Il Corbaccio (1940)

Giovanni Boccaccio

Nicola Bruscoli 1354 Indice:Boccaccio, Giovanni – L'Ameto, Lettere, il Corbaccio, 1940 – BEIC 1765776.djvu Letteratura Il Corbaccio Intestazione 8 giugno 2023 75% Da definire


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IL CORBACCIO

O

IL LABERINTO D’AMORE

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Incomincia il libro chiamato Corbaccio



Qualunque persona, tacendo, i benefici ricevuti nasconde, senza aver di ciò cagione convenevole, secondo il mio giudicio, assai manifestamente dimostra sé essere ingrato e mal conoscente di quelli. O cosa iniqua e a Dio dispiacevole e gravissima a discreti uomini, il cui malvagio fuoco il fonte secca della pietá! Del quale acciò che niuno mi possa meritamente riprendere, intendo di dimostrare nell’umile trattato seguente una speziale grazia la quale, non per mio merito, ma per sola benignitá di colei che impetrandola da colui che volle quello ch’ella medesima, nuovamente mi fu conceduta. La qual cosa faccendo, non solamente parte del mio dovere pagherò, ma sanza niuno dubbio potrò a molti lettori di quella fare utilitá. E perciò, acciò che questo ne segua, divotamente priego colui, dal quale e quello, di che io debbo dire, e ogni altro bene procedette e procede, e di tutti, come per effetto si vede, è larghissimo donatore, che alla presente opera della sua salute siffattamente illumini il mio intelletto e la mano scrivente regga che per me quello si scriva che onore e gloria sia del suo santissimo nome, e utilitá e consolazione delle anime di coloro li quali per avventura ciò leggeranno, e altro no.

Non è ancora molto tempo passato che, ritrovandomi solo nella mia camera, la quale è veramente sola testimonia delle mie lagrime, de’ sospiri e de’ rammarichii, si come assai volte davanti avea fatto, m’avvenne che io fortissimamente sopra gli accidenti del carnale amore cominciai a pensare; e, molte cose giá passate volgendo e ogni atto e ogni parola pensando meco medesimo, giudicai che, senza alcuna mia colpa, io [p. 186 modifica]fossi fieramente trattato male da colei la quale io mattamente per mia singulare donna eletta avea e la quale io assai piú che la propria vita amava e oltre ad ogni altra onorava e reveriva. E in ciò parendomi oltraggio e ingiuria, sanza averla meritata, ricevere, da sdegno sospinto, dopo molti sospiri e rammarichíi, amaramente cominciai, non a lagrimare solamente, ma a piagnere. E in tanto d’afflizione trascorsi, ora della mia bestialitá dolendomi, ora della crudeltá trascurata di colei, che, uno dolore sopra un altro col pensiero aggiugnendo, estimai che molto meno dovesse essere grave la morte che cotal vita; e quella con sommo desiderio cominciai a chiamare; e, dopo molto averla chiamata, conoscendo io che essa, piú che altra cosa crudele, piú fugge chi piú la desidera, meco immaginai di costrignerla a trarmi dal mondo.

E giá del modo avendo diliberato, mi sopravvenne un sudore freddo e una compassion di me stesso, con una paura mescolata di non passare, di malvagia vita, a peggiore, se io questo facessi, che fu di tanta forza che quasi del tutto ruppe e spezzò quello proponimento che io davanti reputava fortissimo. Per che, ritornatomi alle lagrime e al primiero rammarichio, tanto in esse multiplicai che ’l desiderio della morte, dalla paura di quella cacciato, ritornò un’altra volta; ma, tolto via come la prima e le lagrime ritornate, a me, in cosí fatta battaglia dimorante, credo da celeste lume mandato, sopravvenne un pensiero; il quale cosí nella afflitta mente meco cominciò assai pietosamente a ragionare:

«Deh stolto, che è quello a che il poco conoscimento della ragione, anzi piú tosto il discacciamento di quella, ti conduce? Or se’ tu si abbagliato che tu non t’avvegghi che, mentre tu estimi altrui in te crudelmente adoperare, tu solo se’ colui che verso te incrudelisci? Quella donna che tu, sanza guardare come, incatenata la tua libertá e nelle sue mani rimessa, t’è, si come tu di’, di gravi pensieri cagione (tu se’ ingannato: tu, non ella, ti se’ della tua noia cagione), mostrami dov’ella venisse ad isforzarti che tu l’amassi; mostrami con quali armi, con quali giurisdizioni, con qual forza ella [p. 187 modifica]t’abbia qui a piagnere e a dolerti menato o ti ci tenga. Tu noi mi potrai mostrare, per ciò ch’egli non è. Vorrai forse dire: ella, conoscendo ch’io l’amo, dovrebbe amar me; il che non faccendo, m’è di questa noia cagione; e con questo mi ci mena e con questo mi ci tiene. Questa non è ragione ch’abbia alcun valore; forse che non le piaci tu; come vuo’ tu che alcuno ami quello che non gli piace? Dunque, se tu ti se’ messo ad amare persona, a cui tu non piaci, non è, se mal te ne viene, colpa della persona amata: anzi è tua, che sapesti male eleggere. Dunque, se per non essere amato ti duoli, te ne se’ tu stesso cagione: e perché apponi tu ad alcuno quello che tu medesimo t’hai fatto, e ti fai? E certo, per lo averti tu stesso offeso, meriteresti tu appo giusto giudice ogni grave penitenzia; ma, per ciò ch’ella non è quella che al tuo conforto bisogna, anzi sarebbe uno aggiugnere di pena sopra pena, non è ora da andar cercando questa giustizia. Ma veggiamo, se tu in te stesso incrudelisci, quel che tu avrai fatto. Ciò che l’uomo fa o per piacere a se stesso o per piacere ad altrui, o per piacere a sé e ad altrui il fa, o per lo suo contrario. Ma veggiamo se quello, a che la tua bestialitá ti reca, è tuo piacere o dispiacere. Che egli non sia tuo piacere assai manifestamente appare; per ciò che, se ti piacesse, tu non te ne rammaricheresti, né ne piangeresti come tu fai.

«Resta dunque a vedere se questo tuo dispiacere è piacere o dispiacere ad altrui: né d’altrui è ora da cercare, se non di quella donna per cui tu a ciò ti conduci; la quale senza dubbio o ella t’ama o ella t’ha in odio, o egli non è né l’uno né l’altro. Se ella t’ama, senza niuno dubbio la tua afflizione l’è noiosa e dispiacevole: or non sai tu che, per fare noia e dispiacere ad altrui, non s’acquista né si mantiene amore, anzi odio e nimistá? Non pare che tu abbi tanto caro l’amore di questa donna quanto tu vuogli mostrare, se tu con tanta animositá fai quello che le dispiace e disideri di far peggio. Se ella t’ha in odio, se tu non se’ del tutto fuori di te, assai apertamente conoscer dei niuna cosa poter fare, che piú le [p. 188 modifica]piaccia, che lo ’mpiccarti per la gola il piú tosto che tu puoi. E non vedi tu tutto ’l giorno le persone che hanno alcuno in odio, per diradicarlo e levarlo di terra, mettere le lor cose e la propria vita in avventura, contra le leggi umane e divine adoperando? E, tanto di letizia e di piacer prendono, quanto di tristizia e di miseria sentono in cui hanno in odio.

«Tu, dunque, piangendo, attristandoti, rammaricandoti, sommo piacere fai a questa tua nimica. E chi sono quelli, se non i bestiali, che a’ loro nirnici di piacere si dilettino? Se ella né t’ama né t’ha in odio, né di te poco né molto cura, a che sono utili queste lagrime, questi sospiri, questi dolori cosí cocenti? Tanto t’è per lei prenderli, quanto se per una delle tue travi della camera li prendessi. Perché dunque t’affliggi? Perché la morte desideri? La quale ella medesima tua nimica, secondo che tu estimi, non cercò di darti? E non mostra che tu abbi ancora sentito quanto di dolcezza nella vita sia, quando cosí leggermente di tòrti di quella appetisci; né ben considerato quanto piú d’amaritudine sia negli etterni guai che in quelli del tuo folle amore; li quali tanti e tali ti vengono, quanti e quali tu stesso te li procacci; ed ètti possibile, volendo essere uomo, di cacciarli; il che degli etterni non avverrebbe.

«Leva adunque via, anzi discaccia del tutto, questo tuo appetito; né volere ad una ora te privare di quello che non acquistasti ed eterno supplicio guadagnare, e, a chi ti vuole male, sommamente piacere; siati cara la vita e quella, quanto puoi il piú, t’ingegna di prolungare. Chi sa se tu ancora, vivendo, potrai veder cosa di costei, di cui tu tanto gravato ti tieni, che sommamente ti fará lieto? Niuno. Ma certissimo può essere a tutti che ogni speranza di vendetta, od altra letizia di cosa che qua rimanga, fugge, nel morire, a ciascuno. Vivi adunque; e come costei, contr’a te malvagiamente operando, s’ingegna di darti dolente vita e cagione di desiderare la morte, cosí tu, vivendo, trista la fa’ della tua vita.»

Maravigliosa cosa è quella della divina consolazione nelle mente de’ mortali: questo pensiero, si coni’io arbitro, dal [p. 189 modifica]piissimo padre de’ lumi mandato, quasi dagli occhi della mente ogni oscuritá levatami, in tanto la vista di quelli aguzzati rendé chiara che, a me stesso manifestamente scoprendosi il mio errore, non solamente, riguardandolo, me ne vergognai, ma, da compunzione debita mosso, ne lagrimai e me medesimo biasimai forte, e da meno ch’io non arbitrava mi reputai. Ma, rasciutte dal viso le misere e le pietose lagrime e confortatomi a dovere la solitaria dimoranza lasciare, la quale per certo offende molto ciascuno il quale della mente è men che sano, della mia camera con faccia assai, secondo la malvagia disposizione trapassata, serena uscii. E, cercando, trovai compagnia assai utile alle mie passioni: colla quale ritrovandomi e in dilettevole parte ricolti, secondo la nostra antica usanza, primieramente cominciammo a ragionare con ordine assai discreto delle volubili operazioni della fortuna, della sciocchezza di coloro, i quali quella con tutto il desiderio abbracciano, e della pazzia d’essi medesimi, i quali, si come in cosa stabile, le loro speranze messe fermano. E di quinci alle perpetue cose della natura venimmo e al maraviglioso ordine e laudevole di quelle, tanto meno da tutti con ammirazion riguardate, quanto piú tra noi, senza considerarle, le veggiamo usitate. E da queste passammo alle divine, delle quali appena le particelle estreme si possono da’ piú sublimi ingegni comprendere, tanto d’eccellenzia trapassano gl’intelletti de’ mortali. E intorno a cosí alti e cosí eccelsi e cosí nobili ragionamenti il rimanente di quel di consumammo; da’ quali la sopravvegnente notte ci costrinse a rimanere a quella volta: e, quasi da divino cibo pasciuto, levatomi e ogni mia passata noia avendo cacciata e quasi dimenticata, consolato alla mia usitata camera mi ridussi. E poiché l’usitato cibo assai sobriamente ebbi preso, non potendo la dolcezza de’ passati ragionamenti dimenticare, grandissima parte di quella notte, non senza incomparabile piacere, tutti meco repetendoli, trapassai; e, dopo lungo andare, vincendo la naturale opportunitá il mio piacere, soavemente m’addormentai; e con tanta piú forza si mise ne’ miei sentimenti il sonno, quanto piú gli avea il dolce pensiere trapassato di tempo tolto. [p. 190 modifica]

Per che essendo io in altissimo sonno legato, non parendo alla mia nimica fortuna che le bastassero le ingiurie fattemi nel mio vegghiare, ancora dormendo s’ingegnò di noiarmi; e davanti alla virtú fantastica, la quale il sonno non lega, diverse forme paratemi, avvenne che a me subitamente parve intrare in uno dilettevole e bello sentiero, tanto agli occhi miei e a ciascun altro mio senso piacevole quanto fosse alcun’altra cosa stata davanti da me veduta. Il luogo, dove questo si fosse, non mi parea conoscere; né di conoscerlo mi parea curare poscia che dilettevole il sentia. Ed è il vero che, quanto piú avanti per esso andava, tanto più parea che di piacere mi porgesse; per che da quello si fermò una speranza la quale mi parea che, se io al fine del sentiero pervenissi, letizia inestimabile e mai da me non sentita mi s’apparecchiava. Onde pareva che in me s’accendesse un disio si fervente di pervenire a quello che, non solamente i miei piedi si moveano a correre per pervenirvi, ma mi parea che mi fossero da non usitata natura prestate velocissime ali; colle quali, mentre a me parea piú rattamente volare, mi parve il cammino cambiare qualitá; e, dove erbe verdi e vari fiori nell’entrata m’erano paruti vedere, ora sassi, ortiche e triboli e cardi e simili cose mi parea trovare; sanza che, indietro volgendomi, seguir mi vidi a una nebbia si folta e si oscura quanto niuna se ne vedesse giá mai; la quale subitamente intorniatomi, non solamente il mio valore impedio, ma quasi d’ogni speranza del promesso bene all’entrare del cammino mi fece cadere.

E cosí quivi immobile e sospeso trovandomi, mi parve per lungo spazio dimorare avanti che io, pure attorno guardandomi, potessi conoscere dov’io fossi. Ma pure, dopo lungo spazio assottigliatasi la nebbia, come che ’l cielo per la sopravvenuta notte oscurato fosse, conobbi me dal mio volato essere stato lasciato in una solitudine diserta, aspra e fiera, piena di salvatiche piante, di pruni e di bronchi, senza sentieri o via alcuna, e intorniata da montagne asprissime e si alte che colla loro sommitá pareva toccassono il cielo. Né per [p. 191 modifica]guardare con gli occhi corporali né per estimazione della mente in guisa alcuna mi pareva dovere comprendere, né conoscere, da qual parte io mi fossi in quella entrato; né ancora, che piú mi spaventava, poteva discernere dond’io di quindi potessi uscire e in piú dimestichi luoghi tornarmi. E, oltre a questo, mi parea per tutto, dove che io mi volgessi, sentire mugghi, urli e strida di diversi e ferocissimi animali: de’ quali la qualitá del luogo mi dava assai certa speranza e testimonianza che per tutto ne dovesse essere. Laonde e dolore e paura parimente mi venne nell’animo: il dolore agli occhi miei recava continue lacrime, e sospiri e rammarichíi alla bocca.

La paura m’impediva di prendere partito verso quale di quelle montagne io dovessi prendere il cammino per partirmi di quella valle, ciascuna parte mostrandomi piena di piú forti nimici della mia vita: laond’io, arrestato nella guisa che mostrato è, e da ogni consiglio e aiuto abbandonato, quasi niun’altra cosa che la morte o da fame o da crudel bestia aspettando, fra gli aspri sterpi e le rigide piante piangendo mi parea dimorare; niun’altra cosa faccendo che tacitamente o dolermi dell’entrata, sanza prevedere dov’io pervenire mi dovessi, o chiamare il soccorso di Dio. E, mentre che io in cotal guisa e giá quasi da ogni speranza abbandonato, tutto delle mie lagrime molle mi stava, ed ecco di verso quella parte, dalla quale nella misera valle il sole si levava, venire verso me con lento passo un uomo senza alcuna compagnia; il quale, per quello ch’io poi piú da presso discernessi, era di statura grande e di pelle e di pelo bruno, benché in parte bianco divenuto fosse per gli anni, de’ quali forse sessanta o piú dimostrava d’avere, asciutto e nerbuto, e di non molto piacevole aspetto; e il suo vestimento era lunghissimo e largo e di colore vermiglio, come che assai piú vivo mi paresse, non ostante che tenebroso fosse il luogo, dov’io era, che quello che qua tingono i nostri maestri. Il quale, come detto è, con lenti passi approssimandosi a me, in parte mi porse paura e in parte mi recò speranza: paura mi porse per ciò ch’io cominciai a temere non quello luogo a lui fosse per propria [p. 192 modifica]possessione assegnato e, recandosi ad ingiuria di vedervi alcuno altro, le fiere del luogo, si come a lui familiari, a vendicar la sua ingiuria sopra me incitasse e a queste mi facesse dilacerare: speranza d’alcuna salute mi recò, in quanto piú faccendosi a me vicino, pieno di mansuetudine mel parea vedere; e piú e piú riguardandolo, estimando d’altra volta, non quivi ma in altra parte, averlo veduto, diceva meco:

«Questi per avventura, si come uomo uso in queste contrade, mi mostrerrá dove sia di questo luogo l’uscita; e ancora, se in lui fia spirito di pietá alcuno, infino a quello benignamente mi menerá.»

E, mentre che io in cosí fatto pensiere dimorava, esso, senza ancora dire alcuna cosa, tanto mi s’era avvicinato che io, ottimamente la sua effige raccolta, chi egli fosse e dove veduto l’avessi mi ricordai; né d’altro colla mia memoria disputava che del suo nome, immaginando se io per quello, misericordia e aiuto chiedendogli, il nominassi, quasi una piú stretta familiaritá per quello dimostrando, con maggiore e piú forte affezione a’ miei bisogni il dovesse muovere.

Ma, mentre che io quello che cercando andava, ritrovar non poteva, esso, me con voce assai soave per lo mio propio nome chiamandomi, disse:

— Qual malvagia fortuna, qual malvagio destino t’ha nel presente diserto condotto? Dove è il tuo avvedimento fuggito, dove la tua discrezione? Se tu hai sentimento, quanto solevi, non discerni tu che questo è luogo di corporal morte e perdimento d’anima, che è molto peggio? Come ci se’ tu venuto, qual trascuranza t’ha qui guidato? —

Io, costui udendo, e parendomi ne’ suoi sembianti assai di me pietoso, prima ch’io potessi alla risposta avere la voce, dirottamente, di me increscendomi, cominciai a piangere. Ma, poiché alquanto sfogata fu la nuova passione per le lagrime, raccolte alquanto le forze dell’animo in uno, con rotta voce e non senza vergogna, rispuosi:

— Sì come io penso, il falso piacere delle caduche cose, il quale piú savio ch’io non sono giá trasviò molte volte e [p. 193 modifica]forse a non minor pericolo condusse, qui, prima che io m’accorgessi dov’io m’andassi, m’ebbe menato: lá dove in amaritudine incomportabile e senza speranza alcuna, da poi che io mi ci vidi, che è sempre stato di notte, dimorato sono. Ma, poiché la divina grazia, si come credo, e non per mio merito, mi t’ha innanzi parato, io ti priego, se colui se’il quale giá molte volte in altra parte veder mi parve, che tu, per quello amore che alla comune patria dei e appresso per quello Dio, per lo quale ogni cosa si dee, e se in te è alcuna umanitá, che di me t’incresca; e, se sai, m’insegni coni’io del luogo, di tanta paura pieno, partir mi possa: dalla quale giá si vinto mi sento che appena conosco s’io o vivo o morto mi sono. —

Parvemi allora, nel viso guardandolo, che egli alquanto delle mie parole ridesse con seco stesso; e poi dicesse:

— Veramente mi fa il qui vederti e le tue parole assai manifesto, se altrimenti noi conoscessi, te del vero sentimento essere uscito e non conoscere se vivo ti sii o morto; il quale se da te non avessi cacciato, ricordandoti quali occhi fossero quelli e di cui, la cui luce, secondo il vostro parlare, t’aperse il cammino che qui t’ha condotto, e fecetelo parere cosí bello, e conoscendo quanto fossero a me, tu non avresti avuto ardire di pregarmi per la tua salute; ma, veggendomi, ti saresti ingegnato di fuggire per téma di non perderne alquanta che ancora t’è rimasa. E, se io fossi colui che io giá fui, per certo non aiuto ti presterei ma confusione e danno, si come a colui che ottimamente l’hai meritato. Ma, per ciò che io, poiché dalla vostra mortale vita sbandito fui, ho la mia ira in caritá trasmutata, non sará alla tua domanda negato il mio aiuto. —

Alle cui parole stando io attento quanto poteva, quando io udi’: «Poiché dalla vostra mortale vita fui sbandito», riconoscendo non costui essere quello ch’io estimava, ma la sua ombra, cosí uno repente freddo mi corse per Possa e tutti i peli mi si cominciarono ad arricciare; e, perduta la voce, mi parve, se io avessi potuto, volere lui fuggire. Ma, [p. 194 modifica]sí come sovente avviene a chi sogna, che gli pare ne’ maggiori bisogni per niuna condizione del mondo potersi muovere, cosí a me sognante parve avvenisse; e parvemi che le gambe mi fossero del tutto tolte e divenire immobile. E di tanto potere fu questa nuova paura ch’io non so pensare qual cosa fosse quella che si forte facesse il mio sonno ch’egli allora non si rompesse; e per questa téma, senza alcuna cosa rispondere o dire, stare mi parve: la qual cosa veggendo lo spirito, esso ridendo mi disse:

— Non dubitare: parla sicuramente meco e della mia compagnia prendi fidanza; ché per certo io non sono venuto per nuocerti, ma per trarti di questo luogo, se fede intera presterai alle mie parole. —

Il che udendo io, e tornandomi nella memoria quello che negli uomini possano gli spiriti, mi renderò la sicurtá partita; e, verso lui alzando il viso, il pregai umilemente che di trarmene s’avacciasse, prima che altro pericolo ne sopravvenisse; ed egli allora disse:

— Io non aspetto altro, a dover far quello che domandi, che tempo; per ciò che tu dei sapere che, quantunque l’entrare di questo luogo sia apertissimo a chi vuole entrarci con lascivia e con mattezza, egli non è cosí agevole il riuscirne; ma è faticoso e conviensi fare e con senno e con fortezza: le quali avere non si possono senza l’aiuto di colui che l’aiutò, col volere del quale egli era quivi venuto. —

Allora mi parve che io dicessi:

— Poiché tempo n’è prestato di ragionare né si subita può essere la nostra partita, se grave non ti fosse, volentieri d’alcune cose ti domanderei. —

Al quale esso benignamente rispuose:

— Sicuramente ciò che ti piace domanda, infino a tanto ch’io verrò a*te domandare d’alcune cose, e alcune dirtene intorno a quelle. —

Io allora con voce assai esperta dissi:

— Due cose con pari desiderio mi stimolano, ciascuna ch’io prima di lei domandi; e per ciò in somma domanderò [p. 195 modifica]d’amendue: e priegoti che ti piaccia di dirmi che luogo questo sia e se a te per abitazione è stato dato o se, per se stesso, alcuno che c’entri ne può mai uscire: e appresso mi facci chiaro chi colui sia, col piacere del quale qui venisti ad atarmi. —

Alle quali parole esso rispuose:

— Questo luogo è da vari variamente chiamato; e ciascuno il chiama bene: alcuni il chiamano il Laberinto d’Amore, altri la valle incantata; e assai il porcile di Venere e molti la valle de’ sospiri e della miseria; e, oltre a questi, chi in uno modo e chi in uno altro il chiamano, come meglio a ciascun pare. Né a me per abitazione è dato; per ciò che da potere piú in cosí fatta prigione intrare la morte mi tolse, alla quale tu corri. È il vero che men dura stanza che questa non ho, ma di meno pericolo; e dei sapere che chi per lo suo poco senno ci cade mai, se lume celestiale non nel trae, uscir non ci può; e allora, com’io giá ti dissi, con senno e con fortezza. —

Al quale io allora dissi:

— Deh, se colui, che può, i tuoi piú caldi disii ponga in vera pace, avanti che altro da te si proceda, soddisfammi a una cosa. Tu di’ che hai per abitazione luogo piú duro che questo, ma meno pericoloso; e io giá, per le tue parole medesime e per la mia ricordanza, conosco che tu al nostro mondo non vivi: quale luogo adunque possiedi tu? Se’tu in quella prigione etterna nella quale, senza speranza di redenzione, e s’entra e si dimora? O se’ in parte che, quando che sia, speranza vera ti prometta salute? Se tu se’ nella prigione eterna, senza dubbio piú dura dimora credo che ivi sia che qui non è: ma come può ella essere con meno periglio? E, se tu se’ in parte che ti prometta ancora riposo, come può ella essere piú dura che questa non è?

