frutti che non maturano mai: così la donna si può dire animal prodotto a sorte e per caso; e che questo sia, vedete l’operazion dell’uomo e della donna, e da quelle pigliate argomento della perfezion dell’uno e dell’altro. Nientedimeno, essendo questi difetti delle donne colpa di natura che l’ha prodotte tali, non devemo per questo odiarle, nè mancar di aver loro quel rispetto che vi si conviene; ma estimarle da più di quello che elle si siano, parmi error manifesto.
XII. Aspettava il Magnifico Juliano che ’l signor Gasparo seguitasse più oltre; ma vedendo che già tacea, disse: Della imperfezion delle donne parmi che abbiate addotto una freddissima ragione; alla quale, benchè non si convenga forse ora entrar in queste sottilità, rispondo, secondo il parer di chi sa e secondo la verità, che la sostanza in qualsivoglia cosa non può in sè ricevere il più o il meno: chè, come niun sasso può esser più perfettamente sasso che un altro quanto alla essenza del sasso, nè un legno più perfettamente legno che l’altro, così un uomo non può essere più perfettamente uomo che l’altro; e conseguentemente non sarà il maschio più perfetto che la femina, quanto alla sostanza sua formale, perchè l’uno e l’altro si comprende sotto la specie dell’uomo, e quello in che l’uno dall’altro son differenti è cosa accidentale, e non essenziale. Se mi direte adunque che l’uomo sia più perfetto che la donna, se non quanto alla essenza, almen quanto agli accidenti; rispondo, che questi accidenti bisogna che consistano o nel corpo o nell’animo: se nel corpo, per esser l’uomo più robusto, più agile, più leggiero, o più tolerante di fatiche, dico che questo è argomento di pochissima perfezione, perchè tra gli uomini medesimi quelli che hanno queste qualità più che gli altri non son per quelle più estimati; e nelle guerre, dove son la maggior parte delle opere laboriose e di forza, i più gagliardi non son però i più pregiati: se nell’animo, dico che tutte le cose che possono intendere gli uomini, le medesime possono intendere ancor le donne; e dove penetra l’intelletto dell’uno, può penetrare eziandio quello dell’altra.
XIII. Quivi avendo il Magnifico Juliano fatto un poco di pausa, soggiunse ridendo: Non sapete voi, che in filosofia si tiene questa proposizione; che quelli che son molli di carne, sono atti della mente? perciò non è dubio, che le donne, per esser più molli di carne, sono ancor più atte della mente, e d’ingegno più accommodato alle speculazioni che gli uomini. — Poi seguitò: Ma, lasciando questo, perchè voi diceste ch’io pigliassi argomento della perfezion dell’un e dell’altro dalle opere, dico, se voi considerate gli effetti della natura, trovarete ch’ella produce le donne tali come sono, non a caso, ma accommodate al fine necessario: chè benchè le faccia del corpo non gagliarde e d’animo placido, con molte altre qualità contrarie a quelle degli uomini, pur le condizioni dell’uno e dell’altro tendono ad un sol fine concernente alla medesima utilità. Chè secondo che per quella debole fievolezza le donne son meno animose, per la medesima sono ancor poi più caute: però le madri nutriscono i figlioli, i padri gli ammaestrano, e con la fortezza acquistano di fuori quello, che esse con la sedulità conservano in casa, che non è minor laude. Se considerate poi l’istorie antiche (benchè gli uomini sempre siano stati parcissimi nello scrivere le laudi delle donne) e le moderne, trovarete che continuamente la virtù è stata tra le donne così come tra gli uomini; e che ancor sonosi trovate di quelle che hanno mosso delle guerre, e conseguitone gloriose vittorie; governato i regni con somma prudenza e giustizia, e fatto tutto quello che s’abbian fatto gli uomini. Circa le scienze, non vi ricorda aver letto di tante che hanno saputo filosofia? altre che sono state eccellentissime in poesia? altre che han trattato le cause, ed accusato e difeso inanzi ai giudici eloquentissimamente? Delopere manuali saria lungo narrare, nè di ciò bisogna far testimonio. Se adunque nella sostanza essenziale l’uomo non è più perfetto della donna, nè meno negli accidenti; e di questo, oltre la ragione, veggonsi gli effetti: non so in che consista questa sua perfezione.
XIV. E perchè voi diceste che intento della natura è sempre di produr le cose più perfette, e però, s’ella potesse, sempre produrria l’uomo, e che il produr la donna è più presto errore o difetto della natura che intenzione; rispondo, che questo totalmente si nega; nè so come possiate dire che la natura non intenda produr le donne, senza le quali la specie umana conservar non si può, di che più che d’ogni altra cosa è desiderosa essa natura. Perciò col mezzo di questa compagnia di maschio e di femina produce i figlioli, i quali rendono i beneficii ricevuti in puerizia ai padri già vecchi, perchè gli nutriscono, poi gli rinovano col generar essi ancor altri figlioli, dai quali aspettano in vecchiezza ricever quello, che essendo giovani ai padri hanno prestato; onde la natura, quasi tornando in circolo, adempie la eternità, ed in tal modo dona la immortalità ai mortali. Essendo adunque a questo tanto necessaria la donna quanto l’uomo, non vedo per qual causa l’una sia fatta a caso più che l’altro. È ben vero che la natura intende sempre produr le cose più perfette, e però intende produr l’uomo in specie sua, ma non più maschio che femina; anzi, se sempre producesse maschio, faria una imperfezione; perchè come del corpo e dell’anima risulta un composito più nobile che le sue parti, che è l’uomo: così della compagnia di maschio e di femina risulta un composito conservativo della specie umana, senza il quale le parti si destruiriano. E però maschio e femina da natura son sempre insieme, nè può esser l’un senza l’altro: così quello non si dee chiamar maschio che non ha la femina, secondo la diffinizione dell’uno e dell’altro; nè femina quella che non ha il maschio. E perchè un sesso solo dimostra perfezione; attribuiscono gli antichi teologi l’uno e l’altro a Dio: onde Orfeo disse che Jove era maschio e femina; e leggesi nella Sacra Scrittura che Dio formo gli uomini maschio e femina a sua similitudine; e spesso i poeti, parlando dei Dei, confondono il sesso.
XV. Allora il Signor Gasparo, Io non vorrei, disse, che noi entrassimo in tali sottilità, perchè queste donne non c’intenderanno; e benchè io vi risponda con ottime ragioni, esse crederanno, o almen mostraranno di credere, ch’io abbia il torto, e subito daranno la sentenza a suo modo. Pur, poichè noi vi siamo entrati, dirò questo solo, che, come sapete esser opinion d’uomini sapientissimi, l’uomo s’assimiglia alla forma, la donna alla materia; e però, così come la forma è più perfetta che la materia, anzi le dà l’essere; così l’uomo è più perfetto assai che la donna. E ricordomi aver già udito che un gran filosofo in certi suoi problemi dice: Onde è che naturalmente la donna ama sempre quell’uomo che è stato il primo a ricever da lei amorosi piaceri? e per contrario l’uomo ha in odio quella donna che è stata la prima a congiungersi in tal modo con lui? — e, soggiungendo la causa, afferma, questo essere perchè in tal atto la donna riceve dall’uomo perfezione, e l’uomo dalla donna imperfezione; e però ognun ama naturalmente quella cosa che lo fa perfetto, ed odia quella che lo fa imperfetto. Ed, oltre a ciò, grande argomento della perfezion dell’uomo e della imperfezion della donna è, che universalmente ogni donna desidera esser uomo, per un certo instinto di natura, che le insegna desiderar la sua perfezione.
XVI. Rispose subito il Magnifico Juliano: Le meschine non desiderano l’esser uomo per farsi più perfette, ma per aver libertà, e fuggir quel dominio che gli uomini si hanno vendicato sopra esse per sua propria autorità. E la similitudine che voi date della materia e forma non si confà in ogni cosa; perchè non così è fatta perfetta la donna dall’uomo, come la materia dalla forma: perchè la materia riceve l’esser dalla forma e senza essa star non può, anzi quanto più di materia hanno le forme tanto più hanno d’imperfezione, e separate da essa son perfettissime; ma la donna non riceve lo essere dall’uomo, anzi così come essa è fatta perfetta da lui, essa ancor fa perfetto lui; onde l’una e l’altro insieme vengono a generare, la qual cosa far non possono alcun di loro per sè stessi. La causa poi dell’amor perpetuo della donna verso ’l primo con cui sia stata, e dell’odio dell’uomo verso la prima donna, non darò io già a quello che dà il vostro Filosofo ne’ suoi problemi, ma alla fermezza e stabilità della donna, ed alla instabilità dell’uomo: nè senza ragion naturale; perchè essendo il maschio calido, naturalmente da quella qualità piglia la leggerezza, il moto e la instabilità; e, per contrario, la donna dalla frigidità la quiete e gravità ferma, e più fisse impressioni.
XVII. Allora la signora Emilia rivolta al signor Magnifico, Per amor di Dio, disse; uscite una volta di queste vostre materie e forme, e maschi e femine, e parlate di modo che siate inteso; perchè noi avemo udito e molto ben inteso il male che di noi ha detto il signor Ottaviano e ’l signor Gasparo; ma or non intendemo già in che modo voi ci difendiate: però questo mi par un uscir di proposito, e lasciar nell’animo d’ognuno quella mala impressione, che di noi hanno data questi nostri nemici. — Non ci date questo nome, Signora, rispose il signor Gaspar, chè più presto si conviene al signor Magnifico, il qual col dar laudi false alle donne, mostra che per esse non ne sian di vere. — Soggiunse il Magnifico Juliano: Non dubitate, Signora; che al tutto sì risponderà; ma io non voglio dir villania agli uomini così senza ragione, come hanno fatto essi alle donne; e se per sorte qui fosse alcuno che scrivesse i nostri ragionamenti, non vorrei che poi in loco dove fossero intese queste materie e forme, si vedessero senza risposta gli argomenti e le ragioni che il signor Gasparo contra di voi adduce. — Non so, signor Magnifico, disse allora il signor Gasparo, come in questo negar potrete; che l’uomo per le qualità naturali non sia più perfetto che la donna, la quale è frigida di sua complessione, e l’uomo calido; e molto più nobile e più perfetto è il caldo che ’l freddo, per essere attivo. e produttivo; e, come sapete, i cieli qua giù tra noi infondono il caldo solamente, e non il freddo, il quale non entra nelle opere della natura; e però lo esser le donne frigide di complessione, credo che sia causa della viltà e timidità loro.
XVIII. Ancor volete, rispose il Magnifico Joliano, pur entrar nelle sottilità; ma vederete che ogni volta, peggio ve n’avverrà: e che così sia, udite. Io vi confesso che la calidità in sè è più perfetta che la frigidità; ma questo non seguita nelle cose miste e composite, perchè, se così fosse, quel corpo che più caldo fosse, quel saria più perfetto; il che è falso, perchè i corpi temperati son perfettissimi. Dicovi ancora, che la donna è di complession frigida in comparazion dell’uomo, il quale per troppo caldo è distante dal temperamento; ma, quanto in sè, è temperata, o almen più propinqua al temperamento che non è l’uomo, perchè ha in sè quell’umido proporzionato al calor naturale che nell’uomo per la troppa siccità più presto si risolve e si consuma. Ha ancor una tal frigidità che resiste e conforta il calor naturale, e lo fa più vicino al temperamento; e nell’uomo il superfluo caldo presto riduce il calor naturale all’ultimo grado, il quale, mancandogli il nutrimento, pur si risolve; e però, perchè gli uomini nel generar si diseccano più che le donne, spesso interviene che son meno vivaci che esse: onde questa perfezione ancor si può attribuire alle donne, che, vivendo più lungamente che gli uomini, eseguiscono più quello che è intento della natura che gli uomini. Del calore che infondono i cieli sopra noi non si parla ora, perchè è equivoco a quello di che ragioniamo; chè essendo conservativo di tutte le cose che son sotto ’l globo della luna, così calde come fredde, non può esser contrario al freddo. Ma la timidità nelle donne, avvenga che dimostri qualche imperfezione, nasce però da laudabil causa, che è la sottilità e prontezza dei spiriti, i quali rapresentano tosto le specie allo intelletto, e però si perturbano facilmente per le cose estrinseche. Vederete ben molte volte alcuni, che non hanno paura nè di morte né d’altro, nè con tutto ciò si possono chiamare arditi, perchè non conoscono il pericolo, e vanno come insensati dove vedono la strada, e non pensano più; e questo procede da una certa grossezza di spiriti ottusi: però non si può dire che un pazzo sia animoso; ma la vera magnanimità viene da una propria deliberazione e determinata volontà di far così, e da estimare più l’onore e ’l debito che tutti i pericoli del mondo; e, benchè si conosca la morte manifesta, esser di core e d’animo tanto saldo, che i sentimenti non restino impediti nè si spaventino, ma faccian l’officio loro circa il discorrere e pensare, così come se fossero quietissimi. Di questa sorte avemo veduto ed inteso esser molti grand’uomini; medesimamente molte donne, le quali, e negli antichi secoli e nei presenti, hanno mostrato grandezza d’animo, e fatto al mondo effetti degni d’infinita laude, non men che s’abbian fatto gli uomini.
XIX. Allor il Frigio, Quegli effetti, disse, cominciarono quando la prima donna errando fece altrui errar contra Dio, e per eredità lasciò all’umana generazion la morte, gli affanni e i dolori, e tutte le miserie e calamità che oggidi al mondo si sentono. — Rispose il Magnifico Juliano: Poichè nella sacrestia ancor vi giova d’entrare, non sapete voi, che quello error medesimamente fu corretto da una Donna, che ci apportò molto maggior utilità che quella non n’avea fatto danno, di modo che la colpa che fu pagata con tai meriti si chiama felicissima? Ma io non voglio or dirvi quanto di dignità tutte le creature umane siano inferiori alla Vergine nostra Signora, per non mescolar le cose divine in questi nostri folli ragionamenti; nè raccontar quante donne con infinita costanza s’abbiano lasciato crudelmente ammazzare dai tiranni per lo nome di Cristo, nè quelle che con scienza disputando hanno confuso tanti idolatri: e se mi diceste, che questo era miracolo e grazia dello Spirito Santo, dico che niuna virtù merita più laude, che quella che è approvata per testimonio di Dio. Molte altre ancor, delle quali tanto non si ragiona, da voi stesso potete vedere, massimamente leggendo San Jeronimo, che alcune de’ suoi tempi celebra con tante maravigliose laudi, che ben poriano bastar a qualsivoglia santissimo uomo.
XX. Pensate poi quante altre ci sono state delle quali non si fa menzione alcuna, perchè le meschine stanno chiuse senza quella pomposa superbia di cercare appresso il volgo nome di santità, come fanno oggidi molt’uomini ipocriti maledetti, i quali, scordati o più presto facendo poco caso della dottrina di Cristo, che vuole che quando l’uom digiuna si unga la faccia perchè non paja che digiuni, e comanda che le orazioni, le elemosine e l’altre buone opere si facciano non in piazza, nè in sinagoghe, ma in secreto, tanto che la man sinistra non sappia della destra, affermano, non messer maggior bene al mondo che’ dar buon esempio: e così, col collo torto e gli occhi bassi, spargendo fama di non voler parlare a donne, nè mangiar altro che erbe crude, affamati, con le toniche squarciate, gabbano i semplici; che non si guardan poi da falsar testamenti, mettere inimicizie mortali tra marito e moglie, e talor veneno, usar malie, incanti ed ogni sorte di ribalderia; e poi allegano una certa autorità di suo capo che dice, Si non caste tamen caute; e par loro con questa medicare ogni gran male, e con buona ragione per suadere a chi non è ben cauto, che tutti i peccati, per gravi che siano, facilmente perdona Iddio, pur che stiano secreti, e non nasca il mal esempio. Così, con un velo di santità e con questa secretezza11, spesso tutti i lor pensieri volgono a contaminare il casto animo di qualche donna; spesso a seminare odii tra fratelli; a governare stati; estollere l’uno e deprimer l’altro; far decapitare, incarcerare e proscrivere uomini; esser ministri delle scelerità e quasi depositarii delle rubarie che fanno molti principi. Altri senza vergogna si dilettano d’apparer morbidi e freschi, con la cotica ben rasa, e ben vestiti; ed alzano nel passeggiar la tonica per mostrar le calze tirate, e la disposizion della persona nel far le riverenze. Altri usano certi sguardi e movimenti ancor nel celebrar la messa, per i quali presumeno essere aggraziati, e farsi mirare. Malvagi e scelerati uomini, alienissimi non solamente dalla religione, ma d’ogni buon costume; e quando la lor vita dissoluta è lor rimproverata, si fan beffe e ridonsi di chi lor ne parla, e quasi si ascrivono i vizii a laude.— Allora la signora Emilia: Tanto piacer, disse, avete di dir mal de’ frati, che fuor d’ogni proposito siete entrato in questo ragionamento. Ma voi fate grandissimo male a mormorar dei religiosi, e senza utilità alcuna vi caricate la coscienza: chè se non fossero quelli che pregano Dio per noi altri, aremmo ancor molto maggior flagelli che non avemo.— Rise allora il Magnifico Juliano; e disse: Come avete voi, Signora, così ben indovinato ch’io parlava de’ frati, non avendo io loro fatto il nome? ma in vero, il mio non si chiama mormorare, anzi parlo io ben aperto e chiaramente; nè dico dei buoni; ma dei malvagi e rei, e dei quali ancor non parlo la millesima parte di ciò ch’io so. — Or non parlate de’ frati, rispose la signora Emilia; ch’io per me estimo grave peccato l’ascoltarvi, e però io, per non ascoltarvi, levarommi di qui.
XXI. Son contento, disse il Magnifico Juliano, non parlar più di questo; ma, tornando alle laudi delle donne, dico che ’l signor Gasparo non mi troverà uomo alcun singolare, ch’io non vi trovi la moglie, o figliola, o sorella, di merito eguale e talor superiore: oltra che molte son state causa di infiniti beni ai loro uomini, e talor hanno corretto di molti loro errori. Però essendo, come avemo dimostrato, le donne naturalmente capaci di quelle medesime virtù che son gli uomini, ed essendosene più volte veduto gli effetti, non so perchè, dando loro io quello che è possibile che abbiano e spesso hanno avuto e tuttavia hanno, debba esser estimato dir miracoli, come m’ha opposto il signor Gasparo; atteso che sempre sono state al mondo, ed ora ancor sono, donne così vicine alla Donna di Palazzo che ho formata io, come uomini vicini all’uomo che hanno formato questi signori.— Disse allora il signor Gasparo: Quelle ragioni che hanno la esperienza in contrario, non mi pajon buone; e certo s’io vi addimandassi quali siano o siano state queste gran donne tanto degne di laude, quanto gli uomini grandi ai quali son state moglie, sorelle o figliole, o che siano loro state causa di bene alcuno, o quelle che abbiano corretto i loro errori; penso che restareste impedito.
