Il libro del Cortegiano/Libro primo
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IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO
del conte baldesar castiglione
A MESSER ALFONSO ARIOSTO
I. Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose piú difficil mi fosse; o il negarvi quel che con tanta instanzia piú volte m’avete richiesto, o il farlo: perché da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch’io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall’altro ancor, pigliar impresa, la quale io non conoscessi poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano. In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato esperimentare in questo quanto ajuto porger possa alla diligenzia mia quella affezione e desiderio intenso di compiacere, che nelle altre cose tanto suole accrescere la industria degli omini.
Voi adunque mi richiedete ch’io scriva qual sia, al parer mio, la forma di Cortegianìa piú conveniente a gentiluomo che viva in corte de’ príncipi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia, e dagli altri laude; in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli manchi. Onde io, considerando tal richiesta, dico che, se a me stesso non paresse maggior biasimo l’esser da voi reputato poco amorevole, che da tutti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica, per dubbio di non esser tenuto temerario da tutti quelli che conoscono, come difficil cosa sia, tra tante varietà di costumiche s’usano nelle corti di Cristianità, eleggere la piú perfetta forma e quasi il fior di questa Cortegianía; perché la consuetudine fa a noi spesso le medesime cose piacere e dispiacere: onde talor procede che i costumi, gli abiti, i riti e i modi, che un tempo son stati in pregio, divengono vili, e per contrario i vili divengon pregiati. Però si vede chiaramente, che l’uso piú che la ragione ha forza d’introdur cose nove tra noi, e cancellar l’antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfezione, spesso s’inganna. Per il che, conoscendo io questa e molte altre difficoltà nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione, e render testimonio che questo errore (se pur si può dir errore) a me è commune con voi, acciò che se biasmo avvenire me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perché non minor colpa si dee estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze disequale, che a me averlo accettato.
Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro presuposto e, se possibil è, formiamo un Cortegian tale, che quel principe che sarà degno d’esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore. Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti distinti, che ’l piú delle volte nell’insegnare qualsivoglia cosa usar si suole; ma, alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria1, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra uomini singolarissimi a tale proposito; e benché io non v’intervenissi presenzialmente, per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco appresso il mio ritorno intesi da persona che fedelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia uomini degni di somma laude, ed al cui giudicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede. Né fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al fine dove tende il parlar nostro, narrar la causa dei successi ragionamenti.
II. Alle pendici dell’Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d’Urbino; la quale, benché tra monti sia, e non cosí ameni come forse alcun’altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell’aere, si trova abondantissima d’ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano. Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale, che da gran tempo in qua sempre è stata dominata da ottimi signori; avvenga che, nelle calamità universali delle guerre della Italia, essa ancor per un tempo ne sia restata priva. Ma non ricercando più lontano, possiamo di questo far bon testimonio con la gloriosa memoria del duca Federico, il quale a’ dì suoi fu lume della Italia; né mancano veri ed amplissimí testimonii, che ancor vivono, della sua prudenzia, della umanità, della giustizia, della liberalità, dell’animo invitto e della disciplina militare: della quale precipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni de lochi inespugnabili, la subita prestezza nelle espedizioni, l’aver molte volte con pochissime genti fugato numerosi e validissimi eserciti, né mai esser stato perditore in battaglia alcuna; di modo che possiamo non senza ragione a molti famosi antichi aguagliarlo. Questo, tra l’altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito d’Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti il più bello che in tutta Italia si ritrovi2; e d’ogni oportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo ma una città in forma de palazzo esser pareva; e non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d’argento, apparamenti di camere di ricchissimi drappi d’oro, di seta e d’altre cose simili, ma per ornamento v’aggiunse una infinità di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singolarissime, instrumenti musici d’ogni sorte; né quivi cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente. Appresso, con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d’oro e d’argento, estimando che questa fosse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo.
III. Costui adunque, seguendo il corso della natura, già di sessantacinque anni, come era visso, cosí gloriosamente morí; ed un figliolino di diece anni, che solo maschio aveva, e senza madre, lasciò signore dopo sè; il qual fu Guid’Ubaldo. Questo, come dello stato, cosí parve che di tutte le virtù paterne fosse erede, e subito con maravigliosa indole cominciò a promettere tanto di sè, quanto non parea che fosse licito sperare da uno uom mortale; di modo che estimavano gli uomini, delli egregii fatti del duca Federico niuno esser maggiore, che l’avere generato un tal figliolo3. Ma la fortuna, invidiosa di tanta virtù, con ogni sua forza s’oppose a cosí glorioso principio; talmente che, non essendo ancor il duca Guido giunto alli venti anni, s'infermò di podagre, le quali con atrocissimi dolori procedendo, in poco spazio di tempo talmente tutti i membri gl'impedirono, che nè stare in piedi nè mover si potea; e cosí restò un dei più belli e disposti corpi del mondo deformato e guasto nella sua verde età. E non contenta ancor di questo la fortuna, in ogni suo disegno tanto gli fu contraria, ch’egli rare volte trasse ad effetto cosa che desiderasse; e benchè in esso fosse il consiglio sapientissimo e l’animo invittissimo, parea che ciò che incominciava, e nell’arme e in ogni altra cosa o picciola o grande, sempre male gli succedesse: e di ciò fanno testimonio molte e diverse sue calamità, le quali esso con tanto vigor d’animo sempre tolerò, che mai la virtù dalla fortuna non fu superata; anzi, sprezzando con l’animo valoroso le procelle di quella, e nella infermità come sano e nelle avversità come fortunatissimo, vivea con somma dignità ed estimazione appresso ognuno; di modo che, avvenga che cosí fosse del corpo infermo, militò con onorevolissime condizioni a servizio dei serenissimi re di Napoli Alfonso e Ferrando minore; appresso con papa Alessandro VI, coi signori Veneziani, e Fiorentini, Essendo. poi asceso al pontificato Julio II, fu fatto capitan della ‘Chiesa; nel qual tempo, seguendo il suo consueto stile, sopra ogni altra cosa procurava che la casa sua fosse di nobilissimi e valorosi gentiluomini piena; coi quali molto familiarmente viveva, godendosi della conversazione di quelli: nella qual cosa non era minor il piacer che esso ad altrui dava, che quello che d’altrui riceveva, per esser dottissimo nell’una e nell’altra lingua, ed aver insieme con la affabilità e piacevolezza congiunta ancor la cognizione d’infinite cose: ed, oltre a ciò, tanto la grandezza dell’animo suo lo stimolava, che, ancor che esso non potesse con la persona esercitar l’opere della cavalleria come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacer di vederle in altrui; e con le parole, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto giudicio circa quelle avesse; onde nelle giostre, nei torniamenti, nel cavalcare, nel maneggiare tutte le sorti d’arme, medesimamente nelle feste, nei giochi, nelle musiche, in somma in tutti gli esercizi convenienti a nobili cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicato degno di cosí nobile commercio.
IV. Erano adunque tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizii cosí del corpo come dell’animo; ma perchè il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n’andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a quell’ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emilia Pia, la qual per esser dotata di cosí vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l’oneste facezie s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria: nè mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; chè, lasciando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell’animo una somma contentezza ogni volta che al cospetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di volontà o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commercio; chè a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la reverenza che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno; nè era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa, quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti, ed erano i giochi e i risi al suo cospetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa e grave maestà; chè quella modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora Duchessa, motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai più veduta non l’avesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E cosí nei circostanti imprimendosi, parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi dalla presenza d’una tanta e cosí virtuosa signora: le ottime condizioni della quale io per ora non intendo narrare, non essendo mio proposito, e per esser assai note al mondo, e molto più ch’io non potrei nè con lingua nè con penna esprimere; e quelle che forse sariano state alquanto nascoste, la fortuna, come ammiratrice di cosí rare virtù, ha voluto con molte avversità e stimoli di disgrazie scoprire, per far testimonio che nel tenero petto d’una donna in compagnia di singolar bellezza possono stare la prudenza e la fortezza d’animo, e tutte quelle virtù che ancor ne’ severi uomini sono rarissime.
V. Ma lasciando questo, dico, che consuetudine di tutti i gentiluomini della casa era ridursi subito dopo cena alla signora Duchessa; dove, tra l’altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponeano belle questioni, talor si faceano alcuni giochi ingegnosi ad arbitrio or d’uno or d’un altro, nei quali sotto varii velami spesso scoprivano i circonstanti allegoricamente i pensier sui a chi più loro piaceva.) Qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, ovvero si mordea con pronti detti; spesso si faceano imprese, come oggidí chiamiamo: dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava, per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni; tra i quali, come sapete, erano celeberrimi il signor Ottavian Fregoso, messer Federico suo fratello, il Magnifico Julian de’ Medici, messer Pietro Bembo, messer Cesar Gonzaga, il conte Ludovico da Canossa, il signor Gaspar Pallavicino, il signor Ludovico Pio, il signor Morello da Ortona, Pietro da Napoli, messer Roberto da Bari, ed infiniti altri nobilissimi cavalieri: oltra che molti ve n’erano, i quali, avvenga che per ordinario non stessino quivi fermamente, pur la maggior parte del tempo vi dispensavano; come messer Bernardo Bibiena, l’Unico Aretino, Joan Cristoforo Romano, Pietro Monte, Terpandro, messer Nicolò Frisio; di modo che sempre poeti, musici, e d’ogni sorte uomini piacevoli, e li più eccellenti in ogni facoltà che in Italia si trovassino, vi concorrevano.
VI. Avendo adunque papa Julio II con la presenza sua e con l’ajuto de’ Franzesi ridotto Bologna alla obedienza della sede apostolica nell’anno MDVI, e ritornando verso Roma, passò per Urbino; dove quanto era possibile onoratamente, e con quel più magnifico e splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra nobil città d’Italia, fa ricevuto: di modo che, oltre al papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono sommamente satisfatti; e furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il papa e la corte, restarono per molti giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si continuava nell’usato stile delle feste e piaceri ordinarii, ma ognuno si sforzava d’accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera s’attendeva. E l’ordine d’essi era tale, che, subito giunti alla presenza della signora Duchessa, ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un uomo ed una donna, fin che donne v’erano, chè quasi sempre il numero degli uomini era molto maggiore; poi, come alla signora Duchessa pareva si governavano, la quale per lo più delle volte ne lasciava il carico alla signora Emilia. Cosí il giorno apresso la partita del papa, essendo all’ora usata ridotta la compagnia al solito loco, dopo molti piacevoli ragionamenti la signora Duchessa volse pur che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l’aver alquanto rifiutato tal’impresa, cosí disse: Signora mia, poichè pur a voi piace ch’io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d’obedirvi, delibero proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasimo e men fatica: e questo sarà, che ognun proponga secondo il parer suo un gioco non più fatto; da poi si eleggerà quello che parerà esser più degno di celebrarsi in questa compagnia.— E così dicendo, si rivolse al signor Gaspar Pallavicino, imponendogli che ’l suo dicesse; il qual subito rispose: A voi tocca, signora, dir prima il vostro. — Disse la signora Emilia: Eccovi ch’io l’ho detto; ma voi, signora Duchessa, comandategli ch’e’ sia obediente. — Allor la signora Duchessa ridendo, Acciò, disse, che ognuno v’abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente, e vi do tutta la mia autorità.
VII. Gran cosa è pur, rispose il signor Gaspar, che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche, e certo ragion saria volerne in ogni modo intender la cagione; ma per non esser io quello che dia principio a disobedire, lascierò questo ad un altro tempo, e dirò quello che mi tocca; — e cominciò: A_me pare, che gli animi nostri, sì come nel resto, così ancor nell’amare siano di giudicio diversi: e perciò spesso interviene, che quello che all’uno è gratissimo, all’altro sia odiosissimo; ma con tutto questo, sempre però si concordano in aver ciascuno carissima la cosa amata; talmente che spesso la troppo affezion degli amanti di modo inganna il lor giudicio, che estiman quella persona che amano esser sola al mondo ornata d’ogni eccellente virtù, e senza difetto alcuno; ma perchè la natura umana non ammette queste così compite perfezioni, nè si trova persona a cui qualche cosa non manchi, non si può dire che questi tali non s’ingannino, e che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse di che virtù precipuamente vorrebbe che fosse ornata quella persona ch’egli ama; e, poichè così è necessario che tutti abbiano qualche macchia, qual vizio ancor vorrebbe che in essa fosse: per veder chi saprà ritrovar più lodevoli ed utili virtù, e più escusabili vizii, e meno a chi ama nocivi ed a chi è amato.— Avendo così detto il signor Gaspar, fece segno la signora Emilia a madonna Costanza Fregosa, per esser in ordine vicina, che seguitasse: la qual già s’apparecchiava a dire; ma la signora Duchessa subito disse: Poichè madonna Emilia non vuole affaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l’altre donne participassino di questa commodità, ed esse ancor fossino esente di tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti uomini, che non è pericolo che manchin giochi. — Così faremo, — rispose la signora Emilia; ed imponendo silenzio a madonna Costanza, si volse a messer Cesare Gonzaga che le sedeva a canto, e gli comandò che parlasse; ed esso così cominciò:
VIII. Chi vuol con diligenza considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii difetti; e ciò procede perchè la natura, così in questo come nell’altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un’altra: però interviene, che sapendo l’un quello che l’altro non sa, ed essendo ignorante di quello che l’altro intende, ciascun conosce facilmente l’error del compagno e non il suo, ed a tutti ci par esser molto savii, e forse più in quello in che più siamo pazzi; per la qual cosa abbiam veduto in questa casa esser occorso, che molti i quali al principio sono stati reputati saviissimi, con processo di tempo si son conosciuti pazzissimi: il che d’altro non è proceduto, che dalla nostra diligenza. Chè, come si dice che in Puglia circa gli atarantati s’adoprano molti instrumenti di musica4, e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienza ch’egli ha con alcuno di quei suoni, sentendolo, subito si move, e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanità: così noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtù di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l’abbiamo stimolata e con sì diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, così ben l’abbiam agitato, che sempre s’è ridutto a perfezion di publica pazzia; e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la miniera del suo metallo; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo, che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato, possa moltiplicar quasi in infinito. Però vorrei che questa sera il gioco nostro fosse il disputar questa materia, e che ciascun dicesse: Avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch’io impazzissi, e sopra che cosa, giudicando questo esito per le scintille di pazzia che ogni dì si veggono di me uscire: il medesimo si dica di tutti gli altri, servando l’ordine de’ nostri giochi, ed ognuno cerchi di fondar la opinion sua sopra qualche vero segno ed argomento. E così di questo nostro gioco ritrarremo frutto ciascun di noi di conoscere i nostri difetti, onde meglio ce ne potrem guardare; e se la vena di pazzia che scopriremo sarà tanto abondante che ci paja senza rimedio, l’ajuteremo, e, secondo la dottrina di fra Mariano5, averemo guadagnato un’anima, che non fia poco guadagno. — Di questo gioco si rise molto, nè alcun era che si potesse tener di parlare: chi diceva, Io impazzirei nel pensare, chi, Nel guardare; chi diceva, Io già son impazzito in amare; e tai cose.
IX. Allor fra Serafino, a modo suo ridendo: Questo, disse, sarebbe troppo lungo; ma se volete un bel gioco, fate che ognuno dica il parer suo, Onde è che le dorme quasi tutte hanno in odio i ratti, ed aman le serpi; e vederete che niuno s’apporrà, se non io, che so questo secreto per una strana via. — E già cominciava a dir sue novelle; ma la signora Emilia gl’impose silenzio, e trapassando la dama che ivi sedeva, fece segno all’Unico Aretino, al qual per l’ordine toccava; ed esso, senza aspettar altro comandamento, Io, disse, vorrei esser giudice con autorità di poter con ogni sorte di tormento investigar di sapere il vero da’ malfattori; e questo per scoprir gl’inganni d’una ingrata, la qual, con gli occhi d’angelo e cor di serpente, mai non accorda la lingua con l’animo e con simulata pietà ingannatrice, a niun’altra cosa intende, che a far anatomia de’ cori: né si ritrova così velenoso serpe nella Libia arenosa, che tanto di sangue umano sia vago, quanto questa falsa; la qual non solamente con la dolcezza della voce e meliflue parole, ma con gli occhi, coi risi, coi sembianti, a con tutti i modi è verissima Sirena. Però, poi che non m’è licito, com’io vorrei, usar le catene, la fune o ’l foco per saper una verità, desidero di saperla con un gioco, il quale è questo: Che ognun dica ciò che crede che significhi quella lettera S, che la signora Duchessa porta in fronte; perchè, avvenga che certamente questo ancor sia un artificioso velame per poter ingannare, per avventura se gli darà qualche interpretazione da lei forse non pensata, e trovarassi che la fortuna, pietosa riguardatrice dei martirii degli uomini, l’ha indotta con questo piccol segno a scoprire non volendo l’intimo desiderio suo, di uccidere e sepelir vivo in calamità chi la mira o la serve. — Rise la signora Duchessa, e vedendo l’Unico ch’ella voleva escusarsi di questa imputazione, Non, disse, non parlate, Signora, che non è ora il vostro loco di parlare. — La signora Emilia allor si volse, e disse: Signor Unico, non è alcun di noi qui che non vi ceda in ogni cosa, ma molto più nel conoscer l’animo della signora Duchessa; e così come più che gli altri lo conoscete per lo ingegno vostro divino, l’amate ancor più che gli altri; i quali, come, quegli uccelli debili di vista, che non affisano gli occhi nella spera del sole, non possono così ben conoscer quanto esso sia perfetto: però ogni fatica saria vana per chiarir questo dubio, fuor che ’l giudicio vostro. Resti adunque questa impresa a voi solo, come a quello che solo può trarla al fine. — L’Unico avendo taciuto alquanto, ed essendogli pur replicato che dicesse, in ultimo disse un sonetto sopra la materia predetta6, dichiarando ciò che significava quella lettera S; che da molti fu estimato fatto all’improvviso, ma, per esser ingegnoso e colto più che non parve che comportasse la brevità | del tempo, si pensò pur che fosse pensato.