— Io sono — rispuose lo spirito — in parte che mi promette sanza fallo salute. E in tanto è di minore periglio che questa: che quivi non si può peccare, perché a peggio temere si possa di pervenire; il che continuamente qui si fa. E tanto molti in ciò perseverano, faccendo che essi caggiono in quello [p. 196 modifica]carcere cieco nel quale mai il divino lume con grazia o con misericordia si vede, ma con irrevocabile e severa giustizia continuo, con grave danno di chi, sentendo, il conosce, si vede acceso.

«Ma sanza dubbio la mia stanza, coni’io giá dissi, ha troppo piú di durezza che questa: in tanto che, se lieta speranza, che certa di migliore vita vi si porta, non aiutasse e me e gli altri che vi sono a sostenere pazientemente la gravezza di quella, quasi si poria dire che gli spiriti, li quali sono immortali, morrebbono. E, acciò che tu parte ne ’ntenda, sappi che questo mio vestimento, il quale t’ha, poscia che’l vedesti, fatto maravigliare, per ciò che mai per avventura simile, quando io era tra voi, noi mi vedesti, e che solamente vi pare che a coloro, che ad alcuno onore sono elevati, piú che ad alcuni si convenga d’usare, non è panno manualmente tessuto, anzi è un fuoco dalla divina arte composto, si fieramente cocente che ’l vostro è come ghiaccio, a rispetto di questo, freddissimo; e mugnemi si e con tanta forza ogni umore da dosso che a niuno carbone, a niuna pietra divenuta calcina mai nelle vostre fornaci non fu cosí dal fuoco vostro munto: per che alla mia sete tutti i vostri fiumi insieme adunati e giú per la mia gola volgendosi sarebbono un picciol sorso. E di ciò due cose mi son cagione: l’una è lo ’nsaziabile ardore ch’io ebbi de’ danari, mentre io vissi; e l’altra è la sconvenevole pazienzia colla quale io comportai le scellerate e disoneste maniere di colei della qual tu vorresti d’avere veduta esser digiuno. E questo basti al presente d’avere ragionato della durezza del luogo della mia dimora; alla quale veramente quella noia che qui si sostiene, se non in tanto che questa dannosa e quella è fruttuosa, non è da comparare.

«Ma da soddisfare è alla tua seconda domanda, acciò che tu a’ tuoi impauriti spiriti interamente restituisca le forze loro: e per ciò sappi che colui, colla cui licenzia io sono qui venuto, anzi, a dir meglio, per lo cui comandamento, è quello infinito bene che di tutte le cose fu creatore e per lo quale [p. 197 modifica]e al quale tutte le cose vivono; e al quale è del nostro bene e del nostro riposo e della nostra salute troppo maggiore sollecitudine che a noi stessi. —

Dico che, corti’io queste parole dallo spirito udii, conoscendo il mio pericolo e la benignitá del mandatore, io mi sentii venire nello animo una umiltá grandissima la quale e l’altezza e la potenzia del mio Signore, la sua etterna stabilitá e i suoi continui benefici in me conoscer mi fece; e appresso la mia viltá, la mia fragilitá e la mia ingratitudine; e le infinite offese giá fatte verso colui che nel mio bisogno, come sempre avea fatto, senza avere riguardo al mio malvagio operare, mi si mostrava pietoso e liberale. Dalla qual conoscenza una contrizione si grande e pentimento mi venne delle non ben fatte cose che non solamente mi parve che gli occhi di vere lagrime, e assai, si bagnassero, ma che il cuore, non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolvesse; per che, si per questo e si ancora perché poverissimo di grazie a rendere a tanti e si alti effetti mi sentiva, per lungo spazio mi tacqui, parendomi bene che lo spirito la cagione conoscesse; ma, poiché cosí alquanto stato fui, ricominciai a parlare:

— O bene avventurato spirito, assai bene cognosco e discerno, la medesima coscienza ricercando, quello essere vero, che tu ragioni: ciò Dio piú caro avere, che noi medesimi non abbiamo; li quali colle nostre malvage opere continuamente ci andiamo sommergendo, dov’egli colla sua caritativa pietá sempre se ne va sollevando e le sue etterne bellezze mostrando e a quelle, come benignissimo padre, ne va chiamando; ma tuttavia, si come colui che ancora la divina bontá, a guisa che le terrene operazioni si fanno, vo misurando, maraviglia mi porge, sentendomi io averlo offeso molto, come esso ora ad aiutarmi si mosse. —

A cui lo spirito disse:

— Veramente tu parli come uomo che ancora non mostra conosca il costume della divina bontá, che è perfettissima, ed estimi cosí nelle sue opere esercitarsi come voi, che mortali [p. 198 modifica]e mobili e imperfetti sete, fate; nelle menti de’ quali niuno riposo si truova, infino a tanto che gran vendetta non si vede d’ogni piccola offesa ricevuta.

«Ma, per ciò che la contrizione delle commesse colpe, la quale mi pare conoscere in te venuta, ti dimostra docile e attento dovere essere a’ futuri ammaestramenti, mi piace una sola delle cagioni per la quale la divina bontá si mosse a dovere me mandare ad aiutarti ne’ tuoi affanni. Egli è il vero che (per quello ch’io sentissi nell’ora che questa commeésione mi fu fatta, non da umana voce, ma da angelica, la quale non si dee credere che menta giá mai) che tu sempre, qual che stata si sia la tua vita, hai speziale riverenzia e devozione in colei nel cui ventre si raccolse la nostra salute e che è viva fontana di misericordia e madre di grazia e di pietade; e in lei, si come in termine fisso, avesti sempre ferma speranza. La qual cosa essendo a’ suoi divini occhi manifesta e veggendoti in questa valle, oltre al modo usato, smarrito e impedito, intanto che tu eri a te medesimo uscito di mente, si come essa benignissima fa sovente nelle bisogne de’ suoi divoti che, senza priego aspettare, da se medesima si muove a sovvenire dell’opportuno aiuto al bisogno, veggendo ’l pericolo al qual tu eri, senza tua domanda aspettare, per te al figliuolo domandò grazia e impetrò la salute tua; alla quale per suo messo mi fu comandato che io venissi; e io il feci; né prima da te mi partirò che in luogo libero ed espedito t’arò riposto, dove a te piaccia di seguitarmi. — Al quale io dopo il suo tacere, dissi:

— Assai bene m’hai soddisfatto alle mie domande: e nel vero, come che vendetta da Dio è un di nuovo rifarti bello per piú piacergli, pur di te compassione mi viene e disidero sommamente d’alleggiare quella, se mai con alcuna mia opera il potessi; e d’altra parte in me medesimo mi rallegro, sentendo che tu, non al ruinare allo ’nferno, ma a salire al grorioso regno sii dopo la tua penitenzia disposto. La benignitá e la clemenzia di colui, il quale t’ha in questa vicenda mandato, non m’è ora nuova: ella in molti altri pericoli giá me [p. 199 modifica]l’ha fatta conoscere, quantunque io di tanti benefici ingrato stato sia, poco nelle sue laudi adoperandomi; ma io divotamente lui priego, che può quello che vuole, che, come dalla perpetua morte piú volte m’ha tolto, cosí e i miei passi dirizzi alla vita perpetua e quelli conservi tanto che io, suo fedelissimo servidore essendo, ad essa pervenga.

«Ma per lui ti priego che a ancora, a una cosa rispondendomi, mi soddisfacci. In questa misera valle, la qual tu variamente nomini, senza appropriartene alcuno, abitac’egli alcuna persona, se quelli non fosser giá, li quali per avventura amor della sua corte avendo sbanditi, qui li mandasse: e in esilio, come a me pare essere stato da lui mandato; o posseggonla pur solamente le bestie le quali io ho udito tutta la notte dintorno mugghiare? —

A cui egli sorridendo rispuose:

— Assai bene conosco che ancora il raggio della vera luce non è pervenuto al tuo intelletto e che tu quella cosa, la quale è infima miseria, come molti stolti fanno, estimi somma felicitá, credendo che nel vostro concupiscibile e carnale amore sia alcuna parte di bene; e per ciò apri l’orecchie a quello che ora ti dirò. Questa misera valle è quella corte che tu chiami d’amore; e quelle bestie, che udite hai e odi mugghiare, sono i miseri, de’ quali tu se’ uno, dal fallace amore inretiti; le boci de’ quali, in quanto di cosí fatto amore favellano, niuno altro suono hanno nell’orecchie de’ discreti e ben disposti uomini che quello che mostra che venga alle tue; e però dianzi la chiamai laberinto, perché cosí in essa gli uomini, come in quello giá faceano, senza saper mai riuscire, s’avviluppano. Maravigliomi di te che ne domandi; con ciò sia cosa ch’io sappia che tu, non una volta, ma molte giá dimorato ci sii; quantunque forse non con quella gravezza che ora ci dimori. —

Io, quasi di mia colpa compunto, riconoscendo la veritá tocca da lui, quasi in me ritornato, rispuosi:

— Veramente ci son io altre volte assai stato; ma con piú lieta fortuna, secondo il parere delle corporali menti; e di´ [p. 200 modifica]quinci, piú per l’altrui grazia che per lo mio senno, in diversi modi or mi ricordo essere uscito; ma si m’avea e il dolor sostenuto e la paura di me tratto che cosí, come mai stato non ci fossi, d’esserci stato mi ricordava. E assai bene ora conosco, senza piú aperta dimostrazione, che faccia gli uomini divenire fiere e che voglia dire la salvatichezza del luogo e gli altri nomi, da te mostratimi della valle, e il non vedere in essa né via né sentiero.

— Omai adunque — disse lo spirito — poiché le tenebre alquanto ti si cominciano a partire dall’intelletto e giá cessa la paura, nella quale io ti trovai, infino che’l lume apparisca che la via da uscirci ti manifesti, d’alcuna cosa teco mi piace di ragionare; e, se la natura del luogo il patisse, io direi, in servigio di te, che stanco ti veggio, che noi a seder ci ponessimo; ma, perché qui far non ci può, ragioniamo in piede. Io so (e, se d’altra parte non sapessi, si mel fecero poco avanti chiaro le tue parole, e ancora il luogo nel quale io t’ho trovato mel manifesta) che tu se’fieramente nelle branche d’amore inviluppato; né m’è piú celato, che questo sia, chi di ciò t’è cagione; e tu il dei nel mio ragionare avere compreso, se di ciò ti ricorda che io dianzi dissi di colei la qual tu vorresti d’aver veduta essere digiuno. Ma, avanti che io piú oltre vada, ti dico che io non voglio che tu da me prenda alcuna vergogna, perch’ella giá piú che ’l convenevole mi fosse cara; ma, cosí sicuramente e con aperto viso di ciò con meco ragiona, come se sempre fossi stato di lei strano; e, per merito della compassione la quale io porto a’tuoi mali, ti priego che come tu ne’ suoi lacci incappasti mi manifesti. —

Al quale io, cacciato via ogni rossore, rispuosi:

— Il priego tuo mi strigne a dirti quello ch’io mai, fuori che a un fidato compagno, non dissi e a lei sola per alcuna mia lettera fe’ palese; né di ciò, dove pure la tua libertá non me ne assicurasse, da te mi dovrei, piú che da un altro, vergognare; né tu turbartene; per ciò che, come tu dalla nostra vita ti dipartisti, secondo che l’ecclesiastiche leggi ne mostrano, quella ch’era stata tua donna non fu piú tua donna, [p. 201 modifica]ma divenne liberamente sua: per che in niuno atto potresti con ragione dire che io mi fossi ingegnato di dovere alcuna tua cosa occupare.

«Ma, lasciando ora questa disputazione, che luogo non ci ha, stare e venendo a quello aprirti, che tu domandi, dico che per la mia disavventura, non sono molti mesi passati, avvenne che io con uno, al quale tu fosti giá vicino e parente, di cui esprimere il nome or non bisogna, in ragionare di varie cose entrai. E, mentre che noi cosí ragionando andavamo, accadde, come talvolta avviene che l’uomo d’uno ragionamento salta in un altro, che noi, il primo lasciato, in sul ragionare delle belle donne venimmo; e, prima avendo molte cose dette delle antiche, quale in magnanimitá, quale in castitá, quale in corporal fortezza lodando, condiscendemmo alle moderne: fra le quali il numero trovandone piccolissimo da commendare, pure esso, che in questa parte il ragionare prese, alcune ne nominò della nostra cittá; e, tra l’altre, nominò quella, che giá fu tua, la quale io nel vero non conosceva. Cosí non l’avessi io mai conosciuta poi! E di lei, non so da che affezione mosso, cominciò a dire mirabili cose, affermando che in magnifícenzia mai non era stata alcuna sua pari; e, oltre al naturale delle femmine, lei s’ingegnava di mostrare essere uno Alessandro, e alcune delle sue liberalitá raccontando; le quali, per non consumare il tempo in novelle, non curo di raccontare. Appresso lei di cosí e di tanto buono senno naturale disse essere dotata quanto altra donna per avventura conosciuta giá mai; e, oltre a ciò, eloquentissima, forse non meno che stato fosse qualunque ornato e pratico rettorico, fu ancora; e, oltre a ciò, che sommamente mi piacque, si come a colui ch’a quelle parole dava intera fede, la disse essere piacevole e graziosa e di tutti quelli costumi piena che in gran gentildonna si possano lodare e commendare. Le quali cose narrando questo cotale, confesso che io meco tacitamente dicea:

«O felice colui al quale la fortuna è tanto benigna ch’ella d’una cosí fatta donna gli conceda l’amore!» [p. 202 modifica]

«E giá quasi meco avendo diliberato di volere tentare se colui potessi essere, che degno di quello divenissi, del nome di lei colui domandai e della sua gentilezza e del luogo dov’ella a casa dimorasse; il quale quello non è, dove tu la lasciasti; ed esso ogni cosa pienamente mi fé’ palese. Per che poi, da lui dipartitomi, del tutto dispuosi di volerla vedere; e, se cosí perseverasse meco a ciò che io di lei estimava, mettere ogni mia sollecitudine in fare ch’ella divenisse mia donna, come io suo servidore diverrei. E, sanza dare alla bisogna alcuno indugio, in quella parte prestamente n’andai, dove a quella ora la credetti potere trovare o vedere; e si mi fu in ciò la fortuna favorevole, la qual mai, se non in cosa che dannosa mi dovesse riuscire, non mi fu piacevole, che al mio avviso ottimamente rispuose l’effetto. E dirotti maravigliosa cosa: che, non avendo io alcuno altro indizio di lei che solamente il color nero del vestimento, guardando tra molte che quivi n’erano in quello medesimo abito che ella, lá dove io prima la vidi, come il suo viso corse agli occhi miei, subitamente avvisai lei dovere essere quella che io andava cercando. E per ciò ch’io portai sempre opinione, e porto, che amore discoperto o sia pieno di mille noie o non possa ad alcuno desiderato effetto pervenire, avendo meco disposto del tutto di non cominciar questo con persona in guisa niuna a comunicare, se con colui non fosse, al quale, poscia ch’io amico divenni, ogni mio secreto fu palese, non ardiva addomandar se ciò fosse, che mi pareva. Ma ancora la fortuna, che in poche cose intorno a questo mio desiderio mi dovea giovare, come nella prima cosa m’era stata favorevole, cosí mi fu in questa seconda: ché, di dietro a me, senti’ alcuna donna che colle sue compagne di lei favellava, dicendo:

«— Deh, guarda come alla cotal donna stanno bene le bende bianche e’ panni neri. —

«La quale per avventura alcuna delle compagne, che non la conoscea, con tanto piacere di me, che alle loro parole tenea gli orecchi, che dir non potrei, la dimandò:

«— Quale è dessa di quelle molte che colá sono? — [p. 203 modifica]

«A cui la domandata donna rispuose:

«— La terza, che siede in su quella panca, è colei di cui io vi parlo. —

«Dalla quale risposta io compresi ottimamente avere avvisato; e da quella ora avanti l’ho conosciuta. Io non mentirò:

come io vidi la sua statura e poi appresso alquanto al suo andare riguardai e un poco gli atti esteriori ebbi considerati, io presumetti, ma falsamente, non solamente che colui, al quale avea udito di lei parlare, dovesse avere detto il vero, ma che troppo piú ch’egli detto non avea ne dovesse essere di bene. E cosí, da falsa opinione vinto, subito mi senti’, come se dall’udite cose e dalla vista di lei si movesse, corrermi al cuore un fuoco, non altrimenti che faccia su per le cose unte la fiamma, e si fieramente riscaldarmi che, chi allora m’avesse riguardato nel viso, n’arebbe veduto manifesto segnale; e come che i segni, venuti nel viso per lo nuovo fuoco, che, come prima le parti superficiali andò leccando, cosí poi, nelle intrinsece trapassato, piú vivo divenne, ne se ne partissono, mai, se non dentro, crescer lo sentii.

«In questa guisa adunque, che raccontato ho, di lei, che mal per me fu veduta, preso fui, dandomi il suo aspetto pieno di falsitá, non senza artificiale maestria, speranza di futura mercede. —

Lo spirito, il quale queste cose, secondo il mio parere, non senza diletto ascoltate avea, giá me sentendo tacere, cosí mi cominciò a parlare:

— Assai bene m’hai dimostrato il come e la cagione del tuo esserti prima allacciato e come tu medesimo ti vestisti la catena alla gola, ch’ancor ti strigne. Ma non ti sia grave ancor manifestarmi se mai questo tuo amore le palesasti e come; che mi parve dianzi udire di sí; e il dirmi appresso se da lei avesti alcuna speranza che piú t’accendesse che il tuo medesimo desiderio primieramente avesse fatto. —

Al quale io rispuosi:

— Per ciò che io manifestamente conosco, se io celar tei volessi, io non potrei, si mi pare che tu il vero senta de’´ [p. 204 modifica]fatti miei, donde che tu te l’abbi, niuna cosa te ne nasconderò.

Egli è il vero che, avendo io data piena fede, come giá dissi, alle parole udite da colui che lei tanto valorosa m’avea mostrata, io presi ardir di scriverle, mosso da cotale intenzione. Se costei è da quello, che costui mi ragiona, aprendole io onestamente per una lettera il mio amore, l’una delle due cose ragionevolmente mi dee seguire: o ella l’ara caro, per usarlo in quello ch’io possa; e a ciò mi risponderá; o ella l’ará caro, ma, non volendolo usare, discretamente me dalla mia speranza rimoverá.

«Per che l’uno de’ due fini aspettando, quantunque l’uno piú che l’altro desiderassi, per una mia lettera, piena di quelle parole che piú onestamente intorno a cosí fatta materia dir si possono, il mio ardente desiderio le feci sentire. A questa lettera seguitò per risposta una sua piccola letteretta, nella quale, quantunque ella con aperte parole niuna cosa al mio amore rispondesse, pure, con parole assai zoticamente composte e che rimate pareano, e non erano rimate, si come quelle che l’un piè avevano lunghissimo e l’altro corto, mostrava di disiderar di sapere chi io fossi. E dirotti piú: ch’ella in quella s’ingegnò di mostrare d’avere alcun sentimento d’una opinione filosofica, quantunque falsa sia, cioè che una anima d’uno uomo in uno altro trapassi: il che alle prediche, non in libro né in scuola, son certo ch’apprese. E in quella, me a uno valente uomo assomigliando, mostrò di volere, lusingando, contentare; affermando appresso sommamente piacerle chi senno e prodezza e cortesia avesse in sé e con queste antica gentilezza congiunta. Per la quale lettera, anzi per lo stile del dettato della lettera, assai leggermente compresi, o colui, che di lei assai cose dette m’avea, esser di gran lunga del naturai senno di lei e della ornata eloquenzia ingannato, o averne voluto me ingannare.

«Ma non potè perciò, non che spegnere, ma pure un poco il concetto fuoco diminuire; e avvisai che ciò che scritto m’avea niun’altra cosa volesse per ancora dire, se non darmi ardire a piú avanti scrivere e speranza di piú particulare ri[p. 205 modifica]sposta che quella; e ammaestramento e regola in quelle cose fare che per quella poteva comprendere che le piacessono. Delle quali, come ch’io fornito non mi sentissi, per ciò che né senno né prodezza né gentilezza c’era (alla cortesia, quantunque il buono animo ci fosse, non ci avea di che farla), nondimeno, secondo la mia possibilitá, a dovere fare ogni cosa, per la quale io la sua grazia meritassi, mi dispuosi del tutto. E del piacere preso da me per la lettera ricevuta, per un’altra lettera, com’io seppi il meglio, la feci certa; né poi senti’, né per sua lettera né per ambasciata, quello che io, di ciò che scritto l’avea, le paresse. —

Allora lo spirito disse:

— Se piú avanti in questo amore non è stato, che cagione te induceva il di trapassato, con tante lagrime, con tanto dolore, si ferventemente per questo a disiderare di morire? —

Al quale io rispuosi:

— Forse che il tacere sarebbe piú onesto; ma, non potendoli negare, poi ne domandi, te) pur dirò. Due cose erano quelle che quasi ad estrema disposizione m’aveano condotto: l’una fu il ravvedermi che, lá dov’io alcun sentimento aver credea, quasi una bestia senza intelletto m’avvidi ch’io era; e certo questo non è da turbarsene poco, avendo riguardo che io la maggiore parte della mia vita abbi spesa in dovere qualche cosa sapere, e poi, quando il bisogno viene, trovarmi non sapere nulla: l’altra fu il modo tenuto da lei in far palese ad altrui che io di lei fossi innamorato; e in questo piú volte crudele e pessima femmina la chiamai.