XXII. Veramente, rispose il Magnifico Juliano, niuna altra cosa poria farmi restar impedito, eccetto la moltitudine; e se ’l tempo mi bastasse, vi contarei a questo proposito la istoria d’Ottavia moglie di Marc’Antonio e sorella d’Augusto; quella di Porcia figliola di Catone e moglie di Bruto; quella di Gaja Cecilia moglie di Tarquinio Prisco; quella di Cornelia figliola di Scipione; e d’infinite altre che sono notissime: e non solamente delle nostre, ma ancora delle barbare; come di quella Alessandra, moglie pur d’Alessandro re de’ Giudei, la quale dopo la morte del marito, vedendo i popoli accesi di furore, e già corsi all’arme per ammazzare doi figlioli che di lui le erano restati, per vendetta della crudele e dura servitù nella quale il padre sempre gli avea tenuti, fu tale, che subito mitigò quel giusto sdegno, e con prudenza in un punto fece benivoli ai figlioli quegli animi che ’l padre con infinite ingiurie in molt’anni avea fatti loro inimicissimi. — Dite almen, rispose la signora Emilia, come ella fece. — Disse il Magnifico: Questa, vedendo i figlioli in tanto pericolo, incontenente fece gittare il corpo d’Alessandro in mezzo della piazza; poi, chiamati a sè i cittadini, disse, che sapea gli animi loro esser accesi di giustissimo sdegno contra suo marito, perchè le crudeli ingiurie che esso iniquamente gli avea fatte lo meritavano; e che come mentre era vivo avrebbe sempre voluto poterlo far rimanere da tal scelerata vita, così adesso era apparecchiata a farne fede, e loro ajutar a castigarnelo così morto, per quanto si potea; e però si pigliassero quel corpo, e lo facessino mangiar ai cani, e lo straziassero con que’ modi più crudeli che imaginar sapeano: ma ben gli pregava che avessero compassione a quegli innocenti fanciulli, i quali non potevano non che aver colpa, ma pur esser consapevoli delle male opere del padre. Di tanta efficacia furono queste parole, che ’l fiero sdegno già conceputo negli animi di tutto quel popolo, subito fu mitigato, e converso in così piatoso affetto, che non solamente di concordia elessero quei figlioli per loro signori, ma ancor al corpo del morto diedero onoratissima sepoltura. Quivi fece il Magnifico un poco di pausa; poi soggiunse: Non sapete voi, che la moglie e le sorelle di Mitridate mostrarono molto minor paura della morte, che Mitridate? e la moglie di Asdrubale, che Asdrubale? Non sapete che Armonia, figliola di Jeron siracusano, volse morire nell’incendio della patria sua? — — Allor il Frigio, Dove vada ostinazione, certo è, disse, che talor si trovano alcune donne che mai non mutariano proposito; come quella che non potendo più dir al marito forbeci, con le mani glie ne facea segno.12—
XXIII. Rise il Magnifico Juliano, e disse: La ostinazione che tende a fine virtuoso si dee chiamar costanza; come fu di quella Epicari, libertina romana, che essendo consapevole d’una gran congiura contra di Nerone, fu di tanta costanza, che, straziata con tutti i più asperi tormenti che imaginar si possano, mai non palesò alcuno dei complici; e nel medesimo pericolo molti nobili cavalieri e senatori timidamente accusarono fratelli, amici, e le più care ed intime persone che avessero al mondo. Che direte voi di quell’altra che si chiamava Leona? in onor della quale gli Ateniesi dedicarono inanzi alla porta della ròcca una leona di bronzo senza lingua, per dimostrar in lei la costante virtù della taciturnità; perchè essendo essa medesimamente consapevole d’una congiura contra i tiranni, non si spaventò per la morte di dui grandi uomini suoi amici, e benchè con infiniti e crudelissimi tormenti fosse lacerata, mai non palesò alcuno dei congiurati. — Disse allor madonna Margherita Gonzaga: Parmi che voi narriate troppo brevemente queste opere virtuose fatte da donne; chè se ben questi nostri nemici l’hanno udite e lette, mostrano non saperle, e vorriano che se ne perdesse la memoria: ma se fate che noi altre le intendiamo, almen ce ne faremo onore.
XXIV. Allor il Magnifico Juliano, Piacemi, rispose. Or io voglio dirvi d’una, la qual fece quello che io credo che ’l signor Gasparo medesimo confessarà che fanno pochissimi uomini; — e cominciò: In Massilia fu già una consuetudine, la quale s’estima che di Grecia fosse traportata, la quale era, che publicamente si servava veneno temperato con cicuta, e concedevasi il pigliarlo a chi approvava al senato doversi levar la vita, per qualche incommodo che in essa sentisse, ovver per altra giusta causa, acciò che chi troppo avversa fortuna patito avea o troppo prospera gustato, in quella non perseverasse o questa non mutasse. Ritrovandosi adunque Sesto Pompeo.... — Quivi il Frigio, non aspettando che ’l Magnifico Juliano passasse più avanti, Questo mi par, disse; il principio d’una qualche lunga fabula. — Allora il Magnifico Juliano, voltatosi ridendo a madonna Margherita, Eccovi, disse, che ’l Frigio non mi lascia parlare. Io voleva or contarvi d’una donna, la quale avendo dimostrate al senato che ragionevolmente dovea morire, allegra e senza timor alcuno tolse in presenza di Sesto Pompeo il veneno, con tanta costanza d’animo, e così prudenti ed amorevoli ricordi ai suoi, che Pompeo e tutti gli altri, che videro in una donna tanto sapere e sicurezza nel tremendo passo della morte, restarono non senza lacrime confusi di molta maraviglia. —
XXV. Allora il signor Gasparo, ridendo, Io ancora mi ricordo, disse, aver letto una orazione, nella quale un’infelice marito domanda licenza al senato di morire, ed approva averne giusta cagione, per non poter tolerare il continuo fastidio del cianciare di sua moglie, e più presto vuol bere quel veneno, che voi dite che si servava publicamente per tali effetti, che le parole della moglie. — Rispose il Magnifico Juliano: Quante meschine donne ariano giusta causa di domandar licenza di morir, per non poter tolerare, non dirò le male parole, ma i malissimi fatti dei mariti! ch’io alcune ne conosco, che in questo mondo patiscono le pene che si dicono esser nell’inferno. — Non credete voi, rispose il signor Gasparo, che molti mariti ancor siano che dalle mogli hanno tal tormento, che ogni ora desiderano la morte? — E che dispiacere, disse il Magnifico, possono far le mogli ai mariti, che sia così senza rimedio come son quelli che fanno i mariti alle mogli? le quali, se non per amore, almen per timor sono ossequenti ai mariti. — Certo è, disse il signor Gaspar, che quel poco che talor fanno di bene procede da timore, perchè poche ne sono al mondo che nel secreto dell’animo suo non abbiano in odio il marito. — Anzi in contrario, rispose il Magnifico; e se ben vi ricorda quanto avete letto, in tutte le istorie si conosce che quasi sempre le mogli amano i mariti più che essi le mogli. Quando vedeste voi o leggeste mai che un marito facesse verso la moglie un tal segno d’amore, quale fece quella Camma verso suo marito?13 — Io non so, rispose il signor Gaspar, chi sì fosse costei, nè che segno la si facesse. — Nè io, — disse il Frigio. Rispose il Magnifico: Uditelo; e voi, madonna Margherita, mettete cura di tenerlo a memoria.
XXVI. Questa Camma fu una bellissima giovane, ornata di tanta modestia e gentil costumi, che non men per questo che per la bellezza era maravigliosa; e sopra l’altre cose con tutto il core amava suo marito, il quale si chiamava Sinatto. Intervenne che un altro gentiluomo, il quale era di molto maggior stato che Sinatto, e quasi tiranno di quella città dove abitavano, s’inamorò di questa giovane; e dopo l’aver lungamente tentato pet ogni via e modo d’acquistarla, e tutto in vano, persuadendosi che lo amor che essa portava al marito fosse la sola cagione che ostasse a’ suoi desiderii, fece ammazzar questo Sinatto. Così poi sollicitando continuamente, non ne potè mai trar altro frutto che quello che prima avea fatto; onde, crescendo ogni di più questo amore, deliberò torla per moglie, benchè essa di stato gli fosse molto inferiore. Così richiesti li parenti di lei da Sinorige (chè così si chiamava lo innamorato), cominciarono a persuaderla a contentarsi di questo, mostrandole, il consentir essere utile assai, e ’l negarlo pericoloso per lei e per tutti loro. Essa, poi che loro ebbe alquanto contradetto, rispose in ultimo, esser contenta. I parenti fecero intendere la nuova a Sinorige; il qual allegro sopra modo, procurò che subito si celebrassero le nozze. Venuto adunque l’uno e l’altro a questo effetto solennemente nel tempio di Diana, Camma fece portar una certa bevanda dolce, la quale essa avea composta; e così davanti al simulacro di Diana in presenza di Sinorige ne bevvè la metà; poi di sua mano, perchè questo nelle nozze s’usava di fare, diede il rimanente allo sposo; il qual tutto lo bevvè. Camma come vide il disegno suo riuscito, tutta lieta appiè della imagine di Diana s’inginocchiò, e disse: O Dea, tu che conosci lo intrinseco del cor mio, siami buon testimonio, come difficilmente dopo che ’l mio caro consorte morì, contenuta mi sia di non mi dar la morte, e con quanta fatica abbia sofferto il dolore di star in questa amara vita, nella quale non ho sentito alcuno altro bene o piacere, fuor che la speranza di quella vendetta che or mi trovo aver conseguita: però allegra e contenta vado a trovar la dolce compagnia di quella anima, che in vita ed in morte più che me stessa ho sempre amata. E tu, scelerato, che pensasti esser mio marito, in iscambio del letto nuziale dà dine che apparecchiato ti sia il sepolero, ch’io di te fo sacrificio all’ombra di Sinatto. — Sbigottito Sinorige di queste parole, e già sentendo la virtù del veneno che lo perturbava, cercò molti rimedii; ma non valsero: ed ebbe Camma di tanto la fortuna favorevole, o altro che si fosse, che inanzi che essa morisse, seppe che Sinorige era morto. La qual cosa intendendo, contentissima si pose al letto con gli occhi al cielo, chiamando sempre il nome di Sinatto, e dicendo: O dolcissimo consorte, or ch’io ho dato per gli ultimi doni alla tua morte e lacrime e vendetta, nè veggio che più altra cosa qui a far per te mi resti, fuggo il mondo, e questa senza te crudel vita, la quale per te solo già mi fu cara. Viemmi adunque incontra, signor mio, ed accogli così volontieri questa anima, come essa volontieri a te ne viene: — e di questo modo parlando, e con le braccia aperte, quasi che in quel punto abbracciar lo volesse, se ne morì. Or dite, Frigio, che vi par di questa? — Rispose il Frigio: Parmi che voi vorreste far piangere queste donne. Ma poniamo che questo ancor fosse vero, io vi dico che tai donne non si trovano più al mondo.
XXVII. Disse il Magnifico: Si trovan sì; e che sia vero, udite. A’ dì miei fu in Pisa un gentiluomo, il cui nome era messer Tomaso; non mi ricordo di qual famiglia, ancora che da mio padre, che fu suo grande amico, sentissi più volte ricordarla. Questo messer Tomaso adunque, passando un dì sopra un piccolo legnetto da Pisa in Sicilia per sue bisogne, fu soprapreso d’alcune fuste de’ Mori, che gli furono adosso così all’improviso, che quelli che governavano il legnetto non se n’accorsero; e benchè gli uomini che dentro v’erano si difendessino assai, pur, per esser essi pochi, e gl’inimici molti, il legnetto con quanti v’eran sopra rimase nel poter dei Mori, chi ferito e chi sano, secondo la sorte, e con essi messer Tomaso, il qual s’era portato valorosamente, ed avea morto di sua mano un fratello d’un dei capitani di quelle fuste. Della qual cosa il Capitanio sdegnato, come possete pensare, della perdita del fratello, volse costui per suo prigioniero; e battendolo e straziandolo ogni giorno, lo condusse in Barberia, dove in gran miseria aveva deliberato tenerlo in vita sua captivo e con gran pena. Gli altri tutti, chi per una e chi per un’altra via, furono in capo d’un tempo liberì, e ritornarono a casa, e riportarono alla moglie, che Madonna Argentina avea nome, ed ai figlioli, la dura vita e ’l grand’affanno in che messer Tomaso viveva ed era continuamente per vivere senza speranza, se Dio miracolosamente non l’ajutava. Della qual cosa poi che essa e loro furono chiariti, tentati alcun altri modi di liberarlo, e dove esso medesimo già s’era acquetato di morire, intervenne che una solerte pietà svegliò tanto l’ingegno e l’ardir d’un suo figliolo, che si chiamava Paolo, che non ebbe risguardo a niuna sorte di pericolo, e deliberò o morir o liberar il padre: la qual cosa gli venne fatta, di modo che lo condusse così cautamente, che prima fu in Ligorno, che si risapesse in Barberia ch’e’ fosse di là partito. Quindi messer Tomaso sicuro, scrisse alla moglie, e le fece intendere la liberazion sua, e dove era, e come il dì seguente sperava di vederla. La buona e gentil donna, sopragiunta da tanta e non pensata allegrezza di dover così presto, e per pietà e per virtù del figliolo;, vedere il marito, il quale amava tanto, e già credea fermamente non dover mai più vederlo: letta la lettera, alzò gli occhi al cielo, e, chiamato il nome del marito, cadde morta in terra; nè mai con rimedii che se le facessero, la fuggita anima più ritornò nel corpo. Crudel spettacolo, e bastante a tempetar le volontà umane, e ritrarle dal desiderar troppo efficacemente le soverchie allegrezze! —
XXVIII. Disse allora ridendo il Frigio: Che sapete voi, ch’ella non morisse di dispiacere, intendendo che ’l marito tornava a casa? — Rispose il Magnifico: Perchè il resto della vita sua non si accordava con questo; anzi penso che quell’anima, non potendo tolerare lo indugio di vederlo con gli occhi del corpo, quello abbandonasse, e tratta dal desiderio volasse subito dove, leggendo quella lettera, era volato il pensiero. — Disse il signor Gasparo: Può esser che questa donna fosse troppo amorevole, perchè le donne in ogni cosa sempre s’attaccano allo estremo, che è male; e vedete, che per essere (troppo amorevole fece male a sè stessa, ed al marito14, ed ai figlioli, ai quali converse in amaritudine il piacere di quella pericolosa e desiderata liberazione. Però non dovete già allegar questa per una di quelle donne, che sono state causa di tanti beni. — Rispose il Magnifico: Io la allego per una di quelle che fanno testimonio, che si trovino mogli che amino i mariti; chè di quelle che siano state causa di molti beni al mondo potrei dirvi un numero infinito, e narrarvi delle tanto antiche che quasi pajon fabule, e di quelle che appresso agli uomini sono state inventrici di tai cose, che hanno meritato esser estimate Dee, come Pallade, Cerere, e delle Sibille, per bocca delle quali Dio tante volte ha parlato e rivelato al mondo le cose che aveano a venire; e di quelle che hanno insegnato a grandissimi uomini, come Aspasia e Diotima, la quale ancora con sacrificii prolungò dieci anni il tempo d’una peste che aveva da venire in Atene. Potrei dirvi di Nicostrata, madre d’Evandro, la quale mostrò le lettere ai Latini; e d’un’altra donna ancor, che fu maestra di Pindaro lirico; e di Corinna e di Saffo, che furono eccellentissime in poesia: ma io non voglio cercar le cose tanto lontane. Dicovi ben, lasciando il resto, che della grandezza di Roma furono forse non minor causa le donne che:gli uomini. — Questo, disse il signor Gasparo, sarebbe bello da intendere.
XXIX. Rispose il Magnifico: Or uditelo. Dopo la espugnazion di Troja molti Trojani, che a tanta ruina avanzarono, fuggirono chi ad una via chi ad un’altra; dei quali una parte, che da molte procelle furono battuti, vennero in Italia, nella contrata ove il Tevere entra in mare. Così discesi in terra per cercar de’ bisogni loro, cominciarono a scorrere il paese: le donne, che erano restate nelle navi, pensarono tra sè un utile consiglio, il qual ponesse fine al pericoloso e lungo error maritimo, ed in loco della perduta patria una nuova loro ne recuperasse; e, consultate insieme, essendo absenti gli uomini, abrusciarono le navi; e la prima che tal opera cominciò, si chiamava Roma. Pur temendo la iracondia degli uomini i quali ritornavano, andarono contra essi; ed alcune i mariti, alcune i suoi congiunti di sangue abbracciando e basciando con segno di benivolenza, mitigarono quel primo impeto; poi manifestarono loro quietamente la causa del lor prudente pensiero. Onde. i Trojani, sì per necessità, sì per esser benignamente accettati dai paesani, furono contentissimi di ciò che le donne avean fatto, e quivi abitarono coi Latini, nel loco dove poi fu Roma; e da questo processe il costume antico appresso i Romani, che le donne incontrando basciavano i parenti. Or vedete quanto queste donne giovassero a dar principio a Roma.