X. Così, dopo l’aver dato un lieto applauso in laude del sonetto, ed alquanto parlato, il signor Orravian Freaoso, al qual toccava, in tal modo, ridendo, incominciò: Signori, s’io volessi affermare non aver mai sentito passion d’amore, son certo che la signora Duchessa e la signora Emilia, ancor che non lo credessino, mostrarebbon di crederlo, e diriano che ciò procede perch’io mi son diffidato di poter mai indur donna alcuna ad amarmi: di che in vero non ho io insin qui fatto prova con tanta instanza, che ragionevolmente debba esser disperato di poterlo una volta conseguire. Nè già son restato di farlo perch’io apprezzi me stesso tanto, o così poco le donne, che non estimi che molte ne siano degne d’esser amate e servite da me; ma piuttosto spaventato dai continui lamenti d’alcuni innamorati, i quali pallidi, mesti e taciturni, par che sempre abbiano la propria scontentezza dipinta. negli occhi; e, se parlano, accompagnando ogni parola con certi sospiri triplicati, di null’altra cosa ragionano che di lacrime, di tormenti, di disperazioni, e desiderii di morte: di modo che, se talor qualche scintilla amorosa pur mi s’è accesa nel core, io subito sónomi sforzato con ogni industria di spegnerla, non per odio ch’io porti alle donne, come estimano queste signore, ma per mia salute. Ho poi conosciuti alcun’altri in tutto contrarii a questi dolenti, i quali non solamente si laudano e contentano dei grati aspetti, care parole, e sembianti soavi delle lor donne, ma tutti i mali condiscono di dolcezza; di modo che le guerre, l’ire, li sdegni di quelle per dolcissimi chiamano: perchè troppo più che felici questi tali esser mi pajono. Che se negli sdegni amorosi, i quali da quell’altri più che morte sono reputati amarissimi, essi ritrovano tanta dolcezza, penso che nelle amorevoli dimostrazioni debban sentir quella beatitudine estrema, che noi in vano in questo mondo cerchiamo. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch’egli ama, qual causa vorrebbe che fosse quella che la inducesse a tal sdegno. Che se qui si ritrovano alcuni che abbian provato questi dolci sdegni, son certo che per cortesia desideraranno una di quelle cause che così dolci li fa7; ed io forse m’assicurarò di passar un poco più avanti in amore, con speranza di trovar io ancora questa dolcezza, dove alcuni trovano l’amaritudine; ed in tal modo non potranno queste signore darmi infamia più ch’io non ami.
XI. Piacque molto questo gioco, e già ognuno si preparava di parlar sopra tal materia; ma non facendone la signora Emilia altramente motto, messer Pietro Bembo, che era in ordine vicino, così disse: Signori, non piccol dubio ha risvegliato nell’animo mio il gioco proposto dal signor Ottaviano, avendo ragionato de’ sdegni d’amore: i quali, avvenga che varii siano, pur a me sono essi sempre stati acerbissimi, né da me credo che si potesse imparar condimento bastante per addolcirgli; ma forse sono piú e meno amari secondo la causa donde nascono. Ché mi ricordo già aver veduto quella donna ch’io serviva verso me turbata, o per suspetto vano che da se stessa della fede mia avesse preso, o vero per qualche altra falsa opinione in lei nata dalle altrui parole a mio danno; tanto ch’io credeva niuna pena alla mia potersi agguagliare e parevami che ’l maggior dolor ch’io sentiva fosse il patire non avendolo meritato, ed aver questa afflizione non per mia colpa, ma per poco amor di lei. Altre volte la vidi sdegnata per qualche error mio e conobbi l’ira sua proceder dal mio fallo; ed in quel punto giudicava che ’l passato mal fosse stato levissimo a rispetto di quello ch’io sentiva allora; e pareami che l’esser dispiaciuto, e per colpa mia, a quella persona alla qual sola io desiderava e con tanto studio cercava di piacere, fosse il maggior tormento e sopra tutti gli altri. Vorrei adunque che ’l gioco nostro fosse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch’egli ama, da chi vorrebbe che nascesse la causa del sdegno, o da lei, o da se stesso; per saper qual è maggior dolore, o far dispiacere a chi s’ama, o riceverlo pur da chi s’ama — .
XII. Attendeva ognun la risposta della signora Emilia; la qual non facendo altrimenti motto al Bembo, si volse, e fece segno a messer Federico Fregoso che ’l suo gioco dicesse; ed esso subito così cominciò: — Signora, vorrei che mi fosse licito, come qualche volta si suole, rimettermi alla sentenzia d’un altro; ch’io per me volentieri approvarei alcun dei giochi proposti da questi signori, perché veramente parmi che tutti sarebbon piacevoli: pur, per non guastar l’ordine, dico, che chi volesse laudar la corte nostra, lasciando ancor i meriti della signora Duchessa, la qual sola con la sua divina virtú basteria per levar da terra al cielo i piú bassi spiriti che siano al mondo, ben poria senza sospetto d’adulazion dire, che in tutta la Italia forse con fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri così singolari, ed oltre alla principal profession della
cavalleria, così eccellenti in diverse cose, come or qui si ritrovano:
però, se in loco alcuno son uomini che meritino esser
chiamati buon Cortegiani, e che sappiano giudicar quello che
alla perfezion della Cortegianìa s’appartiene, ragionevolmente
s’ha da creder che qui siano. Per reprimere adunque molti
sciocchi, i quali per esser prosuntuosi ed inetti si credono
acquistar nome di buon Cortegiano, vorrei che ’l gioco di questa
sera fosse tale, che si eleggesse uno della compagnia, ed
a questo si desse carico di formar con parole un perfetto Cortegiano,
esplicando tutte le condizioni e particolar qualità
che si richieggono a chi merita questo nome; ed in quelle
cose che non pareranno convenienti sia licito a ciascun contradire,
come nelle scole de’ filosofi a chi tien conclusioni. Seguitava
ancor più oltre il suo ragionamento messer Federico,
quando la signora Emilia, interrompendolo, Questo,
disse, se alla signora Duchessa piace, sarà il gioco nostro
per ora.— Rispose la signora Duchessa: Piacemi. — Allor quasi
tutti i circonstanti, e verso la signora Duchessa e tra sè, cominciarono
a dir che questo era il più bel gioco che far si
potesse; e senza aspettar l’uno la risposta dell’altro, facevano
instanza alla signora Emilia che ordinasse chi gli avesse a
dar principio. La qual, voltatasi alla signora Duchessa, Comandate,
disse, Signora, a chi più vi piace che abbia questa
impresa; ch’io non voglio, con eleggerne uno più che
l’altro, mostrar di giudicare, qual in questo io estimi più sufficiente
degli altri, ed in tal modo far ingiuria a chi si sia. Rispose
la signora Duchessa: Fate pur voi questa elezione;
e guardatevi col disobedire di non dar esempio agli altri, che
siano essi ancor poco obedienti.
XII. Allor la signora Emiia, ridendo, disse al conte
Ludovico da Canossa: Adunque, per non perder più tempo,
voi, Conte, sarete quello che averà questa impresa nel modo
che ha detto messer Federico; non già perchè ci paja che voi
siate così buon Cortegiano, che sappiate quel che si gli convenga,
ma perchè, dicendo ogni cosa al contrario, come speramo
che farete, il gioco sarà più bello, chè ognun averà che
rispondervi; onde se un altro che sapesse più di voi avesse
questo carico, non se gli potrebbe contradir cosa alcuna,
chè diria la verità, e così il gioco saria freddo. — Subito rispose
il Conte: Signora, non ci saria pericolo che mancasse
contradizione a chi dicesse la verità, stando voi qui presente;
— ed essendosi di questa risposta alquanto riso, seguitò:
Ma io veramente molto volentier fuggirei questa fatica, parendomi
troppo difficile, e conoscendo in me, ciò che voi
avete per burla detto, esser verissimo; cioè ch’io non sappia
quello che a buon Cortegian si conviene: e questo con
altro testimonio non cerco di provare, perchè non facendo
l’opere, si può estimar ch’io nol sappia; ed io credo che sia
minor biasimo mio, perchè senza dubio peggio è non voler far
bene, che non saperlo fare. Pur essendo così che a voi piaccia
ch’io abbia questo carico, non posso nè voglio rifiutarlo,
per non contravenir all’ordine e giudicio vostro, il quale
estimo più assai che ’l mio. — Allor messer Cesare Gonzaga,
Perchè già, disse, è passata buon’ora di notte, e qui son
apparecchiate molte altre sorti di piaceri, forse buon sarà
differir questo ragionamento a domani, e darassi tempo al
Conte di pensar ciò ch’egli s’abbia a dire; chè in vero di tal
subietto parlare improviso è difficil cosa. — Rispose il
Conte: Io non voglio far come colui, che spogliatosi in giuppone
saltò meno che non avea fatto col sajo; e perciò parmi
gran ventura che l’ora sia tarda, perchè per la brevità del
tempo sarò sforzato a parlar poco, e ’l non avervi pensato
mi escuserà, talmente che mi sarà licito dire senza
biasimo tutte le cose che prima mi verranno alla bocca.
Per non tener adunque più lungamente questo carico di
obligazione sopra le spalle, dico, che in ogni cosa tanto è difficil
conoscer la vera perfezion, che quasi è impossibile; e
questo per la varietà dei giudizii8. Però si ritrovano molti, ai
quali sarà grato un uomo che parli assai, e quello chiamaranno
piacevole; alcuni si dilettaranno più della modestia;
alcun’altri d’un uomo attivo ed inquieto; altri di chi in ogni
cosa mostri riposo e considerazione: e così ciascuno lauda e
vitupera secondo il parer suo, sempre coprendo il vizio col
nome della propinqua virtù, o la virtù col nome del propinquo
vizio; come chiamando un prosuntuoso, libero; un modesto,
arido; un nescio, buono; un scelerato, prudente; e
medesimamente nel resto. Pur io estimo, in ogni cosa esser
la sua perfezione, avvenga che nascosta; e questa potersi con
ragionevoli discorsi giudicar da chi di quella tal cosa ha notizia.
E perchè, com’ho detto, spesso la verità sta occulta,
ed io non mi vanto aver questa cognizione, non posso laudar
se non quella sorte di Cortegiani ch’io più apprezzo, ed approvar
quello che mi par più simile al vero, secondo il mio
poco giudicio: il qual seguitarete se vi parerà buono, ovvero
v’attenerete al vostro, se egli sarà dal mio diverso. Nè io già
contrasterò che ’l mio sia miglior che ’l vostro; chè non solamente
a voi può parer una cosa ed a me un’altra, ma a me
stesso poria parer or una cosa ed ora un’altra.
XIV. Voglio adunque che questo nostro Cortegiano sia nato nobile, e di generosa famiglia; perchè molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se desvia9 del cammino de’ suoi antecessori, macula il nome della famiglia, e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perchè la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa veder l’opere buone e le male, ed accende e sprona alla virtù così col timor d’infamia, come ancor con la speranza di laude: e non scoprendo questo splendor di nobilità l’opere degl’ignobili, essi mancano dello stimolo, e del timore di quella infamia, nè par loro d’esser obligati passar più avanti di quello che fatto abbiano i suoi antecessori; ed ai nobili par biasimo non giugner almeno al termine da’ suoi primi mostratogli. Però. intervien quasi sempre, che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli uomini più segnalati sono nobili, perchè la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da esso deriva, ed a sè lo fa simile10: come non solamente vedemo nelle razze de’ cavalli e d’altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s’assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricoltore. E così intervien degli uomini, i quali se di buona creanza sono coltivati, quasi sempre son simili a quelli d’onde procedono, e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, nè mai si maturano. Vero è che, o sia per favor delle stelle o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia, ed ornati di tutti i beni dell’animo e del corpo; sì come ancor molti si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si può credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio prodotti gli abbia al mondo. Questi sì come per assidua diligenza e buona creanza poco frutto per lo più delle volte posson fare, così quegli altri con poca fatica vengon in colmo di somma eccellenza. E per darvi un esempio: vedete il signor don Ippolito da Este cardinal di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole, e tutti i suoi movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accomodati, che tra i più antichi prelati, avvenga che sia giovane, rapresenta una tanto grave autorità, che più presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’imparare; medesimamente, nel conversare con uomini e con donne d’ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e così graziosi costumi, che forza è che ciascun, che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico, che tra questa eccellente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura così perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i difetti naturali. Il Cortegiano adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno, e bella forma di persona e di volto; ma una certa grazia, e, come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile, e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue, e prometta nella fronte, quel tale esser degno del commercio e grazia d’ogni gran signore.
XV. Quivi, non aspettando più oltre, disse il signor Gaspar Pallavicino: Acciò che il nostro gioco abbia la forma ordinata, e che non paja che noi estimiam poco l’autorità dataci del contradire, dico, che nel Cortegiano a me non par così necessaria questa nobilità; e s’io mi pensassi dir cosa che ad alcun di noi fosse nova, io addurrei molti, li quali, nati di nobilissimo sangue, son stati pieni di vizii; e per lo contrario molti ignobili, che hanno con la virtù illustrato la posterità loro. E se è vero quello che voi diceste dianzi, cioè che in ogni cosa sia quella occulta forza del primo seme: noi tutti saremmo in una medesima condizione, per aver avuto un medesimo principio, nè più un che l’altro sarebbe nobile. Ma delle diversità nostre e gradi d’altezza e di bassezza, credo io che siano molte altre cause: tra le quali estimo la fortuna esser precipua; perchè in tutte le cose mondane la veggiamo dominare, e quasi pigliarsi a gioco d’alzar spesso fin al cielo chi par a lei, senza merito alcuno, e sepelir nell’abisso i più degni d’esser esaltati. Confermo ben ciò che voi dite della felicità di quelli che nascon dotati dei beni dell’animo e del corpo: ma questo così si vede negl’ignobili come nei nobili, perchè la natura non ha queste così sottili distinzioni; anzi, come ho detto, spesso si veggono in persone bassissime altissimi doni di natura. Però non acquistandosi questa nobiltà nè per ingegno nè per forza nè per arte, ed essendo piuttosto laude dei nostri antecessori che nostra propria, a me par troppo strano voler che se i parenti del nostro Cortegiano son stati ignobili, tutte le sue buone qualità siano guaste, e che non bastino assai quell’altre condizioni che voi avete nominate, per ridurlo al colmo della perfezione: cioè ingegno, bellezza di volto, disposizion di persona, e quella grazia che al primo aspetto sempre lo faccia a ciascun gratissimo.
XVI. Allor il conte Ludovico, Non nego io, rispose, che ancora negli uomini bassi non possano regnar quelle medesime virtù che nei nobili: ma (per non replicar quello che già avemo detto, con molte altre ragioni che si poriano addurre in laude della nobiltà, la qual sempre ed appresso ognuno è onorata, perchè ragionevole cosa è che de’ buoni nascano i buoni) avendo noi a formare un Cortegiano senza difetto alcuno, e cumulato d’ogni laude, mi par necessario farlo nobile, sì per molte altre cause, come ancor per la opinione universale, la qual subito accompagna la nobilità. Che se saranno dui uomini di palazzo, i quali non abbiano per prima dato impression alcuna di sè stessi con l’opere o buone o male: subito ché s’intenda l’un esser nato gentiluomo e l’altro no, appresso ciascuno lo ignobile sarà molto meno estimato che ’l nobile, e bisognerà che con molte fatiche e con tempo nella mente degli uomini imprima la buona opinion di sè, che l’altro in un momento, e solamente con l’esser gentiluomo, averà acquistata. E di quanta importanza siano queste impressioni, ognun può facilmente comprendere: chè, parlando di noi, abbiam veduto capitare in questa casa uomini, i quali essendo sciocchi e goffissimi, per tutta Italia hanno però avuto fama di grandissimi Cortegiani; e benchè in ultimo siano stati scoperti e conosciuti, pur per molti di ci hanno ingannato, e mantenuto negli animi nostri quella opinion di sè che prima in essi hanno trovato impressa, benchè abbiano operato secondo il lor poco valore Avemo veduti altri al principio in pochissima estimazione, poi esser all’ultimo riusciti benissimo. E di questi errori sono diverse cause: e tra l’altre, la ostinazion dei signori, i quali, per voler far miracoli, talor si mettono a dar favore a chi par loro che meriti disfavore. E spesso ancor essi s’ingannano; ma perchè sempre hanno infiniti imitatori, dal favor loro deriva grandissima fama, la qual per lo più i giudicii11 vanno seguendo: e se ritrovano qualche cosa che paja contraria alla commune opinione, dubitano d’ingannar sè medesimi, e sempre aspettano qualche cosa di nascosto: perchè pare che queste opinioni universali debbano pur esser fondate sopra il vero, e nascere da ragionevoli cause; e perchè gli animi nostri sono prontissimi allo amore ed all’odio, come si vede nei spettacoli de’ combattimenti e de’ giochi e d’ogni altra sorte contenzione, dove i spettatori spesso si affezionano senza manifesta cagione ad una delle parti, con desiderio estremo che quella resti vincente e l’altra perda. Circa la opinione ancor delle qualità degli uomini, la buona fama o la mala nel primo entrare move l’animo nostro ad una di queste due passioni. Però interviene che per lo più noi giudichiamo con amore, ovvero con odio. Vedete adunque di quanta importanza sia questa prima impressione, e come debba sforzarsi d’acquistarla buona nei principii, chi pensa aver grado e nome di buon Cortegiano.