«Nella prima cosa mi trovai io in piú modi stoltamente avere adoperato; e massimamente in credere troppo di leggeri cosí alte cose d’una femmina, come colui raccontava, senza altro vederne; e appresso per quelle, senza vedere né dove nè come, ne’ lacciuoli d’amore incapestrarmi e nelle mani d’una femmina dare legata la mia libertá e sottoposta la mia ragione; e l’anima, che, con questa accompagnata, solea essere donna, senza, essere divenuta vilissima serva: delle quali cose non tu né altri dirá che da dolersi non sia infin la morte.´ [p. 206 modifica]

«Nella seconda essa ha, secondo che mi pare, in assai cose fallato e assai chiaramente mostro colui mentir per la gola, che si ampiamente delle sue esimie virtú, meco parlando, si distese. Per ciò che, secondo che a me pare avere compreso, uno, il quale non perch’e’ sia, ma perché gli pare essere, i suoi vicini chiamano il secondo Ansalone, è da lei amato; al quale essa, per piú farglisi cara, ha le mie lettere palesate e con lui insieme, a guisa d’uno beccone, schernito; senza che colui, di me faccendo una favola giá con alcuno per lo modo che piú gli è piaciuto, n’ha parlato; senza che esso, come io son qui, per piú largo spazio avere di favellare, fu colui che la risposta alla mia lettera, della quale davanti ti dissi, mi fece fare; e oltre a questo, secondo che i miei occhi medesimi m’hanno fatto vedere, m’ha ella, sogghignando, a piú altre mostrato, come io avviso, dicendo:

«— Vedi tu quello scioccone? Egli è mio vago: vedi se io mi posso tenere beata! —

«E certo quanto quelle donne, alle quali ella m’ha mostrato, sieno state e sieno oneste e io e altri il sappiamo: perché ella, si come comprendere se ne dee, come il suo amante tra gli uomini, cosí ella tra le femmine di me favoleggia. Ahi, disonesta cosa e sconvenevole, che uomo, lasciamo stare gentile, che non mi tengo, ma sempre mai con valenti uomini usato e cresciuto, e delle cose del mondo, avvegna che non pienamente, ma assai convenevolmente informato, sia da una femmina, a guisa d’un matto, ora col muso, ora col dito all’altre femmine mostrato! Io dirò il vero: questo m’indusse a tanta indignazione d’animo che io fui alcuna volta assai vicino ad usare parole che poco onore di lei sarebbono state; ma pure alcuna scintilletta di ragione, dimostrandomi che molto maggiore vergogna a me, ciò faccendo, acquisterei che a lei, da tale impresa, non poco, ma molto turbato mi ritenne e a quella ira e disordinato appetito, di che tu mi domandi, m’indusse. —

Lo spirito allora, nella vista mostrando d’avere assai bene le mie parole raccolte e la intenzione di quelle, seco non so [p. 207 modifica]che dicendo, alquanto, avanti che alcuna cosa che io intendessi dicesse, soprastette pensoso; poi, a me rivolto, con voce assai mansueta cominciò a parlare, dicendo:

— E come tu t’innamorasti e di cui, e ’l perché e la cagione della tua disperazione assai bene mi credo dalle tue parole aver compreso. Ora voglio io che grave non ti sia se alquanto in servigio della tua medesima salute, e forse dell’altrui, io teco mi distendo a ragionare, primieramente da te incominciando, perché del tuo errore fosti tu stesso principio; e da questo verremo a dire di colei della quale tu, mal conoscendola, follemente t’innamorasti; e ultimamente, se tempo ne fia prestato, alcuna cosa diremo sopra le cagioni che te a tanto cruccio recarono che quasi te a te stesso feceno uscir di mente. E, cominciando da quello che promesso abbiamo, dico che assai cagioni giustamente possono me e ogni altro muovere a doverti riprendere; ma, acciò che tutte non si vadano ricercando, per fare il ragionamento minore, due solamente m’aggrada toccarne: l’una è la tua etá, la seconda sono gli tuoi studi; delle quali ciascuna per sé, e amendue insieme, ti dovevano render cauto e guardingo dagli amorosi lacciuoli. E primieramente la tua etá, per la quale, se le tempie giá bianche e la canuta barba non mi ingannano, tu dovresti avere li costumi del mondo, fuor delle fasce giá sono degli anni quaranta, e giá venticinque, cominciatili a conoscere. E, se la lunga esperienza delle fatiche d’amore nella tua giovanezza tanto non t’avea gastigato che bastasse, la tiepidezza degli anni, giá alla vecchiezza appressandoti, almeno ti dovea aprire gli occhi e farti conoscere lá dove questa matta passione, seguitando, ti dovea far cadere; e, oltre a ciò, mostrarti quante e quali fossero le tue forze a rilevarti. La qual cosa se con estimazione avessi riguardata, conosciuto avresti che dalle femmine nelle amorose battaglie gli uomini giovani, non quelli che verso la vecchiezza calano, sono richiesti; e avresti veduto le vane lusinghe, sommamente dalle femmine desiderate, ne’ giovani, non che ne’ tuoi pari, star male. Come si conviene o si confá a te, oggimai maturo, il carolare, il [p. 208 modifica]cantare, il giostrare e l’armeggiare, cose di niuno peso, ma sommamente da loro gradite? Tu medesimo, non solamente dirai che a te sconvenevoli sieno, ma con ragioni inespugnabili biasimerai i giovani che le fanno.

«Come è alla tua etá convenevole l’andare di notte, il contraffarti, il nasconderti a ciascheduna ora, che ad una femmina e’ piacerá; e non solamente in quella parte che forse, meno disdicevole, da te sarebbe eletta, ma in quella che essa medesima, forse per gloriarsi d’avere uno uomo maturo a guisa d’un semplice garzone, disonesta e sconvenevole eleggerá? Come alla tua etá convenevole, se bisogno il richiedesse, del quale molto sovente son pieni gli accidenti d’amore, di pigliare l’arme e la tua salute, e forse quella della tua donna, difendere? Certo io credo, senza piú cose andar ricordando, che a tutte parimente risponderesti che male; e, quando ciò non ti paresse, a me e a ciascun altro, il quale con piú discreto occhio guardasse che tu, impedito, per avventura fare non puoi, parrebbe pure che cosí fosse. Male è adunque la tua etade ornai agl’innamoramenti decevole: alla quale non il seguire le passioni, o lasciarsi a loro sopravvegnenti vincere, sta bene; ma il vincer quelle; e con opere virtuose, che la tua fama ampliassero, e con aperta fronte e lieta dare di sé ottimo esemplo a’ piú giovani s’appartiene.

«Ma alla seconda parte è da venire; la quale ne’ giovani non che ne’vecchi, fa amore disdicevole, se io non m’inganno: cioè i tuoi studi. Tu, se io giá bene intesi, mentre vivea, e ora cosí essere il vero apertamente conosco, mai alcuna manuale arte non imparasti e sempre l’essere mercatante avesti in odio; di che piú volte ti se’ con altrui e teco medesimo gloriato, avendo riguardo al tuo ingegno, poco atto a quelle cose nelle quali assai invecchiano d’anni, e di senno ciascun giorno diventano piú giovani: della qual cosa il primo argomento è che a loro par piú che a tutti gli altri sapere, come alquanto sono loro bene disposti i guadagni, secondo gli avvisi fatti, o pure per avventura, come suole le piú volte avvenire; lá dove essi, del tutto ignoranti, niuna cosa piú [p. 209 modifica]oltre sanno che quanti passi ha dal fondaco o dalla bottega alla lor casa; e par loro ogni uomo, che di ciò li volesse sgannare, aver vinto e confuso, quando dicono: — di’ che mi si venga ad ingannare—, o dicono: —All’uscio mi si pare —; quasi in niun’altra cosa stia il sapere, se non o in ingannare o in guadagnare.

«Gli studi adunque alla sacra filosofia pertinenti, infino dalla tua puerizia, piú assai che il tuo padre non arebbe voluto, ti piacquero; e massimamente in quella parte che a poesia appartiene; nella quale per avventura tu hai con piú fervore d’animo che con altezza d’ingegno seguito. Questa, non menoma tra l’altre scienzie, ti dovea parimente mostrare che è amore e che cosa le femmine sono, e chi tu medesimo sii e che a te s’appartiene. Vedere adunque dovevi amore essere una passione accecatrice dell’animo, disviatrice dello ’ngegno, ingrossatrice, anzi privatrice, della memoria, dissipatrice delle terrene facultá, guastatrice delle forze del corpo, nemica della giovanezza e della vecchiezza; morte, genitrice de’ vizi e abitatrice de’vacui petti; cosa senza ragione e senza ordine e senza stabilitá alcuna; vizio delle menti non sane e sommergitrice della umana libertá.

«O quante e quali cose sono queste da dovere, non che i savi, ma gli stolti spaventare! Vien teco medesimo rivolgendo l’antiche istorie e le cose moderne e guarda di quanti mali, di quanti incendi, di quante morti, di quanti disfacimenti, di quante ruine ed esterminazioni questa dannevole passione è stata cagione. E una gente di voi miseri mortali, tra i quali tu medesimo, avendo il conoscimento gittato via, il chiamate iddio e quasi a sommo aiutatore ne’ bisogni, gli fate sacrificio delle vostre menti e divotissime orazioni gli porgete! La qual cosa quante volte tu hai giá fatto, o farai, tante ti ricordo, se da te, uscito forse del diritto sentimento, noi vedi, che tu a Dio e a’ tuoi studi e a te medesimo fai ingiuria. E, se le dette cose esser vere la tua filosofia non ti mostrasse, né a memoria ti ritornasse la sperienza la quale di gran parte di quelle in te medesimo veduta hai, le dipinture degli antichi H´ [p. 210 modifica]tel mostreranno, le quali lui per le mura, giovane, ignudo, con ali e con occhi velati o arciere, non sanza grandissima cagione e significazione de’ suoi effetti, tutto ’l di vi dimostrano.

«Dovévanti, oltre a questo, li tuoi studi mostrare, e mostrarono, se tu l’avessi voluto vedere, che cose le femmine sono; delle quali grandissima parte si chiamano e fanno chiamare donne, e pochissime se ne truovano. La femmina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abbominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionare: il che se gli uomini riguardassono, come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportune cose vadano; il luogo delle quali, posto giú il superfluo peso, come con istudioso passo fuggono, cosí il loro fuggirebbono, quello avendo fatto per che la deficiente umana prole si ristora; si come ancora in ciò tutti gli altri animali, molto meglio che gli uomini, fanno. Niuno altro animale è meno netto di lei; non il porco, qualora è piú nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di loro; e, se forse alcuno questo negasse, riguardinsi i parti loro, ricerchinsi i luoghi segreti dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili strumenti li quali a tòr via i loro superflui umori adoperano. Ma lasciamo stare quel che a questa parte appartiene; la quale esse ottimamente sappiendo, nel segreto loro hanno per bestia ciascuno uomo che l’ama, che le desidera o che le segue; e in si fatta guisa ancora la sanno nascondere che da assai stolti, che solamente le croste di fuori riguardano, non è conosciuta né creduta; senza che di quelli sono, che bene sappiendolo, ardiscono di dire ch’ella è lor pace e che questo e quello farebbono e fanno; li quali per certo non sono da essere annoverati tra gli uomini.

«E vegnamo all’altre loro cose o ad alcuna di quelle; per ciò che volere dire tutto non ne basterebbe l’anno il quale è tosto per entrare nuovo. Esse, di malizia abbondanti, la qual mai non supplí, anzi sempre accrebbe difetto, considerata la loro bassa e infima condizione, con quella ogni sollecitudine pongono a farsi maggiori. E primieramente alla libertá degli [p. 211 modifica]uomini tendono lacciuoli, sé, oltre a quello che la natura ha loro di bellezza o d’apparenza prestato, con mille unguenti e colori dipignendo; e or con solfo e quando con acque lavorate e spessissimamente co’ raggi del sole i capelli, neri della cotenna prodotti, simiglianti a fila d’oro fanno le piú divenire; e quelli, ora in treccia di dietro alle reni, ora sparti su per li omeri, ora alla testa ravvolti, secondo che piú vaghe parer credono, compongono; e quinci con balli e talor con canti, non sempre, ma talor mostrandosi, i cattivelli, che attorno vanno, avendo nell’esca nascosto l’amo, prendono senza lasciare. E da questo quella e quell’altra e infinite di costui e di colui e di molti divengono mogli; e di troppa maggior quantitá amiche.

«E, parendo loro essere salite un altro grado, quantunque conoscano sé essere nate a esser serve, incontanente prendono speranza e aguzzano i disideri alla signoria; e, faccendosi umili e obbedienti e blande, le corone, le cinture, i drappi ad oro, i vai, i molti vestimenti e gli altri ornamenti vari, de’quali tutto di si veggono splendenti, dai miseri mariti impetrano; il quale non s’accorge tutte quelle essere armi a combattere la sua signoria e vincerla. Le quali, poiché le loro persone e le loro camere, non altramenti che le reine abbino, veggiono ornate e i miseri mariti allacciati, subitamente dall’essere serve divenute compagne, con ogni studio la loro signoria s’ingegnano d’occupare. E, volendo singolare esperienza prendere, se donne sono nelle case, in sul far male arditamente si mettono, argomentando che, se quello è a lei sofferto che non sarebbe sofferto alla serva, chiaramente può conoscere sé donna e signoreggiante.

«E primieramente alle fogge nuove, alle leggiadrie non usate, anzi lascivie, e alle disdicevoli pompe si danno; e a niuna pare essere bella né ragguardevole, se non tanto quanto ella ne’ modi, nelle smancerie e ne’ portamenti somigliano le piúviche meretrici; le quali tanti nuovi abiti né disonesti possono nella cittá arrecare, che loro tolti non sieno da quelle che gli stolti mariti credono esser pudiche; li quali, avendo [p. 212 modifica]male i loro danari spesi, acciò che gittati non paiano, queste cose nelle dette maniere lasciano usare, senza guardare in che segno debba ferire quello strale. Come esse da questo fiere nelle case divengono, i miseri il sanno, che ’l pruovano: esse, si come rapide e fameliche lupe, venute ad occupare i patrimoni, i beni e le ricchezze de’ mariti, or qua or lá discorrendo, in continui romori co’ servi, colle fanti, co’ fattori, co’ fratelli e figliuoli de’ mariti medesimi stanno, mostrando sé tenere riguardatrici di quelli, dove esse discipatrici desiderano d’essere; senza che, acciò che tenere paiano di coloro di cui esse hanno poca cura, mai ne’ lor letti non si dorme, tutta la notte in letigi si trapassa e in questioni, dicendo ciascuna al suo:

«— Ben veggio come tu m’ami: ben sarei cieca se io non m’accorgessi che altri t’è all’animo piú ch’io. Credi tu ch’i’ sia abbagliata; e ch’io non sappia a cui tu vai dietro, a cui tu vuogli bene e a cui tu tutto ’l di favelli? Ben so bene: io ho migliori spie che tu non credi. Misera me! Che è cotanto tempo ch’io ci venni, eppure una volta ancora non mi dicesti, quando a letto mi vengo: - Amor mio, ben sia venuta. - Ma, alla croce di Dio, io farò di quelle a te, che tu fai a me. Or son io cosí sparuta? Non son io cosí bella come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due bocche bacia, l’una convien che gli puta. Fatti in costá: se Dio m’aiuti, tu non mi toccherai: va’ dietro a quelle di che tu se’ degno; ché certo tu non eri degno d’avere me; e fai ben ritratto di quel che tu se’. Ma a fare a far sia. Pensa che tu non mi ricogliesti del fango; e Dio il sa clienti e quali erano quelli che se l’arebbono tenuto in grazia d’avermi presa senza dote; e sarei stata donna e madonna d’ogni lor cosa: e a te diedi cotante centinaia di fiorini d’oro, né mai pur d’un bicchiere d’acqua non ci potè’ esser donna, senza mille rimbrotti de’ frateti e de’ fanti tuoi; basterebbe s’io fossi la fante loro. E’ fu ben la mia disavventura ch’io mai ti vidi: che fiaccar possa la coscia chi prima ne fece parola. —

«E con queste e con molte simili, e piú altre assai piú cocenti, senza niuna legittima o giusta cagione avere, tutta la [p. 213 modifica]notte tormentano i cattivelli: de’ quali infiniti sono, che cacciano chi ’l padre, chi il figliuolo; chi da’ fratelli si divide; e quali nè la madre nè ’l padre a casa si vogliono vedere e lasciano il campo solo alla vittrice donna. Le quali, poichè espedita la possessione veggono, tutta la sollecitudine alle ruffiane e agli amanti si volge. E sieti manifesto che colei, che in questa moltitudine piú casta, e piú onesta ti pare, vorrebbe avanti solo uno occhio avere che esser contenta solo d’uno uomo; e, se forse due o tre ne bastassero, sarie qualche cosa; e forse saria tollerabile se questi due o tre avanzassero i mariti, o fossero almen loro pari. La loro lussuria è focosa e insaziabile;, e per questo non patisce nè numero nè elezione: il fante, il lavoratore, il mugnaio, e ancora il nero etiopo, ciascuno è buono, sol che possa.

«E sono certo che sarebbono di quelle che ardirebbono a negare questo, se l’uomo non sapesse giá molte, non essendo i mariti presenti o quelli lasciati nel letto dormendo, esserne ne’ lupanari pubblici andate con vestimenti mutati;, e di quelli ultimamente essersi partite stanche, ma non sazie. E che cosa è egli ch’elle non ardiscano per potere a questo bestiale loro appetito soddisfare? Esse si mostrano timide, e paurose; e, comandandolo il marito, quantunque la cagione fosse onesta, non sarebbono in niuno luogo alto, chè dicono che vien meno loro il cerebro; non entrerebbono in mare, chè dicono che lo stomaco noi patisce; non andrebbono di notte, chè dicono che temono gli spiriti, l’anime, e le fantasime. Se sentono un topo andare per la casa, e che ’l vento muova una finestra o che una piccola pietra caggia, tutte si riscuotono, e fugge loro il sangue, e la forza, come se a un mortai pericolo soprastessono.

«Ma esse prestano fortissimi animi a quelle cose le quali esse vogliono disonestamente adoperare. Quante giá sù per le sommitá delle case, de’ palagi o delle torri andate sono, e vanno, da’ loro amanti chiamate o aspettate? Quante giá presummettero, e presummono tutto ’l giorno, o davanti agli occhi de’ mariti, sotto le ceste o nelle arche gli amanti nascondere? Quante nel letto medesimo co’ mariti farli tacitamente intrare?

[p. 214 modifica]Quante, sole e di notte, e per mezzo gli armati e ancora per mare e per li cimiteri delle chiese se ne truovano continuo dietro andare a chi me’ lavora? E, che maggior vituperio è, veggenti i mariti, ne sono assai che presummono fare i lor piaceri? Oh quanti parti in quelle, che piú temono oche piú delli loro falli arrossano, innanzi al tempo periscono! Per questo la misera savina, piú che gli altri alberi, si truova sempre pelata, quantunque esse a ciò abbiano argomenti infiniti. Quanti parti per questo, mal lor grado venuti a bene, nelle braccia della fortuna si gittano! Riguardinsi gli spedali. Quanti ancora, prima che essi il maternale latte abbino preso, se n’uccidono! Quanti a’ boschi, quanti alle fiere se ne concedono e agli uccelli! Tanti e in si fatte maniere ne periscono che, bene ogni cosa considerata, il minore peccato in loro è l’avere l’appetito della lussuria seguito.

«Ed è questo esecrabil sesso femmineo, oltre ad ogni altra comparazione, sospettoso e iracondo. Niuna cosa si potrá con vicino, con parente o con amico trattare, che, se ad esse non è palese, esse subitamente non suspichino contro a loro adoperarsi e i loro detrimenti trattarsi; benché di ciò gli uomini non si debbono molto maravigliare, per ciò che naturale cosa è di quelle cose, che altri sempre opera in altrui, di quelle da altrui sempre temere; per questo sogliono i ladroni sapere ben riporre le cose loro. Tutti i pensieri delle femmine, tutto lo studio, tutte l’opere a niuna altra cosa tirano, se non a rubare, a signoreggiare e ad ingannare gli uomini; perché leggermente credono sopra loro d’ogni cosa, che non sanno, simili trattati tenersi. Da questo gli strolagi, li negromanti, le femmine maliose, le ’ndovine sono da loro usitate, chiamate, aute care; e in tutte le loro opportunitá, di niente servendo se non di favole, di quello de’ mariti cattivelli sono abbondevolmente sovvenute e sustentate, anzi arricchite; e, se da queste pienamente saper non possono la loro intenzione, ferocissime e con parole altiere e velenose, s’ingegnano di certificarsi da’ loro mariti; a’ quali, quantunque il ver dicano, radissime volte credono. [p. 215 modifica]

«Ma, si come animale a ciò inchinevole, subitamente in si fervente ira discorrono che le tigre, i leoni, i serpenti hanno piú d’umanitá, adirati, che non hanno le femmine; le quali, cliente che la cagione si sia, per la quale accese in ira si sono, subitamente a’ veleni, al fuoco e al ferro corrono. Quivi non amico, non parente, non fratello, non padre, non marito, non alcuno de’ suoi amanti è risparmiato; e piú sarebbe allora caro a ciascuna tutto’l mondo, il cielo, Iddio e ciò ch’è di sopra e di sotto universalmente in un’ora potere confondere, guastare e tornare a nulla che, ad animo riposato, potere cento bagascioni al suo piacere adoperare. Se ’l tempo mel concedesse l’andar narrando quanti mali e come scellerati le loro ire abbino giá fatti, non dubito che tu non dicessi essere il maggiore miracolo, che mai veduto o udito fosse, che esse sieno sostenute da Dio. E, oltre a ciò, è questa empia, generazione avarissima: e, acciò che noi lasciamo stare lo ’mbolare continuo che a’ mariti fanno e le ruberie a’ lor pupilli figliuoli e le storsioni a quelli amanti che troppo non piacciono, che sono evidentissime e consuete cose, riguardisi a quanta viltá si sottomettono per ampliare un poco le dote loro. Niuno vecchio bavoso, a cui colino gli occhi e triemino le mani e ’l capo, sará, cui elle rifiutino per marito, solamente che ricco il sentano; certissime infra poco tempo di rimanere vedove e che costui nel nido non dee loro soddisfare. Né si vergognano le membra, i capelli e ’l viso, con cotanto studio fatti belli, le corone, le ghirlande leggiadre, i velluti, i drappi ad oro, e tanti ornamenti, tanti vezzi, tante ciance, tanta morbidezza sottomettere, porgere e lasciare trattare alle mani paraletiche, alla bocca sdentata e bavosa e fetida, ch’è molto peggio, di colui cui elle credono potere rubare: al quale, se la giá mancante natura concede figliuoli, si n’ha; se non, non può perciò morire sanza erede. Altri vengono, che fanno il ventre gonfiare; e, se pure invetriato l’ha la natura fatto, i parti sottoposti gli danno figliuoli, acciò che vedova alle spese del pupillo possa piú lungamente deliziosa vita menare. Sole le ’ndovine, le lisciatrici, le mediche e i frugatori, che loro piacciono, le [p. 216 modifica]fanno, non cortesi, ma prodighe: in questi niuno riguardo, niuno risparmio né avarizia alcuna in loro si truova giá mai.

