Il Canzoniere (Bandello)/Introduzione

Introduzione

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Bibliografia

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INTRODUZIONE




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Matteo Bandello consacrato dalla fama novellatore per l’ampio suo Novelliere, che gli valse il titolo adulatorio di «Boccaccio del Cinquecento», merita il nome di poeta?

Vissuto in un’epoca (1485-1561) in cui tutti dettavano rime ed ogni autorello allestiva un suo Canzoniere alla petrarchesca in lode di Madonna, perfezione di bellezza e di virtù, verseggiò anch’egli per una donna idoleggiata, rimò anch’egli per una gentilissima, che illuminò del suo fulgore la vita e l’arte del platonico amante.

Orbene, se noi porgessimo ascolto ai suoi contemporanei, noi dovremmo proclamarlo figlio dilettissimo delle Muse. Leandro Alberti, amico suo, scrive: «carmina vernacule composita, ut Franciscum Petrarcham protinus revixisse omnes testari et affirmare possint». Senonchè, nel giudizio di questo e di altri letterati del tempo, che, come si ricava dalla sua raccolta di no[p. 8 modifica]velle1, lo richiedono di rime e si compiacciono di esse, l’esagerazione è palese. Il richiamo dell’Alberti al Petrarca, trova consenzienti anche noi, tardi lettori, con questo divario però: che il Bandello ci appare pedissequo imitatore del cantor di Laura. E non sapremmo concedergli, oltre a quello di scrittore di prose da novella, il vanto di autore di versi d’amore, quando non si attribuisse all’epiteto solenne di poeta il senso più umile di verseggiatore petrarcheggiante. La sua è voce monocorde, e mal si distingue nel coro degli innumerevoli che nel Cinquecento poetavano in volgare.

L’aspirazione del Bandello al lauro poetico è del resto naturale, sia che egli provasse un intimo bisogno di poesia, sia che il suo amor proprio d’autore lo spronasse a prender parte alla gran gara lirica, perennemente bandita, in onore delle gentildonne d’alto lignaggio o di squisita cultura, fra le quali uomini d’armi e di lettere solevano consumare i loro piacevoli ozi. Quante volte egli ci lascia intravvedere il suo desiderio, ora celato, ora timidamente espresso, di ottenere il nome che «più dura e più onora»! Quante volte ribadisce il proposito, ripetendo una frase2 che [p. 9 modifica]gli suona cara all’orecchio e all’animo, di vivere «a sè e alle Muse»! E a Giovan Battista Oddo da Matelica, cui offre una novella, augura «quell’ozio che le Muse vorrebbero»; gli consiglia il «rumores fuge» oraziano; gli rammenta che il poeta «ama la solitaria vita e il diportarsi per gli opachi e fronzuti boschi, e volentieri fugge la pratica e il commercio de le città» (III-3). Egli stesso, per citare un esempio fra mille, si ripromette di «asciugar tutto il fonte d’Elicona» in lode di monsignor Paolo marchese del Carretto «vescovo e conte di Caors», il giorno in cui vedrà «le sue chiome coperte di vermiglio cappello» (II-27). Vero è che nella lettera di dedica delle rime, che qui si ripubblicano, rivolta a Madama Margherita di Francia, chiama queste sue «ciance» canore, non altrimenti di quanto fa il Petrarca, che, parlando delle proprie rime volgari le designa con ostentazione «nugae, nugellae». Anche il Bandello qua e là nei suoi versi ripetutamente denomina le sue «basse e mal limate carte» (canz. LXII), dichiarandosi «senza stile e senza ingegno» (son. XVI), impari quindi al grande compito che — afferma enfaticamente — pur sarebbe grave agli omeri dei più famosi poeti antichi e moderni — di celebrare:

Quella che sola al mondo è vera Donna.          

(son. XI).

Ma la troppa umiltà di tali proteste, non c’induca in errore. È semplice artificio retorico. Egli nutre in segreto la speranza di poter fornire della sua valentia, [p. 10 modifica]prove persuasive. Sfogli, chi ne dubitasse, questo nostro volume di sue rime, messo insieme con le reliquie di quelle che furono un dì copiose. Vedrà che ora egli sospira uno sguardo dei «begli occhi vaghi», in grazia dei quali, dice:

I’ canterei sì dolcemente allora
     Le lodi di Madonna e ’l mio martire,
     Ch’ella felice, ed io sarei contento;

ora canta di lei, perchè:

Chi di voi ragiona, vosco a volo
     Si leva ornato, non di gemme o d’ostro,
     Ma di chiar nome all’uno e all’altro polo.

concetto che — lo indichiamo in nota a suo luogo — egli ripete a sazietà, con varianti infinite.