XXX. Nè meno giovarono allo augumento di quella le donne sabine, che si facessero le trojane al principio: chè avendosi Romolo concitato generale inimicizia di tutti i suoi vicini per la rapina che fece delle lor donne, fu travagliato di guerre da ogni banda; delle quali, per esser uomo valoroso, tosto s’espedì con vittoria, eccetto di quella de’ Sabini, chè fu grandissima, perchè Tito Tazio re de’ Sabini era valentissimo e savio: onde essendo stato fatto uno acerbe fatto d’arme tra Romani e Sabini, con gravissimo danno dell’una e dell’altra parte, ed apparecchiandosi nuova e crudel battaglia, le donne sabine, vestite di nero, co’ capelli sparsi e lacerati, piangendo, meste, senza timore dell’arme che già erano per ferir mosse, vennero nel mezzo tra i padri e i mariti, pregandogli che non volessero macchiarsi le mani del sangue de’ soceri e dei generi; e se pur erano mal contenti di tal parentato, voltassero l’arme contra esse, chè molto meglio loro era il morire che vivere vedove, O senza padri e fratelli, e ricordarsi che i suoi figlioli fossero nati di chi loro avesse morti i lor padri, o che esse fossero nate di chi lor avesse morti i lor mariti. Con questi gemiti piangendo, molte di loro nelle braccia portavano i suoi piccoli figliolini, dei quali già alcuni cominciavano a snodar la lingua, e parea che chiamar volessero e far festa agli avoli loro; ai quali le donne mostrando i nepoti, e piangendo, Ecco, diceano, il sangue vostro, il quale voi con tanto impeto e furor cercate di sparger con le vostre mani. — Tanta forza ebbe in questo caso la pietà e la prudenza delle donne, che non solamente tra li doi re nemici fu fatta indissolubile amicizia e confederazione, ma, che più maravigliosa cosa fu, vennero i Sabini ad abitare in Roma, e dei dui popoli fu fatto un solo; e così molto accrebbe questa concordia le forze di Roma, merce delle saggie e magnanime donne; le quali in tanto da Romolo furono remunerate, che, dividendo il popolo in trenta curie, a quelle pose i nomi delle donne Sabine. XXXI. Quivi essendosi un poco il Magnifico Juliano fermato, e vedendo che ’l signor Gasparo non parlava, Non vi par, disse, che queste donne fossero causa di bene agli loro uomini, e giovassero alla grandezza di Roma? — Rispose il signor Gasparo: In vero queste furono degne di molta laude; ma se voi così voleste dir gli errori delle donne come le buone opere, non areste taciuto che in questa guerra di Tito Tazio una donna tradì Roma15, ed insegnò la strada ai nemici d’occupar il Capitolio, onde poco mancò che i Romani tutti non fossero distrutti. — Rispose il Magnifico Juliano: Voi mi fate menzion d’una sola donna mala, ed io a voi d’infinite buone; ed, oltre le già dette, io potrei addurvi al mio proposito mille altri esempii delle utilità fatte a Roma dalle donne, e dirvi perchè già fosse edificato un tempio a Venere Armata, ed un altro a Venere Calva, e come ordinata la festa delle Ancille a Junone, perchè le ancille già liberarono Roma dalle insidie de’ nemici. Ma, lasciando tutte queste cose, quel magnanimo fatto d’aver scoperto la congiurazion di Catilina, di che tanto si lauda Cicerone, non ebbe egli principalmente origine da una vil femina? la quale per questo si poria dir che fosse stata causa di tutto ’l bene che si vanta Cicerone aver fatto alla republica romana. E se ’l tempo mi bastasse, vi mostrarei forse ancor le donne spesso aver corretto di molti errori degli uomini; ma temo che questo mio ragionamento ormai sia troppo lungo e fastidioso: perchè avendo, secondo il poter mio, satisfatto al carico datomi da queste signore, penso di dar loco a chi dica cose più degne d’esser udite, che non posso dir io,
XXXII. Allor la signora Emilia, Non defraudate, disse, le donne di quelle vere laudi che loro sono debite; e ricordatevi che se ’l signor Gaspar, ed ancor forse il signor Ottaviano, vi odono con fastidio, noi, e tutti quest’altri signori, vi udiamo con piacere.— Il Magnifico pur volea por fine, ma tutte le donne cominciarono a pregarlo che dicesse: onde egli ridendo, Per non mi provocar, disse, per nemico il signor Gaspar più di quello che egli si sia, dirò brevemente d’alcune che mi occorrono alla memoria, lasciandone molte ch’io potrei dire; — poi soggiunse: Essendo Filippo di Demetrio intorno alla città di Chio, ed avendola assediata, mandò un bando, che a tutti i servi che della città fuggivano, ed a sè venissero, prometteva la libertà, e le mogli dei lor patroni. Fu tanto lo sdegno delle donne per così ignominioso bando, che con l’arme vennero alle mura, e tanto ferocemente combatterono, che in poco tempo scacciarono Filippo con vergogna e danno; il che non aveano potuto far gli uomini. Queste medesime donne essendo coi lor mariti, padri e fratelli, che andavano in esilio, pervenute in Leuconia, fecero un atto non men glorioso di questo: chè gli Eritrei, che ivi erano co’ suoi confederati, mossero guerra a questi Chii; li quali non potendo contrastare, tolsero patto col giuppon solo e la camiscia uscir della città. Intendendo le donne così vituperoso accordo, si dolsero; rimproverandogli che lasciando l’arme uscissero come ignudi tra nemici; e rispondendo essi, già aver stabilito il patto, dissero che portassero lo scudo e la lanza e lasciassero i panni, e rispondessero ai nemici, questo essere il loro abito. E così facendo essi per consiglio delle lor donne ricopersero in gran parte la vergogna, che in tutto fuggir non poteano. Avendo ancor Ciro in un fatto d’arme rotto un esercito di Persiani, essi in fuga correndo verso la città incontrarono le lor donne fuor della porta, le quali fattesi loro incontra, dissero: Dove fuggite voi, vili uomini? volete voi forse nascondervi in noi, onde sete usciti? — Queste ed altre tai parole udendo gli uomini, e conoscendo quanto d’animo erano inferiori alle lor donne, si vergognarono di sè stessi, e ritornando verso i nemici, di nuovo cor essi combatterono, e gli ruppero.
XXXIII. Avendo insin qui detto il Magnifico Juliano, fermossi, e, rivolto alla signora Duchessa, disse: Or, Signora, mi darete licenza di tacere. — Rispose il signor Gasparo: Bisogneravi pur tacere, poichè non sapete più che vi dire. — Disse il Magnifico ridendo: Voi mi stimolate di modo, che vi mettete a pericolo di bisognar tutta notte udir laudi di donne; ed intendere di molte Spartane; che hanno avuta cara la morte gloriosa dei figlioli; e di quelle che gli hanno rifiutati, o morti esse medesime; quando gli hanno veduti usar viltà. Poi, come le donne Saguntine nella ruina della patria loro prendessero l’arme contra le genti d’Annibale; e come essendo lo esercito de’ Tedeschi superato da Mario, le lor donne, non potendo ottener grazia di viver libere in Roma al servizio delle Vergini Vestali, tutte s’ammazzassero insieme coi lor piccoli figliolini; e di mille altre, delle quali tutte le istorie antiche son piene. — Allora il signor Gasparo, Deh, signor Magnifico, disse, Dio sa come passarono quelle cose; perchè que’ secoli son tanto da noi lontani, che molte bugie si posson dire, e non v’è chi le riprovi.
XXXIV. Disse il Magnifico: Se in ogni tempo vorrete misurare il valor delle donne con quel degli uomini, trovarete che elle non son mai state nè ancor sono adesso di virtù punto inferiori agli uomini: chè, lasciando quei tanto antichi, se venite al tempo che i Goti regnarono in Italia, trovarete tra loro essere stata una regina Amalasunta, che governò lungamente con maravigliosa prudenza; poi Teodelinda, regina de’ Longobardi, di singolar virtù; Teodora, greca imperatrice; ed in Italia fra molte altre fu singolarissima signora la contessa Matilda, delle laudi della quale lasciarò parlare al conte Ludovico, perchè fu della casa sua. Anzi, disse il Conte, a voi tocca, perchè sapete ben che non conviene che l’uomo laudi le cose sue proprie. — Soggiunse il Magnifico: E quante donne famose ne’ tempi passati. trovate voi di questa nobilissima casa di Montefeltro! quante della casa Gonzaga, da Este, de’ Pii! Se de’ tempi presenti poi parlare vorremo, non ci bisogna cercar esempii troppo di lontano, che gli avemo in casa. Ma io non voglio ajutarmi di quelle che in presenza vedemo, acciò che voi non mostriate consentirmi per cortesia quello che in alcun modo negar non mi potete. E, per uscir di Italia16, ricordatevi che a’ di nostri avemo veduto Anna regina di Francia, grandissima signora non meno di virtù che di stato; che se di giustizia e clemenza, liberalità e santità di vita, comparare la vorrete alli re Carlo e Ludovico, dell’uno e dell’altro de’ quali fu moglie; non la trovarete punto inferiore d’essi, Vedete madonna Margherita, figliola di Massimiliano imperatore; la quale con somma prudenza e giustizia insino a qui ha governato e tuttora governa il stato suo.
XXXV. Ma, lasciando a parte tutte l’altre, ditemi, Signor Gaspar, qual re o qual principe è stato a’ nostri dì ed ancor molt’anni prima in cristianità, che meriti esser comparato alla regina Isabella di Spagna? — Rispose il signor Gasparo: Il re Ferrando suo marito. — Soggiunse il Magnifico: Questo non negherò io; chè, poichè la Regina lo giudicò degno d’esser suo marito, e tanto lo amò ed osservò, non sì può dire ch’ei non meritasse d’esserle comparato: ben credo che la riputazion ch’egli ebbe da lei fosse dote non minor che ’l regno di Castiglia. — Anzi, rispose il signor Gaspar, penso io che di molte opere del re Ferrando fosse laudata la regina Isabella. — Allor il Magnifico, Se i popoli di Spagna, disse, i signori, i privati, gli uomini e le donne, poveri e ricchi, non si son tutti accordati a voler mentire in laude di lei, non è stato a’ tempi nostri al mondo più chiaro esempio di vera bontà, di grandezza d’animo, di prudenza, di religione, d’onestà, di cortesia, di liberalità, in somma d’ogni virtù, che la regina Isabella; e benchè la fama di quella signora in ogni loco e presso ad ogni nazione sia grandissima, quelli che con lei vissero e furono presenti alle sue azioni tutti affermano, questa fama esser nata dalla virtù e meriti di lei. E chi vorrà considerare l’opere sue, facilmente conoscerà esser così il vero: chè, lasciando infinite cose che fanno fede di questo, è potrebbonsi dire se fosse nostro proposito, ognun sa che quando essa venne a regnare trovò la maggior parte di Castiglia occupata da’ grandi; nientedimeno il tutto recuperò così giustificatamente e con tal modo, che i medesimi che ne furono privati le restarono affezionatissimi, e contenti di lasciar quello che possedevano: Notissima cosa è ancora, con quanto animo e prudenza sempre difendesse i regni suoi da potentissimi inimici; e medesimamente a lei sola si può dar l’onor del glorioso acquisto del regno di Granata; che in così lunga e difficil guerra contra nemici ostinati, che combattevano per le facoltà, per la vita, per la legge sua, ed, al parer loro, per Dio, mostrò sempre col consiglio e con la persona propria tanta virtù, che forse a’ tempi nostri pochi principi hanno avuto ardire non che di imitarla, ma pur d’averle invidia. Oltre a ciò, affermano tutti quegli che la conobbero, essere stato in lei tanto divina maniera di governare, che parea quasi che solamente la volontà sua bastasse, perchè senza altro strepito ognuno facesse quello che doveva; tal che appena osavano gli uomini in casa sua propria e secretamente far cosa che pensassino che a lei avesse da dispiacere: e di questo in gran parte fu causa il maraviglioso giudicio ch’ella ebbe in conoscere ed eleggere i ministri atti a quelli officii nei quali intendeva d’adoperargli; e così ben seppe congiungere il rigor della giustizia con la mansuetudine della clemenza e la liberalità, che alcun buono a’ suoi dì non fu che si dolesse d’esser poco remunerato, nè alcun malo d’esser troppo castigato. Onde nei popoli verso di lei nacque una somma riverenza, composta d’amore e timore; la quale negli animi di tutti ancor sta così stabilita, che par quasi che aspettino che essa dal cielo i miri, e di lassù debba darle laude o biasimo; e perciò col nome suo e coi modi da lei ordinati sì governano ancor que’ regni, di maniera che, benchè la vita sia mancata, vive l’autorità, come rota che, lungamente con impeto voltata, gira ancor per buon spazio da sè, benchè altri più non la mova. Considerate oltre di questo, signor Gasparo, che a’ nostri tempi tutti gli nomini grandi di Spagna e famosi in qualsivoglia cosa, sono stati creati dalla regina Isabella; e Gonsalvo Ferrando, Gran Capitano, molto più di questo si prezzava, che di tutte le sue famose vittorie, e di quelle egregie e virtuose opere, che in pace ed in guerra fatto l’hanno così chiaro ed illustre, che se la fama non è ingratissima, sempre al mondo publicherà le immortali sue lode, e farà fede, che alla età nostra pochi re o gran principi avemo avuti, i quali stati non siano da lui di magnanimità, sapere, e d’ogni virtù superati.
XXXVI. Ritornando adunque in Italia dico, che ancor qui non ci mancano eccellentissime signore; che in Napoli avemo due singolar regine; e poco fa pur in Napoli morì l’altra regina d’Ongaria, tanto eccellente signora quanto voi sapete, è bastante di far paragone allo invitto e glorioso re Mattia Corvino, suo marito. Medesimamente la duchessa Isabella d’Aragona, degna sorella del re Ferrando di Napoli; la quale, come oro nel foco, così nelle procelle di fortuna ha mostrata la virtù e ’l valor suo. Se nella Lombardia verrete, v’occorrerà la signora Isabella marchesa di Mantua; alle eccellentissime virtù della quale ingiuria si faria parlando così sobriamente, come saria forza in questo loco a chi pur volesse parlarne. Pesami ancora che tutti non abbiate conosciuta la duchessa Beatrice di Milano sua sorella, per non aver mai più a maravigliarvi di ingegno di donna. E la duchessa Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara, e madre dell’una e l’altra di queste due signore ch’io v’ho nominate, fu tale, che le eccellentissime sue virtù faceano buon testimonio a tutto ’l mondo, che essa non solamente era degna figliola di Re, ma che meritava esser regina di molto maggior stato che non aveano posseduto tutti i suoi antecessori. E, per dirvi d’un’altra, quanti uomini, conoscete voi al mondo, che avessero tolerato gli acerbi colpi della fortuna così moderatamente, come ha fatto la regina Isabella di Napoli? la quale, dopo la perdita del regno, lo esilio e morte del re Federico suo marito, e duo figlioli, e la prigionia del Duca di Calabria suo primogenito, pur ancor si dimostra esser regina, e di tal modo sopporta i calamitosi incommodi della misera povertà, che ad ognuno fa fede che, ancor che ella abbia mutato fortuna, non ha mutato condizione. Lascio di nominar infinite altre signore, ed ancor donne di basso grado; come molte Pisane, che alla difesa della lor patria contra Fiorentini hanno mostrato quell’ardire generoso, senza timore alcuno di morte, che mostrar potessero i più invitti animi che mai fossero al mondo; onde da molti nobili poeti sono state alcune di lor celebrate. Potrei dirvi d’alcune eccellentissime in lettere, in musica, in pittura, in scultura; ma non voglio andarmi più rivolgendo tra questi esempii, che a voi tutti sono notissimi. Basta che, se nell’animo vostro pensate alle donne che voi stessi conoscete, non vi fia difficile comprendere che esse per il più non sono di valore o meriti inferiori ai padri, fratelli e mariti loro; e che molte sono state causa di bene agli uomini, e spesso hanno corretto di molti loro errori; e se adesso non si trovano al mondo quelle gran regine, che vadano a subjugare paesi lontani, e facciano magni edificii, piramidi e città, come quella Tomiris, regina di Scizia, Artemisia, Zenobia, Semiramis o Cleopatra, non ci son ancor uomini come Cesare, Alessandro, Scipione, Lucullo, e quegli altri imperatori romani.
XXXVII. Non dite così, rispose allora ridendo il Frigio, chè adesso più che mai si trovan donne17 come Cleopatra o Semiramis; e se già non hanno tanti stati, forze e ricchezze, loro non manca però la buona volontà di imitarle almen nel darsi piacere, e satisfare più che possano a tutti i suoi appetiti. — Disse il Magnifico Juliano: Voi volete pur, Frigio, uscire de’ termini; ma se si trovano alcune Cleopatre, non mancano infiniti Sardanapali; che è assai peggio. Non fate, disse allor il signor Gasparo, queste comparazioni, nè crediate già che gli uomini siano più incontinenti che le donne; e quando ancor fossero, non sarebbe peggio, perchè dalla incontinenza delle donne nascono infiniti mali, che non nascono da quella degli uomini: e però, come jeri fu detto, èssi prudentemente ordinato, che ad esse sia licito senza biasimo mancar in tutte l’altre cose, acciò che possano mettere ogni lor forza per mantenerse in questa sola virtù della castità, senza la quale i figlioli sariano incerti, e quello legame che stringe tutto ’l mondo per lo sangue, ‘e per amar naturalmente ciascun quello che ha prodotto, si discioglieria; però alle donne più si disdice la vita dissoluta che agli uomini, i quali non portano nove mesi i figlioli in corpo.
XXXVIII. Allora il Magnifico, Questi, rispose, veramente sono belli argomenti che voi fate, e non so perchè non gli mettiate in scritto. Ma, ditemi, per qual causa non s’è ordinato, che negli uomini così sia vituperosa cosa la vita dissoluta come nelle donne, atteso che se essi sono da natura più virtuosi e di maggior valore, più facilmente ancora poriano mantenersi in questa virtù della continenza, e i figlioli nè più nè meno sariano certi; chè sebben le donne fossero lascive, purchè gli uomini fossero continenti e non consentissero alla lascivia delle donne, esse da sè a sè e senza altro ajuto già non porian generare. Ma se volete dir il vero, voi ancor conoscete che noi di nostra autorità ci avemo vendicato una licenza, per la quale volemo che i medesimi peccati in noi siano leggerissimi, e talor meritino laude, e nelle donne non possano a bastanza essere castigati se non con una vituperosa morte, o almen perpetua infamia. Però, poichè questa opinion è invalsa, parmi che conveniente cosa sia castigar ancor acerbamente quelli che con bugie danno infamia alle donne; ed estimo ch’ogni nobil cavaliero sia obligato a difender sempre con l’arme, dove bisogna, la verità, e massimamente quando conosce qualche donna esser falsamente calunniata di poca onestà.