Mobili tutte e senza alcuna stabilitá sono: in una ora vogliono e svogliono una medesima cosa ben mille volte, salvo se di quelle, che a lussuria appartengono, non fossono; per ciò che quelle sempre le vogliono. Sono generalmente tutte presuntuose; e a se medesime fanno credere che ogni cosa loro si convenga, ogni cosa stia loro bene, d’ogni onore, d’ogni grandezza sien degne; e che, senza loro, niuna cosa gli uomini vagliano, né viver possano; e sono ritrose e inobedienti.

«Niuna cosa è piú grave a comportare che una femmina ricca; niuna piú spiacevole che a vedere irritrosire una povera. Le cose loro imposte tanto fanno, quante» elle credono per quello o ornamenti o abbracciamenti guadagnare; da questo innanzi, sempre una redazione in servitudine l’essere obedienti si credono; e per questo, se non quanto loro dall’animo viene, niuna cosa imposta farebbono mai. E oltre a ciò, che cosí in loro dimora come le macchie nello ermellino, non favellatrici, ma seccatrici sono. I miseri studiami patiscono i freddi, i digiuni e le vigilie: e, dopo molti anni, si truovano poche cose avere apparate; queste, che pure una mattina che tanto ch’una messa si dica, stieno alla chiesa, sanno come si volge il fermamento, quante stelle sieno in cielo e come grandi, qual sia il corso del sole e de’ pianeti, come il tuono, il baleno, l’arco, la grandine e l’altre cose nello aere si creino; e come il mare c’intorni e come la terra produca i frutti. Sanno ciò che si fa in India o in Ispagna; come sieno fatte le abitazioni degli Etiopi e dove nasca il Nilo; e se ’l cristallo s’ingenera sotto tramontana di ghiaccio o d’altra cosa; con cui dormi la vicina sua; di cui quell’altra è gravida e di che mese dee partorire; e quanti amadori ha quell’altra e chi le mandò l’anello e chi la cintura; e quante uova faccia l’anno la gallina della vicina sua; e quante fusa logori a filare una dodicina di lino; e in brieve ciò che fecero mai i Troiani e’ Greci o’ Romani, di tutto pienamente tornano informate; e quelle colla fante, colla fornaia, colla trecca, colla lavandaia [p. 217 modifica]berlingano senza ristare, se altri non truovano che dia loro orecchio; forte turbandosi, se alcuna loro riprovata ne fosse.

«È il vero che da questa loro cosí subita sapienza e divinamente in loro spirata ne nasce una ottima dottrina nelle figliuole: a tutte insegnano rubare i mariti; come si debbiano ricevere lettere dagli amanti; come ad esse rispondere; in che guisa metterlisi in casa; che maniere debbano tenere ad infignersi d’essere malate, acciò che libero loro dal marito rimanga il letto; e molti altri mali. Folle è chi crede che niuna madre si diletti d’aver miglior figliuola di sé o piú pudica. E non nuoce che bisogna che per una bugia, per uno spergiuro, per una reta, per mille sospiri infiniti, per cento milia false lagrime elle vadano a lor vicine, che, quando mestier lor fanno le prestino loro. Sallo Iddio ch’io per me non seppi mai tanto pensare ch’io sapessi conoscere o discernere dove elle le si tengano, che si pronte e si preste ad ogni lor volontá l’abbino, come hanno. Bene è il vero ch’esse sono arrendevoli a lasciarsi provare il lor diletto e spezialmente quello che altri cogli occhi suoi medesimi vede; e non hanno presto il: — Non fu cosí; tu menti per la gola; tu hai le traveggole; tu hai le cervella date a rimpedulare; bèi meno; tu non sai ove tu ti se’; se’ tu in buon senno? Tu farnetichi a santa e anfani a secco, — e cotali altre lor parolette appuntate.

«E, se esse diranno d’avere un asino veduto volare, dopo molti argomenti in contrario converrá che si conceda del tutto; se non, le inimicizie mortali, le ’nsidie e gli odi saranno di presente in campo. E sono di tanta audacia che, chi punto il lor senno avvilisce, incontamente dicono: — Le Sibille non furono savie? — quasi ciascheduno di loro debbia essere l’undecima. Mirabile cosa che, in tante migliaia d’anni quante trascorse sono poiché ’l mondo fu fatto, intra tanta moltitudine quanta è stata quella del femmineo sesso, esserne diece solamente trovate savie; e a ciascuna femmina pare essere una di quelle, o degna tra quelle d’essere annoverata. E, tra l’altre loro vanitá, quando molto sopra gli uomini si vogliono levare, dicono che tutte le buone cose son femmine: le stelle, le [p. 218 modifica]pianete, le Muse, le virtú, le ricchezze: alle quali, se non che disonesto sarebbe, null’altro si vorrebbe rispondere, se non: — Egli è cosí vero che tutte son femmine, ma non pisciano.

«E, oltre a questo, assai sovente molto meno consideratamente si gloriano, dicendo che colei, nel cui ventre si racchiuse l’unica e generai salute di tutto l’universo, virgine innanzi al parto e che dopo il parto rimase virgine, con alquante altre, (non molte però, della cui virtú speziai menzione e solennitá fa la Chiesa di Dio), furono cosí femmine come loro; e per questo immaginano dovere essere riguardate, argomentando niuna cosa contro a loro potersi dire della loro viltá, che contro a quella, che santissima cosa fu, non si dica; e quasi vogliono che lo scudo della loro difensione nelle braccia di quella rimanga: che in niuna cosa la somigliano, se non in una. Ma questo non è da dovere consentire; per ciò che quella unica sposa dello Spirito Santo fu una cosa tanto pura, tanto virtuosa, tanto monda e piena di grazia e del tutto si da ogni corporale e spiritual bruttura rimota che, a rispetto dell’altre, quasi non dell’elementar composizione, ma d’una essenzia quinta fu formata a dovere essere abitacolo e ostello del figliuolo di Dio; il quale, volendo per la nostra .salute incarnare, per non venire ad abitare nel porcile delle femmine moderne, ab etterno se la preparò, si come degna camera a tanto e cotale re. E, se altro da questa vii turba essere stata separata non la mostrasse, li suoi costumi tutti, dalli loro spartiti, la mosterrebbono; e similmente la sua bellezza la quale non artificiata, non dipinta né colorata fu; ed è tanta che fa nel beato regno agli spiriti e a’ beati agnoli, se dir si può, aggiugnere gloria e meraviglioso diletto La quale, mentre qua giú fu nelle membra mortali, mai da alcuno non fu riguardata che il contrario non operasse di quello che le vane femmine, dipignendosi, s’ingegnano di fare maggiore; per ciò che, dove questa di costoro il concupiscevole appetito a disonesto desiderio commuove e desta, cosí quella della reina del cielo ogni villano pensiere, ogni disonesta volontá di coloro cacciava che la miravano; e d’un fuoco e caritevole ardore di bene e virtuosa[p. 219 modifica]mente adoperare si maravigliosamente li accendeva che, laudando divotamente colui che creata l’avea, a mettere in opera il bene acceso desiderio si disponeano. E di questo in lei non vanagloria, non superbia venia; ma in tanto la sua umiltá ne crescea che, per avventura, ebbe tanta forza che la incommutabile disposizione di Dio avacciò a mandare in terra il suo figliuolo, del quale ella fu madre. L’altre poche, che a questa reverendissima e veramente donna s’ingegnorono con tutta lor forza di somigliare, non solamente le mondane pompe non seguirono, ma le fuggirono con sommo studio; né si dipinsero per piú belle apparere nel cospetto degli uomini strani, ma le bellezze, loro dalla natura prestate, si disprezzarono, le celestiali aspettando. In luogo d’ira e di superbia, ebbero mansuetudine e umiltá; e la rabbiosa furia della carnale concupiscenza colla astinenzia mirabile domarono e vinsero, prestando maravigliosa pazienzia alle temporali avversitá e a’ martiri: delle quali cose servata l’anima loro immaculata, meritarono di divenire compagne a colei nella etterna gloria, la quale s’erano ingegnate nella mortai vita di somigliare. E, se onestamente si potesse accusare la natura, maestra delle cose, io direi che essa fieramente in cosí fatte donne peccato avesse, sottoponendo e nascondendo cosí grandi animi, cosí virili e costanti sotto cosí vili membra e sotto cosí vile sesso, come è il femmineo; perché, bene ragguardando chi quelle furono e chi queste sono, che nel numero di quelle si vogliono mescolare e in quelle essere annoverate e reverite, assai bene si vedrá mal confarsi l’una coll’altra, anzi essere del tutto l’una contraria dall’altra.

«Tacciasi adunque questa generazione prava e adultera né voglia il suo petto degli altrui meriti adornare; ché per certo le simili a quelle, che dette abbiamo, sono piú rade che le fenici; delle quali veramente se alcuna esce di schiera, tanto di piú onore è degna che alcuno uomo, quanto alla vittoria il miracolo è maggiore. Ma io non credo che in fatica d’onorarne alcuna per li suoi meriti, a’ nostri bisavoli non che a noi, bisognasse d’entrare: e prima spero si ritroveranno [p. 220 modifica]de’ cigni neri e de’ corbi bianchi che a’ nostri successori d’onorarne alcuna bisogni d’entrare in fatica; per ciò che Torme di coloro, che la reina degli angeli seguitarono, sono ricoperte; e le nostre femmine, digradando, hanno il cammino smarrito né vorrebbero giá che fosse loro insegnato; e, se pure alcuno, predicando, se ne affatica, cosí alle sue parole gli orecchi chiudono come Taspido al suono dello incantatore.

«Ora io non t’ho detto quanto questa perversa moltitudine sia gulosa f ritrosa, ambiziosa, invidiosa, accidiosa, iracunda e delira; né quanto ella nel farsi servire sia imperiosa, noiosa, vezzosa, stomacosa e importuna; e altre cose assai le quali, molto piú e piú spiacevoli che le narrate, se ne potrebbono contare; né intendo al presente dirleti, ché troppo sarebbe lunga la istoria. Ma per quello, che detto t’ho, dei tu assai ben comprendere cliente esse universalmente sieno e in quanto cieca prigione caggia, e dolorosa, chi sotto lo ’mperio loro cade per qual che si sia la cagione. Pare essere a me molto certo che, se mai ad alcune perverrá all’orecchie la veritá della loro malizia e de’ loro difetti da me dimostrati, che esse incontanente non a riconoscersi, né a vergognarsi d’essere da altrui conosciute e ad ogni forza e ’ngegno di divenire migliori, come devrebbono, rifuggiranno; ma, come usate sono, pure al peggio n’andranno correndo; e diranno me queste cose dire, non come veritiero, ma come uomo al quale, per ciò che altra spezie piacque, esse dispiacquono. Ma volesse Iddio che non altramente, che quello abominevol peccato mi piacque, esse mi fossero piaciute giá mai; per ciò che io arei assai tempo acquistato in quello che io dietro ad esse perdei; e nel mondo lá, dov’io sono, assai maggiore tormento sofferrei che quello ch’io sostengo.

«Ma vegniamo ad altro. Dovevanti ancora gli studi tuoi dimostrare chi tu medesimo sii, quando il naturale conoscimento non te l’avesse mostrato, e ricordarti e dichiararti che tu se’ uomo fatto alla immagine e alla similitudine di Dio, animale perfetto, nato a signoreggiare, e non ad esser signoreggiato. La qual cosa nel nostro primo padre ottimamente [p. 221 modifica]dimostrò colui, il quale poco davanti l’avea creato, mettendogli tutti gli altri animali dinanzi e faccendoli nomare e alla sua signoria sopponendoli; il simigliarne appresso faccendo di quella una e sola femmina ch’era al mondo; la cui gola e la cui disubbidienza e le cui persuasioni furono di tutte le nostre miserie cagione e origine. Il quale ordine l’antichitá ottimamente ancora serva al mondo presente ne’ papati, negl’imperi, ne’ reami e ne’ principati, nelle provincie, ne’ popoli e generalmente in tutti i maestrati e sacerdozi e nell’altre maggioranze divine come umane, gli uomini solamente, e non le femmine, preponendo e in loro commettendo il governo degli altri e di quelle. La qual cosa come possente e quanto valido argomento sia a dimostrare quanto la nobiltá dell’uomo ecceda quella della femmina e d’ogni altro animale assai leggermente a chi ha sentimento puote apparere. E non solamente da questo si può o dee pigliare che solamente ad alcuni eccellenti uomini cosí ampio privilegio di nobiltá sia conceduto; anche s’intenderá essere ancora de’piú menomi, per rispetto alle femmine e agli altri animali; per che ottimamente si comprenderá il piú vile e ’l piú minimo uomo del mondo, il quale del bene dello ’ntelletto privato non sia, prevalere a quella femmina, in quanto femmina, che temporalmente è tenuta piú che niun’altra eccellente.

«Nobilissima cosa adunque è l’uomo il quale dal suo creatore fu creato poco minore che gli angeli. E, se il minore uomo è da tanto, da quanto dovrá essere colui, la cui virtú ha fatto ch’egli dagli altri ad alcuna eccellenzia sia elevato? Da quanto dovrá essere colui il quale i sacri studi, la filosofia ha dalla meccanica turba separato? Del numero de’ quali tu per tuo studio e per tuo ingegno, aiutandoti la grazia di Dio, la quale a niuno che se ne faccia degno, domandandola, è negata, se’ uscito e tra’ maggiori divenuto degno di mescolarti. Come non ti conosci tu? Come cosí t’avvilisci? Come t’hai tu cosí poco caro che tu ad una femmina iniqua, insensatamente di lei credendo quello che mai non le piacque, ti vada a sottomettere? Io non me ne passo in tuo servigio [p. 222 modifica]racconsolare; e, quanto piú vi penso, piú ne divengo turbato. A te s’appartiene, e so che tu ’l conosci, piú d’usare i solitari luoghi che le moltitudini, ne’ templi e negli altri pubblici luoghi raccolte, visitare; e quivi stando, operando, versificando, esercitare lo ’ngegno e sforzarti di divenire migliore e d’ampliare a tuo podere, piú con cose fatte che con parole, la fama tua; che, appresso quella, salute ed etterno riposo, il qual ciascuno che dirittamente desidera dee volere, è il fine della tua lunga sollecitudine.

«Mentre che tu sarai ne’ boschi e ne’ remoti luoghi, le Ninfe Castalide, alle quali queste malvage femmine si vogliono assomigliare, non t’abbandoneranno giá mai; la bellezza delle quali, si come io ho inteso, è celestiale; dalle quali, cosí belle, tu non se’ schifato né schernito; ma è loro a grado il potere stare, andare e usare teco. E, come tu medesimo sai, che molto meglio le conosci che io non fo, elle non ti metteranno in disputare o discutere quanta cenere si voglia a cuocere una matassa d’accia; e se il lino viterbese è piú sottile che ’l romagnuolo; né che troppo abbia il forno la fornaia scaldato e la fante lasciato meno il pane levitare; o che da provvedere sia donde vegnano delle granate onde la casa si spazzi; non ti diranno quel ch’abbia fatto la notte passata monna cotale, monna altrettale; né quanti paternostri ell’abbia detti al predicare; né s’egli è il meglio alla cotale roba mutare le sale o lasciarle stare; non ti domanderanno danari né per liscio, né per bossoli, né per unguenti. Esse con angelica voce ti narreranno le cose dal principio del mondo state infino a questo giorno; e sopra l’erba e sopra i fiori e le dilettevoli ombre teco sedendo, a lato a quel fonte le cui ultime onde non si videro giá mai, ti mosterranno le cagioni de’ variamenti de’ tempi e delle fatiche del sole e di quelle della luna; e qual nascosa virtú le piante nutrichi e insieme faccia li bruti animali amichevoli; e d’onde piovano l’anime negli uomini; e l’essere la divina bontá etterna e infinita; e per quali scale ad essa si salga e per quali balzi si traripi alle parti contrarie; e teco, poiché versi d’Omero, di Virgilio e [p. 223 modifica]degli altri valorosi avranno cantati, i tuoi medesimi, se tu vorrai, canteranno. La lor bellezza non ti inciterá al disonesto fuoco, anzi il caccerá via; e i lor costumi ti fieno inreprobabili, dottrina alle virtuose opere.

«A che dunque, potendo cosí fatta compagnia avere, quando tu la vogli, e quanto tu la vogli, vai cercando sotto i mantelli delle vedove, anzi de’diavoli? Dove leggermente potresti trovare cosa che ti putirebbe? Ahi, quanto giustamente farebbono queste eloquentissime donne, se dal loro bellissimo coro te, si come non degno, cacciassono, quante volte tu dietro alle femmine l’appetito dirizzi, quante volte, fetido e maculato da esse spartendoti, tra loro, che purissime sono, ti vai a rimescolare, non vergognandoti della tua bestialitá! E certo, se tu non te ne rimani, e’ mi pare avvedere che t’avverrá; e meritamente. Esse hanno bene il loro sdegno, cosí come queste altre che donne si chiamano, non essendo: e chente e quale vergogna questo ti sia, dove questo avvenga, tu medesimo e pensare e conoscere il puoi.

«Ma, per ciò ch’assai detto aver mi pare intorno a quello che a te apparteneva di considerare, quando follemente il collo sotto lo incomportabile giogo di colei sottomettesti, alla quale una gran salmista pare essere, acciò che tu non creda dall’altre lei devariare, oltre a quello ch’io ti promisi, ciò che tu non potevi ben per te medesimo vedere, intendo di dimostrarti particularmente chi sia colei e chenti i suoi costumi; di cui tu follemente divenuto servidore, ora ti duoli; e vedrai dove e nelle cui mani il tuo peccato e la tua troppa, subita credenza t’aveano condotto. La prima notizia di questa femmina di cui noi parliamo, la quale molto piú dirittamente drago potrei chiamare, mi diedono le nozze sue: per ciò che, essendo io per morte abbandonato da colei che prima a me era venuta, e di cui io molto meno mi potea scontentare che di questa, non so se per lo mio peccato o per celesti forze che ’l si facesse, avvenne che, essendo e volere e piacere de’ miei amici e parenti, a costei, mal da me conosciuta, fui ricongiunto. La qual, giá d’altro marito essendo stata moglie [p. 224 modifica]e assai bene l’arte dello ’ngannare avendo appresa, non partendosi dal loro uni versai costume, in guisa d’una mansueta e semplice colomba entrò nelle case mie; e, acciò che io ogni particularitá raccontando non vada, ella non vide prima tempo alle occulte insidie, e forse lungamente serbate, poter discoprire, ch’ella, di colomba, subitamente divenne serpente: di che io m’avvidi la mia mansuetudine, troppo rimessamente usata, essere d’ogni mio male certissima cagione.

«Io dirò il vero: io tentai alquanto di volere porre freno a questo indomito animale; ma perduta era ogni fatica, giá tanto s’era il male radicato, che piú tosto sostenere che medicare si potea. Per che, avveggendomi che ogni cosa, che intorno a ciò facea, non era altro che aggiugnere legne al fuoco o olio gittare sopra le fiamme, piegai le spalle, nella fortuna e in Dio me e le mie cose rimettendo. Costei adunque, con romori e con minacce e con battere alcuna volta la mia famiglia corsa la casa mia per sua e in quella fiera tiranna divenuta, quantunque assai leggier dote recata v’avesse, come io non pienamente a sua guisa alcuna cosa fatta o non fatta avessi, soprabbondante nel parlare e magnifica dimostrantesi, come se io stato fossi da Capalle ed ella della casa di Soave, cosí la nobilitá e la magnificenzia de’suoi m’incominciò a rimproverare; quasi come se a me non fosse noto chi essi furono, o sieno pure ora al presente; bench’io sia certissimo che essa niuna cosa ne sa; altro ch’essa, come vana, credo che spesso vada gli scudi, che per le chiese sono appiccati, annoverando; e della vecchiezza di quelli e della quantitá argomenta sé essere nobile, poi tanti cavalieri sono suti tra’ suoi passati e ancor piú. Ma, se per dieci cattivi della sua schiatta, piú avventurata in crescere in numero d’uomini che in valore o in onore alcuno, fosse stato un solo scudo appiccato e spiccatone uno di quelli per la cui cavalleria appiccati vi furono, a’ quali ella cosí bene e cosí convenientemente stette come al porco la sella, non dubito punto che, dove degli scudi de’ cattivi centinaia apparirebbono, niuno se ne vedrebbe de’ cavalieri. Estimano i bestiali, tra’ quali [p. 225 modifica]ella è maggior bestia che uno leofante, che ne’ vestimenti foderati di vaio e nella spada e negli sproni dorati, le quali cose ogni piccolo artefice, ogni povero lavoratore leggermente potrebbe avere, e un pezzo di panno e uno scudicciuolo da fare alla sua fine nella chiesa appiccare, consista la cavalleria; la quale veramente consiste in quelli che oggi cavalieri si chiamano; e non in altro. Ma quanto essi sieno dal vero lontani colui il sa che quelle cose, che a loro appartengono e per le quali ella fu creata, alle quali tutte essi sono piú nimici che il diavolo delle croci, conosce.