XVII. Ma per venire a qualche particolarità, estimo che la principale e vera profession del Cortegiano debba esser quella dell’arme; la qual sopra tutto voglio che egli faccia vivamente, e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fedele a chi serve. El nome di queste buone condizioni si acquisterà facendone l’opere in ogni tempo e loco; imperocchè non è licito in questo mancar mai senza biasimo estremo: e come nelle donne la onestà una volta macchiata mai più non ritorna al primo stato, così la fama d’un gentiluomo che porti l’arme, se una volta in un minimo punto si denigra per codardia o altro, rimprocchio, sempre resta vituperosa al mondo e piena d’ignominia. Quanto più adunque sarà eccellente il nostro Cortegiano in questa arte, tanto più sarà degno di laude; bench’io non estimi esser in lui necessaria quella perfetta cognizion di cose, e l’altre qualità, che ad un capitano si convengono; che per esser questo troppo gran mare, ne contentaremo, come avemo detto, della integrità di fede e dell’animo invitto, e che sempre si vegga esser tale: perchè molte volte più nelle cose piccole che nelle grandi si conoscono i coraggiosi; e spesso ne’ pericoli d’importanza, e dove son molti testimonii, si ritrovano alcuni i quali, benchè abbiano il core morto nel corpo, pur, spinti dalla vergogna o dalla compagnia, quasi ad occhi chiusi vanno inanzi, e fanno il debito loro, e Dio sa come; e nelle cose che poco premono, e dove par che possano senza esser notati restar di mettersi a pericolo, volentier si lasciano acconciare al sicuro. Ma quelli che ancor quando pensano non dover esser d’alcuno nè mirati nè veduti nè conosciuti, mostrano ardire, e non lascian passar cosa, per minima che ella sia, che possa loro esser carico, hanno quella virtù d’animo che noi ricerchiamo nel nostro Cortegiano. Il quale non volemo però che si mostri tanto fiero, che sempre stia in su le brave parole, e dica aver tolto la corazza per moglie, e minacci con quelle fiere guardature che spesso avemo vedute fare a Berto: chè a questi tali meritamente si può dir quello, che una valorosa donna in una nobile compagnia piacevolmente disse ad uno, ch’io per ora nominar non voglio; il quale essendo da lei, per onorarlo, invitato a danzare, e rifiutando esso e questo, e lo udir musica, e molti altri intertenimenti offertigli, sempre con dir, così fatte novelluzze non esser suo mestiero; in, ultimo dicendo la donna; Qual è adunque il mestier vostro? — rispose con un mal viso, Il combattere; — allora la donna! subito, Crederei, disse, che or che non siete alla guerra né in termine di combattere, fosse buona cosa che vi faceste molto ben untare, ed insieme con tutti i vostri arnesi di battaglia riporre in un armario, finchè bisognasse, per non rugginire più di quello che siate; — e così, con molte risa de’ circonstanti, scornato lasciollo nella sua sciocca prosunzione. Sia adunque quello che noi cerchiamo, dove si veggon gl’inimici, fierissimo, acerbo, e sempre tra i primi; in ogni altro loco, umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la ostentazione, e lo impudente laudar sè stesso, per lo quale l’uomo sempre si cóncita odio e stomaco da chi ode.
XVIII. Ed io, rispose allora il signor Gaspar, ho conosciuti pochi uomini eccellenti in qualsivoglia cosa, che non laudino sè stessi: e parmi che molto ben comportar lor si possa; perchè chi si sente valere, quando si vede non esser per l’opere dagli ignoranti conosciuto, si sdegna che ’l valor suo stia sepolto, e forza è che a qualche modo lo scopra, per non esser defraudato dell’onore, che è il vero premio delle virtuose fatiche. Però, tra gli antichi scrittori, chi molto vale, rare volte si astien da laudar sè stesso. Quelli ben sono intolerabili, che essendo di niun merito, si laudano; ma tal non presumiam noi che sia il nostro Cortegiano. — Allor il Conte, Se voi, disse, avete inteso, io ho biasimato il laudare sè stesso impudentemente e senza rispetto: e certo, come voi dite, non si dee pigliar mala opinion d’un uomo valoroso, che modestamente si laudi; anzi tòr quello per testimonio più certo, che se venisse di bocca altrui. Dico ben che chi, laudando sè stesso, non incorre in errore, nè a sè genera fastidio o invidia da chi ode, quello è discretissimo, ed, oltre alle laudi che esso si dà, ne merita ancor dagli altri; perchè è cosa difficil assai. — Allora il signor Gaspar, Questo, disse, ci avete da insegnar voi.— Rispose il Conte: Fra gli antichi scrittori non è ancor mancato chi l’abbia insegnato; ma, al parer mio, il tutto consiste in dir le cose di modo, che paja non che si dicano a quel fine, ma che caggiano talmente a proposito, che non si possa restar di dirle, e sempre mostrando fuggir le proprie laudi, dirle pure; ma non di quella maniera che fanno questi bravi, che aprono la bocca, e lascian venir le parole alla ventura. Come pochi dì fa disse un de’ nostri, che essendogli a Pisa stato passato una coscia con una picca da una banda all’altra, pensò che fosse una mosca che l’avesse punto; ed un altro disse, che non teneva specchio in camera, perchè quando si crucciava diveniva tanto terribile nell’aspetto, che veggendosi aria fatto troppo gran paura a sè stesso. — Rise qui ognuno; ma messer Cesare Gonzaga soggiunse: Di che ridete voi? Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d’un filosofo era che fossino infiniti mondi, cominciò a piangere, ed essendogli domandato, perchè piangeva, rispose, Perch’io non ne ho ancor preso un solo; — come se avesse avuto animo di pigliarli tutti? Non vi par che questa fosse maggior braveria, che il dir della puntura della mosca? — Disse allor il Conte: Anco Alessandro era maggior uomo, che non era colui che disse quella, Ma agli uomini eccellenti in vero si ha da perdonare quando presumono assai di sè; perchè chi ha da far gran cose, bisogna che abbia ardir di farle e confidenza di sè stesso, e non sia d’animo abietto o vile, ma sì ben modesto in parole, mostrando di presumer meno di sè stesso che non fa, pur che quella presunzione non passi alla temerità.—
XIX. Quivi facendo un poco di pausa il Conte, disse ridendo messer Bernardo Bibiena: Ricordomi che dianzi dicesti, che questo nostro Cortegiano aveva da esser dotato da natura di bella forma di volto e di persona, con quella grazia che lo facesse così amabile. La grazia e ’l volto bellissimo penso per certo che in me sia, e perciò interviene che tante donne quante sapete ardeno dell’amor mio; ma della forma del corpo sto io alquanto dubioso, e massimamente per queste mie gambe, che in vero non mi pajono così atte com’io vorrei: del busto, e del resto contentomi pur assai bene. Dichiarate adunque un poco più minutamente questa forma del corpo, quale abbia ella da essere, acciò che io possa levarmi di questo dubio, e star con l’animo riposato. — Essendosi di questo riso alquanto, soggiunse il Conte: Certo, quella grazia del volto, senza mentire, dir si può esser in voi, nè altro esempio adduco che questo, per dichiarire che cosa ella sia; chè senza dubio veggiamo, il vostro aspetto esser gratissimo e piacere ad ognuno, avvenga che i lineamenti d’esso non siano molto delicati; ma tien del virile, e pur è grazioso: e trovasi questa qualità in molte e diverse forme di volti. E di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro Cortegiano, non così molle e feminile come si sforzano d’aver molti, che non solamente si crespano i capegli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tutti que’ modi che si faccian le più lascive e disoneste femine del mondo; e pare che nello andare, nello stare, ed in ogni altro lor atto siano tanto teneri e languidi, che le membra siano per staccarsi loro l’uno dall’altro; e pronunziano quelle parole così afflitte, che in quel punto par che lo spirito loro finisca: e quanto più si trovano con uomini di grado, tanto più usano tai termini. Questi, poi che la natura, come essi mostrano desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono non come buone femine esser estimati, ma, come publiche meretrici, non solamente delle corti de’ gran signori, ma del consorzio degli uomini nobili esser cacciati.
XX. Vegnendo adunque alla qualità della persona, dico bastar ch’ella non sia estrema in piccolezza nè in grandezza; perchè e l’una e l’altra di queste condizioni porta seco una certa dispettosa maraviglia, e sono gli uomini di tal sorte mirati quasi di quel modo che si mirano le cose mostruose: benchè, avendo da peccare nell’una delle due estremità, men male è l’esser un poco diminuto, che ecceder la ragionevol misura in grandezza; perchè gli uomini così vasti di corpo, oltra che molte volte di ottuso ingegno si trovano, sono ancor inabili ad ogni esercizio di agilità: la qual cosa io desidero assai nel Cortegiano. E perciò voglio che egli sia di buona disposizione e de’ membri ben formato, e mostri forza e leggerezza e discioltura, e sappia di tutti gli esercizii di persona che ad uom di guerra s’appartengono: e di questo penso, il primo dover essere maneggiar ben ogni sorte d’arme a piedi ed a cavallo, e conoscere i vantaggi che in esse sono, e massimamente aver notizia di quell’arme che s’usano ordinariamente tra’ gentiluomini12; perchè, oltre all’operarle alla guerra, dove forse non sono necessarie tante sottilità, intervengono spesso differenze tra un gentiluomo e l’altro, onde poi nasce il combattere, e molte volte con quell’arme che in quel punto si trovano a canto: però il saperne è cosa securissima. Nè son io già di quei che dicono, che allora l’arte sì scorda nel bisogno; perchè certamente chi perde l’arte in quel tempo, dà segno che prima ha perduto il core e ’l cervello di paura.
XXI. Estimo ancora, che sia di momento assai il saper lottare, perchè questo accompagna molto tutte l’arme da piedi. Appresso, bisogna che e per sè e per gli amici intenda le querele e differenze che possono occorrere, e sia avvertito nei vantaggi, in tutto mostrando sempre ed animo e prudenza; nè sia facile a questi combattimenti, se non quanto per l’onor fosse sforzato: chè, oltre al gran pericolo che la dubiosa sorte seco porta, chi in tali cose precipitosamente e senza urgente causa incorre, merita grandissimo biasimo, avvenga che ben gli succeda. Ma quando si trova l’uomo esser entrato tanto avanti, che senza carico non si possa ritrarre, dee e nelle cose che occorrono prima del combattete, e nel combattere, esser deliberatissimo, e mostrar sempre prontezza e core; e non far com’alcuni, che passano la cosa in dispute e punti, ed avendo la elezion dell’arme pigliano arme che non tagliano nè pungono, e si armano come s’avessero ad aspettar le cannonate; e parendo lor bastare il non esser vinti, stanno sempre in sul difendersi e ritirarsi, tanto che mostrano estrema viltà; onde fannosi far la baja da’ fanciulli: come que’ dui Anconitani, che poco fa combatterono a Perugia, e fecero ridere chi gli vide. — E quali furon questi? — disse il signor Gaspar Pallavicino. Rispose messer Cesare: Dui fratelli consobrini. — Disse allora il Conte: Al combattere parvero fratelli carnali; — poi soggiunse: Adopransi ancor l’arme spesso in tempo di pace in diversi esercizii, e veggonsi i gentiluomini nei spettacoli publici alla presenza de’ popoli, di donne e di gran signori. Però voglio che ’l nostro Cortegiano sia perfetto cavalier d’ogni sella; ed oltre allo aver cognizion di cavalli e di ciò che al cavalcare s’appartiene, ponga ogni studio e diligenza di passar in ogni cosa un poco più avanti che gli altri, di modo che sempre tra tutti sia per eccellente conosciuto. E come si legge d’Alcibiade, che superò tutte le nazioni appresso alle quali egli visse, e ciascuna in quello che più era suo proprio? così questo nostro avanzi gli altri, e ciascuno in quello di che più fa professione. E perchè degli Italiani è peculiar laude il cavalcar bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi, il correr lance e ’l giostrare, sia in questo dei migliori Italiani: nel torneare, tener un passo, combattere una sbarra, sia buono tra i miglior Franzesi: nel giocare a canne, correr tori, lanciar aste e dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto, accompagni ogni suo movimento con un certo buon giudicio e grazia, se vuole meritar quell’universal favore che tanto s’apprezza.
XXII. Sono ancor molti altri esercizii, i quali benchè non dipendano drittamente dalle arme, pur con esse hanno molta convenienza, e tengono assai d’una strenuità virile; e tra questi parmi la caccia esser de’ principali, perchè ha una certa similitudine di guerra: ed è veramente piacer da gran signori, e conveniente ad uom di corte, e comprendesi che ancora tra gli antichi era in molta consuetudine. Conveniente è ancor saper nuotare, saltare, correre, gittar pietre, perchè, oltre alla utilità che di questo si può avere alla guerra, molte volte occorre far prova di sè in tai cose; onde s’acquista buona estimazione, massimamente nella moltitudine, con la quale bisogna purche l’uom s’accommodi. Ancor nobile esercizio e convenientissimo ad uom di corte è il gioco di palla, nel quale molto si vede la disposizion del corpo, e la prestezza e discioltura d’ogni membro, e tutto quello che quasi in ogni altro esercizio si vede. Nè di minor laude estimo il volteggiar a cavallo; il quale benché sia faticoso e difficile, fa l’uomo leggerissimo e destro più che alcun’altra cosa; ed, oltre alla utilità, se quella leggerezza è compagnata13 di buona grazia, fa, al parer mio, più bel spettacolo che alcun degli altri. Essendo adunque il nostro Cortegiano in questi esercizii più che mediocremente esperto, penso che debba lasciar gli altri da canto; come volteggiar in terra, andar in su la corda; e tai cose, che quasi hanno del giocolare, e poco sono a gentiluomo convenienti. Ma, perchè sempre non si può versar tra queste così faticose operazioni, oltra che ancor la assiduità sazia molto e leva quella ammirazione che si piglia delle cose rare, bisogna sempre variar con diverse azioni la vita nostra. Però voglio che ’l Cortegiano discenda qualche volta a più riposati e placidi esercizii, e per schivar la invidia e per intertenersi piacevolmente con ognuno, faccia tutto quello che gli altri fanno, non s’allontanando però mai dai laudevoli atti, e governandosi con quel buon giudicio che non lo lasci incorrere in alcuna sciocchezza; ma rida, scherzi, molteggi, balli e danzi, nientedimeno con tal maniera, che sempre mostri esser ingenioso e discreto, ed in ogni cosa che faccia o dica sia aggraziato.