XXXIX. Ed io, rispose ridendo il signor Gasparo, non solamente affermo esser debito d’ogni nobil cavaliero quello che voi dite, ma estimo gran cortesia e gentilezza coprir qualche errore, ove per disgrazia, o troppo amore, una donna sia incorsa; e così veder potete ch’io tengo più la parte delle donne, dove la ragion me lo comporta, che non fate voi. Non nego già che gli uomini non si abbiano preso un poco di libertà; e questo perchè sanno, che per la opinion universale ad essi la vita dissoluta non porta così infamia come alle donne; le quali, per la imbecillità del sesso, sono molto più inclinate agli appetiti che gli uomini, e se talor si astengono dal satisfare ai suoi desiderii, lo fanno per vergogna, non perchè la volontà non sia loro prontissima: e però gli uomini hanno posto loro il timor d’infamia per un freno che le tenga quasi per forza in questa virtù, senza la quale, per dir il vero, sariano poco d’apprezzare; perchè il mondo non ha utilità dalle donne, se non per lo generare dei figlioli. Ma ciò non intervien degli uomini, i quali governano le città, gli eserciti, e fanno tante altre cose d’importanza: il che, poi che voi volete così, non voglio disputar come sapessero far le donne; basta che non lo fanno: e quando è occorso agli uomini far paragon della continenza, così hanno superato le donne in questa virtù come ancora nell’altre, benchè voi non lo consentiate. Ed io circa questo non voglio recitarvi tante istorie o fabule quante avete fatto voi, e rimettovi alla continenza solamente di dui grandissimi signori giovani, e su la vittoria, la quale suol far insolenti ancora gli uomini bassissimi: e dell’uno è quella d’Alessandro Magno verso le donne bellissime di Dario, nemico e vinto; l’altra di Scipione, a cui, essendo di ventiquattro anni, ed avendo in Ispagna vinto per forza una città, fu condotta una bellissima e nobilissima giovane, presa tra molt’altre; ed intendendo Scipione, questa esser sposa d’un signor del paese, non solamente s’astenne da ogni atto disonesto verso di lei, ma immaculata la rese al marito, facendole di sopra un ricco dono. Potrei dirvi di Senocrate, il quale fu tanto continente, che una bellissima donna essendosegli colcata accanto ignuda, e facendogli tutte le carezze, ed usando tutti i modi che sapea, delle quai cose era bonissima maestra, non ebbe forza mai di far che mostrasse pur un minimo segno d’impudicizia, avvenga che ella in questo dispensasse tutta una notte; e di Pericle, che udendo solamente uno che laudava con troppo efficacia la bellezza d’un fanciullo, lo riprese agramente; e di molt’altri continentissimi di lor propria volontà, e non per vergogna o paura di castigo, da che sono indotte la maggior parte di quelle donne che in tal virtù si mantengono: le quali però ancor con tutto questo meritano esser laudate assai, e chi falsamente dà loro infamia d’impudicizia è degno, come avete detto, di gravissima punizione.
XL. Allora messer Cesare, il qual per buon spazio taciuto avea, Pensate, disse, di che modo parla il signor Gasparo a biasimo, delle donne, quando queste son quelle cose ch’ei dice in laude loro. Ma se ’l signor Magnifico mi concede ch’io possa in loco suo. rispondergli alcune poche cose circa quanto egli, al parer mio, falsamente ha detto contra le donne, sarà bene per l’uno e per l’altro: perchè esso si riposerà un poco, e meglio poi potrà seguitare in dir qualche altra eccellenza della Donna di Palazzo; ed io mi terrò per molta grazia l’aver occasione di far insieme con lui questo officio di buon cavaliero, cioè difender la verità. — Anzi ve ne priego, rispose il signor Magnifico; chè già a me parea aver satisfatto, secondo le forze mie, a quanto io doveva, e che questo ragionamento fosse ormai fuor del proposito mio, Soggiunse messer Cesare: Non voglio già parlar della utilità che ha il mondo dalle donne, oltre al generar i figlioli: perchè a bastanza s’è dimostrato, quanto esse siano necessarie non solamente all’esser ma ancor al ben esser nostro; ma dico, signor Gaspar, che se esse sono, come voi dite, più inclinate agli appetiti che gli uomini, e con tutto questo se ne astengono più che gli uomini, il che voi stesso consentite: sono tanto più degne di laude, quanto il sesso loro è men forte per resistere agli appetiti naturali; e se dite che lo fanno per vergogna, parmi che in loco d’una virtù sola ne diate lor due; chè se in esse più può la vergogna che l’appetito, e perciò si astengono dalle cose mal fatte, estimo che questa vergogna, che in fine non è altro che timor d’infamia, sia una rarissima virtù, e da pochissimi uomini posseduta. E s’io potessi senza infinito vituperio degli uomini dire come molti d’essi siano immersi nella impudenza, che è il vizio contrario a questa virtù, contaminarei queste sante orecchie che m’ascoltano: e per il più questi tali ingiuriosì a Dio ed alla natura sono uomini già vecchi, i quali fan professione chi di sacerdozio, chi di filosofia, chi delle sante leggi; e governano le republiche con quella severità Catoniana nel viso, che promette tutta la integrità del mondo; e sempre allegano, il sesso feminile esser incontinentissimo: nè mai essi d’altro si dolgon più, che del mancar loro il vigor naturale per poter salisfare ai loro abominevoli desiderii, i quali loro restano ancor nell’animo, quando già la natura li nega al corpo; e però spesso trovano modi dove le forze non sono necessarie.
XLI. Ma io non voglio dir più avanti; e bastami che mi consentiate che le donne si astengano più dalla vita impudica che gli uomini; e certo è, che d’altro freno non sono ritenute, che da quello che esse stesse si mettono: e che sia vero, la più parte di quelle che son custodite con troppo stretta guardia, o battute dai mariti o padri, sono men pudiche che quelle che hanno qualche libertà. Ma gran freno è generalmente alle donne l’amor della vera virtù e ’l desiderio d’onore, del qual molte, che io a’ miei di ho conosciute, fanno più stima che della vita propria; e se volete dir il vero, ognun di noi ha veduto giovani nobilissimi, discreti, savii, valenti e belli, aver dispensato molt’anni amando, senza lasciare adrieto cosa alcuna di sollecitudine, di doni; di preghi, di lacrime, in somma di ciò che imaginar si può; e tutto in vano. E se a me non si potesse dire, che le qualità mie non meritarono mai ch’io fossi amato, allegherei il testimonio di me stesso, che più d’una volta per la immutabile e troppo severa onestà d’una donna fui vicino alla morte. — Rispose il signor Gasparo: Non vi maravigliate di questo: perchè le donne che son pregate sempre negano di compiacer chi le prega; e quelle che non son pregate, pregano altrui.
XLII. Disse messer Cesare: Io non ho mai conosciuti questi, che siano dalle donne pregati; ma sì ben molti, li quali, vedendosi aver in vano tentato e speso il tempo scioccamente, ricorrono a questa nobil vendetta, e dicono aver avuto abondanza di quello che solamente s’hanno imaginato; e par loro che il dir male e trovar invenzioni, acciò che di qualche nobil donna per lo volgo si levino fabule vituperose, sia una sorte di cortegiania. Ma questi tali, che di qualche donna di prezzo villanamente si danno vanto, o vero o falso, meritano castigo e supplicio gravissimo; e se talor loro vien dato, non si può dir quanto siano da laudar quelli che tale officio fanno. Chè se dicon bugie, qual scelerità può esser maggiore, che privar con inganno una valorosa donna di quello che essa più che la vita estima?e non per altra causa, che per quella che la devria fare d’infinite laudi celebrata? Se ancora dicon vero, qual pena poria bastare a chi è così perfido, che renda tanta ingratitudine per premio ad una donna, la qual, vinta dalle false lusinghe, dalle lacrime finte, dai preghi continui, dai lamenti, dalle arti, insidie e perjurii, s’ha lasciato indurre ad amar troppo; poi, senza riservo, s’è data incautamente in preda a così maligno spirto? Ma, per rispondervi ancor a, questa inaudita continenza d’Alessandro e di Scipione, che avete allegata, dico ch’io non voglio negare che e l’uno e l’altro non facesse atto degno di molta laude; nientedimeno, acciò che non possiate dire che per raccontarvi cose antiche io vi narri fabule, voglio allegarvi una donna de’ nostri tempi di’ bassa condizione, la qual mostrò molto maggior continenza che questi dui grand’uomini.
XLIII. Dico adunque, che io già conobbi uma bella e delicata giovane, il nome della quale non vi dico, per non dar materia di dir male a molti ignoranti, i quali subito che intendono una donna esser inamorata, ne fan mal concetto. Questa adunque essendo lungamente amata da un nobile e ben condizionato giovane, si volse con tutto l’animo e cor suo ad amar lui; e di questo non solamente io, al quale essa di sua volontà ogni cosa confidentemente dicea, non altrimenti che s’io non dirò fratello ma una sua intima sorella fossi stato, ma tutti quelli che la vedeano in presenza dell’amato giovane, erano ben chiari della sua passione. Così amando essa ferventissimamente quanto amar possa un amorevolissimo animo, durò dui anni in tanta continenza; che mai non fece segno alcuno a questo giovane d’amarlo, se non quelli che nasconder non potea; nè mai parlar gli volse, nè da lui accettar lettere, nè presenti, che dell’uno e dell’altro non passava mai giorno che non fosse sollecitata: e quanto lo desiderasse, io ben lo so; che se talor nascosamente potea aver cosa che del giovane fosse stata, la tenea in tante delizie, che parea che da quella le nascesse la vita ed ogni suo bene: nè pur mai in tanto tempo d’altro compiacer gli volse che di vederlo e di lasciarsi vedere, e qualche volta intervenendo alle feste publiche ballar con lui, come con gli altri. E perchè le condizioni dell’uno e dell’altro erano assai convenienti, essa e ’l giovane desideravano che un tanto amor terminasse felicemente, ed esser insieme marito e moglie. Il medesimo desideravano tutti gli altri uomini e donne di quella città, eccetto il cradel padre di lei; il qual per una perversa e strana opinion volse maritarla ad un altro più ricco; ed in ciò dalla infelice fanciulla non fu con altro contradetto, che con amarissime lacrime. Ed essendo successo così malavventurato matrimonio, con molta compassion di quel popolo e desperazion dei poveri amanti, non bastò però questa percossa di fortuna per estirpare così fondato amor dei cori né dell'uno nè dell’altra; che dopo ancor per spazio di tre anni durò, avvenga che essa tissimamente lo dissimulasse, e per ogni via cercasse di troncar que’ desiderii, che ormai erano senza speranza. Ed in questo tempo seguitò sempre la sua ostinata volontà della continenza; e vedendo che onestamente aver non potea colui che essa adorava al mondo, elesse non volerlo a modo alcuno, e seguitar il suo costume di non accettare ambasciate, nè doni, nè pur sguardi suoi; e con questa terminata volontà la meschina, vinta dal crudelissimo affanno, e divenuta per la lunga passione estenuatissima, in capo di tre anni se ne morì; e prima volse rifiutare i contenti e piacer suoi tanto desiderati, in ultimo la vita propria, che la onestà. Nè le mancavan modi e vie da satisfarsi secretissimamente, e senza pericoli d’infamia o d’altra perdita alcuna; e pur si astenne da quello che tanto da sè desiderava, e di che tanto era continuamente stimolata da quella persona, che sola al mondo desiderava di compiacere: nè a ciò si mosse per paura, o per alcun altro rispetto, che per lo solo amore della vera virtù, Che direte voi d’un’altra? la quale in sei mesi quasi ogni notte giacque con un suo carissimo innamorato18; nientedimeno, in un giardino copioso di dolcissimi frutti, invitata dall’ardentissimo suo proprio desiderio, e da’ preghi e lacrime di chi più che la propria vita le era caro, s’astenne dal gustargli; e, benchè fosse presa e legata ignuda nella stretta catena di quelle amate braccia, non si rese mai per vinta, ma conservò immaculato il fior della onestà sua?
XLIV. Parvi, signor Gasparo, che questi sian atti di continenza eguali a quella d’Alessandro? il quale, ardentissimamente inamorato non delle donne di Dario, ma di quella fama e grandezza che lo spronava coi stimoli della gloria a patir fatiche e pericoli per farsi immortale, non che le altre cose ma la propria vita sprezzava per acquistar nome sopra tutti gli uomini; e noi ci maravigliamo che con tai pensieri nel core s’astenesse da una cosa la qual molto non desiderava? chè, per non aver mai più vedute quelle donne, non è possibile che in un punto l’amasse, ma ben forse l’aborriva, per rispetto di Dario suo nemico; ed in tal caso ogni suo atto lascivo verso di quelle saria stato ingiuria e non amore: e però non è gran cosa che Alessandro, il quale non meno con la magnanimità che con l’arme vinse il mondo, s’astenesse da far ingiuria a femine. La continenza ancor di Scipione è veramente da laudar assai; nientedimeno, se ben considerate, non è da aguagliare a quella di queste due donne; perchè esso ancora medesimamente si astenne da cosa non desiderata, essendo in paese nemico, capitano nuovo, nel principio d’una impresa importantissima; avendo nella patria lasciato tanta aspettazion di sè, ed avendo ancor a rendere conto a giudici severissimi, i quali spesso castigavano non solamente i grandi ma i piccolissimi errori; e tra essi sapea averne de’ nimici; conoscendo ancor che, se altramente avesse fatto, per esser quella donna nobilissima e ad un nobilissimo signor maritata, potea concitarsi tanti nemici e talmente, che molto gli arian prolungata e forse in tutto tolta la vittoria. Così per tante cause e di tanta importanza s’astenne da un leggiero e dannoso appetito, mostrando continenza ed una liberale integrità: la quale, come si scrive, gli diede tutti gli animi di que’ popoli, e gli valse un altro esercito ad espugnar con benivolenza i cori, che forse per forza d’arme sariano stati inespugnabili; sicchè questo piuttosto un stratagema militare dir si poria, che pura continenza: avvenga ancora che la fama di questo non sia molto sincera, perchè alcuni scrittori d’autorità affermano, questa giovane esser stata da Scipione goduta in amorose delizie; ma di quello che vi dico io, dubio alcuno non è.
XLV. Disse il Frisio: Dovete averlo trovato negli Evangelii. — Io stesso l’ho veduto, rispose messer Cesare, e però n’ho molto maggior certezza che non potete aver nè voi nè altri, che Alcibiade si levasse dal letto di Socrate non altrimenti che si facciano i figlioli dal letto dei padri: chè pur strano loco e tempo era il letto e la notte per contemplar quella pura bellezza, la qual si dice che amava Socrate senza alcun desiderio disonesto; massimamente amando più la bellezza dell’animo che del corpo, ma nei fanciulli, e no nei vecchi, ancor che siano più savii. E certo non si potea già trovar miglior esempio per laudar la continenza degli uomini, che quello di Senocrate; che essendo versato negli studii, astretto ed obligato dalla profession sua, che è la filosofia, la quale consiste nei buoni costumi e non nelle parole, vecchio, esausto del vigor naturale, non potendo nè mostrando segno di potere, s’astenne da una femina publica, la quale per questo nome solo potea venirgli a fastidio. Più crederei che fosse stato continente, se qualche segno di risentirsi avesse dimostrato, ed in tal termine usato la continenza; ovvero astenutosi da quello che i vecchi più desiderano che le battaglie di Venere, cioè dal vino: ma per comprobar ben la continenza senile, scrivesi che di questo era pieno e grave. E qual cosa dir si può più aliena dalla continenza d’un vecchio, che la ebrietà? e se lo astenerse dalle cose veneree in quella pigra e fredda età merita tanta laude, quanta ne deve meritar in una tenera giovane, come quelle due di chi dianzi v’ho detto? delle quali l’una imponendo durissime leggi a tutti i sensi suoi, non solamente agli occhi negava la sua luce, ma toglieva al core quei pensieri, che soli lungamente erano stati dolcissimo cibo per tenerlo in vita; l’altra, ardente inamorata, ritrovandosi tante volte sola nelle braccia di quello che più assai che tutto ’l resto del mondo amava, contra sè stessa e contra colui che più che sè stessa le era caro combattendo, vincea quello. ardente desiderio che spesso ha vinto e vince tanti savii uomini. Non vi pare ora, signor Gasparo, che dovessino i scrittori vergognarsi di far memoria di Senocrate in questo caso, e chiamarlo per continente? che chi potesse sapere, io metterei pegno che esso tutta quella notte sino al giorno seguente adora di desinare dormì come morto, sepolto nel vino; nè mai, per stropicciar che gli facesse quella femina, potè aprir gli occhi, come se fosse stato allopiato19.—
XLVI. Quivi risero tutti gli uomini e donne; e la signora Emilia, pur ridendo, Veramente, disse, signor Gasparo, se vi pensate un poco meglio, credo che trovarete ancor qualche altro bello esempio di continenza simile a questo. — Rispose messer Cesare: Non vi par, Signora, che bello esempio di continenza sia quell’altro che egli ha allegato di Pericle? Maravigliomi ben ch’el non abbia ancor ricordato la continenza e quel bel detto che si scrive di colui, a chi una donna domandò troppo gran prezzo per una notte, ed esso le rispose, che non comprava così caro il pentirsi20. — Rideasi tuttavia; e messer Cesare avendo alquanto taciuto, Signor Gasparo, disse, perdonatemi s’io dico il vero, perchè in somma queste sono le miracolose continenze che di sè stessi scrivono gli uomini, accusando per incontinenti le donne, nelle quali ogni dì si veggono infiniti segni di continenza; chè certo se ben considerate, non è ròcca tanto inespugnabile nè così ben difesa, che essendo combattuta con la millesima parte delle machine ed insidie, che per espugnar il costante animo d’una donna s’adoprano, non si rendesse al primo assalto. Quanti creati da signori, e da essi fatti ricchi e posti in grandissima estimazione, avendo nelle mani le lor fortezze e rocche, onde dependeva tutto ’l stato e la vita ed ogni ben loro, senza vergogna o cura d’esser chiamati traditori le hanno perfidamente per avarizia date a chi non doveano! e Dio volesse che a’ dì nostri di questi tali fosse tanta carestia, che non avessimo molto maggior fatica a ritrovar qualcuno che in tal caso abbia fatto quello che dovea, che nominar quelli che hanno mancato. Non vedemo noi tant’altri che vanno ogni di ammazzando uomini per le selve, e scorrendo per mare, solamente per rubar danari? Quanti prelati vendono le cose della chiesa di Dio! quanti jurisconsulti falsificano testamenti! quanti perjurii fanno, quanti falsi testimonii, solamente per aver denari! quanti medici avvelenano gl’infermi per tal causa! quanti poi per paura della morte fanno cose vilissime! E pur a tutte queste così efficaci e dure battaglie spesso resiste una tenera e delicata giovane; chè molte sonosi trovate, le quali hanno eletto la morte più presto che perder l’onestà.