«Adunque con questa stolta maggioranza e arroganzia incominciando, sperando io sempre, quantunque io avessi per lo meno male, si come vile, giú l’armi poste, che essa alcuna volta riconoscer si dovesse e della presa tirannia rimuoversi, pervenne a tanto che sanza prò conobbi che, dov’io pace e tranquillitá mi credea avere in casa recata, conoscendo che guerra, fuoco e mala ventura recata v’avea, cominciai a desiderare ch’ella ardesse; e ciascuno luogo della nostra cittá, qual che si fosse piú di litigi e di quistioni pieno, m’incominciò a parer piú quieto e piú riposato che la mia casa; e, cosí, veggendo venire la notte, che al tornare mi vi costrignea, mi contristava, come se uno noioso prigioniere e possente e a dovere ad una prigione rincrescevole e oscura m’avesse costretto. Costei adunque, donna divenuta del tutto e di me e delle mie cose, non secondo che la natura arebbe voluto, al mio stato avendo rispetto, ma come il suo appetito disordinato richiedea, prima nel modo del vivere e nella quantitá suo ordine puose; e il simigliarne fece ne’ suoi vestimenti, non quelli ch’io le facea, ma quelli che le piacevano faccendosi: e da qualunque d’alcuna mia possessione avea il governo essa convenia che la ragione rivedesse e’ frutti prendesse e distribuisse secondo il parer suo; e in somma ingiuria recandosi perché io cosí tosto, come ella arebbe voluto, d’alcuna quantitá di danari, ch’io avea, mia tesoriera e guardiana non la feci, mille volte essere uomo senza fede, e massimamente verso di lei, mi rimproverò, insino a tanto che a quello [p. 226 modifica]pervenne ch’ella desiderava, sé d’altra parte di lealtá sopra Fabbrizio e a qualunque altro leale uomo stato commendando.

«E, a non volére ogni cosa distinguere e narrare, in cose infinite mi si puose al contrario né mai in tal battaglia, se non vincitore, puose giú l’armi. E io, misero e male in ciò avveduto, credendomi, sofferendo, diminuire l’angoscia e l’affanno, piú tiepido che l’usato divenuto, seguiva il suo volere; la qual tiepidezza il vestimento, che vermiglio mi vedi, come giá dissi, ora con mia gravissima pena riscalda. Ma piú davanti è da procedere. In cotal maniera adunque essa donna e io servidore divenuto, con piú ardita fronte, non veggendosi alcuna resistenzia, cominciò a mostrare e a mettere in opera l’alte virtú che il tuo amico tante di lei e con cotanta solennitá ti raccontò. Ma, non avendole egli bene per le mani, come ebbi io, mi piace con piú ordine di contárleti.

«E, acciò che io dalla sua principale cominci, affermo per lo dolce mondo che io aspetto, e se egli tosto mi sia conceduto, che nella nostra cittá né fu né è o sará donna, o femmina che vogliamo dire, ché diremo meglio, in cui tanto di vanitá fosse che quella di colei, di cui parliamo, di grandissima lunga non l’avanzasse. Per la qual cosa costei estimando che l’avere bene le gote gonfiate e vermiglie e grosse e sospinte in fuori le natiche, (avendo forse udito che queste sommamente piacciono in Alessandria e perciò fossono grandissima parte di bellezza in una donna), in niuna cosa studiava tanto quanto in fare che queste due cose in lei fossono vedute pienamente: nel quale studio queste cose pervenieno alle spese di me che talor digiunava per risparmiare. Primieramente, se grossi capponi si trovavano, de’ quali ella molti con gran diligenzia faceva nutricare, conveniva che innanzi cotti le venissono; e le pappardelle col formaggio parmigiano siinilemente: le quali non in iscodella, ma in un catino, a guisa del porco, cosí bramosamente mangiava, come se pure allora per lungo digiuno fosse della torre della fame uscita. Le vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe lombarde, le lasagne maritate, le frittel[p. 227 modifica]lette sambucate, i migliacci bianchi, i bramangieri, de’ quali ella faceva non altre corpacciate che facciano di fichi, di ciriege o di poponi i villani, quando ad essi s’avvengono, non curo di dirti. Le gelatine, la carne e ogni altra cosa acetosa o agra, perché si dice che rasciugano, erano sue nimiche mortali. Son certo che, s’io ti dicessi come ell’era solenne bevitrice e investigatrice del buono vino cotto, della vernaccia da Corniglio, del greco o di qualunque altro vino morbido e accostante, tu noi mi crederesti, perché impossibile ti parrebbe a credere di Cinciglione. Ma, se tu avessi un poco le sue gote vedute, quando vivea, e alquanto berlingare l’avessi udita, forse mi daresti leggermente fede, tanto, senza le mie parole, pure per quelle di lei, te ne parrebbe avere compreso. E pienamente di divenire paffuta e naticuta le venne fatto. Non so io se ella, per li molti digiuni fatti per la salute mia, se l’ha smenomate dopo la mia morte; cosí te l’avess’ella in sul viso e io ti dovessi fare carta di ciò che tu vedessi, coni’io noi credo. —

A questa parola dich’io che con tutto il dolore e la compunzione ch’io sentia delle mie colpe, dinanzi agli occhi postemi dalle vere parole dello spirito, io non potè’ le risa tenere. Ma egli, senza aspetto mutare, seguitò:

— Né era la mia cara donna, anzi tua, anzi del diavolo, contenta d’aver carne assai solamente, ma le volea lucenti e chiare; come se una giovinetta di pregio fosse, alla quale, essendo per maritarsi, convenisse colla bellezza supplire la poca dota. La qual cosa acciò ch’avvenisse, appresso la cura del ben mangiare e del ben bere e del vestire, sommamente a distillare, a fare unzioni e trovar sangue di diversi animali ed erbe e simili cose s’intendeva; e, senza che la casa mia era piena di fornelli e di lambecchi e di pentolini e d’ampolle e d’alberelli e di bossoli, io non avea in Firenze speziale alcuno vicino, né in contado alcuno ortolano, che infaccendato non fosse, quale a fare ariento solimato, a purgar verderame, a far mille lavature e quale ad andare cavando e cercando radici salvatiche ed erbe mai piú non udite ricor[p. 228 modifica]dare, se non a lei; e senza che insino a’ fornaciai a cuocere guscia d’uova, gromma di vino, marzacotto, e altre mille cose nuove n’erano impacciati. Delle quali confezioni essa ugnendosi e dipignendosi, come sé a vendere dovesse andare, spesse volte avvenne che, non guardandomene io e baciandola, tutte le labbra m’invischiai; e meglio col naso quella biuta che con gli occhi sentendo, non che quello che nello stomaco era di cibo preso, ma appena gli spiriti ritenea nel petto.

«Or, s’io ti dicessi di quante maniere ranni il suo auricome capo si lavava e di quante ceneri fatto, e alcuno piú fresco e alcuno meno, tu ti maraviglieresti; e vie piú, se io ti disegnassi quante e quali solennitá si servavano nello andare alla stufa e come spesso: dalle quali io credea lei lavata dovere tornare, ed ella piú unta ne venia che non v’era ita. Erano sommo suo desiderio e recreazione grandissima certe femminette, delle quali per la nostra cittá sono assai, che fanno gli scorticatoi alle femmine, e pelando le ciglia e le fronti e col vetro sottigliando le gote e del collo assottigliando la buccia e certi pel uzzi levandone; né era mai che due o tre non se ne fossono con lei a stretto consiglio trovate, come che altri trattati spesse volte tenessono; si come quelle che, oltre a quella loro arte, sotto titolo della quale baldanzose l’altrui case vicitassero e le donne, sono ottime sensali a fare che messer mazza rientri in valle bruna, donde dopo molte lagrime era stato cacciato fuori. Egli non si verrebbe a capo in otto di di raccontare tutte le cose ch’ella a cosí fatto fine adoperava, tanta gloria di quella sua artificiata bellezza, anzi spiacevolezza, pigliava: a conservazione della quale troppa maggiore industria s’adoperava; per ciò che il sole, l’aere, il di, la notte, il sereno e ’l nuvolo, se molto non venieno a suo modo, fieramente l’offendeano; la polvere, il vento, il fummo avea ella in odio a spada tratta. E quando i lavamenti erano finiti, se per sciagura le si ponea una mosca in sul viso, questo era si grande scandelezzo e si grande turbazione che, a rispetto, fu a’ cristiani perdere Acri un diletto. E dirottene una pazzia forse mai piú non udita. [p. 229 modifica]Egli avvenne fra l’altre volte ch’una mosca in sul viso invetriato le si pose, avendo ella una nuova maniera di liscio adoperata; la quale essa, fieramente turbata, piú volte s’ingegnò di ferire con mano; ma quella presta si levava, come tu sai ch’elle fanno, e ritornava; per che, non potendo ferirla, tutta accesa d’ira, presa una granata e per tutta la casa or qua, or lá discorrendo, per ucciderla l’andò seguitando; e porto ferma opinione che, se alla fine uccisa non l’avesse, o quella o un’altra la quale avesse creduto essere quella, ella sarebbe di stizza e di veleno scoppiata. Che pensi ch’avesse fatto, se alle mani le fosse venuto uno degli scudi di quelli suoi antichi cavalieri e una di quelle spade dorate? Per certo ella si sarebbe messa con lei alla schermaglia. E che piú? Questo avveniva il dí, che si poteva con meno noia sostenere; ma, se per forte disavventura una zenzara si fosse per la casa udita, che che ora si fosse stata di notte, con venia che ’l fante o la fame e tutta l’altra famiglia si levasse; e co’ lumi in mano si metteano alla inchesta della malvagia e perfida zenzara, turbatrice del riposo e del buono e del pacefico stato della lisciata donna; e, avanti che a dormir si tornassono, convenia che morta o presa la presentassono davanti a colei che lei diceva in suo dispetto andar sufolando e appostando di guastare il suo bel viso amoroso. Che piú? Sopra tutte l’altre cose, a cui caluto non ne fosse, era da ridere che l’averla veduta, quando s’acconciava la testa, con quanta arte, con quanta diligenza, con quanta cautela ciò si facesse: in quello per certo pendevano le leggi e’ profeti. Essa primieramente negli anni piú giovani, quantunque piú vicini a quaranta che a trenta fossono, posto che ella, forse non cosí buona abbachiera, li dicesse ventotto, fatti, lasciamo stare l’aprile e ’l maggio, ma il dicembre e il gennaio, di sei maniere d’erbette verdi o d’altrettante di fiori, donde ch’ella se li avesse, apparecchiare e di quelle certe sue ghirlanduzze composte, levata per tempissimo e fatta la fante levare, poiché molto s’era il viso e la gola e ’l collo con diverse lavature strebbiate e quelli vestimenti messi che piú all’animo l’erano, [p. 230 modifica]a sedere postasi in alcuna parte della nostra camera, primieramente si mettea davanti un grande specchio e talor due, acciò che bene in quelli potesse di sé ogni parte vedere e conoscere qual di loro men che vera la sua forma mostrasse; e quivi dall’una delle parti si faceva la fante stare e dall’altra avea forse sei ampolluzze e vetro sottile e orochico e cosí fatte bazzicature. E, poiché diligentemente fatta s’avea pettinare, ravvoltisi i capelli al capo, sopr’essi non so che viluppo di seta, il quale essa chiamava trecce, si poneva; e, quelle con una reticella di seta sottilissima fermate, fattosi racconce ghirlande e i fiori porgere, quelle primieramente in capo postesi, andando per tutto fiori compartendo, cosí il capo se ne dipignea, come talvolta d’occhi la coda del pavone avea veduta dipinta; né niuno ne fermava che prima allo specchio non ne chiedesse consiglio.

«Ma, poiché l’etá venne troppo parendosi e i capelli, che bianchi cominciarono a divenire, quantunque molti tutto ’l di se ne facesse cavare, richiedeano i veli, come l’erba e’ fiori solea prendere, cosí di quelli il grembo e il petto di spilletti s’empieva e collo aiuto della fante si cominciava a velare; alla quale, credo, con mille rimbrotti ogni volta dicea:

«— Questo velo fu poco ingiallato; e questo altro pende troppo da questa parte; manda questo altro piú giú; fa’ stare piú tirato quello, ché mi cuopre la fronte; beva quello spoletto, che m’hai sotto Porecchie posto, e ponlo piú in lá un poco; e fa’ piú stretta piega a quello che andar mi dee sotto ’l mento; togli quel vetro e levami quel peluzzo ch’ho nella gota di sotto all’occhio manco. —

«Delle quali cose e di molte altre, che ella le comandava, se una sola meno che a suo modo n’avesse fatta, cento volte, cacciandola, la bestemmiava, dicendo:

«— Va’ via; tu non se’ da altro che da lavare scodelle; va’: chiamami monna cotale. —

«La quale venuta, tutta in ordine si rimetteva; e dopo tutto questo, le dita colla lingua bagnatesi, a guisa che fa la gatta, or qua, or lá si lisciava, or questo capello, or quello [p. 231 modifica]nel suo luogo tornando; e di quinci forse cinquanta volte or dinanzi, or da lato nello specchio si guardava e, quasi molto a se stessa piacesse, appena da quello si sapea spiccare; e nondimeno si faceva alla sua buona donna riguardare; e con cautela la esaminava se bene stesse, se niuna cosa mancasse, non altrimenti che se la sua fama o la sua vita da quel dipendesse. E, poiché molte volte avea udito ogni cosa star bene, alle compagne, che l’aspettavano, andava davanti, anche di ciò con loro riprendendo consiglio. Ben so che alcuno dire potrebbe questa non essere cosa nuova, non che a lei, ma nell’altre donne; e certo io non la dico per nuova, ma per viziosa e spiacevole e cattiva: e per mostrare ch’ella non è separata da’ costumi dell’altre e perché piú pronta fede sia data a quello che resultava di questi modi, quando tei dirò; che sará tosto.

«Chi della cagione di questo suo abbellirsi con tanta sollecitudine domandata l’avesse, prestamente, si come colei che piú ch’altra femmina era di malizia piena, rispondea che per piú piacermi il facea; aggiugnendo che, con tutto questo, non poteva ella tanto fare ch’ella mi piacesse si ch’io lei non lasciassi, per ire dietro alle fanti e alle zambracche e alle vili e alle cattive femmine. Ma di ciò mentia ella ben per la gola: ché, né io andava dietro alle zambracche, e a lei era assai poca cura di dovermi piacere. Anzi, si coni’ io molte volte m’accorsi, a qualunque giovane o qualunque altro, che punto d’aspetto avesse piacevole, che dinanzi alla casa passasse o dov’ella fosse, non altrimenti il falcone, tratto di cappello, si rifá tutto e sopra sé torna, che si faceva ella, sommamente desiderosa d’essere guardata; e cosí si turbava in se medesima, se altro passato fosse, che non l’avesse guatata, come se una grave ingiuria avesse ricevuta. E, se alcuno per avventura, avendola riguardata, la sua bellezza commendata avesse e da lei fosse stato udito, questa era si gran festa e si grande allegrezza che niun’altra mai a questa ne fu simigliarne; né l’arebbe quel cotale alcuna cosa addomandata, ch’essa non l’avesse, potendo, fatta piú che volentieri e tosto; e cosí, per [p. 232 modifica]contrario, colui, che biasimata l’avesse, l’arebbe volentieri colle propie mani ucciso. Canzoni, suoni e mattinate e simili cose, piú che altra, volentieri ascoltava; e sommamente avea astio di qualunque fosse colei alla quale, o per amore della quale, fossero state cantate e fatte, si come quella che di tutte arebbe voluto il titolo, parendole di quello e d’ogni altra cosa molto piú che alcuna altra esser degna.

«E, acciò che io ora di questa materia piú non dica, dico che questi sono gli ornati e laudevoli costumi e il gran senno e la maravigliosa eloquenzia che di costei il tuo amico, male consapevole del fatto, ti ragionava; questa era la gran costanzia, la somma fortezza dell’animo di costei; questo era il grande studio e la sollecitudine continua, la quale ella avea alle cose oneste, come aver debbono quelle donne le quali gentili sono, come ella vuole essere tenuta, e per la qual meritamente tra le valorose antiche, di loro parlando, dee esser ricordata. Della sua magnificenzia, nella quale ad Alessandro ti fu assomigliata, non dopo molte parole udirai alquanto. Essa, con questa sua vanitá e con questa esquisita leggiadria, (se leggiadria chiamar si dee il vestirsi a guisa di giocolari e ornarsi come quelle che ad infiniti hanno per alcuno spazio a piacere, sé concedendo per ogni prezzo), e con l’essere degli occhi cortese e piú parlante che alla gravitá donnesca non si richiedea, molti amanti s’avea acquistati; de’ quali non avvenne come di chi corre al palio; il quale ha l’uno de’ molti; anzi de’ molti pervennono molti al termine disiato, si come essa procacciava. Alla cui focosa lussuria, non che io bastassi solo, o uno amante o due, oltre a me, ma molti ad attutarne una sola favilluzza non erano sufficienti: della qual parlato non t’ho, né intendo distesamente parlare, per ciò che contraria medicina sarebbe alla infermitá la quale io son venuto a curare; conoscendo io che tanto, quanto coloro, che l’amistá delle femmine desiderano, piú focose le sentono, piú di speranza prendono e per consequente piú di nutrimento aggiungono al loro amore.

«Sommariamente adunque, di questa parte toccandoti, ti [p. 233 modifica]dico che, come ch’io giá ne sospicciassi, ora ne son certissimo che tal cavaliere è per lo mondo, per lo passato piú animoso che avventurato, del quale essa, innamoratasi, assai volte giá seppe come pesava; e, senza al suo o al mio onore avendo riguardo niuno, cosí la sua dimestichezza usava, come il mio maritai debito: non solamente il se medesima concedergli le bastava, ma essa, come l’amico tuo ti disse ch’era magnifica, per magnifica dimostrarsi, non del suo, ma del mio, una volta e altra e poscia piú, quando per uno cavallo e quando per una roba; e talvolta fu, in grandissima necessitá di lui, di buona quantitá di danari il sovvenne, si che, dove tesoriera avere mi credea, donatrice, scialacquatrice e guastatrice avea. Né ancora bastandole il mio dovuto amore, né quello ch’essa a suo piacere scelto s’avea, ancora aggiunse a soddisfare i suoi focosí appetiti: tal vicino ebb’io, al quale io piú d’amore portava che egli a me d’onore. E, come che io e ciascuno di questi, otta per vicenda, acqua rifrigeratoria sopra le sue fiamme versassero, nondimeno con alcuno suo congiunto con piú stretto parentado si ricongiunse; e di piú altri, i quali ella provare volle come arme portassono o sapessono nella chintana ferire.

«Parendomene avere detto assai, giudico che sia ornai da tacere. In queste cosí fatte cose porgendo a ciascuno mano, donando a ruffiane, spendendo in cose ghiotte e in lisci, usava la tua nuova donna la magnificenzia egregia, dal tuo amico datati a divedere. Delle cui alte virtú splendide e singulari volendo, secondo il preso stile, avanti procedere, una via e due servigi farò: per ciò che, mentre ti racconterò quelle, ti mosterrò come intender si dee, e come ella intende, ciò che, nella lettera a te mandata da lei, scrive che le piace; forse da te non tanto bene inteso.

«L’ordine richiedea a dovere della sua cortesia dire: la quale ella dalla magnificenzia distingue, per ciò che la magnificenzia intende che s’usi nelle cose donandole o gittandole via; la cortesia intende di se medesima usarsi, quando liberamente di si dice a chi la richiede d’amore: della qual cosa [p. 234 modifica]per certo ella è stata non cortese, ma cortesissima, pure che sia stato chi ardire abbia avuto di domandare; de’ quali assai sono suti che, quantunque ella nello aspetto sia paruta molto imperiosa, non si sono però peritati; e bene n’è loro avvenuto: dico avendo rispetto al loro appetito, al quale, per merito della richesta, prestamente è seguito l’efTetto. E perciò meritamente dice piacerle la cortesia: si come colei che, mentre da dovere essere richesta è stata, mai disdir noi seppe, cosí, ornai che in tempo viene, che a lei converrá richiedere, niuno vorrebbe che ’l disdicesse. E veramente di te io mi maraviglio come ti sia stato disdetto quello che piú a niuno fu giá mai; né altro ne so vedere, se non ch’io estimo che Dio t’ami, quello negare faccendoti che tu, essendone stato pregato, dovevi come lo ’nferno fuggire. E perciò, se altra cortesia avessi, la sua lettera leggendo, intesa, abbi testé inteso di qual si parla. Savissima donna per certo è questa tua; e per ciò che ogni simile suo simile appetisce, dei tu avere assai per costante le savie persone, come ella ti scrive gradirle. Ma, come tu sai, diverse sono le cose per le quali gli uomini e ogn’altra persona generalmente sono savi chiamati. Alcuni sono savi chiamati, per ciò che ottimamente la scrittura di Dio intendono e sannoia altrui mostrare; altri, per ciò che intorno alle questioni civili ed ecclesiastiche, si come molto in legge e in decretali ammaestrati, sanno ottimamente consigli donare; altri, per ciò che nel governo della repubblica sono pratichi e le cose nocive sanno schifare e seguire l’utili, quando il bisogno viene; e alcuni sono savi tenuti, però che sanno bene guidare i fondachi, le loro mercatanzie e arti e i loro fatti di casa e secondo i mutamenti de’ tempi sanno temporeggiare. De’ quali modi e d’altri assai, che laudevoli contar si potrebbono, io non vorrei che tu intendessi lei esser savia; per ciò ch’ella non cura di divina scrittura né di filosofica né di legge né di statuto o di reggimento pubblico o privato né di cosí fatte cose; per ciò che, se cosí intendessi, non intenderesti bene il senno di che ti scrive che si diletta. Egli c’è un’altra maniera di savia gente, la quale forse tu non udisti mai in [p. 235 modifica]scuola tra la filosofica gente ricordare, la quale si chiama la cianghellina. Sí come da Socrate coloro, che la sua dottrina seguirono, furono chiamati socratici e quelli, che quella di Platone, platonici, ha questo nome preso la nuova setta da una gran valente donna, la quale tu molte volte puoi avere udita ricordare, che fu chiamata madonna Cianghella; per la cui sentenzia, dopo lunga e seriosa disputazione, fu nel concilio delle donne discreto e per conclusione posto che tutte quelle donne, che hanno ardire e cuore e sanno modo trovare d’essere tante volte e con tanti uomini, con quanti il loro appetito concupiscibile richiedea, erano da essere chiamate savie; e tutte l’altre decime o moccicose. Questo è adunque quel senno il quale le piace e aggrada; col quale ella con lunghe vigilie molti anni ha studiato ed ènne, oltre ad ogni Sibilla, savia divenuta e maestra: intanto che tra lei e alcune sue consorti s’è assai volte disputato chi piú degnamente, poiché monna Cianghella piú non vive né monna Diana, ch’a lei succedette, debbia la cattedra tenere nella loro scuola. Questo è quel senno, nel quale ella vorrebbe ciascuna donna o uomo essere savio o appararlo; e perciò sgánnati, se male avessi inteso; e ch’ella sia savia credi sicuramente all’amico tuo.