XXIII. Certo, disse allor messer Cesare Gonzaga, non si dovria già impedir il corso di questo ragionamento; ma se io tacessi, non satisfarei alla libertà ch’io ho di parlare, nè al desiderio di saper una cosa: e siami perdonato s'io, avendo a contradire, dimanderò; perchè questo credo che mi sia licito, per esempio del nostro messer Bernardo, il qual, per troppo voglia d’esser tenuto bell’uomo, ha contrafatto alle leggi del nostro gioco, domandando, e non contradicendo. — Vedete, disse allora la signora Duchessa, come da un error solo molti ne procedono. Però chi falla, e dà mal esempio, come messer Bernardo, non solamente merita esser punito del suo fallo, ma ancor dell’altrui. — Rispose allora messer Cesare: Dunque io, Signora, sarò esente di pena, avendo messer Bernardo ad esser punito del suo e del mio errore. — Anzi, disse la signora Duchessa, tutti dui devete aver doppio castigo: esso del suo fallo, e dello aver indutto voi a fallire; voi del vostro fallo, e dello aver imitato chi falliva. — Signora, rispose messer Cesare, io fin qui non ho fallito; però, per lasciar tutta questa punizione a messer Bernardo solo, tacerommi.— E già si taceva; quando la signora Emilia ridendo, Dite ciò che vi piace, rispose, chè, con licenza però della signora Duchessa, io perdono a chi ha fallito e a chi fallirà in così piccol fallo. — Soggiunse la signora Duchessa: Io son contenta: ma abbiate cura che non v’inganniate, pensando forse meritar più con l’esser clemente che con l’esser giusta; perchè, perdonando troppo a chi falla, si fa ingiuria a chi non falla. Pur non voglio che la mia austerità; per ora, accusando la indulgenza vostra, sia causa che noi perdiamo d’udir questa domanda di messer Cesare. — Così esso, essendogli fatto segno dalla signora Duchessa e dalla signora Emilia, subito disse:
XXIV. Se ben tengo a memoria, parmi, signor Conte, che voi questa sera più volte abbiate replicato, che ’l Cortegiano ha da compagnar l’operazion sue, i gesti, gli abiti, in somma ogni suo movimento con la grazia; e questo mi par che mettiate per un condimento d’ogni cosa, senza il quale tutte l’altre proprietà e buone condizioni siano di poco valore. E veramente credo io, che ognun facilmente in ciò si lasciarebbe persuadere, perchè, per la forza del vocabolo, sì può dir chè chi ha grazia, quello è grato. Ma perchè voi diceste, questo spesse volte esser don della natura e de’ cieli, ed ancor quando non è così perfetto potersi con studio e fatica far molto maggiore: quegli che nascono così avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro come alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d’altro maestro; perchè quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida14 più alto che essi non desiderano, e fagli non solamente grati ma ammirabili a tutto il mondo. Però di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l’acquistarlo. Ma quegli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a poter essere aggraziati aggiugnendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual’arte, con qual disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia, così negli esercizii del corpo, nei quali voi estimate che sia tanto necessaria, come ancor in ogni altra cosa che si faccia o dica. Però, secondo che col laudarci molto questa qualità a tutti avete, credo, generato una ardente sete di conseguirla, per lo carico dalla signora Emilia impóstovi siete ancor, con lo insegnarci, obligato ad estinguerla.
XXV. Obligato non son io, disse il Conte, ad insegnarvi a diventar aggraziati, nè altro; ma solamente a dimostrarvi: qual abbia ad essere un perfetto Cortegiano. Nè io già pigliarei impresa di insegnarvi questa perfezione; massimamente avendo poco fa detto che ’l Cortegiano abbia da saper lottare e volteggiare, e fant’altre cose, le quali come io sapessi insegnarvi, non le avendo mai imparate, so che tutti lo conoscete. Basta che sì come un buon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad esser l’arme, nè però gli sa insegnar a farle, nè come le martelli o tempri; così io forse vi saprò dir qual abbia ad esser un perfetto Cortegiano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenirne. Pur per satisfare ancor quanto è in poter mio alla domanda vostra, benchè e’ sia quasi in proverbio, che la grazia non s’impari: dico, che chi ha da esser aggraziato negli esercizii corporali, presupponendo prima che da natura non sia inabile, dee cominciar per tempo, ed imparar i principii da ottimi maestri; la qual cosa quanto paresse a Filippo re di Macedonia importante, si può comprendere, avendo voluto che Aristotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior che sia stato al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi elementi delle lettere ad Alessandro suo figliolo. E degli uomini che noi oggidì conoscemo, considerate come bene ed aggraziatamente fa il signor Galeazzo Sanseverino gran scudiero di Francia tutti gli esercizii del corpo; e questo perchè, oltre alla natural disposizione ch’egli tiene della persona, ha posto ogni studio d’imparare da buon maestri, ed aver sempre presso di sè uomini eccellenti, e da ognun pigliar il meglio di ciò che sapevano: chè siccome del lottare, volteggiare, e maneggiar molte sorti d’armi, ha tenuto per guida il nostro messer Pietro Monte, il qual, come sapete, è il vero e solo maestro d’ogni artificiosa forza e leggerezza, così del cavalcare, giostrare, e qualsivoglia altra cosa, ha sempre avuto inanzi agli occhi i più perfetti che in quelle professioni siano stati conosciuti.
XXVI. Chi adunque vorrà esser buon discepolo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenza per assimigliarsi al maestro, e se possibil fosse, trasformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto der diversi uomini di tal professione, e, governandosi con quel buon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, così il nostro Cortegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino, e da ciascun quella parte che più sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d’Aragona, nè in altro avea posto cura d’imitarlo, che nel spesso alzar il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto così da infirmità. E di questi, molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili ad un grand’uomo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viziosa. Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra: e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice venir fatto senza falica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario, il sforzare, e, come sì dice, tirar per i capegli, dà somma disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si può dir quella esser vera arte, che non appare esser arte; nè più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perchè se è scoperta, leva in tutto il credito, e fa l’uomo poco estimato. E ricórdomi io già aver letto, esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali, tra l’altre loro industrie, sforzavansi di far credere ad ognuno, sè non aver notizia alcuna di lettere; e, dissimulando il sapere, mostravan le loro orazioni esser fatte semplicissimamente, e piuttosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che lo studio e l’arte: la qual se fosse stata conasciuta, aria dato dubio negli animi del popolo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l’arte, ed un così intento studio, levî la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida, quando il nostro messer Pierpaolo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è così cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti uomini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata disinvoltura (chè nei movimenti del corpo molti così la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper nè poter errare?
XXVII. Quivi non aspettando, messer Bernardo Bibiena disse: Eccovi che messer Roberto nostro ha pur trovato chi lauderà la foggia del suo danzare, poichè tutti voi altri pare che non ne facciate caso; chè se questa eccellenza consiste nella sprezzatura, e mostrar di non estimare, e pensar più ad ogni altra cosa che a quello che si fa, messer Roberto nel danzare non ha pari al mondo; chè per mostrar ben di non pensarvi, si lascia cader la roba spesso dalle spalle e le pantoffole de’ piedi, e senza raccórre nè l’uno nè l’altro, tuttavia danza. — Rispose allor il Conte: Poichè voi volete pur ch’io dica, dirò ancor de’ vizii nostri. Non v’accorgete che questo, che voi in messer Roberto chiamate sprezzatura, è vera affettazione? perchè chiaramente si conosce che esso si sforza con ogni studio mostrar di non pensarvi: e questo è il pensarvi troppo; e perchè passa certi termini di mediocrità, quella sprezzatura è affettata e sta male; ed è una cosa che appunto riesce al contrario del suo presupposito, cioè di nasconder l’arte. Però non estimo io che minor vizio della affettazion sia nella sprezzatura, la quale in sè è laudevole, lasciarsi cadere i panni da dosso, che nella attillatura, che pur medesimamente da sè è laudevole, il portar il capo così fermo per paura di non guastarsi la zazzera, o tener nel fondo della berretta il specchio, e ’l pettine nella manica, ed aver sempre drieto il paggio per le strade con la sponga e la scopetta: perchè questa così fatta attilatura e sprezzatura tendono troppo allo estremo; il che sempre è vizioso, e contrario a quella pura ed amabile simplicità, che tanto è grata agli animi umani. Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d’andare così stirato in su la sella, e, come noi sogliam dire, alla veneziana, a comparazion d’un altro, che paja che non vi pensi, e stia a cavallo così disciolto e sicuro come se fosse a piedi. Quanto piace più e quanto più è laudato un gentiluom che porti arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il qual sempre stia in sul laudar sè stesso, e biastemando con braveria mostri minacciar al mondo! e niente altro è questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il medesimo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa.
XXVIII. Allora il signor Magnifico, Questo ancor, disse, si verifica nella musica, nella quale è vizio grandissimo, far due consonanze perfette l’una dopo l’altra; tal che il medesimo sentimento dell’audito nostro l’aborrisce, e spesso ama una seconda o settima, che in sè è dissonanza aspera ed intolerabile: e ciò procede, che quel continuare nelle perfette genera sazietà, e dimostra una troppo affettata armonia; il che, mescolando le imperfette, si fugge, col far quasi un paragone, donde più le orecchie nostro stanno sospese, e più avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi talor di quella dissonanza della seconda o settima, come di cosa sprezzata. — Eccovi adunque, rispose il Conte, che in questo nòce l’affettazione, come nell’altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio appresso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi, troppo diligenza esser nociva, ed esser stato biasimato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola. — Disse allor messer Cesare: Questo medesimo difetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande. — Rise il Conte, e soggiunse: Voleva dire Apelle, che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che non era altro, che riprenderlo d’essere affettato nelle opere sue. Questa virtù adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana per minima che ella sia, non solamente subito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in effetto; perchè negli animi delli circonstanti imprime opinione, che chi così facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa; e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E, per replicare i medesimi esempii, eccovì che un uom che maneggi l’arme, se per lanciar un dardo, ovver tenendo la spada in mano o altr’arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paja che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio. Medesimamente nel danzare, un passo solo, un sol movimento della persona grazioso e non sforzato, subito manifesta il sapere di chi danza. Un musico, se nel cantar pronuncia una sola voce terminata con soave accento in un groppetto duplicato con tal facilità che paja che così gli venga fatto a caso, con quel punto solo fa conoscere che sa molto più di quello che fa. Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di pennello tirato facilmente, di modo che paja che la mano, senza esser guidata da studio o d’arte alcuna, vada per sè stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenza dell’artefice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio: e ’l medesimo interviene quasi d’ogni altra cosa. Sarà adunque il nostro Cortegiano estimato eccellente, ed in ogni cosa averà grazia, e massimamente nel parlare, se fuggirà l’affettazione: nel qual errore incorrono molti, e talor più che gli altri, alcuni nostri Lombardi; i quali se sono stati un anno fuor di casa, ritornati, subito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai: ed in tal modo l’uomo mette studio e diligenza in acquistar un vizio odiosissimo. E certo, a me sarebbe non piccola fatica, se in questi nostri ragionamenti io volessi usar quelle parole antiche o toscane, che già sono dalla consuetudine dei Toscani d’oggidì rifiutate; e con tutto questo credo che ognun di me rideria.
XXIX. Allor messer Federico, Veramente, disse, ragionando tra noi come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane15; perchè, come voi dite, dariano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse, e non senza difficoltà sarebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole, perchè danno molta grazia ed autorità alle scritture, e da esse risulta una lingua più grave e piena di maestà che dalle moderne. Non so, rispose il Conte, che grazia o autorità possan dar alle scritture quelle parole che si deono fuggire, non solamente nel modo del parlare, come or noi facciamo (il che voi stesso confessate), ma ancor in ogni altro che imaginar si possa. Chè se a qualsivoglia uomo di buon giudicio occorresse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che è il capo di Toscana, ovver parlar privatamente con persona di grado in quella città di negozii importanti, o ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d’amore, o burlando o scherzando in feste, giochi, o dove si sia, o in qualsivoglia tempo, loco o proposito, son certo che si guardarebbe d’usar quelle parole antiche toscane; ed usandole, oltre al far far beffe di sè, darebbe non poco fastidio a ciascun che lo ascoltasse. Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per buone quelle parole, che si fuggono per viziose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel parlare, sia il più conveniente modo che usar si possa nello scrivere. Chè pur, secondo me, la scrittura non è altro che una forma di parlare, che resta ancor poi che l’uomo ha parlato, e quasi una imagine o più presto vita delle parole: e però nel parlare, il qual, subito uscita che è la voce, si disperde, son forse tolerabili alcune cose che non sono nello scrivere; perchè la scrittura conserva le parole, e le sottopone al giudicio di chi legge, e dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è ragionevole che in questa si metta maggior diligenza, per farla più colta e castigata; non però di modo, che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle più belle che s’usano nel parlare. E se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo: che è, che più licenza usar si poria in quella cosa nella qual si dee usar più studio; e la industria che si mette nello scrivere, in loco di giovar, nocerebbe. Però certo è, che quello che si conviene nello scrivere, si convien ancor nel parlare; e quel parlar è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora, che molto più sia necessario l’esser inteso nello scrivere, che nel parlare; perchè quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che parlano. Però io laudarei che l’uomo, oltre al fuggir molte parole antiche toscane, s’assicurasse ancor d’usare, e scrivendo e parlando, quelle che oggidì sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia. E parmi che chi s’impone altra legge, non sia ben sicuro di non incorrere in quella affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo.
XXX. Allora messer Federico, Signor Conte, disse, io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di parlare. Dico ben, che se le parole che si dicono hanno in sè qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell’animo di chi ode, e passando senza essere inteso, diventa vano: il che non interviene nello scrivere; chè se le parole che usa il scrittore portan seco un poco non dirò di difficoltà, ma d’acutezza recondita, e non così nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, dànno una certa maggior autorità alla scrittura, e fanno che ’l lettore va più ritenuto e sopra di sè, e meglio considera, e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col buon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s’ha nel conseguir le cose difficili. E se la ignoranza di chi legge è tanta, che non possa superar quelle difficoltà, non è la colpa dello scrittore, è per questo si dee stimar che quella lingua non sia bella. Però, nello scrivere credo io che si convenga usar le parole toscane, e solamente le usate dagli antichi Toscani; perchè quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian buone, e significative di quello perchè si dicono; ed oltra questo, hanno quella grazia e venerazion che l’antiquità presta non solamente alle parole, ma agli edificii, alle statue, alle pitture, e ad ogni cosa che è bastante a conservarla; e spesso solamente con quel splendore e dignità, fanno la elocuzion bella, dalla virtù della quale ed eleganza ogni subietto, per basso che egli sia, può esser tanto adornato, che merita somma laude. Ma questa vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a’ me par molto pericolosa, e spesso può esser mala; e se qualche vizio di parlar si ritrova esser invalso in molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regola, ed esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le consuetudini sono molto varie, nè è città nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte l’altre. Però non vi ristringendo voi a dichiarir qual sia la migliore, potrebbe l’uomo attaccarsi alla bergamasca così come alla fiorentina, e secondo voi non sarebbe error alcuno. Parmi adunque, che a chi vuol fuggir ogni dubio ed esser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento di tutti sia estimato buono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi volesse riprendere: e questo (nel volgar dico) non penso che abbia da esser altro che il Petrarca e ’l Boccaccio; e chi da questi dui si discosta, va tentoni, come chi cammina per le tenebre senza lume, e però spesso erra la strada. Ma noi altri siamo tanto arditi, che non degnamo di far quello che hanno fatto i buoni antichi; cioè attendere alla imitazione, senza la quale estimo io che non si possa scriver bene. E gran testimonio di questo parmi che ci dimostri Virgilio; il quale, benchè con gel ingegno e giudicio tanto divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar lui, volse però imitar Omero.
XXXI. Allor il signor Gaspar Pallavicino, Questa disputazion, disse, dello scrivere, in vero è ben degna d’esser udita: nientedimeno, più farebbe al proposito nostro se voi c’insegnaste di che modo debba parlar il Cortegiano, perchè parmi che n’abbia maggior bisogno, e più spesso gli occorra il servirsi del parlare che dello scrivere. — Rispose il Magnifico: Anzi a Cortegiano tanto eccellente e così perfetto, non è dubio che l’uno e l’altro è necessario a sapere, e che senza queste due condizioni forse tutte l’altre sariano non molto degne di laude: però, se il Conte vorrà satisfare al debito suo, insegnerà al Cortegiano non solamente il parlare, ma ancor il scriver bene. — Allor il Conte, Signor Magnifico, disse, questa impresa non accettarò io già: chè gran sciocchezza saria la mia voler insegnare ad altri quello che io non so; e, quando ancor lo sapessi, pensar di poter fare in così poche parole quello, che con tanto studio e fatica hanno fatto appena uomini dottissimi; ai scritti de’ quali rimetterei il nostro Cortegiano, se pur fossi obligato d’insegnargli a scrivere e parlare. — Disse messer Cesare: Il signor Magnifico intende del parlare e scriver volgare, e non latino; però quelle scritture degli uomini dotti non sono al proposito nostro: ma bisogna che voi diciate circa questo ciò che ne sapete, chè del resto v’averemo per escusato. Io già l’ho detto, rispose il Conte; ma, parlandosi della lingua toscana, forse più saria debito del signor Magnifico che d’alcun altro il darne la sentenza. — Disse il Magnifico: To non posso nè debbo ragionevolmente contradir a chi dice che la lingua toscana sia più bella dell’altre. È ben vero che molte parole si ritrovano nel Petrarca e nel Boccaccio, che or son interlasciate dalla consuetudine d’oggidì; e queste io, per me, non usarei mai, nè parlando nè scrivendo; e credo che essi ancor, se insin a qui vivuti fossero, non le usarebbon più. — Disse allor messer Federico: Anzi le usarebbono; e voi altri signori Toscani dovreste rinovar la vostra lingua, e non lasciarla perire, come fate; chè ormai si può dire che minor notizia se n’abbia in Fiorenza, che in molti altri lochi della Italia. — Rispose allor messer Bernardo: Queste parole che non s’usano più in Fiorenza, sono restate ne’ contadini, e, come corrotte e guaste dalla vecchiezza, sono dai nobili rifiutate.