XLVII. Allora il signor Gasparo, Queste, disse, messer Cesare, credo che non siano al mondo oggidì. — Rispose messer Cesare: Io non voglio ora allegarvi le antiche; dicovi ben questo, che molte si trovariano e trovansi, che in tal caso non si curan di morire. Ed or m’occorre nell’animo, che quando Capua fu saccheggiata dai Franzesi, che ancora non è tanto tempo che voi nol possiate molto bene avere a memoria, una bella giovane gentildonna capuana essendo condotta fuor di casa sua, dove era stata presa da una compagnia di Guasconi, quando giunse al fiume che passa per Capua finse volersi attaccare una scarpa, tanto che colui che la menava un poco la lasciò, ed essa subito si gittò nel fiume. Che direte voi d’una contadinella, che non molti mesi fa, a Gazuolo in Mantoana, essendo ita con una sua sorella a raccorre spiche ne’ campi, vinta dalla sete entrò in una casa per bere dell’acqua; dove il patron della casa, che giovane era, vedendola assai bella e sola, presala in braccio, prima con buone parole poi con minacce cercò d’indurla a far i suoi piaceri; e contrastando essa sempre più ostinatamente, in ultimo con molte battiture e per forza la vinse. Essa così scapigliata e piangendo ritornò nel campo alla sorella, nè mai, per molto ch’ella le facesse instanza, dir volse che dispiacere avesse ricevuto in quella casa; ma tuttavia, camminando verso l’albergo, e mostrando di racchetarsi a poco a poco e parlar senza perturbazione alcuna, le diede certe commissioni; poi, giunta che fu sopra Oglio, che è il fiume che passa accanto Gazuolo, allontanatasi un poco dalla sorella, la quale non sapea nè imaginava ciò ch’ella si volesse fare, subito vi si gittò dentro. La sorella dolente e piangendo l’andava secondando quanto più potea lungo la riva del fiume, che assai velocemente la portava all’ingiù; ed ogni volta che la meschina risorgeva sopra l’acqua, la sorella le gittava una corda che seco aveva recata per legar le spiche; e benchè la corda più d’una volta le pervenisse alle mani, perchè pur era ancor vicina alla ripa, la costante e deliberata fanciulla sempre la rifiutava e dilungava da sè; e così fuggendo ogni soccorso che dar le potea vita, in poco spazio ebbe la morte: nè fu questa mossa dalla nobilità di sangue, nè da paura di più crudel morte o d’infamia, ma solamente dal dolore della perduta verginità. Or di qui potete comprender, quante altre donne facciano alti degnissimi di memoria che non si sanno, poichè avendo questa, tre dì sono, si può dir, fatto un tanto testimonio della sua virtù, non si parla di lei, nè pur se ne sa il nome. Ma se non sopragiungea in quel tempo la morte del vescovo di Mantua zio della signora Duchessa nostra, ben saria adesso quella ripa d’Oglio, nel loco onde ella sì gittò, ornata d’un bellissimo sepolcro, per memoria di così gloriosa anima, che meritava tanto più chiara fama dopo la morte, quanto in men nobil corpo vivendo era abitata.
XLVIII. Quivi fece messer Cesare un poco di pausa; poi soggiunse: A’ miei di ancora in Roma intervenne un simil caso; e fu che una bella e nobil giovane romana, essendo lungamente seguitata da uno che molto mostrava amarla, non volse mai, non che d’altro, ma d’un sguardo solo compiacergli; di modo che costui per forza di denari corruppe una sua fante; la quale, desiderosa di satisfarlo per toccarne più denari, persuase alla patrona, che un certo giorno non molto celebrato andasse a visitar la chiesa di santo Sebastiano: ed avendo il tutto fatto intendere allo amante, e mostratogli ciò che far dovea, condusse la giovane in una di quelle grotte oscure che soglion visitar quasi tutti quei che vanno a santo Sebastiano; ed in questa tacitamente s’era nascosto prima il giovane: il quale, ritrovandosi solo con quella che amava tanto, cominciò con tutti i modi a pregarla più dolcemente che seppe, che volesse avergli compassione, e mutar la sua passata durezza in amore; ma poi che vide tutti i prieghi esser vani, sì volse alle minacce; non giovando ancora queste, cominciò a batterla fieramente; in ultimo, essendo in ferma disposizion d’ottener lo intento suo, se non altrimenti, per forza, ed in ciò operando il soccorso della malvagia femina che quivi l’aveva condotta, mai non potè tanto fare che essa consentisse; anzi e con parole e con fatti, benchè poche forze avesse, la meschina giovane sì difendeva quanto le era possibile: di modo che tra per lo sdegno conceputo, vedendosi non poter ottener quello che volea, tra per la paura che non forse i parenti di lei, se risapeano la cosa, gli ne facessino portar la pena, questo scelerato, ajutato dalla fante, la qual del medesimo dubitava, affogò la malavventurata giovane, e quivi la lasciò; e fuggitosi, procurò di non esser trovato. La fante, dallo error suo medesimo acciecata, non seppe fuggire, e presa per alcuni indicii, confessò ogni cosa; onde ne fa come meritava castigata. Il corpo della costante e nobil donna con grandissima onore fu levato di quella grotta, e portato alla sepoltura in Roma, con una corona in testa di lauro, accompagnato da un numero infinito d’uomini e di donne; tra’ quali non fu alcuno che a casa riportasse gli occhi senza lacrime21; e così universalmente da tutto ’l popolo fu quella rara anima non men pianta che laudata.
XLIX. Ma per parlarvi di quelle che voi stesso conoscete, non vi ricorda aver inteso che andando la signora Felice dalla Rovere a Saona, e dubitando che alcune vele che si erano scoperte fossero legni di Papa Alessandro che la seguitassero, s’apparecchiò con ferma deliberazione se si accostavano, e che rimedio non vi fosse di fuga, di gittarsi nel mare: e questo non si può già credere che lo facesse per leggerezza, perchè voi così come alcun altro conoscete ben di quanto ingegno e prudenza sia accompagnata la singolar bellezza di quella signora. Non posso pur tacere una parola della signora Duchessa nostra, la quale essendo vivuta quindeci anni in compagnia del marito come vedoa, non solamente è stata costante di non palesar mai questo a persona del mondo, ma essendo dai suoi proprii stimolata ad uscir di questa viduità, elesse più presto patir esilio, povertà; ed ogn’altra sorte d’infelicità, che accettar quello che a tutti gli altri parea gran grazia e prosperità di fortuna; — e seguitando pur messer Cesare circa questo, disse la signora Duchessa: Parlate d’altro, e non entrate più in tal proposito, chè assai dell’altre cose avete che dire. — Soggiunse messer Cesare: So pur che questo non mi negherete, signor Gasparo, nè voi, Frigio. — Non già, rispose il Frigio; ma una non fa numero.
L. Disse allora messer Cesare: Vero è che questi così grandi effetti occorrono in poche donne: pur ancora quelle che resistono alle battaglie d’amore, tutte sono miracolose; e quelle che talor restano vinte, sono degne di molta compassione: chè certo i stimoli degli amanti, le arti che usano, i lacci che tendono, son tanti e così continui, che troppa maraviglia è che una tenera fanciulla fuggir gli possa. Qual giorno, qual’ora passa mai, che quella combattuta giovane. non sia dallo amante sollecitata con denari, con presenti, e con tutte quelle cose che imaginar sa che le abbiano a piacere? A qual tempo affacciar mai si può alla finestra, che sempre non veda22 passar l’ostinato amante, con silenzio di parole ma con gli occhi che parlano, col viso afflitto e languido, con quegli accesi sospiri, spesso con abondantissime lacrime? Quando mai si parte di casa per andar a chiesa o ad altro loco, che questo sempre non le sia inanzi, e ad ogni voltar di contrata non se le affronti con quella trista passion dipinta negli occhi, che par che allor allora aspetti la morte? Lascio tante attilature, invenzioni, motti, imprese, feste, balli, giochi, maschere, giostre, torniamenti; le quai cose essa conosce tutte esser fatte per sè. La notte poi mai risvegliarsi non sa, che non oda musica, o almen quello inquieto spirito intorno alle mura della casa gittar sospiri e voci lamentevoli. Se per avventura parlar vuole con una delle sue fanti, quella, già corrotta per denari, subito ha apparecchiato un presentuzzo, una lettera, un sonetto, o tal cosa, da darle per parte dello amante; e quivi entrando a proposito, le fa intendere quanto arde questo meschino, come non cura la propria vita per servirla; e come da lei niuna cosa ricerca men che onesta, e che solamente desidera parlarle. Quivi a tutte le difficoltà si trovano rimedii, chiavi contrafatte, scale di corde, sonniferi; la cosa si dipinge di poco momento; dànnosi esempii di molt’altre che fanno assai peggio; di modo che ogni cosa tanto si fa facile, che essa niuna altra fatica ha, che di dire: Io son contenta; — e se pur la poverella per un tempo resiste, tanti stimoli le aggiungono, tanti modi trovano, che col continuo battere rompono ciò che le osta. E molti sono che, vedendo le blandizie non giovargli, si voltano alle minacce, e dicono volerle publicar per quelle che non sono ai lor mariti. Altri patteggiano arditamente coi padri, e spesso coi mariti, i quali, per denari o per aver favori, dànno le proprie figliole e mogli in preda contra la lor voglia. Altri cercano con incanti e malie tor loro quella libertà che Dio all’anime ha concessa: di che si vedono mirabili effetti. Ma io non saprei ridire in mill’anni tutte le insidie che oprano gli uomini per indur le donne alle lor voglie, che son infinite; ed, oltre a quelle che ciascun per sè stesso ritrova, non è ancora mancato chi abbia ingeniosamente composto libri23, e postovi ogni studio, per insegnar di che modo in questo si abbiano ad ingannar le donne. Or pensate come da tante reti possano esser sicure queste semplici colombe, da così dolce esca invitate. E che gran cosa è adunque, se una donna, veggendosi tanto amata ed adorata molt’anni da un bello, nobile ed accostumato giovane, il quale mille volte il giorno si mette a pericolo della morte per servirle, nè mai pensa altro che di compiacerle, con quel continuo battere, che fa che l’acqua spezza i durissimi marmi, s’induce finalmente ad amarlo; e, vinta da questa passione, lo contenta di quello che voi dite che essa, per la imbecillità del sesso, naturalmente molto più desidera che l’amante? Parvi che questo error sia tanto grave, che quella meschina, che con tante lusinghe è stata presa, non meriti almen quel perdono, che spesso agli omicidi, ai ladri, assassini e traditori si concede? Vorrete voi che questo sia vizio tanto enorme, che, per trovarsi che qualche donna in esso incorre, il sesso delle donne debba esser sprezzato in tutto, e tenuto universalmente privo di continenza, non avendo rispetto che molte se ne trovano invittissime; che ai continui stimoli d’amore sono adamantine, e salde nella lor infinita costanza più che i scogli all’onde del mare?
LI. Allora il signor Gasparo, essendosi fermato messer Cesare di parlare, cominciava per rispondere; ma il signor Ottaviano ridendo, Deh per amor di Dio, disse, datigliela vinta, ch’io conosco che voi farete poco frutto; e parmi vedere che v’acquistarete non solamente tutte queste donne per inimiche, ma ancora la maggior parte degli uomini. Rise il signor Gasparo, e disse: Anzi ben gran causa hanno le donne di ringraziarmi; perchè s’io non avessi contradetto al signor Magnifico ed a messer Cesare, non si sariano intese tante laudi che essi hanno loro date. — Allora messer Cesare, Le laudi, disse, che il signor Magnifico ed io avemo date alle donne, ed ancora molte altre, erano notissime, però sono state superflue. Chi non sa che senza le donne sentir non si può contento o satisfazione alcuna in tutta questa nostra vita, la quale senza esse saria rustica e priva d’ogni dolcezza, e più aspera che quella dell’alpestre fiere? Chi non sa che le donne sole levano de’ nostri cori tutti li vili e bassi pensieri, gli affanni, le miserie, e quelle torbide tristezze che così spesso loro sono compagne? E se vorremo ben considerar il vero, conosceremo ancora, che, circa la cognizion delle cose grandi, non desviano gli ingegni, anzi gli svegliano; ed alla guerra fanno gli uomini senza paura ed arditi sopra modo. E certo impossibil è che nel cuor d’uomo, nel qual sia entrato una volta fiamma d’amore, regni mai più viltà; perchè chi ama desidera sempre farsi amabile più che può, e teme sempre non gli intervenga qualche vergogna che lo possa far estimar poco da chi esso desidera esser estimato assai; nè cura d’andare mille volte il giorno alla morte, per mostrar d’esser degno di quell’amore: però chi potesse far un esercito d’innamorati, li quali combattessero in presenza delle donne da loro amate, vinceria tutto ’l mondo, salvo se contra questo in opposito non fosse un altro esercito medesimamente innamorato. E crediate di certo, che l’aver contrastato Troja dieci anni a tutta Grecia, non procedette d’altro che d’alcuni innamorati, li quali, quando erano per uscir a combattere, s’armavano in presenza delle lor donne, e spesso esse medesime gli ajutavano, e nel partir diceano lor qualche parola che gl’infiammava, e gli facea più che uomini; poi nel combattere sapeano esser dalle lor donne mirati dalle mura e dalle torri; onde loro parea che ogni ardir che mostravano, ogni prova che faceano, da esse riportasse laude: il che loro era il maggior premio che aver potessero al mondo. Sono molti che estimano, la vittoria dei re di Spagna Ferrando ed Isabella contra il re di Granata esser proceduta gran parte dalle donne; chè il più delle volte quando usciva l’esercito di Spagna per affrontar gl’inimici, usciva ancora la regina Isabella con tutte le sue damigelle, e quivi si ritrovavano molti nobili cavalieri innamorati; li quali fin che giungeano al loco di veder gl'inimici, sempre andavano parlando con le lor donne poi, pigliando licenza ciascun dalla sua, in presenza loro andavano ad incontrar gl’inimici con quell’animo feroce che dava loro amore, e ’l desiderio di far conoscere alle sue signore che erano servite da uomini valorosi; onde molte volte trovaronsi pochissimi cavalieri spagnoli mettere in fuga ed alla morte infinito numero di Mori, mercè delle gentili ed amate donne. Però non so, signor Gasparo, qual perverso giudicio v’abbia indotto a biasimar le donne.
LII. Non vedete voi, che di tutti gli esercizii graziosi e che piaceno al mondo a niun altro s’ha da attribuire la causa, se alle donne no? Chi studia di danzare e ballar leggiadramente per altro, che per compiacere a donne? Chi intende nella dolcezza della musica per altra causa, che per questa? Chi a compor versi, almen nella lingua volgare, se non per esprimere quegli affetti che dalle donne sono causati? Pensate di quanti nobilissimi poemi saremmo privi, e nella lingua greca e nella latina, se le donne fossero state da’ poeti poco estimate. Ma, lasciando tutti gli altri, non saria grandissima perdita se messer Francesco Petrarca, il qual così divinamente scrisse in questa nostra lingua gli amor suoi, avesse volto l’animo solamente alle cose latine, come aria fatto se l’amor di Madonna Laura da ciò non l’avesse talor desviato? Non vi nomino i chiari ingegni che sono ora al mondo, e qui presenti, che ogni di partoriscono qualche nobil frutto, e pur pigliano subjetto solamente dalle bellezze e virtù delle donne. Vedete che Salomone, volendo scrivere misticamente cose altissime e divine, per coprirle d’un grazioso velo finse un ardente ed affettuoso dialogo d’uno inamorato con la sua donna, parendogli non poter trovar qua giù tra noi similitudine alcuna più conveniente e conforme alle cose divine, che l’amor verso le donne; ed in tal modo volse darci un poco d’odor di quella divinità, che esso e per scienza e per grazia più che gli altri conoscea. Però non bisognava, signor Gasparo, disputar di questo, o almen con tante parole: ma voi col contradire alla verità avete impedito, che non si sieno intese mill’altre cose belle ed importanti circa la perfezion della Donna di Palazzo. — Rispose il signor Gasparo: Io credo che altro non vi si possa. dire; pur se a voi pare che il signor Magnifico non l’abbia adornata a bastanza di buone condizioni, il difetto non è stato il suo, ma di chi ha fatto che più virtà non siano al mondo; perchè esso le ha date tutte quelle che vi sono. — Disse la signora Duchessa ridendo: Or vedrete, che ’l signor Magnifico pur ancor ne ritroverà qualche altra. — Rispose il Magnifico: In vero, Signora, a me par d’aver detto assai, e, quanto per me, contentomi di questa mia Donna; e se questi signori non la voglion così fatta, lassinla a me.
LIII. Quivi tacendo ognuno, disse messer Federico: Signor Magnifico, per stimolarvi a dir qualche altra cosa voglio pur farvi una domanda circa quello che avete voluto che sia la principal professione della Donna di Palazzo, ed è questa: ch’io desidero intendere, come ella debba intertenersi circa una particolarità che mi par importantissima; chè, benchè le eccellenti condizioni da voi attribuitele includino ingegno, sapere, giudicio, desterità, modestia, ‘e tant’altre virtù, per le quali ella dee ragionevolmente saper intertenere ogni persona e ad ogni proposito, estimo io però che più che alcuna altra cosa le bisogni saper quello che appartiene ai ragionamenti d’amore; perchè, secondo che ogni gentil cavaliero usa per instrumento d’acquistar grazia di donne quei mobili esercizii, attilature e bei costumi che avemo nominati, a questo effetto adopra medesimamente le parole; e non solo quando è astretto da passione, ma ancora spesso per far onore a quella donna con cui parla; parendogli che ’l mostrar d’amarla sia un testimonio che ella ne sia degna, e che la bellezza e meriti suoi sian tanti, che sforzino ognuno a servirla. Però vorrei sapere, come debba questa donna circa al proposito intertenersi discretamente, e come rispondere a chi l’ama veramente, e come a chi ne fa dimostrazion falsa; e se dee dissimular d’intendere, o corrispondere, o rifiutare, e come governarsi.
