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il corbaccio 197

e al quale tutte le cose vivono; e al quale è del nostro bene e del nostro riposo e della nostra salute troppo maggiore sollecitudine che a noi stessi. —

Dico che, corti’io queste parole dallo spirito udii, conoscendo il mio pericolo e la benignitá del mandatore, io mi sentii venire nello animo una umiltá grandissima la quale e l’altezza e la potenzia del mio Signore, la sua etterna stabilitá e i suoi continui benefici in me conoscer mi fece; e appresso la mia viltá, la mia fragilitá e la mia ingratitudine; e le infinite offese giá fatte verso colui che nel mio bisogno, come sempre avea fatto, senza avere riguardo al mio malvagio operare, mi si mostrava pietoso e liberale. Dalla qual conoscenza una contrizione si grande e pentimento mi venne delle non ben fatte cose che non solamente mi parve che gli occhi di vere lagrime, e assai, si bagnassero, ma che il cuore, non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolvesse; per che, si per questo e si ancora perché poverissimo di grazie a rendere a tanti e si alti effetti mi sentiva, per lungo spazio mi tacqui, parendomi bene che lo spirito la cagione conoscesse; ma, poiché cosí alquanto stato fui, ricominciai a parlare:

— O bene avventurato spirito, assai bene cognosco e discerno, la medesima coscienza ricercando, quello essere vero, che tu ragioni: ciò Dio piú caro avere, che noi medesimi non abbiamo; li quali colle nostre malvage opere continuamente ci andiamo sommergendo, dov’egli colla sua caritativa pietá sempre se ne va sollevando e le sue etterne bellezze mostrando e a quelle, come benignissimo padre, ne va chiamando; ma tuttavia, si come colui che ancora la divina bontá, a guisa che le terrene operazioni si fanno, vo misurando, maraviglia mi porge, sentendomi io averlo offeso molto, come esso ora ad aiutarmi si mosse. —

A cui lo spirito disse:

— Veramente tu parli come uomo che ancora non mostra conosca il costume della divina bontá, che è perfettissima, ed estimi cosí nelle sue opere esercitarsi come voi, che mortali