XXXII. Allora la signora Duchessa, Non usciam, disse, dal primo proposito, e facciam che 'l conte Ludovico insegni al Cortegiano il parlare e scriver bene, e sia o toscano o come si voglia. — Rispose il Conte: Io già, Signora, ho detto quello che ne so; e tengo che le medesime regole che servono ad insegnar l’uno, servano ancor ad insegnar l’altro. Ma poiché mel comandate, risponderò quello che m’occorre a messer Federico, il quale ha diverso parer dal mio; e forse mi bisognerà ragionar un poco più diffusamente che non si conviene: ma questo sarà quanto io posso dire. E primamente dico, che, secondo il mio giudicio, questa nostra lingua, che noi chiamiamo volgare, è ancor tenera e nuova, benché già gran tempo si costumi; perchè, per essere stata la Italia non solamente vessata e depredata, ma lungamente abitata da’ Barbari, per lo commercio di quelle nazioni la lingua latina s’è corrotta e guasta, e da quella corruzione son nate altre lingue; le quai, come i fiumi che dalla cima dell’Apennino fanno divorzio e scorrono nei due mari, così si son esse ancor divise, ed alcune tinte di latinità pervenute per diversi cammini qual ad una parte e quale all’altra, ed una tinta di barbarie rimasta in Italia. Questa adunque è stata tra noi lungamente incomposta e varia, per non aver avuto chi le abbia posto cura, nè in essa scritto, nè cercato di darle splendor o grazia alcuna: pur è poi stata alquanto più colta in Toscana, che negli altri lochi della Italia; e per questo par che ’l suo fiore insino da que’ primi tempi qui sia rimaso, per aver servato quella nazion gentil accenti nella pronunzia, ed ordine grammaticale in quello che si convien, più che l’altre; ed aver avuti tre nobili scrittori, i quali ingeniosamente, e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de’ loro tempi, hanno espresso i lor concetti: il che più felicemente che agli altri, al parer mio, è successo al Petrarca nelle cose amorose. Nascendo poi di tempo in tempo, non solamente in Toscana ma in tutta la Italia, tra gli uomini nobili e versati nelle corti e nell’arme e nelle lettere qualche studio di parlare e scrivere più elegantemente, che non si faceva in quella prima età rozza ed incolta, quando lo incendio delle calamità nate da’ Barbari non era ancor sedato: sonsi lasciate molte parole, cosi nella città propria di Fiorenza ed in tutta la Toscana, come nel resto della Italia, ed in loco di quelle riprese dell’altre, e fattosi in questo quella mutazion che si fa in tutte le cose umane: il che è intervenuto sempre ancor delle altre lingue. Che se quelle prime scritture antiche latine fossero durate insino ad ora, vederemmo che altramente parlavano Evandro e Turno e gli altri latini di que’ tempi, che non fecero poi gli ultimi re romani e i primi consoli. Eccovi che i versi che cantavano i Salii a pena erano dai posteri intesi; ma essendo di quel modo dai primi institutori ordinati, non si mutavano per riverenza della religione. Così successivamente gli oratori e i poeti andarono lasciando molte parole usate dai loro antecessori; chè Antonio, Crasso, Ortensio, Cicerone fuggivano molte di quelle di Catone, e Virgilio molte d’Ennio; e così fecero gli altri: che ancor che avessero riverenza all’antiquità, non la estimavan però tanto, che volessero averle quella obbligazion che voi volete che ora le abbiam noi; anzi, dove lor parea, la biasimavano: come Orazio, che dice che i suoi antichi aveano scioccamente laudato Plauto, e vuol poter acquistare nuove parole. E Cicerone in molti lochi riprende molti suoi antecessori; e per biasimare Sergio Galba, afferma che le orazioni sue aveano dell’antico; e dice che Ennio ancor sprezzò in alcune cose i suoi antecessori: di modo che, se noi vorremo imitar gli antichi, non gl’imitaremo. E Virgilio, che voi dite che imitò Omero, non lo imitò nella lingua.
XXXIII. Io adunque queste parole antiche, quanto per me, fuggirei sempre d’usare, eccetto però che in certi lochi, ed in questi ancor rare volte; e parmi che chi altrimenti le usa, faccia errore, non meno che chi volesse, per imitar gli antichi, nutrirsi ancora di ghiande, essendosi già trovata copia di grano. E perchè voi dite che le parole antiche, solamente con quel splendore d’antichità, adornan tanto ogni subietto, per basso che egli sia, che possono farlo degno di molta laude: io dico, che non solamente di queste parole antiche, ma nè ancor delle buone faccio tanto caso, ch’estimi debbano senza ’l suco delle belle sentenze esser prezzate ragionevolmente; perchè il dividere le sentenze dalle parole è un divider l’anima dal corpo: la qual cosa nè nell’uno nè nell’altro senza distruzione far si può. Quello adunque che principalmente importa ed è necessario al Cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere16; perchè chi non sa, e nell’animo non ha cosa che meriti esser intesa, non può nè dirla nè scriverla. Appresso, bisogna dispor con bell’ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole: le quali, s’io non m’inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal popolo; perchè quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell’orazione, se colui che parla ha buon giudicio e diligenza, e sa pigliar le più significative di ciò che vuol dire, ed inalzarle, e come cera formandole ad arbitrio suo collocarle in tal parte e con tal ordine, che al primo aspetto mostrino e faccian conoscere la dignità e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo buono e natural lume17. E questo così dico dello scrivere, come del parlare: al qual però si richiedono alcune cose che non son necessarie nello scrivere; come la voce buona, non troppo sottile o molle come di femina, nè ancor tanto austera ed orrida che abbia del rustico, ma sonora, chiara, soave e ben composta, con la pronunzia espedita, e coi modi e gesti convenienti; li quali, al parer mio, consistono in certi movimenti di tutto ’l corpo, non affettati nè violenti, ma temperati con un volto accommodato, e con un mover d’occhi che dia grazia e s’accordi con le parole, e più che si può significhi ancor coi gesti la intenzione ed affetto di colui che parla. Ma tutte queste cose sarian vane e di poco momento, se le sentenze espresse dalle parole non fossero belle, ingegnose, acute, eleganti e gravi, secondo ’1 bisogno. XXXIV. Dubito, disse allora il signor Morello, che se questo Cortegiano parlerà con tanta eleganza e gravità, fra noi si trovaranno di quei che non lo intenderanno. — Anzi da ognuno sarà inteso, rispose il Conte, perchè la facilità non impedisce la eleganza. Nè io voglio ch’egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo: del tutto però sensatamente, e con prontezza e copia non confusa; nè mostri in parte alcuna vanità o sciocchezza puerile. E quando poi parlerà di cosa oscura o difficile, voglio che e con le parole e con le sentenze ben distinte esplichi sottilmente la intenzion sua, ed ogni ambiguità faccia chiara e piana con un certo modo diligente senza molestia. Medesimamente, dove occorrerà, sappia parlar con dignità e veemenza, e concitar quegli affetti che hanno in sè gli animi nostri, ed accenderli o moverli secondo il bisogno; talor con una semplicità di quel candore, che fa parer che la natura istessa parli, intenerirgli, e quasi inebbriargli di dolcezza, e con tal facilità, che chi ode estimi ch’egli ancor con pochissima fatica potrebbe conseguir quel grado, e quando ne fa la prova se gli trovi18 lontanissimo. Io vorrei che ’l nostro Cortegiano parlasse e scrivesse di tal maniera; e non solamente pigliasse parole splendide ed eleganti d’ogni parte della Italia, ma ancor lauderei che talor usasse alcuni di quei termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati. Però a me non dispiacerebbe che, occorrendogli, dicesse primor; dicesse accertare, avventurare; dicesse ripassare una persona con ragionamento, volendo intendere riconoscerla e trattarla per averne perfetta notizia; dicesse un cavalier senza rimproccio, attilato, creato d’un principe, ed altri tai termini, pur che sperasse esser inteso. Talor vorrei che pigliasse alcune parole in altra significazione che la lor propria; e, traportandole a proposito, quasi le inserisse come rampollo d’albero in più felice tronco, per farle più vaghe e belle, e quasi per accostar le cose al senso degli occhi proprii, e, come si dice, farle toccar con mano, con diletto di chi ode o legge. Nè vorrei che temesse formarne ancor di nuove, e con nuove figure di dire, deducendole con bel modo dai Latini, come già i Latini le deducevano dai Greci.
XXXV. Se adunque degli uomini litterati e di buon ingegno e giudicio, che oggidi tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessino cura di scrivere del modo che s’è detto in questa lingua cose degne d’esser lette, tosto la vederessimo colta ed abondante di termini e di belle figure, e capace che in essa si scrivesse così bene come in qualsivoglia altra; e se ella non fosse pura toscana antica, sarebbe italiana, commune19, copiosa e varia, e quasi come un delizioso giardino pien di diversi fiori e frutti. Nè sarebbe questo cosa nuova; perchè, delle quattro lingue che aveano in consuetudine i scrittori greci, eleggendo da ciascuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano nascere un’altra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un sol nome chiamavano lingua greca; e benchè la ateniese fosse elegante, pura e faconda più che l’altre, i buoni scrittori che non erano di nazion Ateniesi non la affettavan tanto, che nel modo dello scrivere, e quasi all’odore e proprietà del suo natural parlare, non fossero conosciuti: nè per questo però erano sprezzati; anzi quei che volevan parer troppo Ateniesi, ne rapportavan biasimo. Tra i scrittori latini ancor furono in prezzo a’ suoi di molti non Romani, benchè in essi non si vedesse quella purità propria della lingua romana, che rare volte possono acquistar quei che son d’altra nazione. Già non fu rifiutato Tito Livio, ancora che colui dicesse aver trovato in esso la patavinità, nè Virgilio, per esser stato ripreso che non parlava romano; e, come sapete, furono ancor letti ed estimati in Roma molti scrittori di nazione Barbari. Ma noi, molto più severi che gli antichi, imponemo a noi stessi certe nuove leggi fuor di proposito; ed avendo inanzi agli occhi le strade battute, cerchiamo andar per diverticoli: perchè nella nostra lingua propria, della quale, come di tutte l’altre, l’officio è esprimer bene e chiaramente i concetti dell’animo, ci dilettiamo della oscurità; e, chiamandola lingua volgare, volemo in essa usar parole che non solamente non son dal volgo, ma nè ancor dagli uomini nobili e litterati intese, nè più si usano in parte alcuna; senza aver rispetto, che tutti i buoni antichi biasimano le parole rifiutate dalla consuetudine. La qual voi, al parer mio, non conoscete bene; perchè dite, se qualche20 vizio di parlare è invalso in molti ignoranti, non per questo si dee chiamar consuetudine, nè esser accettato per una regola di parlare; e, secondo che altre volte vi ho udito dire, volete poi, che in loco di Capitolio si dica Campidoglio21; per Jeronimo, Girolamo; aldace per audace; e per patrone, padrone, ed altre tai parole corrotte e guaste; perchè così si trovan scritte da qualche antico Toscano ignorante, e perché così dicono oggidì i contadini toscani. La buona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli uomini che hanno ingegno, e che con la dottrina ed esperienza s’hanno guadagnato il buon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor pajon buone, le quali si conoscono per un certo giudicio naturale, e non per arte o regola alcuna. Non sapete voi, che le figure del parlare, le quai dànno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni delle regole grammaticali, ma accettate e confermate dalla usanza, perchè, senza poterne render altra ragione, piaceno, ed al senso proprio dell’orecchia par che portino soavità e dolcezza? E questa credo io che sia la buona consuetudine; della quale così possono essere capaci i Romani, i Napoletani, i Lombardi e gli altri, come i Toscani.
XXXVI. È ben vero, che in ogni lingua alcune cose sono sempre buone: come la facilità, il bell’ordine, l’abondanza, le belle sentenze, le clausole numerose; e, per contrario, l’affettazione e l’altre cose opposite a queste son male. Ma delle parole son alcune che durano buone un tempo, poi s’invecchiano ed in tutto perdono la grazia; altre piglian forza e vengono in prezzo: perchè, come le stagioni dell’anno spogliano de’ fiori e de’ frutti la terra, e poi di nuovo d’altri la rivestono, così il tempo quelle prime parole fa cadere, e l’uso altre di nuovo fa rinascere, e dà lor grazia e dignità, fin che, dall’invidioso morso del tempo a poco a poco consumate, giungono poi esse ancora alla lor morte; perciocchè, al fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale. Considerate che della lingua Osca non avemo più notizia alcuna. La provenzale, che pur mo, si può dir, era celebrata da nobili scrittori, ora dagli abitanti di quel paese non è intesa. Penso io adunque, come ben ha detto il signor Magnifico, che se ’l Petrarca e ’l Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non usariano molte parole che vedemo ne’ loro scritti: però non mi par bene che noi quelle imitiamo. Laudo ben sommamente coloro che sanno imitar quello che si dee imitare; nientedimeno non credo io già che sia impossibile scriver bene ancor senza imitare; e massimamente in questa nostra lingua, nella quale possiam esser dalla consuetudine ajutati: il che non ardirei dir nella latina.
XXXVII. Allor messer Federico, Perchè volete voi, disse, che più s’estimi la consuetudine nella volgare che nella latina? — Anzi, dell’una e dell’altra, rispose il Conte, estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perchè quegli uomini, ai quali la lingua latina era così propria come or è a noi la volgare, non sono più al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo quello che essi aveano imparato dalla consuetudine; nè altro vuol dir il parlar antico, che la consuetudine antica di parlare: e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico non per altro, che per voler più presto parlare come si parlava, che come si parla. — Dunque, rispose messer Federico, gli antichi non imitavano? — Credo, disse il Conte, che molti imitavano, ma non in ogni cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli saria passato inanzi; nè Cicerone a Crasso, nè Ennio ai suoi antecessori. Eccovi che Omero è tanto antico, che da molti si crede che egli così sia il primo poeta eroico di tempo, come ancor è d’eccellenza di dire: e chi vorrete voi che egli imitasse? — Un altro, rispose messer Federico, più antico di lui, del quale non avemo notizia per la troppa antiquità. — Chi direte adunque, disse il Conte, che imitasse il Petrarca e ’l Boccaccio, che pur tre giorni ha, si può dir, che son stati al mondo? — Io nol so, rispose messer Federico; ma ereder si può che essi ancor avessero l’animo indrizzato alla imitazione, benchè noi non sappiam di cui.— Rispose il Conte: Creder si può che que’ che erano imitati fossero migliori che que’ che imitavano; e troppo maraviglia saria che così presto il lor nome e la fama, se erano buoni, fosse in tutto spenta. Ma il lor vero maestro cred’io che fosse l’ingegno, ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno è che sì debba maravigliare, perchè quasi sempre per diverse vie si può tendere alla sommità d’ogni eccellenza. Nè è natura alcuna che non abbia in sè molte cose della medesima sorte, dissimili l’una dall’altra, le quali però son tra sè di egual laude degne. Vedete la musica, le armonie della quale or son gravi e tarde, or velocissime e di novi modi e vie; nientedimeno tutte dilettano, ma per diverse cause: come si comprende nella maniera del cantare22 di Ridon; la quale è tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata, e di così varie melodie, che i spiriti di chi ode tutti si commoveno e s’infiammano, e così sospesi par che si levino insino al cielo. Nè men commove nel suo cantar il nostro Marchetto Cara, ma con più molle armonia; chè per una via placida e piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime, imprimendo in esse soavemente una dilettevole passione. Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri, tanto che con difficoltà giudicar si può quai più lor son grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna23, Rafaello, Michelangelo, Georgio da Castelfranco: nientedimeno, tutti son tra sè nel far dissimili; di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perchè si conosce ciascun nel suo stil esser perfettissimo. Il medesimo è di molti poeti greci e latini, i quali, diversi nello scrivere, son pari nella laude. Gli oratori ancor hanno avuto sempre tanta diversità tra sè, che quasi ogni età ha prodotto ed apprezzato una sorte d’oratori peculiar di quel tempo; i quali non solamente dai precessori e successori suoi, ma fra sè son stati dissimili: come si scrive ne’ Greci, d’Isocrate, Lisia, Eschine, e molt’altri, tutti eccellenti, ma a niun però simili fuor che a sè stessi. Tra i Latini poi quel Carbone, Lelio, Scipione Africano, Galba, Sulpizio, Cotta, Gracco, Marc’Antonio, Crasso, e tanti che saria lungo nominare, tutti buoni, e l’un dall’altro diversissimi; di modo che chi potesse considerar tutti gli oratori che sono stati al mondo, quanti oratori tante sorti di dire trovarebbe. Parmi ancor ricordare che Cicerone in un loco introduca Marc’Antonio dir a Sulpizio, che molti sono i quali non imitano alcuno, e nientedimeno pervengono al sommo grado della eccellenza; e parla di certi, i quali aveano introdotto una nova forma e figura di dir, bella, ma inusitata agli altri oratori di quel tempo, nella quale non imitavano se non sè stessi: però afferma ancor’ che i maestri debbano considerar la natura dei discepoli, e, quella tenendo per guida, drizzarli ed ajutargli alla via che lo ingegno loro e la natural disposizion gl’inclina. Per questo adunque, messer Federico mio, credo, se l’uomo da sè non ha convenienza con qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazione; perchè la virtù di quell’ingegno s’ammorza e resta impedita, per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non gli fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d’arricchir questa lingua e darli spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura, e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e ’l Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al Poliziano, a Lorenzo de’ Medici, a Francesco Diaceto, e ad alcuni altri che pur sono Toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e ’l Boccaccio. E veramente, gran miseria saria metter fine e non passar più avanti di quello che s’abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi che tanti e così nobili ingegni possano mai trovar più che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è propria e naturale. Ma oggidì son certi scrupulosi, i quali, quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti uomini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano aprir la bocca, e confessano di non saper parlar quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle fasce. Ma di questo parmi che abbiam detto pur troppo; però seguitiamo ormai il ragionamento del Cortegiano.