LIV. Allor il signor Magnifico, Bisogneria prima, disse, insegnarle a conoscer quelli che simulan d’amare, e quelli che amano veramente; poi, del corrispondere in amore o no, credo che non si debba governar per voglia d’altrui, che di sè stessa. — Disse messer Federico: Insegnatele adunque quai siano i più certi e sicuri segni per discernere l’amor falso dal vero, e di qual testimonio ella si debba contentar per esser ben chiara dell’amore mostratole. — Rispose ridendo il Magnifico: Io non lo so, perchè gli uomini oggidì sono tanto astuti; che fanno infinite dimostrazion false, e talor piangono quando hanno ben gran voglia di ridere; però bisogneria mandargli all’Isola Ferma24, sotto l’arco dei leali innamorati. Ma acciò che questa mia Donna, della quale a me convien aver particolar protezione per esser mia creatura, non incorra in quegli errori ch’io ho veduto incorrere molt’altre, io direi ch’ella non fosse facile a creder d’esser amata; nè facesse come alcune, che non solamente non mostrano di non intendere chi lor parla d’amore, ancora che copertamente, ma alla prima parola accettano tutte le laudi che lor son date, ovver le negano d’un certo modo, che è più presto un invitare d’amore quelli coi quali parlano, che ritrarsi. Però la maniera dell’intertenersi nei ragionamenti d’amore, ch’io voglio che usi la mia Donna di Palazzo, sarà il rifiutar di creder sempre, che chi le parla d’amore, l’ami però: e se quel gentiluomo sarà, come pur molti se ne trovano, prosuntuoso, e che le parli con poco rispetto, essa gli darà tal risposta, ch’el conoscerà chiaramente che le fa dispiacere; se ancora sarà discreto, ed usarà termini modesti e parole d’amore copertamente, con quel gentil modo che io credo che faria il Cortegiano formato da questi signori, la donna mostrerà non l’intendere, e tirerà le parole ad altro significato, cercando sempre modestamente, con quello ingegno e prudenza che già s’è detto convenirsele, uscir di quel proposito. Se ancor il ragionamento sarà tale, ch’ella non possa simular di non intendere, piglierà il tutto come per burla, mostrando di conoscere che ciò se le dica più presto per onorarla che perchè così sia, estenuando i meriti suoi, ed attribuendo a cortesia di quel gentiluomo le laudi che esso le darà; ed in tal modo si farà tener per discreta, e sarà più sicura dagl’inganni. Di questo modo parmi che debba intertenersi la Donna di Palazzo circa i ragionamenti d’amore.
LV. Allora messer Federico, Signor Magnifico, disse, voi ragionate di questa cosa, come che sia necessario che tutti quelli che parlano d’amore con donne dicano le bugie, e cerchino d’ingannarle: il che se così fosse, direi che i vostri documenti fossero buoni; ma se questo cavalier che intertiene ama veramente, e sente quella passion che tanto affligge talor i cori umani, non considerate voi in qual pena, in qual calamità e morte lo ponete, volendo che la donna non gli creda mai cosa che dica a questo proposito? Dunque i scongiuri, le lacrime e tant’altri segni, non debbono aver forza alcuna? Guardate, signor Magnifico, che non si estimi che, oltre alla naturale crudeltà che hanno in sè molte di queste donne, voi ne insegnate loro ancora di più. — Rispose il Magnifico: Io ho detto non di chi ama, ma di chi intertiene con ragionamenti amorosi, nella qual cosa una delle più necessarie condizioni è, che mai non manchino parole; e gl’inamorati veri, come hanno il core ardente, così hanno la lingua fredda, col parlar rotto, e subito silenzio; però forse non saria falsa proposizione il dire: Chi ama assai, parla poco. Pur di questo credo che non si possa dar certa regola, la diversità dei costumi degli uomini; nè altro dir saprei, se non che la donna sia ben cauta, e sempre abbia a memoria, che con molto minor pericolo posson gli uomini mostrar d’amare, che le donne.
LVI. Disse il signor Gasparo ridendo: Non volete voi, signor Magnifico, che questa vostra così eccellente Donna essa ancora ami, almen quando conosce veramente esser amata? Atteso che se ’l Cortegiano non fosse redamato, non è già credibile che continuasse in amare lei; e così le mancheriano molte grazie, e massimamente quella servitù e riverenza, con la quale osservano e quasi adorano gli amanti la virtù delle donne amate. — Di questo, rispose il Magnifico, non la voglio consigliare io; dico ben che lo amar come voi ora intendete estimo che convenga solamente alle donne non maritate; perchè quando questo amore non può terminare in matrimonio, è forza che la donna n’abbia sempre quel remorso e stimolo che s’ha delle cose illicite, e si metta a pericolo di macular quella fama d’onestà che tanto l’importa. Rispose allora messer Federico ridendo: Questa vostra opinion, signor Magnifico, mi par molto austera, e penso che l’abbiate imparata da qualche predicator, di quelli che riprendono le donne inamorate de’ secolari per averne essi miglior parte; e parmi che imponiate troppo dure leggi alle maritate, perchè molte se ne trovano, alle quali i mariti senza causa portano grandissimo odio, e le offendono gravemente, talor amando altre donne, talor facendo loro tutti i dispiaceri che sanno imaginare; alcune sono dai padri maritate per forza a vecchi, infermi, schifi e stomacosi, che le fan vivere in continua miseria, E se a queste tali fosse licito fare il divorzio, e separarsi da quelli co’ quali sono mal congiunte, non saria forse da comportar loro che amassero altri che ’l marito; ma quando, o per le stelle nemiche, o per la diversità delle complessioni, o per qualche altro accidente, occorre che nel letto, che dovrebbe esser nido di concordia e d’amore, sparge la maledetta furia infernale il seme del suo veneno, che poi produce lo sdegno, il sospetto e le pungenti spine dell’odio che tormenta quelle infelici anime, legate crudelmente nella indissolubil catena insino alla morte: perchè non volete voi, che a quella donna sia licito cercar qualche refrigerio a così duro flagello, e dar ad altri quello che dal marito è non solamente sprezzato, ma aborrito? Penso ben, che quelle che hanno i mariti convenienti, e da essi sono amate, non debbano fargli ingiuria; ma l’altre, non amando chi ama loro, fanno ingiuria a sè stesse.— Anzi a sè stesse fanno ingiuria amando altri che il marito, rispose il Magnifico. Pur, perchè molte volte il non amare non è in arbitrio nostro, se alla Donna di Palazzo occorrerà questo infortunio, che l’odio del marito o l’amor d’altri la induca ad amare, voglio che ella niuna altra cosa allo amante conceda eccetto che l’animo; nè mai gli faccia dimostrazion alcuna certa d’amore, nè con parole, nè con gesti, nè per altro modo, talchè esso possa esserne sicuro.
LVII. Allora messer Roberto da Bari, pur ridendo; Io, disse, signor Magnifico, m’appello di questa vostra sentenza, e penso che averò molti compagni; ma poichè pur volete insegnar questa rusticità, per dir così, alle maritate, volete voi che le non maritate siano esse ancora così crudeli e discortesi? e che non compiacciano almen in qualche cosa i loro amanti? — Se la mia Donna di Palazzo, rispose il signor Magnifico, non sarà maritata, avendo d’amare, voglio che ella ami uno col quale possa maritarsi; nè reputarò già errore che ella gli faccia qualche segno d’amore: della qual cosa voglio insegnarle una regola universale con poche parole, acciò che ella possa ancora con poca fatica tenerla a memoria; e questa è, che ella faccia tutte le dimostrazioni d’amore a chi l’ama, eccetto quelle che potessero indur nell’animo dell’amante speranza di conseguir da lei cosa alcuna disonesta. Ed a questo bisogna molto avvertire, perchè è uno errore dove incorrono infinite donne, le quali per l’ordinario niun’altra cosa desiderano più che l’esser belle: e perchè lo avere molti inamorati ad esse par testimonio della lor bellezza, mettono ogni studio per guadagnarne più che possono; però scorrono spesso in costumi poco moderati, e, lasciando quella modestia temperata che tanto lor si conviene, usano certi sguardi procaci, con parole scurrili ed atti pieni d’impudenza, parendo lor che per questo siano vedute ed udite volontieri, e che con tai modi si facciano amare: il che è falso; perchè le dimostrazioni che si fan loro nascono d’un appetito mosso da opinion di facilità, non d’amore. Però voglio che la mia Donna di Palazzo non con modi disonesti paja quasi che s’offerisca a chi la vuole, ed uccelli più che può gli occhi e la volontà di chi la mira, ma coi meriti e virtuosi costumi suoi, con la venustà, con la grazia, induca nell’animo di chi la vede quello amor vero che si deve a tutte le cose amabili, e quel rispetto che leva sempre la speranza di chi pensa a cosa disonesta. Colui adunque che sarà da tal donna amato, ragionevolmente dovrà contentarsi d’ogni minima dimostrazione, ed apprezzar più da lei un sol sguardo con affetto d’amore, che l’essere in tutto signor d’ogni altra; ed io a così fatta Donna non saprei aggiunger cosa alcuna, se non che ella fosse amata da così eccellente Cortegiano come hanno formato questi signori, e che essa ancor amasse lui, acciò che e l’uno e l’altro avesse totalmente la sua perfezione.
LVIII. Avendo infin qui detto il signor Magnifico, taceasi; quando il signor Gasparo ridendo, Or, disse, nom potrete già dolervi che ’l signor Magnifico non abbia formato la Donna di Palazzo eccellentissima; e da mo, se una tal se ne trova, io dico ben che ella merita esser estimata eguale al Cortegiano. — Rispose la signora Emilia: Io m’obligo. trovarla, sempre che voi trovarete il Cortegiano.— Soggiunse messer Roberto: Veramente negar non si può, che la Donna formata dal signor Magnifico non sia perfettissima; nientedimeno in queste ultime condizioni appartenenti allo amore, parmi pur che esso l’abbia fatta un poco troppo austera, massimamente volendo che con le parole, gesti e modi suoi ella levi in tutto la speranza allo amante, e lo confermi più che ella può nella disperazione; chè, come ognun sa, li desiderii umani non si estendono a quelle cose, delle quali non s’ha qualche speranza. E benchè già si siano trovate alcune donne, le quali, forsi superbe per la bellezza e valor loro, la prima parola che hanno detta a chi lor ha parlato d’amore è stata che non pensino aver mai da lor cosa che vogliano, pur con lo aspetto e con le accoglienze sono lor poi state un poco più graziose, di modo che con gli atti benigni hanno temperato in parte le parole superbe; ma se questa Donna e con gli atti e con le parole e coi modi leva in tutto la speranza, credo che ’l nostro Cortegiano, se egli sarà savio, non l’amerà mai, e così essa averà questa imperfezion, di trovarsi senza amante.
LIX. Allora il signor Magnifico, Non voglio, disse, che la mia Donna di Palazzo levi la speranza d’ogni cosa, ma delle cose disoneste, le quali, se ’l Cortegiano sarà tanto cortese e discreto come l’hanno formato questi signori, non solamente non le sperarà, ma pur non le desiderarà; perchè se la bellezza, i costumi, l’ingegno, la bontà, il sapere, la modestia, e tante altre virtuose condizioni che alla donna avemo date, saranno la causa dell’amor del Cortegiano verso lei, necessariamente il fin ancora di questo amore sarà virtuoso: e se la nobilità, il valor nell’arme, nelle lettere, nella musica, la gentilezza, l’esser nel parlar, nel conversar pien di tante grazie, saranno i mezzi coi quali il Cortegiano acquistarà l’amor della donna, bisognerà che ’l fin di quello amore sia della qualità che sono i mezzi per li quali ad esso si perviene; oltra che, secondo che al mondo si trovano diverse maniere di bellezze, così si trovano ancora diversi desiderii d’uomini; e però intervien che molti, vedendo una donna di quella bellezza grave, che andando, stando, motteggiando, scherzando, e facendo ciò che si voglia, tempera sempre talmente tutti i modi suoi, che induce una certa riverenza a chi la mira, si spaventano, nè osano servirle; e più presto, tratti dalla speranza, amano quelle vaghe e lusinghevoli, tanto delicate e tenere, che nelle parole, negli atti e nel mirar mostrano una certa passion languidetta, che promette poter facilmente incorrere e convertirsi in amore. Alcuni, per esser sicuri dagl’inganni, amano certe altre tanto libere e degli occhi e delle parole e dei movimenti, che fan ciò che prima lor viene in animo, con una certa semplicità che non nasconde i pensier suoi. Non mancano ancor molti altri animi generosi, i quali, parendo loro che la virtù consista circa la difficoltà25, e che troppo dolce vittoria sia il vincer quello che ad altri pare inespugnabile, si voltano facilmente ad amar le bellezze di quelle donne, che negli occhi, nelle parole e nei modi mostrano più austera severità che l’altre, per far testimonio che ’l valor loro può sforzare un animo ostinato, e indur ad amar ancor le voglie ritrose e rubelle d’amore. Però questi tanto confidenti di sè stessi, perchè si tengono securi di non lasciarsi ingannare, amano ancor volentieri certe donne, che con sagacità ed arte pare che nella bellezza coprano mille astuzie; o veramente alcun’altre, che hanno congiunta con la bellezza una maniera sdegnosetta di poche parole, pochi risi, con modo quasi d’apprezzar poco qualunque le miri o le serva. Trovansi poi certi altri, che non degnano amar se non donne che nell’aspetto, nel parlare, ed in tutti i movimenti suoi, portino tutta la leggiadria, tutti i gentil costumi, tutto ’l sapere e tutte le grazie unitamente cumulate, come un sol fior composto di tutte le eccellenze del mondo. Sicchè, se la mia Donna di Palazzo averà carestia di quegli amori mossi da mala speranza, non per questo restarà senza amante; perchè non le mancheran quei che saranno mossi e dai meriti di lei, e dalla confidenza del valor di sè stessi, per lo quale si conosceran degni d’essere da lei amati. —
LX. Messer Roberto pur contraddicea, ma la signora Duchessa gli diede il torto, confermando la ragion del signor Magnifico; poi soggiunse: Noi non abbiam causa di dolersi del signor Magnifico, perchè in vero estimo che la Donna di Palazzo da lui formata possa star al paragon del Cortegiano, ed ancor con qualche vantaggio; perchè le ha insegnato ad amare, il che non han fatto questi signori al suo Cortegiano. — Allora l’Unico Aretino, Ben è conveniente, disse, insegnar alle donne lo amare, perchè rare volte ho io veduto alcuna che far lo sappia: chè quasi sempre tutte accompagnano la lor bellezza con la crudeltà ed ingratitudine verso quelli che più fedelmente le servono, e che per nobilità, gentilezza e virtù meritariano premio de’ loro amori; e spesso poi si danno in preda ad uomini sciocchissimi e vili e da poco, e che non solamente non le amano, ma le odiano. Però, per schifar questi così enormi errori, forsi era ben insegnare loro prima il far elezione di chi meritasse essere amato, e poi lo amarlo; il che degli uomini non è necessario, che pur troppo per sè stessi lo sanno: ed io ne posso esser buon testimonio; perchè lo amare a me non fu mai insegnato, se non dalla divina bellezza e divinissimi costumi d’una Signora, talmente che nell’arbitrio mio non è stato il non adorarla, nonche ch’io in ciò abbia avuto bisogno d’arte o maestro alcuno; e credo che ’l medesimo intervenga a tutti quelli che amano veramente: però piuttosto si converria insegnar al Cortegiano il farsi amare, che lo amare.
LXI. Allora la signora Emilia, Or di questo adunque ragionate, disse, signor Unico. — Rispose l’Unico: Parmi che la ragion vorrebbe che col servire e compiacer le donne s’acquistasse la lor grazia; ma quello di che esse sì tengon servite e compiaciute, credo che bisogni impararlo dalle medesime donne; le quali spesso desideran cose tanto strane, che non è uomo che le imaginasse, e talor esse medesime non sanno ciò che si desiderino; perciò è bene che voi, Signora, che sete donna, e ragionevolmente dovete saper quello che piace alle donne, pigliate questa fatica, per far al mondo una tanta utilità. — Allor disse la signora Emilia: Lo esser voi gratissimo universalmente alle donne, è buono argomento che sappiate tutti i modi per li quali s’acquista la lor grazia; però è pur conveniente che voi l’insegnate, Signora, rispose l’Unico, io non saprei dar ricordo più utile ad uno amante, che ’l procurar che voi non aveste autorità con quella donna, la grazia della quale esso cercasse; perchè qualche buona condizione, che pur è paruto al mondo talor che in me sia, col più sincero amore che fosse mai, non hanno avuto tanta forza di far ch’io fossi amato, quanta voi di far che fossi odiato.