«Parmi essere certo che, come nelle due giá dette cose perversamente intendevi, cosí similemente della terza sii caduto in errore. Di’ch’ella sempre s’è dilettata oltremodo di vedere gli uomini pieni di prodezza e di gagliardia; e credo che tu credevi ch’ella volesse o disiderasse o le piacesse di vedere gli uomini prò’ e gagliardi, colle lance ferrate giostrando, o nelle sanguinose battaglie tra mille pericoli mortali o combattendo le cittá e le castella o colle spade in mano insieme uccidersi. Non è cosí: non è costei cosí crudele né cosí perfida, come mostra che tu creda, ch’ella voglia bene agli uomini perché s’uccidano. E che farebb’ella del sangue, che, morendo l’uomo, vermiglio si versa? La sua sete è del digesto che’ vivi e’ sani possono, senza riaverlo, prestare. Quella prodezza adunque, che le piace, niuno la sa meglio di me. Ella non s’usa nelle piazze né ne’ campi né su per le mura né con [p. 236 modifica]corazze indosso né con bacinetti in testa né con alcuno ofifendevole ferro: ella s’usa nelle camere, ne’ nascosí luoghi, ne’ letti e negli altri simili luoghi acconci a ciò, dove, senza corso di cavallo o suon di tromba di rame, alle giostre si va a pian passo; e colui tiene ella che sia Lancelotto, o vuogli Tristano, Orlando o Ulivieri, di prodezza, la cui lancia, per sei o per otto o per dieci aringhi, la notte non si piega in guisa che poi non si dirizzi. Questi cosí fatti, se eglino avessono giá il viso fatto come il saracino della piazza, ama ella sopra ogni altra cosa; e questi cotali sommamente commenda e oltremodo le piacciono. Per che, se gli anni non t’hanno tolta l’usata virtú, non ti dovevi per prodezza disperare di piacerle, come facesti, credendo tu ch’ella volesse che tu fossi l’Amaroldo d’Irlanda. Della sua gentilezza, giá in parte parlato ho, la quale ella dice che antica le piace: in che io t’accerto che, come che nelle precedenti cose assai bene è vero, secondo le dimostrazioni fatte, ella abbia il suo piacere dimostrato, in quello ella non sa che si dire, si come colei che niuno sentimento ha di gentilezza: che cosa sia né donde proceda né chi dir si debba gentile né chi no; se non ch’ella ha.in ciò voluto mostrare ch’ella sia gentile ella; e però, come gentile, ama e disidera le cose gentili; ed è tanta la sua vanagloria e pompa, che ella fa di questa sua gentilezza, che in veritá a quelli di Baviera o a’ reali di Francia o qualunque altri, se altri ne sono antichi e le cui opere sieno state gloriose, sarebbe soperchio. Ma ben doveva, s’ella voleva mostrare che l’antica gentilezza le piaccia, sé antica gentildonna mostrare; de’ quali l’uno senza parole ella potrá oggiinai tosto col viso mostrare, cioè che antica sia; o donna o gentil non cred’io ch’ella potesse mostrare mai.

«Scriveti che le piacciono i grandi favellatori, con ciò sia cosa ch’ella di favellare ogn’altra persona avanzi e trapassi; e dicoti che ’l suo cinguettare è tanto che, solo, troppo piú aiuterebbe alla luna sostenere le sue fatiche che non facevano tutti insieme i bacini degli antichi; e lasciamo stare l’alte e grandi millanterie ch’ella fa, quando berlinga coll’altre fem[p. 237 modifica]mine, dicendo: — Quelli di casa mia e gli antichi miei e’ miei consorti — ché le pare troppo bella cosa a dire; e tutta gongola, quando si vede bene ascoltare e odesi dire: — Monna cotale de’ cotali — e vedesi cerchio fare. Ma ella in brevissimo spazio di tempo ti dirá ciò che si fa in Francia e ordina il Re d’Inghilterra; se i Ciciliani avranno buona ricolta o no; se i Genovesi o’ Viniziani recheranno spezieria di Levante e quanta; se la reina Giovanna giacque la notte passata col re; quello che i Fiorentini dispongano dello stato della cittá; (benché questo le potrebbe essere assai agevole, se con alcuno de’reggenti si stropicciasse, li quali, non altrimenti che’l paniere o il vaglio l’acqua, tengono i segreti de’ petti loro); e tante altre cose, oltre a queste, dirá che maravigliosa cosa è a pensare donde tanta lena le venga.

«E per certo, se quello è vero, che questi fisici dicono, che quello membro, il quale l’animale bruto e l’uccello e ’l pesce piú esercita, sia piú piacevole al gusto e piú sano allo stomaco, niuno boccone deve mai essere piú saporito né migliore che la lingua di lei, la quale mai di ciarlare non ristá, mai non molla, mai non fina, (dalle dalle dalle), dalla mattina insino alla sera; e la notte, io dico, dormendo, non sa ristare. E chi non la conoscesse, udendola della sua onestá, della sua divozione, della sua santitá e di quelli di casa sua favellare, crederebbe per certo lei essere una santa, e di legnaggio reale; e cosí in contrario, a chi la conoscesse, d’udirla la seconda volta, e talora la prima, è un fargli venir voglia di recer l’anima. E ’l non consentirle le favole e le bugie sue, delle quali ella è piú ch’altra femmina piena, niuna cosa sarebbe, se non un volersi con lei azzuffare; la qual cosa ella di leggeri farebbe, si come colei alla qual pare di gagliardia avanzare Galeotto delle lontane Isole o Febus. E giá assai volte, millantandosi, ha detto che se uomo stata fosse, l’arebbe dato il cuore d’avanzare di fortezza, non che Marco bello, ma il bel Gherardino che combattè con l’orsa.

«Perché mi vo io in piú parole stendendo? Se io volessi ogni cosa contare, oppure le piú notabili de’ suoi fatti, e’ non [p. 238 modifica]ci basterebbe il tempo. E, se tu cosí hai lo ’ngegno acuto, come io credo, assai pur per le udite puoi comprendere quanti e quali sieno i suoi costumi; e in che le sue gran virtú e la magnificenzia e ’l senno e l’altre cose consistano; e che cose sieno quelle virtuose che le dilettano. Per che, senza piú dire di quelle, tornando a ragionare di quello che tu non puoi aver saputo e di che per avventura teco stesso fai una grande stima, cioè dell’occulte parti ricoperte da’ vestimenti, le quali per tua buona ventura mai non ti si palesarono (cosí non si fossero elle mai a me palesate!), voglio che l’ascoltarmi non ti rincresca. Ma io, prima che piú avanti dica, ti voglio trarre d’un pensiero, il quale forse avuto hai o avere potresti nell’animo, solvendoti una oggezione che fare potresti. Tu forse hai teco medesimo detto o potresti dire: — Che cose sono quelle di che costui parla; chente il modo, clienti sono i vocaboli; o convengons’elle a niuno, non che a uomo onesto e il quale ha li passi diritti verso l’etterna gloria?— Alla quale opposizione, non volendo andare sofisticando, non è che una risposta; la qual son certo che in te medesimo consentirai che sia non solamente buona, ma ottima. Dei dunque sapere né ogni infermitá né ogni infermo potere essere sempre dal discreto medico con odoriferi unguenti medicato; per ciò che assai sono e di quelli e di quelle che noi patiscono e che richeggiono cose fetide, se a salute si vorranno conducere; e alcuna n’è che con cotali argomenti e vocaboli e con dimostrazioni puzzolenti purgare e guarire si vogliono. Il mal concetto amore dell’uomo è una di quelle; per ciò che piú una fetida parola nello intelletto sdegnoso adopera in una piccola ora che mille piacevoli e oneste persuasioni, per l’orecchie versate nel sordo cuore, non faranno in gran tempo. E, se niuno mai marcio fu di questa nocenzia putrida e villana, tu se’ senza niuno dubbio desso. Per che io, il quale, si come altri ha voluto, qui venuto sono per la tua salute, non avendo il tempo molto lungo, ai piú pronti rimedi sono ricorso e ricorro; e perciò ad addolcire il tuo disordinato appetito, alcuna cosa, come udito hai, parlar mi conviene; e ancor piú largo. Per [p. 239 modifica]ciò che queste parole cosí dette sono i ronconi e le securi colle quali si tagliano i velenosi sterpi, le spine e’ pruni e gli sconvolti bronchi che, a non lasciarti la via da uscirci vedere, davanti ti sono assiepati; queste parole cosí dette sono i martelli, i picconi, i bolcioni i quali gli alti monti, le dure rocche, gli strabocchevoli balzi convien che rompano e la via ti facciano, per la quale da tanto male, da tanta ingiuria, da tanto soperchio, da tanto pericolo e di luogo cosí mortale, come è questa valle, senza impedimento ti possi partire.

«Sostieni adunque pazientemente d’udirle; né paia alla tua onestá grave, né estimare, quello esser colpa, difetto o disonestá del medico, di che la tua pestilenziosa infermitá è cagione. Immagina queste mie parole, cosí sucide e cosí stomacose a udire, essere quello beveraggio amaro il quale, per l’avere tu troppo assentito alle cose dilettevoli e piacevoli al tuo gusto, il discreto medico giá nelle tue corporali infermitá t’ha donato; e pensa, se, per sanare i corruttibili corpi, quelle amare cose non solamente si sostengono, ma vi si fa di volontá incontro lo ’nfermo, quanta e quale amaritudine si dee per guarir l’anima, che è cosa etterna, sostenere. Io mi credo assai bene doverti avere soddisfatto a ciò, che ti potesse aver messo dubbio, e per lo futuro potrebbe, del modo o de’ vocaboli del mio parlare. E perciò, tornando al proposito e volendo di questa donna, nuova posseditrice dell’anima tua divenuta, partitamente parlare, alquanto di quelle dirò che a te non poterono essere note né per veduta né per immaginazione, per ciò che fuggito l’hai.

«Primieramente mi piace di quella bellezza incominciare, la qual, tanto le sue arti valsono che te non solamente, ma molti altri, che meno di te erano presi, abbagliò e di sé mise in falsa opinione: cioè della freschezza della carne del viso suo. La quale, essendo artificiata e simile alle mattutine rose parendo, con teco molti altri naturale estimarono: la quale se a te e agli altri stolti, come a me, possibile fosse stato d’avere, quando la mattina del letto fosse uscita, veduta, prima che posto s’avesse il fattibello, leggermente il vostro errore avresti [p. 240 modifica]riconosciuto. Era costei, e oggi piú che mai credo che sia, quando la mattina usciva del letto, col viso verde, giallo, maltinto, d’un colore di fumo di pantano e broccuta, quali sogliono gli uccelli che mudano, grinza e crostuta e tutta cascante; in tanto contraria a quello che parea, poiché avuto avea spazio di leccarsi, che appena che niuno il potesse credere, che veduto non l’avesse, come vid’io giá mille volte. E chi non sa che le mura affumicate, non che i visi delle femmine, ponendovi su la biacca, diventano bianche e, oltre a ciò, colorite, secondo che al dipintore di quelle piacerá di porre sopra il bianco? Echi non sa che, per lo rimenare, la pasta, che è cosa insensibile, non che le carni vive, gonfia; e, dove mucida parea, diviene rilevata? Ella si stropicciava tanto e tanto si dipigneva e si faceva la buccia, la quale per la quiete della notte era in giú caduta, rilevarsi che a me, che veduta l’avea in prima, una strana maraviglia me ne facea. E se tu, come io ’l piú delle mattine la vedea, veduta l’avessi colla cappellina fondata in capo e col veluzzo dintorno alla gola, cosí pantanosa nel viso, come ora dissi, e col mantello foderato covare il fuoco, in su le calcagna sedendosi, colle occhiaia livide tossire e sputare farfalloni, io non temo punto che tutte le sue virtú, dal tuo amico udite, avessero tanto potuto farti di lei innamorare che, quelle vedendo, cento mila cotanti non t’avessero fatto disamorare. Quale ella dovesse essere, quando i Pisani col vermiglio all’asta cavalcano, colla testa lenzata e stretta, la doglia al capo apponendo, dove alla parte opposita era il male, pènsalti tu. Sono molto certo che, se veduta cosí fatta l’avessi, o la vedessi, che, dove di’ che, vedendola, al cuore dal suo viso le fiamme ti corsero, come fanno alle cose unte, ti sarebbe paruto che ti si fosse fatto incontro una soma di feccia o un monte di letame; per lo quale saresti, come per le spiacevoli cose si fa, fuggito; e ancor fuggiresti e fuggirai, la mia veritá immaginando.

«Ma da procedere piú avanti ci resta. Tu la vedesti grande e compressa; parmi essere certo, come io sono della beatitudine che per me s’aspetta, che, riguardando il petto suo, tu [p. 241 modifica]estimassi quello dovere esser tale e cosí tirato qual vedi il viso, senza vedere bariglioni cascanti che le bianche bende nascondono. Ma di gran lunga è di lungi la tua estimazione dalla veritá; e, come che molti potessero al mio dire vera testimonianza rendere, si come esperti, a me, che forse piú lungamente, non potendo altro fare, esperienza n’ebbi, voglio che tu senza testimònio il creda. In questo gonfiato, che tu sopra la cintura vedi, abbi per certo ch’egli non v’è stoppa né altro ripieno che la carne sola di due bozzacchioni; che giá forse acerbi pomi furono, a toccare dilettevoli e a veder similmente; come che io mi creda che cosí sconvenevoli li recasse dal corpo della madre; ma lasciamo andar questo. Esse, qual che si sia la cagione, o l’essere troppo tirate d’altrui, o il soperchio peso di quelle che distese l’abbia, tanto oltre misura dal loro naturai sito spiccate e dilungate sono, se cascare le lasciasse, che forse, anzi sanza forse, infino al bellico l’aggiugnerebbono, non altrimenti vote o vizze che sia una vescica sgonfiata; e certo, se di quelle, come de’ cappucci s’usa a Parigi, a Firenze s’usasse, ella per leggiadria sopra le spalle se le potrebbe gittare alla francesca. E che piú? Cotanto o meno alle gote, dalle bianche bende tirate, risponde la ventraia; la quale di larghi e spessi solchi vergata, come sono le toriccie, pare un sacco voto, non d’altra guisa pendente che al bue faccia quella buccia vota che gli pende dal petto al mento; e per avventura non meno che gli altri panni quella le conviene in alto levare, quando, secondo l’opportunitá naturale vuol scaricare la vescica o, secondo la dilettevole, infornare il malaguida.

«Nuove cose, e assai dalle passate strane, richiede l’ordine del mio ragionamento; le quali quanto meno schiferai, anzi con quanta piú diligenza nello intelletto raccoglierai, tanto piú di sanitá recheranno alla tua infermitá. Come che nel vero io non sappia assai bene da qual parte io mi debbia cominciare a ragionare del golfo di Setalia, nella valle d’Acheronte riposto, sotto gli oscuri boschi di quella, spesse volte rugginosi e d’una gromma spiacevoli e spumosi, e d’animali di nuova [p. 242 modifica]qualitá ripieni; ma pure il dirò. La bocca, per la quale nel porto s’entra, è tanta e tale che, quantunque il mio legnetto con assai grande albero navigasse, non fu giá mai, qualunque ora Tacque furono minori, che io non avesse, senza sconciarmi di nulla, a un compagno, che con non minore albero di me navigato fosse, fatto luogo. Deh, che dich’io? L’armata del Re Roberto, qualora egli la fece mággiore, tutta insieme concatenata, senza calar vela o tirare in alto temone, a grandissimo agio vi potrebbe essere entrata. Ed è mirabil cosa che mai legno non v’entrò, che non vi perisse e che, vinto e stanco, fuori non ne fosse gittato, si come in Cicilia la Siila e la Cariddi si dice che fanno: che l’una tranghiottisce le navi e l’altra le gitta fuori. Egli è certo quel golfo una voragine infernale; la quale allora si riempierebbe, o sazierebbe, che il mare d’acqua o il fuoco di legne. Io mi tacerò de’ fiumi sanguinei e crocei che di quella a vicenda discendono, di bianca muffa faldellati, talvolta non meno al naso che agli occhi dispiacevoli, per ciò che ad altro mi tira il preso stile. Che ti dirò adunque piú avanti del borgo di mal pertugio, posto tra due rilevati monti, del quale alcuna volta, quando con tuoni grandissimi e quando senza, non altrimenti che di Mongibello, spira un fumo sulfureo si fetido e si spiacevole che tutta la contrada attorno appuzzola? Io non so che dirmiti, se non che, quando io vicino v’abitai, ché vi stetti piú che voluto non arei, assai volte, da cosí fatto fiato offeso, mi credetti altra morte fare che di cristiano. Né altrimenti posso dire del lezzo caprino il quale, quando da caldo e quando da fatica, tutta la corporea massa incitata geme e spira; questo è tanto e tale che coll’altre cose giá dette raccolto, si fanno il covacciolo sentire del leone che nelle Chiane, di mezza state, con molta meno noia dimorerebbe ogni schifo che vicino a quello.

«Per che, se tu e gli altri, che le gatte in sacco andate comperando, spesse volte rimanete ingannati, niuno maravigliar se ne dee. E per questa cagione sola, avendo tu il viso, come gli altri, piú diritto alla apparenza che alla esistenza, forse [p. 243 modifica]meno se’ da riprendere, quantunque a te piú si convenga, che a molti altri, piú la veritá che l’opinion delle cose seguire: la quale poiché veduta avessi, e dalla opinione non ti rimovessi, oltre a ogn’altra bestia, che umana forma porti, saresti da riprendere. E io, secondo che io mi crédo, ancora che brieve abbia parlato, avendo rispetto al molto che si può dire, si aperta t’ho la veritá, che forse t’era nascosa, che, se dal tuo errore non ti rimovessi, oltre ad ogni altra bestia dovresti bestia essere tenuto.

«Io lascio cose assai a dire, per volere venire a quel dolore al quale ieri t’avea condotto la tua follia; e acciò che io ti possa ben dimostrare come tu eri folle, aggiungendo le cose vecchie colle nuove, alquanto di lontano mi piace di cominciare. Mostrato t’ho in assai cose quanta e quale sia stata la eccellenza dell’animo di costei e i suoi costumi; e assai cose de’molti suoi anni t’arei dette, s’io t’avessi per si smemorato che nel suo viso non li avessi compresi; né t’ho nascose quelle parti, che la tua concupiscenzia non meno tirava ad amarla che facesse l’animo la falsa opinione presa dalle sue virtú. Ora della sua buona perseveranza e nella morte, e dopo la morte mia, mi piace di ragionarti, acciò che ad un’ora io faccia prò a me e a te: in quanto, io di ciò, con alcuno che la conosca, ragionando, si sfogherá alquanto la sdegnosa fiamma nella mia mente accesa contra di lei per li modi suoi; e a te, per ciò che, quanto piú udirai di lei delle cose meritamente da biasimare, tanto piú, lei a vile avendo, t’appresserai alla tua guarigione.

«Questa perversa femmina ogni giorno piú multiplicando nel fare delle cose, male a lei convenienti d’oprare e a me sostenere, né in ciò le mie riprensioni alcuna cosa vagliendo, non sappiendo al comportarle piú pigliare alcuno utile consiglio, in si fatto dolore e afflizione, nel cuore nascosa, mi misero che il sangue intorno a quello, piú che il convenevole da focoso cruccio riscaldato, impostemi; e, come nascosto era il dolore, cosí essendo nascosa la ’nfermitá, non prima si parve che il corrotto sangue, occupato subitamente il cuore, me [p. 244 modifica]quasi del mondo in uno stante rapi. Né prima fu l’anima mia dal mortale corpo né dalle terrene tenebre sviluppata e sciolta e ridotta nell’aere puro che io, con piú perspicace occhio ch’io non solea, vidi e conobbi qual fosse l’animo di questa iniqua femmina; la qual sanza dubbio simile allegrezza a quella, che della mia morte prese, non senti, quasi d’una sua lunga battaglia le paresse avere acquistato gloriosa vittoria, poscia che io levato l’era stato dinanzi; la qual cosa essa poco appresso, si come tu udirai, chiaramente dimostrò a chi riguardar vi volle.

«Ma tuttavia, si come colei, che ha di malizia abbondanza, prima avendo delle mie cose occultamente assai trasfugate e di quelli danari, che io alla sua guardia follemente avea commessi e che a’ miei figliuoli rimanere doveano, (non avendo io davanti assai pienamente li miei fatti e l’ultima mia intenzione ordinata, né avendo spazio di bene ordinarla, per lo subito sopravvenuto caso), quella parte presane, che le piacque, con altissimo romore fuori mandò le finte lagrime; il che meglio che altra femmina ella sa fare; e, in molto pianto multiplicando, colla lingua, cominciò a maladire lo sventurato caso della mia morte e sé a chiamare misera, abbandonata e sconsolata e dolente; dove, col cuore, maladiceva la vita che tanto m’era durata e sé oltre ad ogn’altra reputava avventurata. E veramente egli non sarebbe stato né uomo né donna alcuna, che udita l’avesse, che non avesse creduto lei veramente nell’animo avere quel che le sue bugiarde parole sonavano. Ma a me dee bastare assai che colui quelle conosce, insieme cogli altri fatti suoi, che a ciascuno, si come giusto giudice, secondo i meriti rende guiderdoni.