XXXVIII. Allora messer Federico rispose: Io voglio pur ancor dir questo poco; che è, ch’io già non niego che le opinioni e gli ingegni degli uomini non siano diversi tra sè; nè credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scriver cose placide; nè meno un altro severo e grave, a scriver piacevolezze: perchè in questo parmi ragionevole che ognuno s’accommodi allo instinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava Cicerone quando disse, che i maestri avessero riguardo alla natura dei discepoli, per non far come i mali agricoltori, che talor nel terreno che solamente è fruttifero per le vigne vogliono seminar grano. Ma a me non può capir nella testa, che d’una lingua particolare, la quale non è a tutti gli uomini così propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una invenzione contenuta solto certi termini, non sia più ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso; e che, così come nel latino l’uomo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, piuttosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, così nel volgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d’alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti, ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale: e così si troverà, che quella differenza che voi dite essere tra i buoni oratori, consiste nei sensi, e non nella lingua. Allor il Conte, Dubito, disse, che noi entraremo in un gran pelago, e lasciaremo il nostro primo proposito del Cortegiano. Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua? — Rispose messer Federico: Nel servar ben le proprietà di essa, e tórla in quella significazione, usando quello stile e que’ numeri, che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene.— Vorrei, disse il Conte, sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascono dalle sentenze o dalle parole. — Dalle parole, rispose messer Federico. Adunque, disse il Conte, a voi non par che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone? nè tolte nella medesima significazione? — Rispose messer Federico: Le medesime son sì, ma alcune mal osservate e tolte diversamente. — Rispose il Conte: E se d’un libro di Cornelio e d’un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che sariano pochissime: non direste voi poi, che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio?24 e che ben fosse imitar quella maniera di dire?
XXXIX. Allora la signora Emilia, A me par, disse, fai questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa; però fia bene a differirla ad un altro tempo. — Messer Federico pur incominciava a rispondere; ma sempre la signora Emilia lo interrompeva. In ultimo disse il Conte: Molti vogliono giudicare i stili e parlar de’ numeri e della imitazione; ma a me non sanno già essi dare ad intendere che cosa sia stile nè numero, nè in che consista la imitazione, nè perchè le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio, che più presto pajono illustrate che imitate: e ciò forse procede ch’io non son capace d’intendergli. Ma perchè grande argomento che l’uom sappia una cosa è il saperla insegnare, dubito che essi ancora poco la intendano; e che e Virgilio e Cicerone laudino perchè sentono che da molti son laudati, non perchè conoscono la differenza che è tra essi e gli altri: chè in vero non consiste în avere una osservazione di due, di tre o di dieci parole usate a modo diverso dagli altri. In Salustio, in Cesare, in Varrone e negli altri buoni si trovano usati alcuni termini diversamente da quello che usa Cicerone; e pur l’uno e l’altro sta bene, perchè in così frivola cosa non è posta la bontà e forza d’una lingua: come ben disse Demostene ad Eschine, che lo mordeva, domandandogli d’alcune parole le quali egli aveva usate, e pur non erano attiche25, se erano mostri o portenti; e Demostene se ne rise, e risposegli, che in questo non consistevano le fortune di Grecia. Così io ancora poco mi curarei se da un Toscano fossi ripreso d’aver detto piuttosto satisfatto che sodisfatto, ed onorevole che orrevole, e causa che cagione, e populo che popolo, ed altre tai cose. — Allor messer Federico si levò in piè, e disse: Ascoltatemi, prego, queste poche parole. — Rispose, ridendo, la signora Emilia: Pena la disgrazia mia a qual di voi per ora parla più di questa materia, perchè voglio che la rimettiamo ad un’altra sera. Ma voi, Conte, seguitate il ragionamento del Cortegiano; e mostrateci come avete buona memoria, chè, credo, se saprete ritaccarlo ove lo lasciaste, non farete poco.
XL. Signora, rispose il Conte, il filo mi par tronco: pur, s’io non m’inganno, credo che dicevamo, che somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la pestifera affettazione, e per contrario grazia estrema la semplicità e la sprezzatura: a laude della quale, o biasimo della affettazione, molte altre cose ragionar si potrebbono; ma io una sola ancor dir ne voglio, e non più. Gran desiderio universalmente tengon tutte le donne di essere, e, quando esser non possono, almen di parer belle: però, dove la natura in qualche parte in questo è mancata, esse si sforzano di supplir con l’artificio, Quindi nasce l’acconciarsi la faccia con tanto studio e talor pena, pelarsi le ciglia e la fronte, ed usar tutti que’ modi e patire que’ fastidii, che voi altre donne credete che agli uomini siano molto secreti, e pur tutti si sanno. — Rise quivi Madonna Costanza Fregosa, e disse: Voi fareste assai più cortesemente seguitar il ragionamento vostro, e dir onde nasca la buona grazia, e parlar della Cortegiania, che voler scoprir i difetti delle donne senza proposito. — Anzi molto a proposito, rispose il Conte; perchè questi vostri difetti di che io parlo vi levano la grazia, perchè d’altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio vostro d’esser belle. Non v’accorgete voi, quanto più di grazia tenga una donna, la qual, se pur si acconcia, lo fa così parcamente e così poco, che chi la vede sta in dubio s’ella è concia o no; che un’altra, empiastrata tanto, che paja aversi posto alla faccia una maschera, e non osi ridere per non farsela crepare, nè si muti mai di colore se non quando la mattina si veste; e poi tutto il remanente del giorno stia come statua di legno immobile, comparendo solamente a lume di torze, come mostrano i cauti mercatanti i lor panni in loco oscuro? Quanto più poi di tutte piace una, dico non brutta, che si conosca chiaramente non aver cosa alcuna in su la faccia, benchè non sia così bianca nè così rossa, ma col suo color nativo pallidetta, e talor per vergogna o per altro accidente tinta d’un ingenuo rossore, coi capelli a caso inornati e mal composti, e coi gesti semplici e naturali, senza mostrar industria nè studio d’esser bella? Questa è quella sprezzata purità gratissima agli occhi ed agli animi umani, i quali sempre temono essere dall’arte ingannati. Piacciono molto in una donna i bei denti, perchè non essendo così scoperti come la faccia, ma per lo più del tempo stando nascosi, creder si può che non vi sì ponga tanta cura per fargli belli, come nel volto: pur chi ridesse senza proposito e solamente per mostrargli, scopriria l’arte, e benchè belli gli avesse, a tutti pareria disgraziatissimo, come lo Egnazio Catulliano. Il medesimo è delle mani; le quali, se delicate e belle sono, mostrate ignude a tempo, secondo che occorre operarle, e non per far veder la lor bellezza, lasciano di sè grandissimo desiderio, e massimamente revestite di guanti; perchè par che chi le ricopre non curi e non estimi molto che siano vedute o no, ma così belle le abbia più per natura che per studio o diligenza alcuna. Avete voi posto cura talor, quando, o per le strade andando alle chiese o ad altro loco, o giocando o per altra causa, accade che una donna tanto della roba si leva, che il piede e spesso un poco di gambetta senza pensarvi mostra? non vi pare26 che grandissima grazia tenga, se ivi si vede con una certa donnesca disposizione leggiadra ed attilata nei suoi chiapinetti di velluto, e calze polite? Certo a me piace egli molto, e credo a tutti voi altri, perchè ognuno estima che la attilatura in parte così nascosa e rare volte veduta, sia a quella donna piuttosto naturale e propria che sforzata, e che ella di ciò non pensi acquistar laude alcuna.
XLI. In tal modo si fugge e nasconde l’affettazione, la qual or potete comprender quanto sia contraria, e levi la grazia d’ogni operazion così del corpo come dell’animo: del quale per ancor poco avemo parlato, nè bisogna però lasciarlo; chè sì come l’animo più degno è assai che ’l corpo, così ancor merita esser più culto e più ornato. E ciò come far si debba nel nostro Cortegiano, lasciando li precetti di tanti savii filosofi che di questa materia scrivono, e diffiniscono le virtù dell’animo, e così sottilmente disputano della dignità di quelle: diremo in poche parole, attendendo al nostro proposito, bastar che egli sia, come si dice, uomo da bene ed intiero; chè in questo si comprende la prudenza, bontà, fortezza e temperanza d’animo, e tutte l’altre condizioni che a così onorato nome si convengono. Ed io estimo, quel solo esser vero filosofo morale, che vuol esser buono; ed a ciò gli bisognano pochi altri precetti, che tal volontà. E però ben dicea Socrate, parergli che gli ammaestramenti suoi già avessino fatto buon frutto quando per quelli chi si fosse s’incitava a voler conoscer ed imparar la virtù: perchè quelli che son giunti a termine che non desiderano cosa alcuna più che l’essere buoni, facilmente conseguono la scienza di futto quello che a ciò bisogna; però di questo non ragioneremo più avanti.
XLI. Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento dell’animo in ciascuno penso io che siano le lettere: benchè i Franzesi solamente conoscano la nobilità delle arme, e tutto il resto nulla estimino; di modo che, non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono; e tutti i letterati tengon per vilissimi uomini; e pare lor dir gran villania a chi si sia, quando lo chiamano clero. — Allora il Magnifico Juliano, Voi dite il vero, rispose, che questo errore già gran tempo regna tra’ Franzesi; ma se la buona sorte vuole che monsignor d’Angolem, come si spera, succeda alla corona, estimo che si come la gloria dell’arme fiorisce e risplende in Francia, così vi debba ancor con supremo ornamento fiorir quella delle lettere: perchè non è molto ch’io, ritrovandomi alla corte, vidi questo signore, e parvemi che, oltre alla disposizion della persona e bellezza di volto, avesse nell’aspetto tanta grandezza, congiunta però con una certa graziosa umanità, che ’l reame di Francia gli dovesse sempre parer poco. Intesi da poi da molti gentiluomini, e franzesi ed italiani, assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell’animo, del valore e della liberalità; e tra l’altre cose fummi detto, che egli sommamente amava ed estimava le lettere, ed avea in grandissima osservanza tutti e’ litterati; e dannava i Franzesi proprii dell’esser tanto alieni da questa professione, avendo massimamente in casa un così nobil Studio come è quello di Parigi, dove tutto il mondo concorre. — Disse allor il Conte: Gran maraviglia è che in così tenera età, solamente per istinto di natura, contra l’usanza del paese, si sia da sè a sè volto a così buon cammino; e perchè li sudditi sempre seguitano i costumi de’ superiori, può esser che, come voi dite, i Franzesi siano ancor per estimar le lettere di quella dignità che sono: il che facilmente, se vorranno intendere, si potrà lor persuadere; perchè niuna cosa più da natura è desiderabile agli uomini nè più propria che il sapere; la qual cosa gran pazzia è dire o credere che non sia sempre buona. È
XLI. E s’io parlassi con essi o con altri che fossino d’opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar loro, quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli uomini concedute per un supremo dono, siano utili e necessarie alla vita ed alla dignità nostra; nè mi mancheriano esempii di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero l’ornamento delle lettere alla virtù dell’arme. Chè, come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero, che la Iliade sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studii, ma alle speculazioni filosofice diede grandissima opera sotto la disciplina d’Aristotele. Alcibiade le buone condizioni sue accrebbe e fece maggiori con le lettere, e con gli ammaestramenti di Socrate. Cesare quanta opera desse ai studii, ancor fanno testimonio quelle cose che da esso divinamente scritte si ritrovano. Scipione Africano dicesi che mai di mano non si levava i libri di Senofonte, dove instituisce sotto ‘l nome di Ciro un perfetto re. Potrei dirvi di Lucullo, di Silla, di Pompeo, di Bruto e di molt’altri Romani e Greci; ma solamente ricordarò che Annibale, tanto eccellente capitano, ma però di natura feroce ed alieno da ogni umanità, infedele e dispregiator degli uomini e degli dei, pur ebbe notizia di lettere e cognizion della lingua greca; e, s’io non erro, parmi aver letto già, che esso un libro pur in lingua greca lasciò da sè composto. Ma questo dire a voi è superfluo, chè ben so io che tutti conoscete quanto s’ingannano i Franzesi pensando che le lettere nuocciano all’arme. Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella guerra il vero stimolo è la gloria; e chi per guadagno o per altra causa a ciò si move, oltre che mai non fa cosa buona, non merita esser chiamato gentiluomo, ma vilissimo mercatante. E che la vera gloria sia quella che si commenda al sacro tesauro delle lettere, ognun può comprendere, eccetto quegli infelici che gustate non l’hanno. Qual animo è così demesso, timido ed umile, che, leggendo i fatti e le grandezze di Cesare, d’Alessandro, di Scipione, d’Annibale e di tanti altri, non s’infiammi d’un ardentissimo desiderio d’esser simile a quelli, e non posponga questa vita caduca di dui giorni per acquistar quella famosa quasi perpetua, la quale, a dispetto della morte, viver lo fa più chiaro assai che prima? Ma chi non sente la dolcezza delle lettere, saper ancor non può quanta sia la grandezza della gloria così lungamente da esse conservata, e solamente quella misura con la età d’un uomo, o di dui, perchè di più oltre non tien memoria: però questa breve tanto estimar non può, quanto faria quella quasi perpetua, se per sua disgrazia non gli fosse vetato il conoscerla; e non estimandola tanto, ragionevol cosa è ancor credere27, che tanto non si metta a pericolo per conseguirla come chi la conosce. Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrarii, per rifiutar la mia opinione, allegandomi, gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell’arme da un tempo in qua: il che pur troppo è più che vero; ma certo ben si poria dir, la colpa d’alcuni pochi aver dato, oltre al gravè danno, perpetuo biasimo a tutti gli altri; e la vera causa delle nostre ruine e della virtù prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta: ma assai più a noi saria vergognoso il publicarla, che a’ Franzesi il non saper lettere. Però meglio è passar con silenzio quello che senza dolor ricordar non si può; e, fuggendo questo proposito, nel quale contra mia voglia entrato sono, tornar al nostro Cortegiano.
XLIV. Il qual voglio che nelle lettere sia più che mediocremente erudito, almeno in questi studii che chiamamo d’umanità; e non solamente della lingua latina ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti, e non meno negli oratori ed istorici, ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua volgare; chè, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose. E se, o per altre faccende o per poco studio, non giugnerà a tal perfezione che i suoi scritti siano degni di molta laude, sia cauto in sopprimergli, per non far ridere altrui di sè, è solamente i mostri ad amico di chi fidar si possa; perchè almeno in tanto li giovaranno, che per quella esercitazion saprà giudicar le cose d’altrui: chè invero rare volte interviene, che chi non è assueto a serivere, per erudito che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie de’ scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza de’ stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso sì trovano negli antichi. Ed oltre a ciò, farànnolo questi studii copioso, e, come rispose Aristippo a quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben però, che ’l nostro Cortegiano fisso si tenga nell’animo un precetto; cioè che in questo ed in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido più presto che audace, e guardi di non persuadersi falsamente di sapere quello che non sa: perchè da natura tutti siamo avidi troppo più che non si devria di laude, e più amano le orecchie nostre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro soavissimo canto o suono; e però spesso, come voci di Sirene, sono causa di sommergere chi a tal fallace armonia bene non se le ottura, Conoscendo questo pericolo, si è ritrovato tra gli antichi sapienti chi ha scritto libri, in qual modo possa l’uomo conoscere il vero amico dall’adulatore. Ma questo che giova? se molti, anzi infiniti son quelli che manifestamente comprendono esser adulati, e pur amano chi gli adula, ed hanno in odio chi dice lor il vero? e spesso parendogli che chi lauda sia troppo parco in dire, essi medesimi lo ajutano, e di sè stessi dicono tali cose, che lo impudentissimo adulator se ne vergogna, Lasciamo questi ciechi nel lor errore, e facciamo che ’l nostro Cortegiano sia di così buon giudicio, che non si lasci dar ad intendere il nero per lo bianco, nè presuma di sè, se non quanto ben chiaramente conosce esser vero; e massimamente in quelle cose, che nel suo gioco, se ben avete a memoria, messer Cesare ricordò che noi più volte avevamo usate per instrumento di far impazzir molti. Anzi, per non errar, se ben conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le consenta così apertamente, nè così senza contradizione le confermi; ma piuttosto modestamente quasi le nieghi, mostrando sempre e tenendo in effetto per sua principal professione l’arme, e l’altre buone condizioni tutte per. ornamento di quelle; e massimamente tra i soldati, per non far come coloro che ne’ studii voglion parere uomini di guerra, e tra gli uomini di guerra litterati. In questo modo, per le ragioni che avemo dette, fuggirà l’affettazione, e le cose mediocri che farà parranno grandissime.