LXII. Rispose allora la signora Emilia: Signor Unico, guardimi Dio pur di pensar, non che operar mai, cosa perchè foste odiato; chè, oltre ch’io farei quello che non debbo; sarei estimata di poco giudicio, tentando lo impossibile; ma io, poichè voi mi stimolate con questo modo a parlare di quello che piace alle donne, parlerò; e se vi dispiacerà, datene la colpa a voi stesso. Estimo io adunque, che chi ha da esser amato, debba amare ed esser amabile, e che queste due cose bastino per acquistar la grazia delle donne. Ora, per rispondere a quello di che voi m’accusate, dico, che ognun sa e vede che voi siete amabilissimo; ma che amiate così sinceramente come dite sto io assai dubiosa, e forse ancora gli altri; perchè l’esser voi troppo amabile, ha causato che siete stato amato da molte donne, ed i gran fiumi divisi in più parti divengono piccoli rivi; così ancora l’amor diviso in più che in un objetto, ha poca forza: ma questi vostri continui lamenti, ed accusare in quelle donne che avete servite la ingratitudine, la qual non è verisimile, atteso tanti vostri meriti, è una certa sorte di secretezza, per nasconder le grazie, i contenti e piaceri da voi conseguiti in amore, ed assicurar quelle donne che v’amano e che vi si son date in preda, che non le publichiate; e però esse ancora si contentano che voi così apertamente con altre mostriate amori falsi, per coprire i lor veri: onde se quelle donne, che voi ora mostrate d’amare, non son così facili a crederlo come vorreste, interviene perchè questa vostra arte in amore comincia ad esser conosciuta, non perch’io vi faccia odiare. LXIII. Allor il signor Unico, Io, disse, non voglio altrimenti tentar di confutar le parole vostre, perchè ormai parmi così fatale il non esser creduto a me la verità, come l’esser creduto a voi la bugia. — Dite pur, signor Unico, rispose la signora Emilia, che voi non amate così come vorreste che fosse creduto; che se amaste, tutti i desiderii vostri sariano di compiacer la donna amata, e voler quel medesimo che essa vuole: chè questa è la legge d’amore; ma il vostro tanto dolervi di lei denota qualche inganno, come ho detto, o veramente fa testimonio che voi volete quello che essa non vuole. — Anzi, disse il signor Unico, voglio io ben quello che essa vuole: che è argomento ch’io l’amo; ma dolgomi perchè essa non vuol quello che voglio io: che è segno che non mi ama, secondo la medesima legge che voi avete allegata. — Rispose la signora Emilia: Quello che comincia ad amare, deve ancora cominciare a compiacere26 ed accommodarsi totalmente alle voglie della cosa amata, e con quelle governar le sue; e far che i proprii desiderii siano servi, e che l’anima sua istessa sia come obediente ancilla, nè pensi mai ad altro che a trasformarsi, se possibil fosse, in quella della cosa amata; e questo reputar per sua somma felicità; perchè così fan quelli che amano veramente. — Appunto la mia somma felicità, disse il signor Unico, sarebbe se una voglia sola governasse la sua e la mia anima. — A voi sta di farlo, rispose la signora EmiLia.
LXIV. Allora messer Bernardo, interrompendo, Certo è, disse, che chi ama veramente, tutti i suoi pensieri, senza che d’altri gli sia mostrato, indrizza a servire e compiacere la donna amata; ma perchè talor queste amorevoli servitù non son ben conosciute, credo che, oltre allo amare e servire, sia necessario fare ancor qualche altra dimostrazione di questo amore tanto chiara, che la donna non possa dissimular di conoscere d’essere amata; ma con tanta modestia però, che non paja che se le abbia poca riverenza. E perciò voi, Signora, che avete cominciato a dir come l’anima dello amante dee essere obediente ancilla alla amata, insegnate ancor, di grazia, questo secreto, il quale mi pare importantissimo. — Rise messer Cesare, e disse: Se lo amante è tanto modesto che abbia vergogna di dirgliene, scrivagliele. — Soggiunse la signora Emilia: Anzi, se è tanto discreto come conviene, prima che lo faccia intendere alla donna, devesi assecurar di non offenderla. — Disse allora il signor Gasparo: A tutte le donne piace l’esser pregate d’amore, ancor che avessero intenzione di negar quello che loro si domanda. — Rispose il magnifico Juliano: Voi v’ingannate molto; nè io consigliarei il Cortegiano che usasse mai questo termine, se non fosse ben certo di non aver repulsa.
LXV. E che cosa deve egli adunque fare?— disse il signor Gasparo. Soggiunse il Magnifico: Se pur vuole scrivere o parlare, farlo con tanta modestia e così cautamente, che le parole prime tentino l’animo, e tocchino tanto ambiguamente la volontà di lei, che le lascino modo ed un certo esito di poter simulare di non conoscere, che quei ragionamenti importino amore, acciò che se trova difficoltà possa ritrarsi, e mostrar d’aver parlato o scritto d’altro fine, per goder quelle domestiche carezze ed accoglienze con sicurtà, che spesso le donne concedono a chi par loro che le pigli per amicizia; poi le negano, subito che s’accorgono che siano ricevute per dimostrazion d’amore. Onde quelli che son troppo precipiti, e si avventurano così prosuntuosamente con certe furie ed ostinazioni, spesso le perdono, e meritamente; perchè ad ogni nobil donna pare sempre di essere poco estimata da chi senza rispetto la ricerca d’amore prima che l’abbia servita:
LXVI. Però, secondo me, quella via che deve pigliar il Cortegiano per far noto l’amor suo alla Donna parmi che sia il mostrargliele coi modi più presto che con le parole; chè veramente talor più affetto d’amor si conosce in un sospiro, in un rispetto, in un timore, che in mille parole; poi far che gli occhi siano que’ fidi messaggieri, che portino l’ambasciate del core; perchè spesso con maggior efficacia mostran quello che dentro vi è di passione, che la lingua propria o lettere o altri messi: di modo che non solamente scoprono i pensieri, ma spesso accendono amore nel cor della persona amata; perchè que’ vivi spirti che escono per gli occhi, per esser generati presso al core, entrando ancor negli occhi, dove sono indrizzati, come saetta al segno, naturalmente penetrano al core come a sua stanza, ed ivi si confondono con quegli altri spirti, e, con quella sottilissima natura di sangue che hanno seco, infettano il sangue vicino al core, dove son pervenuti, e lo riscaldano e fannolo a sè simile, ed atto a ricevere la impression di quella imagine che seco hanno portata; onde a poco a poco andando e ritornando questi messaggieri la via per gli occhi al core, e riportando l’esca e ’l focile di bellezza e di grazia, accendono col vento del desiderio quel foco che tanto arde, e mai non finisce di consumare, perchè sempre gli apportano materia di speranza per nutrirlo. Però ben dir si può, che gli occhi siano guida in amore27, massimamente se sono graziosi e soavi; neri di quella chiara e dolce negrezza, ovvero azzurri; allegri e ridenti, e così grati e penetranti nel mirar, come alcuni, nei quali par che quelle vie che dànno esito ai spiriti siano tanto profonde, che per esse si vegga insino al core. Gli occhi adunque stanno nascosi, come alla guerra soldati insidiatori in aguato; e se la forma di tutto ’l corpo è bella e ben composta, tira a sè ed alletta chi da lontan la mira, fin a tanto che s’accosti; e subito che è vicino, gli occhi saettano, ed affatturano come venefici; e ‘l massimamente quando per dritta linea mandano i raggi suoi negli occhi della cosa amata in tempo che essi facciano il medesimo; perchè i spiriti s’incontrano, ed in quel dolce intoppo l’un piglia le qualità28 dell’altro, come si vede d’un occhio infermo, che guardando fisamente in un sano gli dà la sua infermità: sicchè a me pare che ’l nostro Cortegiano possa di questo modo manifestare in gran parte l’amor alla sua Donna. Vero è che gli occhi, se non son governati con arte, molte volte scoprono più gli amorosi desiderii a cui l’uom men vorria, perchè fuor per essi quasi visibilmente traluceno quelle ardenti passioni, le quali volendo l’amante palesar solamente alla cosa amata, spesso palesa ancor a cui più desiderarebbe nasconderle. Però chi non ha perduto il fren della ragione si governa cautamente, ed osserva i tempi, i lochi, e quando bisogna s’astien da quel così intento mirare, ancora che sia dolcissimo cibo; perchè troppo dura cosa è un amor publico.
LXVII. Rispose il conte Lodovico: Talor ancora l’esser publico non nuoce, perchè in tal caso gli uomini spesso estimano che quegli amori non tendano al fine che ogni amante desidera, vedendo che poca cura si ponga per coprirli, nè si faccia caso che si sappiano o no; e però col non negar si vendica l’uom una certa libertà di poter publicamente parlare e star senza sospetto con la cosa amata; il che non avviene a quegli che cercano d’esser secreti, perchè pare che sperino, e siano vicini a qualche gran premio, il quale non vorriano che altri risapesse. Ho io ancor veduto nascere ardentissimo amore nel core d’una donna verso uno, a cui per prima non avea pur una minima affezione, solamente per intendere che opinione di molti fosse che s’amassero insieme; e la causa di questo credo io che fosse, che quel giudicio così universale le parea bastante testimonio per farle credere che colui fosse degno dell’amor suo, e parea quasi che la fama le portasse l’ambasciate per parte dell’amante molto più vere e più degne d’esser credute, che non aria potuto far esso medesimo con lettere o con parole, ovvero altra persona per lui. Però questa voce publica non solamente talor non nuoce, ma giova. — Rispose il Magnifico: Gli amori de’ quali la fama è ministra son assai pericolosi di far che l’uomo sia mostrato a dito; e però chi ha da camminar per questa strada cautamente, bisogna che dimostri aver nell’animo molto minor foco che non ha, e contentarsi di quello che gli par poco, e dissimular i desiderii, le gelosie, gli affanni ei piaceri suoi, e rider spesso con la bocca quando il cor piange, e mostrar d’esser prodigo di quello di che è avarissimo; e queste cose son tanto difficili da fare, che quasi sono impossibili. Però sel nostro Cortegiano volesse usar del mio consiglio, io lo confortarei a tener secreti gli amor suoi.
LXVIII. Allora messer Bernardo, Bisogna, disse, adunque che voi questo gli insegnate, e parmi che non sia di piccola importanza; perchè, oltre ai cenni, che talor alcuni così copertamente fanno, che quasi senza movimento alcuno quella persona che essi desiderano nel volto e negli occhi lor legge ciò che hanno nel core, ho io talor udito tra dui inamorati un lungo e libero ragionamento d’amore, dal quale non poteano però i circostanti intender chiaramente particularitate alcuna, nè certificarsi che fosse d’amore: e questo per la discrezione ed avvertenza di chi ragionava; perchè, senza far dimostrazione alcuna d’aver dispiacere d’essere ascoltati, dicevano secretamente quelle sole parole che importavano, ed altamente tutte l’altre, che si poteano accommodare a diversi propositi.— Allora messer Federico, Il parlar, disse, così minutamente di queste avvertenze di secretezza, sarebbe uno andar drieto all’infinito; però io vorrei piuttosto che si ragionasse un poco, come debba lo amante mantenersi la grazia della sua donna, il che mi par molto più necessario.
LXIX. Rispose il Magnifico: Credo che que’ mezzi che vagliono per acquistarla, vagliano ancor per mantenerla; e tutto questo consiste in compiacer la donna amata senza offenderla mai: però saria difficile darne regola ferma; perchė per infiniti modi chi non è ben discreto fa errori talora che pajon piccoli, nientedimeno offendono gravemente l’animo della donna; e questo intervien, più che agli altri29, a quei che sono astretti dalla passione: come alcuni, che sempre che hanno modo di parlare a quella donna che amano, si lamentano e dolgono così acerbamente, e voglion spesso cose tanto impossibili, che per quella importunità vengon a fastidio. Altri, se son punti da qualche gelosia, si lascian di tal modo trapportar dal dolore, che senza risguardo scorrono in dir mal di quello di chi hanno sospetto, e talor senza colpa di colui, ed ancor della donna, e non vogliono ch’ella gli parli, o pur volga gli occhi a quella parte ove egli è; e spesso con questi modi non solamente offendon quella donna, ma son causa ch’ella s’induca ad amarlo: perchè ’l timore che mostra talor d’avere uno amante, che la sua donna non lasci lui per quell’altro, dimostra che esso si conosce inferior di meriti e di valor a colui, e con questa opinione la donna si move ad amarlo, ed, accorgendosi che per mettergliele in disgrazia se ne dica male, ancor che sia vero, non lo crede, e tuttavia l’ama più.
LXX. Allora messer CESARE ridendo, Io, disse, confesso non esser tanto savio, che potessi astenermi di dir male d’un mio rivale, salvo se voi non m’insegnaste qualche altro miglior modo da ruinarlo. – Rispose ridendo il signor Magnifico
- Dicesi in proverbio, che quando il nemico è nell’acqua
insino alla cintura, se gli deve porger la mano, e levarlo del pericolo; ma quando v’è insino al mento, mettergli il piede in sul capo, e sommergerlo tosto. Però sono alcuni che questo fanno co’ suoi rivali, e fin che non hanno modo ben sicuro di ruinargli, vanno dissimulando, e piuttosto si mostran loro amici che altrimenti; poi se la occasion s’offerisce lor tale, che conoscan poter precipitargli con certa ruina, dicendone tutti i mali, o veri o falsi che siano, lo fanno senza riservo, con arte, inganni, e con tutte le vie che sanno imaginare. Ma perchè a me non piaceria mai che ’l nostro Cortegiano usasse inganno alcuno, vorrei che levasse la grazia dell’amica al suo rivale non con altra arte che con l’amare, col servire, e con l’essere virtuoso, valente, discreto e modesto; in somma col meritar più di lui, e con l’esser in ogni cosa avvertito e prudente, guardandosi da alcune sciocchezze inette, nelle quali spesso incorrono molli ignoranti, e per diverse vie: chè già ho io conosciuti alcuni, che, scrivendo e parlando a donne, usano sempre parole di Polifilo30, e tanto stanno in su la sottilità della retorica, che quelle si diffidano di sé stesse, e si tengon per ignorantissime, e par loro un’ora mill’anni finir quel ragionamento, e levarsegli davanti; altri si vantano senza modo; altri dicono spesso cose che tornano a biasimo e danno di sè stessi: come alcuni, dei quali io soglio ridermi, che fan profession d’inamorati, e talor dicono in presenza di donne: Io non trovai mai donna che m’amasse; — e non si accorgono che quelle che gli odono subito fan giudicio che questo non possa nascere d’altra causa, se non perchè non meritino31 nè esser amati, nè pur l’acqua che bevono, e gli tengon per uomini da poco, nè gli amerebbono per tutto l’oro del mondo; parendo loro che se gli amassero sarebbono da meno che tutte l’altre che non gli hanno amati. Altri, per concitar odio a qualche suo rivale, son tanto sciocchi, che pur in presenza di donne dicono: Il tale è il più fortunato uomo del mondo; che già non è bello, nè discreto, nè valente, nè sa fare o dire più che gli altri, e pur tutte le donne l’amano e gli corron drieto; — e così mostrando avergli invidia di questa felicità, ancora che colui nè in aspetto nè in opere si mostri essere amabile, fanno credere che egli abbia in sè qualche cosa secreta, per la quale meriti l’amor di tante donne; onde quelle che di lui senton ragionare di tal mođo, esse ancora per questa credenza si movono molto più ad amarlo.
LXXI. Rise allor il Conte Ludovico, e disse: Io vi prometto, che queste grosserie non userà mai il Cortegiano discreto per acquistar grazia con donne.— Rispose messer Cesare gonzaga: Nè men quell’altra che a’ miei di usò un gentiluomo di molta estimazione, il qual io non voglio nominare per onore degli uomini. - Rispose la signora Dochessa: Dite almen ciò che egli fece. -Soggiunse messer Cesare: Costui essendo amato da una gran signora, richiesto da lei venne secretamente in quella terra ove essa era; e poichè la ebbe veduta, e fu stato seco a ragionare quanto essa e ’l tempo comportarono, partendosi con molte amare lacrime e sospiri, per testimonio dell’estremo dolor ch’egli sentiva di tal partita, le supplicò ch’ella tenesse continua memoria đi lui; e poi soggiunse, che gli facesse pagar l’osteria, perchè essendo stato richiesto da lei, gli parea ragione che della sua venuta non vi sentisse spesa alcuna.— Allora tutte le donne cominciarono a ridere, e dir che costui era indegnissimo d’esser chiamato gentiluomo; e molti si vergognavano per quella vergogna che esso meritamente arìa sentita, se mai per tempo alcuno avesse preso tanto d’intelletto, che avesse potuto conoscere un suo così vituperoso fallo. Voltossi allor il signor Gaspar a messer Cesare, e disse: Era meglio restar di narrar questa cosa per onor delle donne, che di nominar colui per onor degli uomini; che ben potete imaginare che buon giudicio avea quella gran signora, amando un animale così irrazionale, e forse ancora che di molti che la servivano aveva32 eletto questo per lo più discreto, lasciando adrieto e dando disfavore a chi costui non saria stato degno famiglio.— Rise il conte Ludovico, e disse: Chi sa che questo non fosse discreto nell’altre cose, e peccasse solamente in osterie? Ma molte volte per soverchio amore gli uomini fanno gran sciocchezze; e se volete dir il vero, forse che a voi talor è occorso farne più d’una.
LXXII. Rispose ridendo messer Cesare: Per vostra fè, non scopriamo i nostri errori. – Pur bisogna scoprirli, rispose il signor Gasparo, per sapergli correggere; — poi soggiunse: Voi, signor Magnifico, or che ’l Cortegian si sa guadagnare e mantener la grazia della sua signora, e tôrla al suo rivale, sete debitor d’insegnarli a tener secreti gli amori suoi. — Rispose il Magnifico: A me par d’aver detto assai: però fate mo che un altro parli di questa secretezza. — Allora messer Bernardo e tutti gli altri cominciarono di nuovo a fargli instanza; e ’l Magnifico ridendo, Voi, disse, volete tentarmi; troppo sete tutti ammaestrati in amore: pur, se desiderate saperne più, andate e sì vi leggete Ovidio. — E come, disse messer Bernardo, debb’io sperare che i suoi precetti vagliano in amore, poiché conforta e dice esser bonissimo, che l’uom in presenza della innamorata finga d’esser imbriaco? (vedete che bella maniera d’acquistar grazia!) ed allega per un bel modo di far intendere, stando a convito, ad una donna d’essere inamorato, lo intingere un dito nel vino, o scriverlo in su la tavola. — Rispose il Magnifico ridendo: In que’ tempi non era vizio. — E però, disse messer Bernardo, non dispiacendo agli uomini di que’ tempi questa cosa tanto sordida, è da credere che non avessero così gentil maniera di servir donne in amore come abbiam noi; ma non lasciamo il proposito nostro primo, d’insegnar a tener l’amor secreto.