«Mandati dunque ad esecuzione tutti gli ufici funerali, poiché ’l mio corpo, terra divenuto, fu alla terra renduto, la valente donna, disiderosa di piú scapestratamente la sua vecchiezza menare che non l’era paruto potere la giovanezza, sentendosi caldo di quello che suo essere non dovea, per ciò che né di sua dota né di patrimoniale ereditá sostenersi arebbe potuto di quello che a fare s’apparecchiava, né nella mia casa [p. 245 modifica]rimaner volle né in quella de’ suoi nobili parenti e consorti tornare. Ma con parole piene di compassione disse sé volere in alcuna piccola casetta e vicina ad alcuna chiesa, e di sante persone, riducersi, acciò che quivi, vedova e sola, in orazione e in usare la chiesa il rimanente della sua etá consumasse. E fu tanta la forza di questo suo infinto parlare e si maestrevolmente il seppe dire che assai furono di quelle persone, si semplici che cosí ebbeno per fermo che dovesse addivenire come dicea, come hanno che morir debbano.

«Appropinquossi adunque quanto piú potè alla chiesa de’ frati, nella quale tu prima la conoscesti; non giá per dire orazioni, delle quali niuna credo che sappi, né di sapere curassi giá mai, ma per potere meglio, senza avere troppi occhi addosso, e massimamente di persone alle quali del suo onore calesse, le sue libidinose volontá compiere; acciò che, dove ogn’altro uomo le venisse meno, i frati, che santissimi e misericordiosi uomini sono, e consolatori delle vedove, non le venissero meno. Quivi, secondo che tu puoi avere udito, con suo mantello nero in capo e, secondo ch’ella vuole che si creda, per onestá molto davanti agli occhi tirato, va faccendo baco baco a chi la scontra; ma pure, se bene v’hai posto mente, ora quello apre, ora il richiude, non sappiendosi ancora delle usate vanitá rimanere; e, quasi ad ogni parola in giú si tira le bende dal mento e caccia la mano fuori del mantello, parendogliele bellissima avere e massimamente sopra ’l nero.

«Uscita adunque di casa, cosí coperta se n’entra nella chiesa; ma non vorrei che tu credessi per udire divino uficio o per adorare v’entrasse, ma per tirare l’aiuolo. Per ciò che, sappiend’ella, ch’è giá lungo tempo, che quivi d’ogni parte della nostra terra concorrono giovani prodi e gagliardi e savi, come le piacciono, di quella ha fatto uno escato, come per pigliare i colombi fanno gli uccellatori; e, per ciò che ciascuno non vede la serpe che sta sotto l’erba nascosa, spesso vi piglia de’ grossi. Ma, si come colei che di variar cibi spesso si diletta, non dopo molto, sazia, a prendere nuova cacciagion [p. 246 modifica]si ritorna; e, per averne ella tuttavia due o tre presti, non si riman’ella però d’uccellare; e, se io di questo mento o dico il vero, tu ’l sai, che parendoti bene mille occhi avere, senza sapertene guardare, nelle panie incappasti.

«Giunta adunque nella chiesa e non sanza cautela avendo riguardato per tutto, prestamente avendo raccolto con gli occhi chiunque v’è, incomincia, senza ristare mai, a faticare una dolente filza di paternostri, or dall’una mano nell’altra, or dall’altra nell’una trasmutandoli, senza mai dirne uno, si come colei la quale ha faccenda soperchia pur di far motto a questa e a quell’altra e di sufolare ora ad una, ora ad un’altra nell’orecchie e cosí d’ascoltarne ora una, ora un’altra; come che questo molto grave le paia, cioè d’ascoltarne niuna, si bene le pare sapere dire a lei; e in questo, senza altro far mai, tutto quel tempo, che nella chiesa dimora, consuma. Forse direbbe alcuno: — Quello, che nella chiesa non si fa, ella il supplisce nella sua casetta. — La qual cosa non è punto vera; per ciò che chi si potesse di ciò essere ingannato, altramenti credendo che ’l fatto sta, io, si come colui che, s’ella alcuno bene facesse, o alcuna orazione o paternostro dicesse, il sentirei, non ne posso essere ingannato; per ciò che, non altrimenti che la fresca acqua è sopra i caldi corpi soave, cosí a quelli la mia arsura sentirei rinfrescare.

«Ma che dich’io? Forse sono lo’ngannato pure io: essa ne dice forse ad altrui nome. Giá so io bene, che non è ancora lungo tempo passato, che del vostro mondo si parti uno, che con tanta afflizion la trafisse, ch’ella stette de’ di presso a otto, ch’ella non volle bere uovo né assaggiar pappardelle. Ma io cosí fidatamente ne favellava, per ciò che saper mi parea, e so, che le sue orazioni e paternostri sono i romanzi franceschi e le canzoni latine, e’ quali ella legge di Lancelotto e di Ginevra e di Tristano e d’Isotta; e le loro prodezze e i loro amori e le giostre e i torniamenti e le semblee. Ella tutta si stritola quando legge Lancelotto o Tristano o alcuno altro colle loro donne nelle camere, segretamente e soli, raunarsi, si come colei alla quale pare vedere ciò che fanno e [p. 247 modifica]che volentieri, come di loro immagina, cosí farebbe; avvegna che ella faccia si che di ciò corta voglia sostiene. Legge la canzone dello indovinello e quella di Fiorio e di Biancifiore e simili cose assai. E, se ella forse a cosí fatta lezione non intende, a guisa d’una fanciulletta lasciva, con certi animaletti, che in casa tiene, si trastulla infino all’ora che venga piú desiderato trastullo e che con lei si congiunga. E, acciò che tu alcuna cosa piú che nói sappia della sua vita presente, t’affermo io che, dopo la morte mia, oltre agli altri suoi divoti, ha ella per amante il secondo Ansalone, di cui poco avanti alcuna cosa ti dissi assai malconveniente a’suoi piaceri; il quale, come che per piú legittime cagioni si dovesse da cosí fatta impresa ritrarre, mal conoscente di ciò che Dio gli ha fatto, pur vi s’è messo. Ma non sará senza vendetta l’offesa: per ciò che, se nel mondo, nel quale io dimoro, non si mente, che noi credo né non mi pare, egli ha della moglie un tal figliuolo, e per suo il nutrica e allieva, che gli appartiene meno che non fe’ Gioseppo a Cristo; il quale, cresciuto, ogni mia ingiuria, se ingiuria dir debbo, vendicherá contra di lui; né è però esente, come egli si crede, dal volgare proverbio il quale voi usate, dicendo: — Quale asino dá in parete, tale riceve —: se egli gli altrui beni lavora, e’ viene d’altra parte chi lavora i suoi.

«A cosí buona vita adunque, e cosí santa, s’è ritrovata vicina de’ frati colei che non mia donna, ma mio tormento fu, mentre vissi. Colei cosí onesta, cosí laudevole, quale udisti, fu, prima che morte mi separasse da lei; e nella virtú e ne’costumi si dilettò ed esercitò, ch’io ti dissi, senza ch’ella è tale qual io brievemente te la disegno. Per che vedere puoi di cui il tuo poco senno, il tuo poco conoscimento, la tua poca discrezione abbagliato t’avea e per cui messa l’anima tua, la tua libertá o il tuo cuore nelle catene d’amore e in afflizione incomportabile e qui ultimamente in questa valle diserta condotto; di che ornai saziare non mi potrei di riprenderti.

«Ma da venire è all’ultima parte della nostra promessa, [p. 248 modifica]acciò che, piú della tua impresa attristandoti, meriti piú tosto il perdono e la tua salute. Tu, misero, te schernito reputi da costei; e a negare che tu schernito non fossi né io il farei, né tu, perch’io il facessi, il crederesti; ma non era da cosí gravemente prenderlo, come facesti, se cosí chi il faceva conosciuto avessi, come ora conoscer dei. E, acciò che tu conoschi lei in questa cosa non avere altrimenti operato che fare si soglia nell’altre e che tu del tutto fuori della tua mente la cacci, mi piace di dirti come e quello che io della tua lettera senti’.

«Egli è vero che di qua spesso gente ne vien di lá, la quale in parte quello, che ci si fa, racconta; ma nondimeno per alcuni accidenti n’è conceduto da Dio il venire di qua alcuna volta; e massimamente o per rammentare noi medesimi a coloro a’ quali dee di noi calere, o per simile caso, come è questo, per lo quale io sono a te venuto. E avvenne che io quella notte ci venni, la qual è seguente al di, che tu la prima lettera scrivesti a questa tua donna; avendo visitati piú luoghi, tirato da una cotale caritatevole affezione, la quale non solamente gli amici, ma ancora i nemici ci fa amare, colá entrai, ove colei abita, che ti prese; e, ogni parte della casa cercando e per tutto riguardando, avvenne che io della lettera, di che tu ti rammarichi, sentii novelle. Egli era giá una pezza della notte passata, quando, entrato in quella camera, nella quale ella dorme, e quella, come l’altra casa, riguardata tutta, essendo giá per partirmi, vidi in essa una lampana accesa davanti alla figura di nostra Donna, poco da lei, che la vi tiene, faticata; e, verso il letto mirando, dov’ella giaceva, non giá sola, come io sperava, la vidi, ma in grandissima festa con quello amante, di cui poco avanti dissi alcuna cosa. Per che, ancora arrestato, volli vedere che volesse la loro festa significare: né guari stetti, che alla richiesta di colui, con cui era, levatasi e acceso un torchietto e quella lettera, che tu mandata avevi, tratta d’un forzierino, col lume in mano e con la lettera, a letto si ritornò. E quivi, il lume l’uno tenendo e l’altro la lettera leggendo e a parte a parte guardandola, ti [p. 249 modifica]sentii nominare, e con maravigliose risa schernire; e te or gocciolone, or mellone, ora ser mestola e talora cenato chiamando, sé quasi ad ogni parola abbracciavano e baciavano e, parole tra’ baci mescolando, si dimandavano insieme se tu, quando quella cosa scrivevi, eri desto, o se sognavi. E talvolta dicevano:

«— Parti che costui abbi l’arco lungo? Vedesti mai cosí nuovo granchio? Per certo questi l’ha cavalcata. Egli è di vero uscito del sentimento, e vuole esser tenuto savio. Domine dagli il malanno! Torni a sarchiare le cipolle e lasci stare le gentildonne. Che dirai? Arestii mai creduto? Deh, quante bastonate gli si vorrebbono fare dare; anzi gli si vorrebbe dare d’un ventre pecorino per le gote tanto quanto il ventre, o le gote, bastassero. —

«Ahi, cattivello, a te! Come t’erano quivi colle parole graffiati gli usatti e come v’eri per meno che l’acqua versata dopo le tre! Le tue Muse, da te amate e commendate tanto, quivi erano chiamate pazzie e ogni tua cosa matta e bestiale era tenuta. E, oltre a questo, v’era assai peggio che per te: Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri uomini illustri, per quel ch’io creda, tuoi amici e domestici, erano, come fango, da loro scalpitati e scherniti e annullati e, peggio che montoni maremmani, sprezzati e avviliti; e, in contrario, se medesimi esaltando con parole da fare per istomacaggine le pietre saltare del muro e fuggirsi, soli sé essere dicevano l’onore e la gloria di questo mondo; di che io assai chiaramente m’avvidi che ’l cibo e ’l vino, disordinatamente presi da loro, o il disiderio di compiacere l’uno all’altro, schernendoti, di se medesimi, ne’ quali forse non furono giá mai, li avea tratti. Con queste parole e con simili e con molte altre schernevoli lunga pezza della notte passarono; e per aver piu cagione di farti dire e scrivere, ed essi di poter di te ridere e schernirti, quivi tra loro ordinarono la risposta che ricevesti; alla quale tu, rispondendo, desti loro materia di ridere e di dire altrettanto, o peggio, della seconda, quanto della prima t’avessono detto. E, se non fosse che ’l drudo novello teméo [p. 250 modifica]non il troppo scrivere si potesse convertire in altro, forse della vanitá di lei e della leggerezza sospicando, non dubitar punto che tu non avessi avuta la seconda lettera e poi la terza; e forse saresti aggiunto alla quarta e alla quinta. Cosi adunque desti da ridere alla tua savia donna e valorosa e al suo dissensato amante; e, dove amore e grazia acquistare ti credevi, beffe e strazio di te acquistavi.

«La qual cosa veggendo e udendo io, non giá per amore di te, ché ancora assai ben non ti conosceva, ma perché cosa cosí abominevole sostenere non potea, assai male contento, non per me, ma per lei, mi partii pieno di sdegno e di gravosa noia. Questo, secondo che le tue parole suonano, non sapesti tu da singulare persona che ciò ti narrasse, ma da congetture prese da parole, da forse non troppo savia e nociva persona udite; eppure, di quel poco che comprendesti, in disperazione ne volevi venire. Or che avresti detto, quando la mente tua era ancora inferma del tutto, se cosí ordinatamente avessi la cosa udita? Sono certo, senza piú pensarvi, ti saresti per la gola impiccato; ma vorrebbe il capestro essere stato forte si che ben sostenuto t’avesse, acciò che, rottosi, tu non fossi caduto e scampato, si come colui che quello, e peggio, molto bene meritato avevi. Ma, se cotale avessi la mente avuta e lo ’ntelletto sano, come dovevi, avendo riguardo a quello ch’io detto t’ho, non miga per quello che tu per li tuoi studi potevi sapere, ma a quello che per quelli ti sarebbe mostrato, avendo voluto riguardare, riso te ne avresti, veggendo lei dalla generai natura dell’altre femmine non deviare; il che forse testé teco medesimo il fai; e fai saviamente, se’l fai.

«E quello, che di questa parte ho detto, quello medesimo dico della seconda. Che, se tu teco medesimo riguardare avessi voluto quanta sia la vanitá delle femmine, di quello ti saresti ricordato, che giá molte volte hai detto, (cioè che gloriandosi elle sommamente d’essere tenute belle, e, per essere, facciano ogni cosa e tanto piú loro essere paia quanto piú si veggiono riguardare, piú fede al numero de’ vagheggiatori dando che al loro medesimo specchio), compreso avresti a lei non essere [p. 251 modifica]discaro, ma carissimo il tuo riguardare. E, per ciò che esse di niuna cosa, che a loro pompa appartenga, contente sono, se nascosa dimora, volonterosa che all’altre femmine apparisca, te a dito mostrava, per dare a vedere a quelle, alle quali ti dimostrava, sé ancora essere da tenere bella e d’avere cara, poiché ancora trovava amadore, e massimamente te che se’ da tutti un gran conoscitore di forme di femmine reputato; per che lei mostrarti aresti veduto in onore di te, non in biasimo, essere stato fatto da lei. Ben potrebbe alcun altro dire il contrario: cioè che ella, per mostrarsi molto a Dio ritornata e avere del tutto la vita biasimevole, che piacere le soleva, abbandonata, te a dito avesse mostrato, dicendo: — Vedete il nimico di Dio quanto s’oppone alla mia salute; vedete cui egli m’ha ora parato dinanzi per farmi tornare a quello di che io del tutto intendeva, e intendo, di piú non seguire! — o forse con quelle medesime parole colle quali avea al suo amante le tue lettere mostrate. E altri direbbono che né l’uno né l’altro, né per l’una ragione né per l’altro fatto l’avesse; ma solamente per voglia di berlingare e di cinguettare, di che ella è vaghissima, si ben dire le pare, essendole venuta meno materia di dovere dire di sé alcuna gran bugia, per avere onde dirla, te dimostrava. Ma, qual che la cagion si fosse, ricorrere dovevi prestamente a quella infallibile veritá; cioè niuna femmina essere savia e perciò non potere saviamente adoperare. E, se riprensione in ciò cadeva, sopra te doveva degnamente cadere, si come colui che credevi, avendola alcuna volta guardata o portandole alcuno amore, quello aver fatto di lei, in sua vecchiezza, che né la natura, né forse i gastigamenti, aveano potuto nella sua giovanezza fare: cioè che ella savia fosse o alcuna cosa saviamente operasse. Tu adunque, non considerando né a te né a lei quello che dovevi, se cruccio grave n’avesti, cagione te ne fosti. —

«Ma, lasciamo stare l’essere le femmine cosí fiere, cosí vili, cosí orribili, cosí dispettose, come ricordato t’hanno le mie parole, e l’avere la lettera tua cosí fieramente palesata e te, per qualunque delle dette cagioni o per qualunque altra [p. 252 modifica]voglia, avere a dito dimostrato alle femmine, e vegnamo al focoso amore che portavi a costei e ragioniamo della tua demenzia in quello. Io voglio presupporre che vero fosse ciò che l’amico tuo del valore di costei ti ragionò; il che se cosí credesti che fosse, mai non mi farai credere che in lei libidinoso amore avessi posto, si come colui che avresti conosciuto quelle virtú essere contrarie a quello tuo vizioso desiderio; e, per consequente, essendo esse in lei, mai non dovere venire fatto in quello atto cosa che tu avessi voluta; si che non quelle ad amarla ti tirarono, ma la sua forma per certo; e alcuna cosa veduta di lei ti mise in speranza del tuo disonesto volere potere recare a fine. Ma furonti si gli occhi corporali nella testa travolti che tu non vedesti lei essere vecchia e giá stomachevole e noiosa a riguardare? E, oltre a ciò, qual cechitá d’animo si quelli della mente t’avea adombrati che, cessando la speranza del tuo folle desiderio in costei, con acerbo dolore ti facessono la morte desiderare? Qual miseria, qual tiepidezza, qual trascuraggine te a te cosí avea della memoria tratto che, venendoti meno costei, tu estimassi che tutto l’altro mondo ti dovesse essere venuto meno e per questo volere morire? Part’egli cosí essere da nulla? Se’ tu cosí pusillanime, cosí scaduto, cosí nelle fitte rimaso, cosí scoppiato di cerro o di grotta o se’ cosí da ogni uomo del mondo discacciato che tu costei si per unico rifugio e per tuo singulare bene eletta avessi che, se ti mancasse, tu dovessi desiderare di morire? Qual piacere, quale onore, quale utile mai avesti da lei o ti fu promesso, se non dalla tua sciocca e bestiale speranza, il quale poi ti fosse tolto da lei?

«E la tua speranza che cosa ti poteva da lei giustamente promettere? Certo niuna, se non di metterti nelle braccia quelle membra cascanti e vizze e fetide; delle quali sanza fallo, se saputo avessi il mercato il quale n’ha fatto e fa, come ora sai, sarebbe stato il disiderio minore. Forse speravi, potendole nelle braccia venire e avendo di quella prodezza della quale ella cotanto si diletta, cosí essere salariato, come fu giá il cavaliere di cui di sopra parlai? Tu eri ingannato, [p. 253 modifica]per ciò che, quando quello era, ella spendeva del mio; oggi, de’ suoi parendole spendere, non dubito punto che tu non le trovassi troppo piú stretta la mano che tu non t’avvisi. Egli è andata via quella magnificenza della quale forse tanto l’amico tuo la commendava. E, se questo non isperavi, in quale altra cosa ti poteva ella molto valere? Potevati costei degli anni tuoi scemare? Si forse di quelli che sono a venire; per ciò che giá ad altrui ne scemò; ma io non credo che tu questo avessi voluto; e giugnere non te ne potea, per ciò che solamente a Dio s’appartiene questo. Potevati costei delle cose assai, che tu non sai, insegnare? Si forse delle malvage, per ciò che giá ad altrui ne ’nsegnò; ma io non credo che tu quelle vadi cercando; dell’altre mostrare non ti potea, per ciò che niuna buona ne sa. Potevati costei, morendo tu o vivendo, beatificare? Si forse, se quella è beatitudine, che essa col suo amante, te schernendo, diterminava; per ciò che giá cosí n’ha assai beatificati; ma io non credo, poiché alquanto la luce t’è tornata dello intelletto, che tu quella beatitudine estimi, ma tormento; della vera né hanne né ará mai, si come colei che ad etterno supplicio, per li carnali diletti, giá se medesima ha condannata. Che dunque ti poteva costei fare? Certo io noi conosco; né credo ancora che tu il conoscessi o potessi conoscere. Forse t’arebbe potuto fare de’priori; che oggi cotanto da’ tuoi cittadini si disidera. Ma io non so vedere il come, rammentandomi che nel vostro Campidolio non è da’ vostri senatori orecchia porta a’ rapaci lupi dello alto legnaggio e del nobile, del quale ella è discesa. Ma ben potresti dire: si potrebbe, se cosí fosse a grado a tutti coloro, che hanno a fare lo squittino, come ella fu a te; e avesselo voluto fare. Ma questo mi pare che sarebbe impossibile: ché appena, che lo creda, che, non che tanti, ma un altro se ne trovasse, che cosí ne potesse divenire abbagliato, come tu divenisti. Deh, misera la vita tua! Quanti sono i signori, li quali se io per il loro titoli te li nominassi, in tuo danno te ne vanaglorieresti, dove in tuo prò non te ne se’ voluto rammemorare? Quanti i nobili e grandissimi uomini alli quali, volendo, tu [p. 254 modifica]saresti carissimo! E per soperchio e poco laudevole sdegno, il quale è in te, a niuno t’accosti; e, se pure ad alcuno, poco con lui puoi sostenere, se esso a fare a te quello che tu ad esso dovresti fare non si declina: cioè seguire i tuoi costumi ed esserti arrendevole; ove tu con ogni sollecitudine dovresti i suoi seguire e andargli alla seconda. E a costei andando quanto tu piú umilmente potevi, non parendoti cosí bene essere ricevuto, come desideravi, non ti partivi, come fatto avresti, e faresti, da quelli che esaltar ti possono, dove costei sempre ti deprimerrebbe, ma chiamavi la morte che t’uccidesse; la qual piú tosto chiamar dovevi, avendo riguardo a quello a che l’anima tua s’era dechinata: e a che utilitá? e a cui sottomessa? A una vecchia rantolosa, vizza, malsana, pasto ornai da cani piú che da uomini; piú da guardare la cenere del focolare ornai che da apparire tra genti, perché guardata sia.