XLV. Rispose quivi messer Pietro Bembo: Io non so, Conte, come voi vogliate che questo Cortegiano, essendo litterato, e con tante altre virtuose qualità, tenga ogni cosa per ornamento dell’arme, e non l’arme e ’l resto per ornamento delle lettere; le quali, senza altra compagnia, tanto son di dignità all’arme superiori, quanto l’animo al corpo, per appartenere propriamente la operazion d’esse all’animo, così come quella delle arme al corpo. — Rispose allor il Conte: Anzi, all’animo ed al corpo appartiene la operazion dell’arme. Ma non voglio, messer Pietro, che voi di tal causa siate giudice, perchè sareste troppo sospetto ad una delle parti: ed essendo già stata questa disputazione lungamente agitata da uomini sapientissimi, non è bisogno rinovarla; ma io la tengo per diffinita in favore dell’arme, e voglio che ’l nostro Cortegiano, poich’io posso ad arbitrio mio formarlo, esso ancor così la estimi. E se voi sete di contrario parer, aspettate d’udirne una disputazion, nella qual così sia licito a chi difende la ragion dell’arme operar l’arme, come quelli che difendon le lettere oprano in tal difesa le medesime lettere; chè se ognuno si valerà de’ suoi instrumenti, vedrete che i litterati perderanno. — Ah, disse messer Pietro, voi dianzi avete dannati i Franzesi che poco apprezzan le lettere, e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli uomini, e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenza. Non vi ricorda, che
Giunto Alessandro alla famosa tomba |
È se Alessandro ebbe invidia ad Achille non de’ suoi falli, ma della fortuna che prestato gli avea tanta felicità che le cose sue fosseno celebrate da Omero, comprender si può che estimasse più le lettere d’Omero, che l’arme d’Achille. Qual altro giudice adunque o qual’altra sentenza aspettate voi della dignità dell’arme e delle lettere, che quella che fu data da un de’ più gran capitani che mai sia stato?
XLVI. Rispose allora il Conte: Io biasimo i Franzesi che estiman le lettere nuocere alla profession dell’arme, e tengo che a niun più si convenga l’esser litterato che ad un uom di guerra; e queste due condizioni concatenate, e l’una dall’altra ajutate, il che è convenientissimo, voglio che siano nel nostro Cortegiano: nè per questo parmi esser mutato d’opinione. Ma, come ho detto, disputar non voglio qual d’esse sia più degna di laude. Basta che i litterati quasi mai non pigliano a laudare, se non uomini grandi e fatti gloriosi, i quali da sè meritano laude per la propria essenzial virtute donde nascono; oltre a ciò sono nobilissima materia dei scrittori: il che è grande ornamento, ed in parte causa di perpetuare i scritti, li quali forse non sariano tanto letti nè apprezzati se mancasse loro il nobile suggetto, ma vani e di poco momento. E se Alessandro ebbe invidia ad Achille per esser laudato da chi fu, non conchiude però questo che estimasse più le lettere che l’arme; nelle quali se tanto si fosse conosciuto lontano da Achille, come nel scrivere estimava che dovessero esser da Omero tutti quelli che di lui fossero per scrivere, son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in sè, che il ben dire in altri. Però questa credo io che fosse una tacita laude di sè stesso, ed un desiderar quello che aver non gli pareva, cioè la suprema eccellenza d’un scrittore; e non quello che già si presumeva aver conseguito, cioè la virtù dell’arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse superiore: onde chiamollo fortunato, quasi accennando, che se la fama sua per lo innanzi non fosse tanto celebrata al mondo come quella, che era per così divin poema chiara ed illustre, non procedesse perchè il valore ed i meriti non fossero tanti e di tanta laude degni, ma nascesse dalla fortuna, la quale avea parato inanti ad Achille quel miracolo di natura per gloriosa tromba dell’opere sue; e forse ancor volse eccitar qualche nobile ingegno a scrivere di sè, mostrando per questo dovergli esser tanto grato, quanto amava e venerava i sacri monumenti delle lettere: circa le quali omai s’è parlato a bastanza.— Anzi troppo, rispose il signor Ludovico Pio; perchè credo che al mondo non sia possibile ritrovar un vaso tanto grande, che fosse capace di tutte le cose che voi volete che stiano in questo Cortegiano. — Allor il Conte, Aspettate un poco, disse, che molte altre ancor ve ne hanno da essere. Rispose Pietro da Napoli: A questo modo il Grasso de’ Medici averà gran vantaggio da messer Pietro Bembo.
XLVII. Rise quivi ognuno; e ricominciando il Conte, Signori, disse, avete a sapere, ch’io non mi contento del Cortegiano, s’egli non è ancor musico, e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instrumenti: perchè, se ben pensiamo, niuno riposo di fatiche e medicina d’animi infermi ritrovar si può più onesta e laudevole nell’ozio che questa; e massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio de’ fastidii che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali, teneri e molli, facilmente sono dall’armonia penetrati e di dolcezza ripieni. Però non è maraviglia se nei tempi antichi e ne’ presenti sempre esse state sono a’ musici inclinate, ed hanno avuto questo per gratissimo cibo d’animo. — Allor il signor Gaspar, La musica penso, disse, che insieme con molte altre vanità sia alle donne conveniente sì, e forse ancor ad alcuni che hanno similitudine d’uomini, ma non a quelli che veramente sono; i quali non deono con delizie effeminare gli animi, ed indurglì in tal modo a temer la morte. — Non dite, rispose il Conte; perch’io v’entrarò in un gran pelago di laude della musica: e ricordarò quanto sempre appresso gli antichi sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra, e sia stato opinione di sapientissimi filosofi, il mondo esser composto di musica, e i cieli nel moversi far armonia; e l’anima nostra pur con la medesima ragione esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtù per la musica. Per il che si scrive, Alessandro alcuna volta esser stato da quella così ardentemente incitato, che quasi contra sua voglia gli bisognava levarsi dai convivii, e correre allarme; poi, mutando il musico la sorte del suono, mitigarsi, e tornar dall’arme ai convivii. E diròvvi, il severo Socrate, già vecchissimo, aver imparato a sonare la citara, E ricordomi aver già inteso, che Platone ed Aristotele vogliono che l’uom bene instituito sia ancor musico; e con infinite ragioni mostrano, la forza della musica in noi essere grandissima, e per molte cause, che or saria lungo a dir29, doversi necessariamente imparar da puerizia; non tanto per quella superficial melodia che si sente, ma per esser sufficiente ad indur in noi un nuovo abito buono, ed un costume tendente alla virtù, il qual fa l’animo più capace di felicità, secondo che lo esercizio corporale fa il corpo più gagliardo; e non solamente non nuocere alle cose civili e della guerra, ma loro giovar sommamente. Licurgo ancora, nelle severe sue leggi, la musica approvò. E leggesi, i Lacedemonii bellicosissimi ed i Cretensi aver usato nelle battaglie citare ed altri instrumenti molli; e molti eccellentissimi capitani antichi, come Epaminonda, aver dato opera alla musica; e quelli che non ne sapeano, come Temistocle, esser stati molto meno apprezzati. Non avete voi letto, che delle prime discipline che insegnò il buon vecchio Chirone nella tenera età ad Achille, il qual egli nutrì dallo latte e dalla culla, fu la musica; e volse il savio maestro che le mani che aveano a sparger tanto sangue trojano, fossero spesso occupate nel suono della citara? Qual soldato adunque sarà che si vergogni d’imitar Achille, lasciando molti altri famosi capitani ch’io potrei addurre? Però non vogliate voi privar il nostro Cortegiano della musica, la qual non solamente gli animi umani indolcisce, ma spesso le fiere fa diventar mansuete; e chi non la gusta, si può tener certo30 che abbia gli spiriti discordanti l’un dall’altro. Eccovi quante essa può, che già trasse un pesce a lasciarsi cavalcar da un uomo per mezzo il procelloso mare. Questa veggiamo operarsi ne’ sacri tempii in rendere laude e grazie a Dio; e credibil cosa è che ella grata a lui sia, ed egli a noi data l’abbia per dolcissimo alleviamento delle fatiche e fastidii nostri. Onde spesso i duri lavoratori de’ campi sotto l’ardente sole ingannano la lor noja col rozzo ed agreste cantare. Con questo la incolta contadinella, che inanzi al giorno a filare o a tessere si lieva, dal sonno si difende, e la sua fatica fa piacevole; questo è giocondissimo trastullo dopo le piogge, i venti e le tempeste ai miseri marinari; con questo consolansi i stanchi peregrini dei nojosi e lunghi viaggi, e spesso gli afflitti prigioneri delle catene e ceppi. Così, per maggior argomento che d’ogni fatica e molestia umana la modulazione, benchè incolta, sia grandissimo refrigerio, pare che la natura alle nutrici insegnata l’abbia per rimedio precipuo del pianto continuo de’ teneri fanciulli; i quali al suon di tal voce s’inducono a riposato e placido sonno, scordandosi le lacrime così proprie, ed a noi per presagio del rimanente della nostra vita in quella età da natura date.
XLVIII. Or quivi tacendo un poco il Conte, disse il Magnifico Juliano: Io non son già di parer conforme al signor Gaspar; anzi estimo, per le ragioni che voi dite e per molte altre, esser la musica non solamente ornamento, ma necessaria al Cortegiano. Vorrei ben che dichiaraste, in qual modo questa e l’altre qualità che voi gli assegnate siano da esser operate, ed a che tempo e con che maniera: perchè molte cose che da sè meritano laude, spesso con l’operarle fuor di tempo diventano inettissime; e per contrario, alcune che pajon di poco momento, usandole bene, sono pregiate assai.
XLIX. Allora il Conte, Prima che a questo proposito entriamo, voglio, disse, ragionar d’un’altra cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro Cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata adietro; e questo è il saper disegnare, ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere. Nè vi maravigliate s’io desidero questa parte, la qual oggidì forse par mecanica e poco conveniente a gentiluomo: chè ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli nobili nelle scole alla pittura dessero opera, come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta nel primo grado dell’arti liberali; poi per publico editto vetato che ai servi non s’insegnasse. Presso ai Romani ancor s’ebbe in onor grandissimo; e da questa trasse il cognome la casa nobilissima de’ Fabii, chè il primo Fabio fu cognominato Pittore, per esser in effetto eccellentissimo pittore, e tanto dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della Salute, gl’inscrisse il nome suo; parendogli che, benchè fosse nato in una famiglia così chiara, ed onorata di tanti titoli di consolati, di trionfi e d’altre dignità, e fosse litterato e perito nelle leggi e numerato tra gli oratori31, potesse ancor accrescere splendore ed ornamento alla fama sua lasciando memoria d’essere stato pittore. Non mancarono ancor molti altri di chiare famiglie celebrati in quest’arte; della qual, oltra che in sè nobilissima e degna sia, si traggon molte utilità, e massimamente nella guerra, per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, ròcche, fortezze, e tai cose; le quali se ben nella memoria si servassero, il che però è assai difficile, altrui mostrar non si possono. E veramente, chi non estima questa arte, parmi che molto sia dalla ragione alieno; chè la machina del mondo, che noi veggiamo coll’amplo cielo di chiare stelle tanto splendido, e nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata, e di sì diversi alberi e vaghi fiori e d’erbe ornata, dir si può che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi può imitare, parmi esser di gran laude degno: nè a questo pervenir si può senza la cognizion di molte cose, come ben sa chi lo prova. Però gli antichi e l’arte e gli artefici aveano in grandissimo pregio, onde pervenne in colmo di somma eccellenza: e di ciò assai certo argomento pigliar si può dalle statue antiche di marmo e di bronzo che ancor si veggono. E benchè diversa sia la pittura dalla statuaria, pur l’una e l’altra da un medesimo fonte, che è il buon disegno, nasce. Però, come le statue sono divine, così ancor creder sì può che le pitture fossero; e tanto più, quanto che di maggior artificio capaci sono.
L. Allor la signora Emilia, rivolta a Joanni Cristoforo Romano, che ivi con gli altri sedeva, Che vi par, disse, di questa sentenza? confermarete voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria? — Rispose Joanni Cristoforo: Io, Signora, estimo che la statuaria sia di più fatica, di più arte e di più dignità, che non è la pittura. — Soggiunse il Conte: Per esser le statue più durabili, si poria forse dir che fossero di più dignità; perchè, essendo fatte per memoria, satisfanno più a quello effetto perchè son fatte, che la pittura. Ma, oltre alla memoria, sono ancor e la pittura e la statuaria fatte per ornare, ed in questo la pittura è molto superiore; la quale se non è tanto diuturna, per dir così, come la statuaria, è però molto longeva; e tanto che dura, è assai più vaga. — Rispose allor Joanni Cristoforo: Credo io veramente che voi parliate contra quello che avete nell’animo, e ciò tutto fate in grazia del vostro Rafaello; e forse ancor parvi che la eccellenza che voi conoscete in lui della pittura sia tanto suprema, che la marmoraria non possa giungere a quel grado: ma considerate, che questa è laude d’un artefice, e non dell’arte. — Poi soggiunse: Ed a me par bene, che l’una e l’altra sia una artificiosa imitazion di natura; ma non so già come possiate dir che più non sia imitato il vero, e quello proprio che fa la natura, in una figura di marmo o di bronzo, nella qual sono le membra tutte tonde, formate e misurate come la natura le fa, che in una tavola, nella qual non si vede altro che la superficie, e que’ colori che ingannano gli occhi: nè mi direte già, che più propinquo al vero non sia l’essere che ’l parere. Estimo poi, che la marmoraria sia più difficile, perchè se un error vi vien fatto, non si può più correggere, chè ’l marmo non si ritacca, ma bisogna rifar un’altra figura; il che nella pittura non accade, chè mille volte si può mutare, giungervi e sminuirvi, migliorandola sempre.
LI. Disse il Conte ridendo: Io non parlo in grazia di Rafaello; nè mi dovete già riputar per tanto ignorante, che non conosca la eccellenza di Michel’Angelo e vostra e degli altri nella marmoraria: ma io parlo dell’arte, e non degli artefici. E voi ben dite vero, che l’una e l’altra è imitazion della natura; ma non è già così, che la pittura appaja, e la statuaria sia. Chè, avvenga che le statue siano tutte tonde come il vivo, e la pittura solamente si veda nella superficie, alle statue mancano molte cose che non mancano alle pitture, e massimamente i lumi e l’ombre: perchè altro lume fa la carne ed altro fa il marmo; e questo naturalmente imita il pittore col chiaro e scuro, più e meno, secondo il bisogno; il che non può far il marmorario. E se ben il pittore non fa la figura tonda, fa que’ muscoli e membri tondeggiati di sorte che vanno a ritrovar quelle parti che non si veggono, con tal maniera, che benissimo comprender si può che ’l pittor ancor quelle conosce ed intende. Ed a questo bisogna un altro artificio maggiore in far quelle membra che scortano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva; la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d’ombre, vi mostra anco32 in una superficie di muro dritto il piano e ’l lontano, più e meno come gli piace. Parvi poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali in contraffar le carni, i panni, e tutte l’altre cose colorate? Questo far non può già il marmorario, nè meno esprimer la graziosa vista degli occhi neri o azzurri, col splendor di que’ raggi amorosi. Non può mostrare il color de’ capegli flavi, no ’l splendor dell’arme, non una oscura notte, non una tempesta di mare, non que’ lampi e saette, non lo incendio d’una città, no ’l nascere dell’aurora di color di rose, con que’ raggi d’oro e di porpora; non può in somma mostrare cielo, mare, terra; monti, selve, prati, giardini, fiumi, città nè case: il che tutto fa il pittore.
LII. Per questo parmi la pittura più nobile e più capace d’artificio che la marmoraria, e penso che presso agli antichi fosse di suprema eccellenza come l’altre cose: il che si conosce ancor per alcune piccole reliquie che restano, massimamente nelle grotte di Roma; ma molto più chiaramente si può comprendere per i scritti antichi, nei quali sono tante onorate e frequenti menzioni e delle opre e dei maestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e le republiche sempre onorati. Però si legge che Alessandro amò sommamente Apelle Efesio, e tanto, che avendogli fatto ritrar nuda una sua carissima donna, ed intendendo, il buon pittore per la maravigliosa bellezza di quella restarne ardentissimamente inamorato, senza rispetto alcuno gliela donò: liberalità veramente degna d’Alessandro, non solamente donar tesori e stati, ma i suoi proprii affetti e desiderii; e segno di grandissimo amor verso Apelle, non avendo avuto rispetto, per compiacer a lui, di dispiacere a quella donna che sommamente amava; la qual creder si può che molto si dolesse di cambiar un tanto re con un pittore. Narransi cor molti altri segni di benivolenza d’Alessandro verso d’Apelle; ma assai chiaramente dimostrò quanto lo estimasse, avendo per publico comandamento ordinato che niun altro pittore osasse far la imagine sua. Qui potrei dirvi le contenzioni di molti nobili pittori con tanta laude e maraviglia quasi del mondo; potrei dirvi con quanta solennità gli imperadorì antichi ornavano di pitture i lor trionfi, e ne’ lochi publici le dedicavano, e come care le comperavano; e che siansi già trovati alcuni pittori che donavano l’opere sue, parendo loro che non bastasse oro nè argento per pagarle; e come tanto pregiata fosse una tavola di Protogene, che essendo Demetrio a campo a Rodi, e possendo intrar dentro appiccandole il foco dalla banda dove sapeva che era quella tavola, per non abrusciarla restò di darle la battaglia, e così non prese la terra; e Metrodoro, filosofo e pittore eccellentissimo, esser stato da Ateniesi mandato a Lucio Paolo per ammaestrargli i figlioli, ed ornargli il trionfo che a far avea. E molti nobili scrittori hanno ancora di quest’arte scritto; il che è assai gran segno per dimostrare in quanta estimazione ella fosse: ma non voglio che in questo ragionamento più ei estendiamo. Però basti solamente dire, che al nostro Cortegiano conviensi ancor della pittura aver notizia, essendo onesta ed utile, ed apprezzata in que’ tempi che gli uomini erano di molto maggior valore che ora non sono: e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltra che giovi a saper giudicar la eccellenza delle statue antiche e moderne, di vasi, d’edifici, di medaglie, di camei, d’intagli e tai cose, fa conoscere ancor la bellezza dei corpi vivi, non solamente nella delicatura de’ volti, ma nella proporzion di tutto il resto, così degli uomini come di ogni altro animale. Vedete adunque come lo aver cognizione della pittura sia causa di grandissimo piacere. E questo pensino quei che tanto godono contemplando le bellezze d’una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sanno dipingere: il che se sapessero, arian molto maggior contento, perchè più perfettamente conosceriano quella bellezza; che nel cor genera lor tanta satisfazione.