LXXIII. Allor il Magnifico, Secondo me, disse, per tener l’amor secreto bisogna fuggir le cause che lo publicano, le quali sono molte, ma una principale, che è il voler esser troppo secreto, e non fidarsi di persona alcuna: perchè ogni amante desidera far conoscer le sue passioni alla amata, ed essendo solo è sforzato a far molte più dimostrazioni e più efficaci, che se da qualche amorevole e fedele amico fosse ajulato; perchè le dimostrazioni che lo amante istesso fa, danno molto maggior sospetto, che quelle che fa per internunzii: e perchè gii animi umani sono naturalmente curiosi di sapere, subito che uno alieno comincia a sospettare, mette tanta diligenza, che conosce il vero, e conosciutolo, non ha rispetto di publicarlo, anzi talor gli piace; il che non interviene dell’amico, il qual, oltre che ajuti di favore e di consiglio, spesso rimedia quegli errori che fa il cieco inamorato, e sempre procura la secretezza, e provede a molte cose alle quali esso proveder non può; oltre che grandissimo refrigerio si sente dicendo le passioni e sfogandole con amico cordiale, e medesimamente accresce mollo i piaceri il poter comunicargli.—
LXXIV. Disse allor il signor Gasparo: Un’altra causa publica molto più gli amori che questa. — E quale? — rispose il Magnifico.— Soggiunse il signor Gaspar: La vana ambizione congiunta con pazzia e crudeltà delle donne, le quali, come voi stesso avete detto, procurano quanto più possono d’aver gran numero d’inamorati, e tutti, se possibil fosse, vorriano che ardessero, e fatti cenere, dopo morte tornassero vivi per morir un’altra volta; e benché esse ancor amino, pur godeno del tormento degli amanti, perchè estimano che ’l dolore, le afflizioni e ’l chiamar ognor la morte, sia il vero testimonio che esse siano amate, e possano con la loro bellezza far gli uomini miseri e beati, e dargli morte e vita come loro piace; onde di questo sol cibo si pascono, e tanto avide ne sono, che acciò che non manchi loro, non contentano nè disperano mai gli amanti del tutto; ma per mantenergli continuamente negli affanni e nel desiderio usano una certa imperiosa austerità di minacce mescolate con speranza, e vogliono che una loro parola, un sguardo, un cenno sia da essi riputato per somma felicità; e per farsi tener pudiche e caste, non solamente dagli amanti ma ancor da tutti gli altri, procurano che questi loro modi asperi e discortesi siano publici, acciò che ognun pensi che, poiché così mal trattano quelli che son degni d’essere amati, molto peggio debbano trattar gl’indegni: e spesso sotto questa credenza, pensandosi esser sicure con tal’arte dall’infamia, si giaceno tutte le notti con uomini vilissimi, e da esse appena conosciuti, di modo che per godere delle calamità e continui lamenti di qualche nobil cavaliero e da esse amato, negano a sè stesse que’ piaceri che forse con qualche escusazion potrebbono conseguire; e sono causa che ’l povero amante per vera disperazion è sforzato usar modi donde si publica quello che con ogni industria s’averia a tener secretissimo. Alcun’altre sono, le quali se con inganni possono indurre molti a credere d’esser da loro amati, nutriscono tra essi le gelosie, col far carezze e favore all’uno in presenza dell’altro; e quando veggon che quello ancor che esse più amano già si confida d’esser amato per le dimostrazioni fattegli, spesso con parole ambigue e sdegni simulali lo sospendono, e gli trafiggono il core, mostrando non curarlo e volersi in tutto donare all’altro; onde nascono odii, inimicizie ed infiniti scandali e ruine manifeste, perchè forza è mostrar l’estrema passion che in tal caso l’uom sente, ancor che alla donna ne risulti biasimo ed infamia. Altre, non contente di questo solo tormento della gelosia, dopo che l’amante ha fatto tutti i testimonii d’amore e di fedel servitù, ed esse ricevuti l’hanno con qualche segno di corrispondere in benivolenza, senza proposito e quando men s’aspetta cominciano a star sopra di sè, e mostrano di credere che egli sia intiepidito, e fingendo nuovi sospetti di non esser amate, accennano volersi in ogni modo alienar da lui: onde per questi inconvenienti il meschino per vera forza è necessitato a ritornare da capo, e far le dimostrazioni, come se allora cominciasse a servire; e tutto di passeggiar per la contrada, e quando la donna si parte di casa accompagnarla alla chiesa ed in ogni loco ove ella vada, non voltar mai gli occhi in altra parte: e quivi si ritorna ai pianti, ai sospiri, allo star di mala voglia; e quando se le può parlare, ai scongiuri, alle biasteme, alle disperazioni, ed a tutti quei furori, a che gl’infelici inamorali son condotti da queste fiere, che hanno più sete di sangue che le tigri.
LXXV. Queste tai dolorose dimostrazioni son troppo vedute e conosciute, e spesso più dagli altri che da chi le causa; ed in tal modo in pochi di son tanto publiche, che non si può far un passo nè un minimo segno, che non sia da mille occhi notato. Intervien poi, che molto prima che siano tra essi i piaceri d’amore, sono creduti e giudicati da tutto ’l mondo, perchè esse, quando pur veggono che l’amante già i vicino alla morte, vinto dalla crudeltà e dai strazii usatigli delibera determinatamente e da dovero di ritirarsi, allora cominciano a dimostrar d’amarlo di core, e fargli tutti i piaceri, e donarsegli, acciò che essendogli mancato quell’ardente desiderio, il frutto d’amor gli sia ancor men grato, e ad esse abbia minor obligazione, per far ben ogni cosa al contrario. Ed essendo già tal amore notissimo, sono ancor in que’ tempi poi notissimi tutti gli effetti che da quel procedono; così restano esse disonorate, e lo amante si trova aver perduto il tempo e le fatiche, ed abbreviatosi la vita negli affanni, senza frutto o piacer alcuno; per aver conseguito i suoi desiderii non quando gli sariano stati tanto grati che l’arian fatto felicissimo, ma quando poco o niente gli apprezzava, per esser il cor giả tanto da quelle amare passioni mortificato, che non tenea sentimento più per gustar diletto o contentezza che se gli offerisse.—
LXXVI. Allor il signor Ottaviano ridendo, Voi, disse, siete stato cheto un pezzo e retirato dal dir mal delle donne; poi le avete così ben tocche, che par che abbiate aspettato per ripigliar forza, come quei che si tirano a drieto per dar maggior incontro; e veramente avete torto, ed oramai dovreste esser mitigato.— Rise la signora Emilia, e rivolta alla signora Duchessa, Eccovi, disse, Signora, che i nostri avversarii cominciano a rompersi e dissentir l’un dall’altro. Non mi date questo nome, rispose il signor Ottaviano, perch’io non son vostro avversario; èmmi ben dispiaciuta questa contenzione, non perchè m’increscesse vederne la vittoria in favor delle donne, ma perchè ha indotto il signor Gasparo a calunniarle più che non dovea, e ’l signor Magnifico e messer Cesare a laudarle forse un poco più che ’l debito; oltre che per la lunghezza del ragionamento avemo perduto d’intender molt’altre belle cose, che restavano a dirsi del Cortegiano.— Eccovi, disse la signora Emilia, che pur siete nostro avversario; e perciò vi dispiace il ragionamento passato, nè vorreste che si fosse formato questa così eccellente Donna di Palazzo: non perchè vi fosse altro che dire sopra il Cortegiano, perchè giả questi signori han detto quanto sapeano, nẻ voi, credo, nè altri potrebbe aggiungervi più cosa alcuna; ma per la invidia che avete all’onor delle donne.
LXXVII. Certo è, rispose il signor Ottaviano, che, oltre alle cose dette sopra il Cortegiano, io ne desiderarei molte altre; pur poichè ognun si contenta ch’ei sia tale, io ancora me ne contento; nè in altra cosa lo mutarei, se non in farlo un poco più amico delle donne che non è il signor Gaspar, ma forse non tanto quanto è alcuno di questi altri signori.— Allora la signora Duchessa, Bisogna, disse, in ogni modo che noi veggiamo, se l’ingegno vostro è tanto che basti a dar maggior perfezione al Cortegiano, che non han dato questi signori. Però siate contento di dir ciò che n’avete in animo: altrimenti noi pensaremo che nè voi ancora sappiate aggiungergli più di quello che s’è detto, ma che abbiate voluto detraere alle laudi della Donna di Palazzo, parendovi ch’ella sia eguale al Cortegiano, il quale perciò voi vorreste che si credesse che potesse esser molto più perfetto che quello che hanno formato questi signori. — Rise il signor Ottaviano, e disse: Le laudi e biasimi dati alle donne più del debito hanno tanto piene l’orecchie e l’animo di chi ode, che non han lasciato loco che altra cosa star vi possa; oltra di questo, se condo me, l’ora è molto tarda. — Adunque, disse la signora Duchessa, aspettando insino a domani aremo più tempo; e quelle laudi e biasimi che voi dite esser stati dati alle donne dell’una parte33 e l’altra troppo eccessivamente, frattanto usciranno dell’animo di questi signori, di modo che pur saranno capaci di quella verità che voi direte. — Così parlando la signora Duchessa, levossi in piedi, e cortesemente donando licenza a tutti, si ritrasse nella stanza sua più secreta, ed ognuno si fu a dormire.
Note
- ↑ [p. 351 modifica]Preso da Aulo Gellio, lib. I, cap. 1.
- ↑ [p. 351 modifica]Essendosi. Meno bene le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, Essendo.
- ↑ [p. 351 modifica]
- ↑ [p. 351 modifica]più s’appressano. Così le Aldine e tutte le edizioni anteriori al Dolce; onde non osai ammettere la lezione da questo introdotta, e conservatasi in tutte le edizioni posteriori, più si apprezzano.
- ↑ [p. 352 modifica]chi le serve. Così corresse il Volpi; le Aldine e le altre antiche hanno chi li serve o chi gli serve.
- ↑ [p. 352 modifica]nè fa. Così tutte le edizioni; tuttavia forse meglio si leggerebbe nè far.
- ↑ [p. 352 modifica]Pigmalione, secondo la favola, s’innamorò di una statua d’avorio da lui formata. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 352 modifica]ritrovandovisi. Le Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547, trovandovisi.
- ↑ [p. 352 modifica]impudenza. Male le Aldine del 1538, 1541 e 1547, imprudenza.
- ↑ [p. 352 modifica]tendano. Così corresse il Volpi; le edizioni anteriori tendono.
- ↑ [p. 352 modifica]con questa secretezza. Così le Aldine del 1528, 1533, 1538, 1545, l’edizione dei fratelli Volpi, e le posteriori; le Aldine del 1541 e del 1547, seguite dal Dolce e da altri antichi, hanno con questa sceleratezza, che forse è la vera lezione.
- ↑ [p. 352 modifica]Novelletta nota, di una moglie, che collata in un pozzo dal marito che voleva indurla a cessare dal ripetere la parola forbeci, pur persisteva, ancorché il marito la lasciasse attuffare a mano a mano, e già essa fosse nell’acqua fino alla gola; quando poi l’acqua le soverchiò la bocca, e più non potè parlare, elevato il braccio, pur contrafaceva colle dita il taglio delle forbeci. 11 marito non potè tenersi dal ridere in vedere tanta ostinazione, e ritrasse la donna dal pozzo.
- ↑ [p. 352 modifica]Novelletta nota, di una moglie, che collata in un pozzo dal marito che voleva indurla a cessare dal ripetere la parola forbeci, pur persisteva, ancorché il marito la lasciasse attuffare a mano a mano, e già essa fosse nell’acqua fino alla gola; quando poi l’acqua le soverchiò la bocca, e più non potè parlare, elevato il braccio, pur contrafaceva colle dita il taglio delle forbeci. 11 marito non potè tenersi dal ridere in vedere tanta ostinazione, e ritrasse la donna dal pozzo.
- ↑ [p. 352 modifica]ed al marito. Le Aldine degli anni 1528 e 1543 omettono la voce ed.
- ↑ [p. 352 modifica]Tarpea, che tradì la ròcca ai Sabini, i quali appena entrati l’ammazzarono. Vedi Livio, lib. 1, cap. XI.
- ↑ [p. 352 modifica]E, per uscir d’Italia. Così corresse il Dolce; le edizioni anteriori hanno et che per uscir d’Italia.
- ↑ [p. 352 modifica]si trovan donne. Nelle Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547 manca la voce donne.
- ↑ [p. 352 modifica]Se l’opera del Cortegiano dovea correggersi e spurgarsi da tutto ciò che in qualche maniera potesse guastare i buoni costumi, ragion voleva che in questo luogo principalmente fosse corretta e spurgala. Con ciò sia che alcune altre novelle, motti e facezie, che in essa qua e là s’incontrano, per lo più hanno sembianza di scherzi e di piacevolezze; ma qui parlandosi con serietà [p. 353 modifica]si viene ad onorare col titolo d’immacolata, e si propone per esempio di costanza e di pudicizia una donna, che già si era data in preda all’amante, e avendosi posta sotto de’ piedi l'interna onestà, e di più la verecondia o verginale o matronale, facea copia liberamente di sè medesima (dall’ultimo atto in fuori) ad un uomo libidinoso e dissoluto. Noi avremmo volentieri tolto via questo racconto scandaloso; ma vedendo, non senza qualche maraviglia, che il Ciccarelli l’avea lasciato, deliberammo di lasciarlo noi parimente, ma di confutarlo altresì colla dovuta censura. Prima dunque d’ogni altra cosa noi diciamo, esser questa narrazione se non falsa, almeno inverisimile affatto, e perciò mancante d’ogni autorità...... Certamente negli antichi secoli della Chiesa non si dovea prestar fede a Paolo Samosateno vescovo di Antiochia, nè agli altri chierici suoi segnaci, i quali, accecati dal diavolo, erano usati di tenersi a fianco nel letto una o talor due vergini a Dio consacrale, scegliendo dal numero di esse le più amabili e per gioventù e per bellezza, comechè protestassero di non trascorrer giammai a verun atto d’impurità. Chi si espone a rischio sì manifesto di peccare, o non ama daddovero la castità, o egli è stolido e prosuntuoso, mettendosi a tentar Dio. Imperciocché tanto è possibile che due di sesso diverso, infiammati di scambievole amore, conversando insieme da solo a solo, anzi nel medesimo letto, si astengano da peccati carnali, quanto è possibile che il fuoco s’accosti alla paglia senza abbruciarla ed incenerirla. Numquid potest homo (dice il Savio nei Proverbii, al capo sesto) abscondere ignem in sinu suo, ut vestimento illius non ardeant? aut ambulare super prunas, ut non comburantur plantæ ejus? Sic qui ingreditur ad mulierem proximi sui, non erit mundus cum tetigerit eam. Ma dato ancor che la donna di cui parla il Castiglione, per paura di morte o d’infamia, così ferma fosse nel suo proposito, che non permettesse in tanto tempo all’amante l’ultimo sfogo de’ suoi sfrenati appetiti: si dovrà perciò ella chiamare uno specchio di pudicizia, immacolata, illibata? Chi tal titolo volesse darle, verrebbe a pesare la pudicizia e l’onestà, per così dire, colla stadera del mugnajo, non colla bilancella dell’orefice. Queste virtù sono di tempera dilicatissima, e somigliano appunto a que’ fiori, che ad ogni fiato di scirocco appassiscono. La verginità e la continenza hanno lor sede principalmente nell’animo; ma quando poi una donna non disdice all’amante i baci, gli abbracciamenti, e l’altre sì fatte domestichezze, quand’anche più oltre non passi, queste nobilissime doti già sono affatto dissipate e perdute, nè altro di esse rimane che l’ombra sola e l’apparenza, la quale può bene ingannare la corta vista degli nomini, ma non sfuggire gli occhi penetranti ed acutissimi del grande Iddio. Omnis qui viderit mulierem ad concupiscendum eam, jam mœchatus est eam In corde suo, grida il Signore nel Vangelo (Matth. V, 32). Così ancora adunque mulier quae viderit virum ad concupiscendum eum; molto più quæ tetigerit, quae amplexa fuerit, quae se illi contrectandam præbuerit. Costei, oltre ai proprii peccati, venne a farsi complice [p. 354 modifica]de’ peccati ancor dell’amante, i quali in si lungo tempo saranno stati pressoché innumerabili. È certamente da stupirsi, come un uomo dotto e prudente, qual era il conte Baldessar Castiglione, abbia potuto prendere un granchio sì grosso, in materia di vera e soda virtù. Convien però dire, ch’egli abbia servito in questo luogo all’umore della persona da esso introdotta a ragionare; dimostrando egli per altro in varie parti di quest’Opera sentimenti più giusti e più ragionevoli, e discorrendo del dovere e dell’onesto con sottigliezza molto maggiore. Giovanni Antonio Volpi.
- ↑ [p. 354 modifica]allopiato. Le Aldine ed altre antiche all l’opiato; male il Dolce allopitato.
- ↑ [p. 354 modifica]Tanti pœnitere non emo: risposta data da Demostene a Taide, famosa meretrice in Corinto. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 354 modifica]Imitato da quel di Tibullo, Eleg. I, 1, 65:
Illo non juvenis poterit de funere quisquam
Lumina, non virgo, sicca referre domum. - ↑ [p. 354 modifica]sempre non veda. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, sempre non si veda.
- ↑ [p. 354 modifica]Allude al libro di Ovidio Artis Amatoriae. Un simile argomento nello scorso secolo fu trattato in Francia da Pietro Giuseppe Bernard, delfinate, conosciuto anche sotto il nome di Gentil Bernard.
- ↑ [p. 354 modifica]Di essa parla Bernardo Tasso nell’Amadigi. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 354 modifica]circa le difficoltà. Così le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547; quelle del 1528, 1533 e 1543, circa la difficoltà.
- ↑ [p. 354 modifica]deve ancora cominciare a compiacere. L’Aldina del 1538, e dietro essa tutte, tranne l’Aldina del 1543, le edizioni posteriori del secolo XVI e XVII, omettono le parole cominciare a; esse furono restituite dal Volpi, e conservate nelle seguenti edizioni.
- ↑ [p. 354 modifica]Tratto da quel verso di Properzio:
Si nescis, oculi sunt in amore duces.
Dolce. - ↑ [p. 354 modifica]piglia le qualità. Così le Aldine degli anni 1541 e 1547; meno bene le altre piglia la qualità.
- ↑ [p. 354 modifica]più che agli altri. Così l’Aldina del 1545; le altre Aldine malamente più che gli altri.
- ↑ [p. 354 modifica]Di costui vedi il Giornale de’ Letterati d’Italia. Volpi. Francesco Colonna, religioso domenicano, pubblicò sotto il [p. 355 modifica]titolo di Poliphili Hypnerotomachia uno scritto pressoché impossibile ad intendersi, e per lingua e per argomento. Morì nel 1527, vecchio di 94 anni.
- ↑ [p. 355 modifica]meritino. Le Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547, meritano.
- ↑ [p. 355 modifica]aveva. Male le Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547, avendo.
- ↑ [p. 355 modifica]dell’una parte. Forse dall’una parte.