«Deh, lasciamo stare quello che tu, per tuo studio e di grazia, da Dio hai acquistato e vegnamo a quello solo che dalla natura t’è stato conceduto; e, questo veduto, se cosí sdegnoso ti mostri nell’altre cose, non d’essere stato schernito, come forse ti fai, tu ti piagnerai e lamentera’ti, ma d’averti, a modo ch’uno nibbio, lasciato adescare e pigliare alle busecchie. Hatti la natura tanta grazia fatta che tu se’ uomo, dove colei è femmina, per cui si miseramente piangevi: e quanto uomo piú degna cosa sia che femmina in parte l’hanno davanti le nostre parole dimostrato. Appresso, s’ella è di persona grande e ne’ suoi membri bene proporzionata e nel viso forse, al tuo parere, bella, e tu non se’ piccolo e per tutto se’ cosí ben composto, come sia ella. Né difettuoso ti veggio in parte alcuna; né ha il tuo viso tra gli uomini men di bellezza che abbia il suo tra le femmine, con tutto ch’ella studi il suo con mille lavature e con altrettanti unguenti, dove ora il tuo rade volte, o non mai, pur con l’acqua chiara ti lavi; anzi ti dirò piú ch’egli è molto piú bello, quantunque tu poco te ne curi; e fai bene, per ciò che tale sollecitudine sommamente agli uomini si disdice. Una grazia l’ha fatta per [p. 255 modifica]insino a qui la sua natura più che a te; ché, se non m’inganna il mio iudicio, quantunque tu abbi la barba molto fiorita e, di nere, candide sieno divenute le tempie tue, ed ella, pur nel mondo stata molti più anni che tu non se’, quantunque forse non l’abbia cosi bene adoperati, non le ha mutate. Per che, ragguagliando molto la prima cosa, nella quale tu se’ meglio di lei, con questa ultima, nella quale pare che essa sia meglio di te, essendo quella di mezzo del pari, dico che cosi tosto dovrebbe ella essersi fatta incontro a te ad amarti, come tu ti facesti incontro a lei. S’ella nol fece, vuo’ tu perciò per la sua sconvenevolezza consumarti? Ella, a buona ragione, ha più da rammaricarsi che non hai tu; per ciò che della sua sconvenevolezza ella perde, dove tu ne guadagni, se ben porrai mente a ogni cosa.

«Ma tu rificchi pur gli occhi della mente ad una cosa, della qual ti pare avere molto disavvantaggio da lei, e di che io niuna menzione feci, quando l’altre andai ragguagliando; e avvisi che quella sia la cagione per la quale tu schifato sii: cioè che a te pare che ella gentildonna sia, dove a te non pare essere cosi; il che presummendo che cosi fosse, non perciò saresti lasciato, se guardi a chi è il secondo Ansalone, che è cotanto nella sua grazia, e se a tutto appieno degli altri guardando verrai. Ma in ciò mi pare che tu erri, e gravemente; primieramente in ciò: che tu, lasciando il vero, seguiti l’opinione del popolazzo il quale sempre più alle cose apparenti, che alla verità di quelle, dirizza gli occhi. Ma non sai tu qual sia la vera gentilezza e quale la falsa? Non sai tu che cosa sia quella che faccia l’uomo gentile e qual sia quella che gentile esser nol faccia? Certo si ch’io so che tu’l sai; né niuno è si giovinetto nelle filosofiche scuole che non sappia noi da un medesimo padre e da una madre tutti avere i corpi, e l’anime tutte iguali e da uno medesimo creatore; né niuna cosa fa l’uomo gentile e l’altro villano, se non che, avendo ciascuno parimente il libero arbitrio a quello operare che più gli piacesse, colui che la virtù seguitò, fu detto gentile; e gli altri per contrario, seguendo i vizi, furono non gentili [p. 256 modifica]reputati: dunque da virtú venne prima gentilezza nel mondo. Vieni ora tu tra’ suoi moderni e ancora tra’ suoi passati cercando e vederai quante di quelle cose, e in quanti, tu ne troverai, che facciamo gli uomini gentili. L’avere avuto forze che in loro vennono da principio da fecunda prole, che è naturale dono e non virtú, e con quelle avere rubato e usurpato e occupato quello de’ loro vicini meno possenti, che è vizio spiacevole a Dio e al mondo, li fece giá ricchi; e, dalle ricchezze insuperbiti, ardirono di fare quello che giá soleano i nobili di fare: cioè di prendere cavalleria; nel quale atto ad un’ora se medesimi e i vai e gli altri militari ornamenti vituperarono. Qual gloriosa cosa, qual degna di fama, quale autorevole udistú mai dire, che per la repubblica, oppure per la privata, alcuno di loro adoperasse giá mai? Certo non niuna; fu adunque il principio della gentilezza di costoro forza e rapina e superbia, assai buone radici di cosí laudevole pianta. Di quegli che ora vivono è la vita tale che Tesser morto è molto meglio. Ma pure, se stato ve ne fosse alcuno valoroso, che fa quello a costei? Cosi bene te ne puoi gloriar tu, come ella e qualunque altro si fosse. La gentilezza non si può lasciare per ereditá, se non come la virtú, le scienzie, la santitá e cosí fatte cose; ciascun conviene che la si procacci e acquistila, chi avere la vuole.

«Ma, che che stato si sia negli altri, dirizza un poco gli occhi in colei, di cui parliamo, che cosí gentil cosa ti pare; o chi ella sia al presente o nel pretèrito stata sia riguarda. S’io non errai, vivendo seco, e se bene quello, che di lei poco innanzi ragionai, raccogliesti, ella ha tanto di vizio in sé che ella ne brutterebbe la corona imperiale. Che gentilezza ti può dunque da lei essere gittata al volto o rimproverata non gentilezza? In veritá, se non che parrebbe che io lusingare ti volessi, assai leggermente e con ragioni vere ti mosterrei te molto essere piú gentile che ella non è, quantunque degli scudi de’ tuoi passati non si veggano per le chiese appiccati. Ma cosí ti vo’ dire che, se punto di gentilezza nello animo hai, o quella avessi, che giá ebbe il legnaggio del re [p. 257 modifica]Bando di Bernvich, tutta l’avresti bruttata e guasta, costei amando. Ora io potrei, oltre a quello che ho detto, ad assai piú altre cose procedere; e con piú lungo sermone e con parole piú aspre contro alla ignominia della malvagia femmina che ti prese e contro alla tua follia e alla colpa da te commessa; ma, volendo che quelle che dette sono bastino, quelle che tu vuogli dire aspetterò».—

Io aveva colla fronte bassa, si come coloro che il loro fallo riconoscono, ascoltato il lungo e vero parlare dello spirito; e sentendo lui a quello avere fatto fine e tacere, lagrimando alquanto, il viso alzava; e dissi:

— Ottimamente, benedetto spirito, dimostrato m’hai quello che alla mia etá e a’ miei studi si convenia; e in spezialtá la viltá di costei la quale il mio falso giudicio per donna della mia mente, nobilissima cosa estimandola, eletta avea; e i suoi costumi e i suoi difetti e le maravigliose virtú sue con molte altre cose; e con parlare ancora assai piú dolce che ’l mio peccato non meritava, me riprendendo m’hai dimostrato quanto gli uomini naturalmente di nobiltá le femmine eccedono e chi io in particulare sia. Le quali cose ciascuna per sé e tutte insieme hanno si in diritto rivolta la mia essenzia e il mio animo permutato che, senza niuno dubbio, di ciò che mi pareva davanti, ora mi pare il contrario; in tanto che, quantunque piissima sia colei, li cui prieghi la tua venuta a me impetraro, appena che io possa sperar giá mai perdono o salute, quantunque ella mi prometta, si mi par grave e spiacevole il mio peccato. E perciò temo che, dove per mia utilitá venisti, quella in grandissimo danno non si converta: in quanto prima noiosa m’era la stanza e gravi le catene che mi teneano; ma pure, non conoscendo il pericolo, nel quale io era, né ancora la mia viltá, quelle con meno affanno portava che ornai non potrò portare le mie lagrime: ché multiplicherá ognuna in mille; e la paura diverrá in tanto maggiore che mi ucciderá; si che, se male mi parea davanti stare, ora mi parrá stare pessimamente. —

Lo spirito allora, nello aspetto tutto pieno di compassione, riguardandomi, disse: [p. 258 modifica]

— Non dubitare: sta’ sicuramente e nel buono volere, nel quale al presente se’, si persevera. La divina bontá è si fatta e tale che ogni gravissimo peccato, quantunque da perfida iniquitá di cuore proceda, solo che buona e vera contrizione abbia il peccatore, tutto il toglie via e lava della mente del commettitore e perdona liberamente. Tu hai naturalmente peccato, e per ignoranza; che nel divino aspetto ha molto meno d’offesa che chi maliziosamente pecca; e ricordar ti dei quanti e quali e come enormi mali, per malizia operati, egli abbia con Tonde del fonte della sua vera pietá lavati; e, oltre a ciò, beatificati coloro che giá come nimici e rubelli del suo imperio peccaro, per ciò che buona contrizione e ottima satisfazione fu in loro. E io, se non m’inganno, anzi se le tue lagrime non m’ingannano, te si compunto veggio che giá perdono della offesa hai meritato; e certissimo sono che desideroso se’ di satisfare in quello, che per te si potrá, della offesa commessa; alla qual cosa io ti conforto quanto piú posso, acciò che in quel baratro non cadessi, donde niuno può poi rilevarsi. —

Al quale io allora dissi:

— Dio, che solo i cuori degli uomini vede e conosce, sa se io dolente sono e pentuto del male commesso e se io cosí col cuore piango, come cogli occhi; ma, perché per contrizione e per satisfazione tu in speranza di salute mi metti, avendo io giá l’una, carissimo mi sarebbe d’essere da te ammaestrato di ciò, che a me s’appartenesse, di fornire l’altra. —

Al quale esso rispuose:

— A volere de’ falli commessi satisfare interamente, si conviene, a quello che fatto hai, operare il contrario; ma questo si vuole intendere sanamente. Ciò, che tu hai amato, ti conviene avere in odio; e ciò, che tu per lo altrui amore t’eri a volere fare disposto, a fare il contrario, si che tu odio acquisti, ti conviene disporre; e odi come, acciò che tu stesso, male intendendo le parole da me ben dette, non t’ingannassi. Tu hai amata costei, perché bella ti pareva, perché dilettevole nelle cose libidinose l’aspettavi. Voglio che tu abbi in odio [p. 259 modifica]la sua bellezza, in quanto di peccare ti fu cagione, o essere ti potesse nel futuro; voglio che tu abbi in odio ogni cosa che in le’in cosí fatto atto dilettevole la stimassi; la salute dell’anima sua voglio che tu ami e disideri; e, dove per piacere agli occhi tuoi andavi desiderosamente dove vedere la credevi, che tu similemente questo abbi in odio e fúgghitene; voglio che della offesa fattati da lei tu prenda vendetta; la quale ad una ora a te e a lei sará salutifera.

«Se io ho il vero giá molte volte inteso, ciascuno che in quello s’è dilettato di studiare o si diletta, che tu sai ottimamente, eziandio mentendo, sa cui gli piace tanto famoso e si glorioso rendere negli orecchi degli uomini che, chiunque di quel cotale niuna cosa ascolta, lui e per virtú e per meriti sopra i cieli estimano tenere la pianta de’ piedi; e cosí in contrario, quantunque virtuoso, quantunque valoroso, quantunque di bene sia uno che nella vostra ira caggia, con parole, che degne paiono di fede, nel profondo di ninferno il tuffate e nascondete. E perciò questa ingannatrice, come a glorificarla eri disposto, cosí ad avvilirla e a parvificarla ti disponi; il che agevolmente ti verrá fatto, per ciò che dirai il vero. E, in quanto puoi, fa’ che a le’ nel tuo parlare lei medesima mostri e similemente la mostri ad altrui; per ciò che, dove l’averla glorificata tu aresti mentito per la gola e fatto contro a quello che si dee e tesi lacciuoli alle menti di molti che, come tu fosti, sono creduli, e lei aresti in tanta superbia levata che le piante dei piedi non le si sarebbono potute toccare, cosí, questo faccendo, dirai il vero e sgannerai altrui, e le raumilierai; che forse ancora di salute le potrebbe essere cagione. Fa’ dunque, incomincia come piú tosto puoi e fa’ si che si paia; e questa satisfazione, quanto a questo peccato, tanto ti sia assai. —

Al quale io allora ripuosi:

— Per certo che, se tanto mi vorrá bene Iddio che di questo laberinto mi vegga fuori, secondo che ragioni, di satisfare m’ingegnerò; e niuno conforto piú, niun sospignimento mi bisognerá a far chiaro l’animo mio di tanta offesa. E, [p. 260 modifica]mentre nelle parole artificialmente dette sará alcuna forza o virtú, a niuno mio successore lascerò a fare delle ingiurie ricevute da me vendetta, solo che tanto tempo mi sia prestato ch’io possa o concordare le rime o distendere le prese. La vendetta daddovero, la quale i piú degli uomini giudicherebbon che fosse da far con ferri, questa lascerò io a fare al mio signore Dio il quale mai niuna mal fatta cosa lasciò impunita. E nel vero, se tempo da troppo affrettata morte non m’è tolto, io la farò, con tanto cruccio di lei e con tanto vituperio della sua viltá, ricredente della sua bestialitá, mostrandole che tutti gli uomini non sono da dovere essere scherniti ad uno modo, che ella vorrebbe cosí bene essere digiuna d’avermi mai veduto, come io abbia desiderato o disidero d’essere digiuno d’avere veduta lei. Ora io non so, se animo non si muta, la nostra cittá avrá un buon tempo poco che cantare altro che delle sue miserie o cattivitá; senza che io m’ingegnerò con piú perpetuo verso testimonianza delle sue malvage e disoneste opere lasciare a’ futuri. —

E, questo detto, mi tacqui; ed esso altresi si taceva; per che io ricominciai:

— Mentre quello a venire pena, che tu aspetti, ti priego a un mio desiderio sodisfacci. Io non mi ricordo che mai, mentre nel mortale mondo dimorasti, teco né parentado né dimestichezza né amistá alcuna io avessi giá mai; e panni essere certo che, nella regione nella quale dimori, molti sieno, che amici e parenti e miei dimestichi furono, mentre vissero: per che, se di quindi alla mia salute alcuno dovea venire, perché piú tosto a te che ad alcuno di quelli fu questa fatica imposta? —

Alla qual domanda lo spirito rispuose:

— Nel mondo dov’io sono né amico né parente né dimestichezza vi si guarda in alcuno: ciascheduno, purché per lui alcuno bene operar si possa, è prontissimo a farlo, e senza niuno dubbio. È il vero che a questo servigio e ad ogni altro molti, anzi tutti quanti, che di lá ne sono, sarebbono stati piú di me sufficienti; e si parimente tutti di caritá ardiamo [p. 261 modifica]che ciascuno a ciò sarebbe stato prontissimo e volonteroso; ma pertanto a me toccò la volta, perché la cosa, di che io ti dovea venire per la tua salute a riprendere, in parte a me apparteneva, come di cosa stata mia; e assai manifestamente appariva che di quella tu ti dovevi piú da me vergognare che da alcun altro, si come di colui al qual pareva che nelle sue cose alcuna ingiuria avessi fatta, meno che onestamente desiderandole. Appresso a questo ciascun altro si sarebbe piú vergognato di me di dirti quello delle mie cose, che era da dirne, che non sono io; né era da tanta fede prestargli intorno a ciò quanta a me; senza che alcuno non arebbe si pienamente saputane ogni cosa raccontare si come io, quantunque io n’abbia lasciate molte; e questa credo che fosse la cagione che me innanzi ad ogni altro eleggere facesse a dovere venire a medicarti di quel male al quale radissime medicine trovare si sogliono. —

A cui io allora dissi:

— Qual che la cagione si fosse, quel credo che a te piace ch’io ne creda; e per questo sempre mi ti conosco obbligato; per che io ti priego per quella pace, che per te ardendo s’aspetta, con ciò sia cosa ch’io sia volonteroso di mostrarmi di tanto e di tale beneficio verso te grato, che, se per me operare alcuna cosa si puote, che giovamento e alleviamento debba essere della pena la qual tu sofiferi, che tu, avanti che io da te mi parta, la mi ’mponga, sicuro che, quanto il mio potere si stenderá, senza fallo sará fornita. —

A cui lo spirito disse:

— La malvagia femmina, che mia moglie fu, è tutta ad altra sollecitudine data, come puoi avere udito, che a ricordarsi di me; e a’ miei figliuoli ancora noi concede l’etá, ché piccoletti sono; parenti o altri non ho, che di me mettano cura; non mettessono essi piú in occupare quello de’ pupilli da me lasciati; e perciò alla tua liberal profferta imporrò che ti piaccia, quando di questo viluppo sarai fuori dislacciato, che con l’aiuto di Dio sará tosto, che tu, a consolazione di me e ad alleggiamelo della mia pena, alcuna elimosina facci [p. 262 modifica]e facci dire alcuna messa nella quale per me si prieghi; e questo mi basterá. Ma, s’io non erro, l’ora della tua diliberazione s’avvicina; e perciò dirizza gli occhi verso oriente e riguarda alla nuova luce che pare levarsi; la quale se ciò fosse, che io avviso, qui non arebbono luogo parole, anzi sarebbe da dipartirsi. —

Mentre lo spirito queste ultime parole dicea, a me, che ottimamente il suo desiderio ricolto avea, parve levare la testa verso levante e parvemi vedere surgere a poco a poco di sopra alle montagne uno lume, non altrimenti che, avanti la venuta del sole, si beva nello oriente l’aurora. Il quale, poiché in grandissima quantitá il cielo ebbe imbiancato, subitamente divenne grandissimo; e, senza piú verso di noi farsi che solamente coi raggi suoi, in quella guisa che noi talvolta veggiamo, tra due oscuri nuvoli trapassando, il sole in terra fare una lunga riga di luce, cosí, verso noi disceso, fece una via luminosa e chiara, non trapassante il luogo dove noi stavamo; la qual non prima sopra me venne che io, con molta maggiore amaritudine della mia coscienzia che prima non avea fatto, il mio errore riconobbi. E, poiché alquanto gustata l’ebbi, mi parve che non so che cosa grave e ponderosa molto da dosso mi si levasse e me, al quale prima immobile e impedito essere parea, senza sapere di che, fe’ incontanente parere leggerissimo e spedito e avere licenzia di potere andare.

Per la qual cosa dire mi parve allo spirito:

— Se tempo ti paresse d’andare, io te ne priego che di quinci ci dipartiamo, per ciò che a me sono tornate le perdute forze e il buono volere; e parmi vedere la via espedita. —

A cui tutto lieto rispuose lo spirito:

— Ciò mi piace: muovi e andiamo tosto; ma guarda del sentiero luminoso, che davanti ti vedi e per lo quale io anderò, tu non uscissi punto; per ciò che, se i bronchi, de’ quali tu vedi il luogo pieno, ti pigliassero, nuova fatica ti bisognerebbe a trartene, oltre a questa, alla quale io venni; sallo Iddio se l’aiuto, ch’hai avuto al presente, impetreresti o no. —

Al quale mi parea tutto lieto rispondere: [p. 263 modifica]

— Andianne pur tosto, per Dio, e questa cautela sicuramente al mio avvedimento commetti; che per certo, se cento milia prieghi mi si facessono incontro in luogo delle beffe giá ricevute, non mi potrebbono piú nelle catene rimettere, delle quali la misericordia di colei, alla qual sempre mi conobbi obbligato (e ora piú che mai), e la tua buona dottrina e liberalitá appresso, mi traggono. —

Mossesi adunque lo spirito; e, per lo luminoso sentiero andando, verso le montagne altissime dirizzò i passi suoi. Su per una delle quali si alta, che parea che il cielo toccasse, messosi, me non senza grandissima fatica, sempre cose piacevoli ragionando, si trasse dietro; sopra le sommitá delle quali poiché pervenuti fummo, quivi il cielo aperto e luminoso vedere mi parve e sentire l’aere dolce e soave e lieto e vedere le piante verdi e’ fiori per le campagne; le quali cose tutto il petto della passata noia afflitto riconfortaro e ritornarono nella prima allegrezza. Laonde, si come allo spirito piacque, io mi volsi indietro a riguardare il luogo donde tratto mi avea; e parvemi non valle, ma una cosa profonda infino in inferno, oscura e piena di noie con dolorosi rammarichii. E, avendomi detto me essere libero e potere di me fare a mio senno, tanta fu la letizia, ch’io senti’, che, vogliendomeli a’ piedi gittare e grazie rendergli di tanto e tale beneficio, esso e ’l mio sonno ad una ora si partirò.

Risvegliato adunque e tutto di sudore bagnato trovandomi, non altramenti che sieno gli uomini faticati o che se col vero corpo la montagna salita avessi, che nel sogno mi parve salire, maravigliatomi forte, sopra le vedute cose cominciai a pensare; e, mentre meco ad una ad una ripetendo l’andava ed esaminando se possibile fosse cosí essere vero, come mi pareva avere udito, assai ne credetti verissime; come che poi quelle, che per me allora conoscere non potei, da altrui poi informatomene, essere non meno vere che l’altre trovai. Per la qual cosa, non altramenti che spirato da Dio, a dovere con effetto della misera valle uscire mi dispuosi. E, veggendo giá il sole essere levato sopra la terra, levatomi, agli amici, co’ [p. 264 modifica]quali nelle mie afflizioni consolare mi solea, andatomene, ogni cosa veduta e udita per ordine raccontai; li quali ottimamente esponendomi ogni particella del sogno, nella mia disposizione medesima tutti concorrere li trovai; per che si per li loro conforti e si per lo conoscimento, che in parte m’era tornato migliore, al tutto al dipartire dal nefario amore della scellerata femmina mi dispuosi.

Alla quale disposizione fu la divina grazia si favorevole che infra pochi di la perduta libertá racquistai; e, come io mi soleva, cosí sono mio: grazie e lode n’abbia colui che fatto l’ha. E sanza fallo, se tempo mi fia conceduto, io spero si con parole gastigar colei che, vilissima cosa essendo, altrui schernire co’ suoi amanti presume, che mai lettera non mosterrá, che mandata le sia, che della mia e del mio nome con dolore e con vergogna non si ricordi. E voi vi rimanete con Dio.

Piccola mia operetta, venuto è il tuo fine e da dare è ornai riposo alla mano; e perciò ingegnerá’ti d’essere utile a coloro, e massimamente a’ giovani, i quali con gli occhi chiusi, per li non sicuri luoghi, troppo di sé fidandosi, senza guida si mettono; e del benificio, da me ricevuto dalla genitrice della salute nostra, sarai testimone. Ma, sopra ogni cosa, ti guarda di non venire alle mani delle malvage femmine; e massimamente di colei che ogni demonio di malvagitá trapassa e che della presente tua fatica è stata cagione: per ciò che tu saresti lá mal ricevuta; ed ella è da pugnere con piú acuto stimolo che tu non porti con teco. Il quale, concedendolo colui, che d’ogni grazia è donatore, tosto a pugnerla, non temendo, le si faccia incontro.