LIII. Rise quivi messer Cesare Gonzaga, e disse: Io già non son pittore; pur certo so aver molto maggior piacere di vedere alcuna donna, che non aria, se or tornasse vivo, quello eccellentissimo Apelle che voi poco fa avete nominato. — Rispose il Conte: Questo piacer vostro non deriva interamente da quella bellezza, ma dalla affezion che voi forse a quella donna portate; e, se volete dir il vero, la prima volta che voi a quella donna miraste, non sentiste la millesima parte del piacere che poi fatto avete, benchè le bellezze fossero quelle medesime: però potete comprender quanto più parte nel piacer vostro abbia l’affezion che la bellezza. Non nego questo, disse messer Cesare; ma secondo che ’l piacer nasce dalla affezione, così l’affezion nasce dalla bellezza: però dir si può che la bellezza sia pur causa del piacere. — Rispose il Conte: Molte altre cause ancor spesso infiammano gli animi nostri, oltre alla bellezza; come i costumi, i il sapere, il parlare, i gesti, e mill’altre cose, le quali però a qualche modo forse esse ancor si poriano chiamar bellezze; ma sopra tutto il sentirsi essere amato: di modo che si può ancor senza quella bellezza di che voi ragionate amare ardentissimamente; ma quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che superficialmente vedemo nei corpi, senza dubio daranno molto maggior piacere a chi più la conoscerà, che a chi meno. Però, tornando al nostro proposito, penso che molto più godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe, che non faceva Alessandro: perchè facilmente si può creder che l’amor dell’uno e dell’altro derivasse solamente da quella bellezza; e che deliberasse forse ancor Alessandro per questo rispetto donarla a chi gli parve che più perfettamente conoscer la potesse. Non avete voi letto, che quelle cinque Fanciulle da Crotone, le quali tra l’altre di quel popolo elesse Zeusi pittore, per far di tutte cinque una sola figura eccellentissima di bellezza, furono celebrate da molti poeti, come quelle che per belle erano state approvate da colui, che perfettissimo giudicio di bellezza aver dovea?
LIV. Quivi, mostrando messer Cesare non restar satisfatto, nè voler consentir per modo alcuno che altri che esso medesimo potesse gustare quel piacer ch’egli sentiva di contemplar la bellezza d’una donna, ricominciò a dire: ma in quello s’udi un gran calpestare di piedi, con strepito di parlar alto: e così rivolgendosi ognuno, si vide alla porta della stanza comparire un splendor di torchi, e subito drieto giunse con molta e nobil compagnia il signor Prefetto, il qual ritornava, avendo accompagnato il papa una parte del cammino; e già allo entrar del palazzo dimandando ciò che facesse la signora Duchessa, aveva inteso di che sorte era il gioco di quella sera, e ’l carico imposto al conte Ludovico di parlar della Cortegianìa; però quanto più gli era possibile studiava il passo, per giungere a tempo d’udir qualche cosa. Così, subito fatto riverenza alla signora Duchessa, e fatto seder gli altri, che tutti in piedi per la venuta sua s’erano levati, si pose ancor esso a seder nel cerchio con alcuni de’ suoi gentiluomini; tra i quali erano il marchese Febus e Ghirardino fratelli da Ceva, messer Ettor Romano, Vincenzo Calmeta, Orazio Florido, e molti altri; e stando ognun senza parlare; il signor Prefetto disse: Signori, troppo nociva sarebbe stata la venuta mia qui, s’io avessi impedito così bei ragionamenti, come estimo che sian quelli che ora tra voi passavano; però non mi fate questa ingiuria, di privar voi stessi e me di tal piacere. — Rispose allora il conte Ludovico: Anzi, signor mio, penso che ’l tacer a tutti debba esser molto più grato che ’l parlare; perchè essendo tal fatica a me più che agli altri questa sera toccata, oramai m’ha stanco di dire, e credo tutti gli altri d’ascoltare, per non esser stato il ragionamento mio degno di questa compagnia, nè bastante alla grandezza della materia di che io aveva carico; nella quale avendo io poco satisfatto a me stesso, penso molto meno aver satisfatto ad altrui. Però a voi, Signore, è stato ventura. il giungere al fine; e buon sarà mo dar la impresa di quello che resta ad un altro che succeda nel mio loco; perciò che, qualunque egli si sia, so che si porterà molto meglio ch’io non farei se pur seguitar volessi, essendo oramai stanco come sono. LV. Non sopportarò io, rispose il Magnifico Juliano, per modo alcuno esser defraudato della promessa che fatta m’avete; e certo so che al signor Prefetto ancor non dispiacerà lo intender questa parte. — E qual promessa? — disse il Conte. Rispose il Magnifico: Di dechiarirci in qual modo abbia il Cortegiano da usare quelle buone condizioni, che voi avete detto che convenienti gli sono. — Era il signor Prefetto, benchè di età puerile, saputo e discreto, più che non parea che s’appartenesse agli anni teneri, ed in ogni suo movimento mostrava con la grandezza dell’animo una certa vivacità dello ingegno, vero pronostico dello eccellente grado di virtù dove pervenir doveva. Onde subito disse: Se tutto questo a dir resta, parmi esser assai a tempo venuto; perchè intendendo in che modo dee il Cortegiano usar quelle buone condizioni, intenderò ancora quali esse siano, e così verrò a saper tutto quello che infin qui è stato detto. Però non rifiutate, Conte, di pagar‘questo debito, d’una parte del quale già sete uscito. — Non arei da pagar tanto debito, rispose il Conte, se le fatiche fossero più egualmente divise; ma lo errore è stato dar autorità di comandar ad una signora troppo parziale: — e così, ridendo, si volse alla signora Emilia; la qual subito disse: Della mia parzialità non dovreste voi dolervi; pur, poi che senza ragion lo fate, daremo una parte di questo onor, che voi chiamate fatica, ad un altro; — e, rivoltasi a messer Federigo Fregoso, Voi, disse, proponeste il gioco del Cortegiano; però è ancor ragionevole che a voi tocchi il dirne una parte: e questo sarà il satisfare alla domanda del signor Magnifico, dechiarando in qual modo e maniera e tempo il Cortegiano debba usar le sue buone condizioni, ed operar quelle cose che ’l Conte ha detto che se gli convien sapere. — Allora messer Federico, Signora, disse, volendo voi separare il modo e ’l tempo e la maniera delle buone condizioni e ben operare del Cortegiano, volete separar quello che separar non si può, perchè queste cose son quelle che fanno le condizioni buone e l’operar buono. Però, avendo il Conte detto tanto e così bene, ed ancor parlato qualche cosa di queste circostanze, e preparatosi nell’animo il resto che egli avea a dire, era pur ragionevole che seguitasse insin al fine. — Rispose la signora Emilia: Fate voi conto d’essere il Conte, e dite quello che pensate che esso direbbe; e così sarà satisfatto al tutto.
LVI. Disse allor il Camera: Signori, poichè l’ora è tarda, acciò che messer Federico non abbia escusazione alcuna di non dir ciò che sa, credo che sia buono differire il resto del ragionamento a domani; e questo poco tempo che ci avanza si dispensi in qualche altro piacer senza ambizione. — Così confermando ognuno, impose la signora Duchessa a madonna Margherita e madonna Costanza Fregosa, che danzassero. Onde subito Barletta, musico piacevolissimo e danzator eccellente, che sempre tutta la corte teneva in festa, cominciò a sonare suoi instrumenti; ed esse, presesi per mano, ed avendo prima danzato una bassa, ballarono una roegarze con estrema grazia, e singolar piacer di chi le vide; poi, perchè già era passata gran pezza della notte, la signora Duchessa si levò in piedi: e così ognuno reverentemente presa licenza, se ne andarono a dormire.
Note
- ↑ [p. 342 modifica]Allude al proemio del dialogo dell’Oratore. Dolce.
- ↑ [p. 342 modifica]Vedi la descrizione di questo palazzo nel libro intitolato Versi e prose di monsignor Bernardino Baldi da Urbino, abate di Guastalla; in Venosa, 1590, in-4. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 343 modifica]Imita Ovidio nel fine delle Trasformazioni. Dolce. — Metamorphos., lib. XV, v. 750, 751:
neque enim de Cesaris actis
Ullum majus opus, quam quod pater extitit hujus. - ↑ [p. 343 modifica]
- ↑ [p. 343 modifica]Frate in Roma, famigliare del Castiglione. Delle sue facezie si fa cenno anche più sotto, Lib. II, cap. 44. Sembra che, tra l’altre stranezze, solesse fare l’elogio della pazzia, ed augurarla altrui quasi buona ventura; come appare e da questo passo, e più chiaramente dal seguente di una fra le lettere del Castiglione, che per la prima volta diamo alla luce (Lettere di Negozii, 174): «I medici . . . . . mi confortano a purgarmi diligentemente, per essere quell’umore melancolia di malissima sorte; benché frate Mariano dice, che per modo alcuno non mi debbo medicinare: che se per mia avventura questo umore mi andasse alla testa, io diventerei matto, e così avrei il miglior tempo che avessi mai in vita mia.»
- ↑ [p. 343 modifica]Questo sonetto fu per la prima volta stampato dal Rovillio, nell’edizione del Cortegiano fatta in Lione 1362; indi dal Volpi nell’indice del Cortegiano, dove fu conservato nelle edizioni posteriori; esso è il seguente:
Consenti, o mar di bellezza e virtute,
Ch’io, servo tuo, sia d’un gran dubio sciolto.
L’S, qual porti nel candido volto,
Significa mio Stento, o mia Salute?
Se dimostra Soccorso o Servitute?
Sospetto o Securtà? Secreto o Stolto?
Se Speme o Strido? se Salvo o Sepolto?
Se le catene mie Strette o Solute?
Ch’io temo forte, che non faccia segno
Di Superbia, Sospir, Severitate,
Strazio, Sangue, Sudor, Supplicio e Sdegno.
Ma, se loro ha la pura veritate,
Questo S dimostra, e con non poco ingegno.
Un SOL Solo in belleasa e crudeltate. - ↑ [p. 343 modifica]dolci li fa. Così corresse il Dolce; le Aldine e le altre antiche hanno dolci le fa.
- ↑ [p. 343 modifica]Allude a quello che dice Orazio. Dolce. — Sermonum, lib. I, Satr. III, v. 44-55.
- ↑ [p. 343 modifica]se desvia. Le Aldine degli anni 1528, 1541, 1545, hanno si desvia.
- ↑ [p. 344 modifica]Imitato da Orazio, Od. IV, 4, v. 29:
Fortes creantur fortibus et bonis;
Est in juvencis, est in equis, patrum
Virtus, nec imbellem feroces
Progenerant aquila columbam. - ↑ [p. 344 modifica]i giudicii. Così le Aldine degli anni 1528, 1533, 1538, 1545, e questa credo la vera lezione; le Aldine del 1541 e 1547, i giudici.
- ↑ [p. 344 modifica]Questo passo intorno ai duelli fu conservato intatto nell’edizione espurgata dal Ciccarelli. Il Volpi nell’Indice, alle parole Combattimenti privati o siano duelli, aggiunge la seguente Nota: «In essi non solo, come consiglia l’autore, dee il Cortegiano andar ritenuto, ma, se è buon cristiano, li dee affatto fuggire, per aderire all’insegnamento dell’Apostolo nella sua IIa lettera ai Corintii, al capo VI, di dover seguitar Cristo per gloriam et ignobilitatem, per infamiam et bonam famam.»
- ↑ [p. 344 modifica]compagnata. Così le Aldine del 1528, 1533, 1545, voce usata anche altrove dal nostro Autore; le Aldine del 1538, 1541 e 1547, hanno accompagnata.
- ↑ [p. 344 modifica]i guida. Così tutte le Aldine e le altre antiche, ed è lombardismo usato più volte dall’Autore. Simile forma troviamo presso Dante, Inferno, canto V, v. 78:
e tu li chiama
Per quell’amor che i tira, ed ei verranno.Il Dolce mutò ad arbitrio li guida, lezione ripetuta nell’edizione dei Classici, e in quella del Silvestri. Simile modo di dire troviamo nuovamente a carte 58, lin. 36; a carte 87, lin. 25; a carte 118, lin. 34; a carte 123, lin. 35; a carte 200, lin. 20.
- ↑ [p. 344 modifica]È da avvertire che la intenzion dell’Autore è appunto di rifiutar la opinion del Bembo espressa nelle sue prose intorno alla lingua; dove forse si potrebbe dire, che ambedue peccassero nel troppo, l’uno nell’osservare, e l’altro nello sprezzare. Dolce.
- ↑ [p. 344 modifica]Allude al celebre verso di Orazio:
Scribendi recte, sapere est principium et fons.
(De Arte Poetica, v. 309.)Non so astenermi dal notare qui il grave errore in che nella spiegazione di questo verso è caduto il Botta, nella prefazione alla continuazione della Storia del Guicciardini; dove, collegando il recte col sapere, e non collo scribendi, ci ripete a sazietà quell’insulso [p. 345 modifica]recte sapere, quasi fosse possibile sapere non recte. Al qual proposito conviene avvertire, che la voce italiana sapere corrisponde piuttosto alla latina scire, e che manchiamo nella nostra lingua di un vocabolo che perfettamente esprima il sapere del latini. Forse, ma pure imperfettamente, si potrebbe tradurre per aver senno.
- ↑ [p. 345 modifica]Tolto da Cicerone. Dolce.
- ↑ [p. 345 modifica]46, lin. 12. — se gli trovi. Così corresse il Dolce; le Aldine hanno, e forse il Castiglione scrisse si gli trovi. Del resto, questo pensiero parimente è tolto da Orazio:
ut sibi quivis
Speret idem; sudet multum, frustraque laboret,
Ausus idem.
(De Arte Poetica, v. 210-2-42.) - ↑ [p. 345 modifica]italiana, commune. Così tutte le Aldine; il Dolce, tolta la virgola, scrisse, forse non male, italiana commune.
- ↑ [p. 345 modifica]perchè dite, se qualche. Così le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547; le altre, perchè dite, che se qualche.
- ↑ [p. 345 modifica]Campidoglio si usa in rima dal Petrarca nel primo capitolo del Trionfo d’Amore. Gaetano Volpi.
- ↑ [p. 345 modifica]'nella maniera del cantare. Le Aldine degli anni 1528, 1538, 1541, hanno nella maniera dal cantare.
- ↑ [p. 345 modifica]Intorno al Mantegna, vedi la Parte II della Verona illustrata, del celebre signor marchese Scipione Maffei, in-8, a carte 189. Volpi.
- ↑ [p. 345 modifica]non direste voi poi, che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? Così le Aldine del 1541 e del 1547; le altre Aldine, con manifesto errore, non direste voi poi, che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, a Silio e a Virgilio?
- ↑ [p. 345 modifica]attiche. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, antiche.
- ↑ [p. 345 modifica]non vi pare. Male le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, et vi pare.
- ↑ [p. 345 modifica]non estimandola tanto, ragionevol cosa è ancor credere. Così corresse il Dolce; le edizioni anteriori hanno non estimandola tanto ragionevol cosa, et ancor credere, tranne l’Aldina del 1547, che ha non estimandola tanto ragionevol cosa, è ancor credere.
- ↑ [p. 345 modifica]Versi tratti dal sonetto CXXXV del Petrarca.
- ↑ [p. 346 modifica]che or saria lungo a dir. Così corresse il Volpi; le edizioni anteriori hanno che lor saria lungo a dir.
- ↑ [p. 346 modifica]tener certo. Così scriviamo, colle Aldine degli anni 1538, 1541, 1547; quelle del 1528, 1553, 1545, tener per certo.
- ↑ [p. 346 modifica]tra gli oratori. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, tra oratori.
- ↑ [p. 346 modifica]anco. Seguiamo la lezione delle Aldine degli anni 1541 e 1547; le altre ancora.