Sogno di gloria, adunque, o almeno, intento di glorificazione di quella sua, a noi ignota donna, dal fiume Mincio, battezzata Mencia; brama cocente di riscaldarsi alla fiamma della di lei bella «nominanza». Così già Dante per Beatrice, il Petrarca per Laura; così egli per le tre donne vagheggiate: per la casta Viola, la «diva Violante Borromea», che, purissimo fiore, ingentilisce col suo candor virginale le prime rime del poeta ventenne; per la Mencia mantovana, che egli adorna, nel Canzoniere, di tutto un florido serto di rime; per Lucrezia Gonzaga di Gazuolo, la giovinetta sua discepola, alla quale, oltre all’ultima canzone del Canzoniere, dedica un intero poemetto di ben undici canti. Anche in questi Canti XI trema l’ansia del poeta, avido di plausi. In una rassegna di fiumi, attratti — [p. 11 modifica]come già i sassi e l’onde da Orfeo — dalla Musa, è compresa anche la Schirmia, o Scrivia, che bagna la piccola terra di Castelnuovo, natia al Bandello3 ed è fiumiciattolo «non ancora famoso», che se ne sta alquanto in disparte dagli altri già celeberrimi. Da ciò il poeta trae motivo per rinsaldare il suo proponimento:

Ma s’anzi tempo morte non mi preme,
     I’ condurrò le Muse a la sua riva,
     E forse li darò sì certa speme,
     Ch’egli al mio canto eternamente viva,
     Che con un salce mi farà poeta,
     Ch’assai toccar mi basta questa mèta.

(c. I, str. 53).

E prega Madonna di aggradire quanto egli viene dicendo in rima, poichè, per virtù di lei, spera di essere assunto tra l’eletta schiera dei vati (Ivi, str. 54):

Da lei vedrò Poeta coronarmi.

Ed eccolo all’opera.

Sonetti in gran numero, canzoni in certa quantità, non pochi madrigali e ballate, e sestine, e, in lunghe teorie, stanze, capitoli gli sgorgano dalla penna, con facile, se non sempre limpida, vena. Sono rime spicciolate e rime in serie continue di canti in terzine, in ottave, che fanno corpo a sè fino ad assumere fisonomia di minuscoli poemi per sè stanti, o che si adagiano nella forma della traduzione classicheggiante. È maestro di stile il Petrarca; lo inspira, sentito o mentito, il piccolo dio pagano d’ogni umanista, il [p. 12 modifica]faretrato fanciullo, che ferisce coi dardi d’Amore. Mitologia, erudizione classica, vieti elementi esornativi di qualsivoglia maniera vi abbondano; vi s’aggiungono e vi si mescolano imagini mistiche; al platonismo antico, l’ascetismo cristiano, alle rime amorose, le spirituali.

Questa produzione poetica non può certo stare a paro nè per quantità, nè per qualità con quella sua, a lui più consona, in prosa novellistica. È tuttavia d’una mole considerevole, e, neanche in sè, come verremo dicendo, del tutto trascurabile. Essa si accompagna e s’intreccia alla sua indefessa opera del novellare; si estende e si distende per quasi l’intera sua vita. La più antica novella bandelliana rimastaci può essere datata con molta fondatezza dal 1505. Ebbene, proprio questa novella (I-18) è dedicata a quella Viola, che fu il suo primo affetto e alla quale rivolse le primizie dei suoi versi d’amore. D’allora in poi — da quella dolce sua primavera lontana — in circostanze molteplici, compositore di versi d’inspirazione diretta o d’occasione, egli mai non cessa di comporre rime. E grave d’anni, noi lo sorprendiamo nel suo rifugio francese, in riva alla Garonna, inteso ancora non solo a ritoccare novelle, ma a limar versi, dove è l’eco sospirosa de’ suoi amori giovenili.

La sua operosità poetica accertata risale, adunque, almeno, al 1505; e discende fino al 1544, anno in cui redige il suo autografo: date queste che, specie la seconda, furono da lui con ogni probabilità oltrepassate.

Lasciando in disparte qualche distico latino che il Bandello umanista, amico dello Scaligero (II-36) e del Fracastoro (II-9), cultori delle Muse classiche, ha pur [p. 13 modifica]foggiato anch’egli4 elenchiamo in ordine cronologico tutti i suoi componimenti poetici in volgare a noi pervenuti, limitandoci però qui a dar ragione della sola sua opera maggiore, il Canzoniere.

I. — Il Canzoniere di rime di varia epoca, dettate dall’adolescenza all’età senile, dai vent’anni ai sessanta. Furono edite postume, in stampa assai tarda, nel 1816.

II. — Le III Parche da esso Bandello cantate nella natività del Signor Giano, primogenito del Signor Cesare Fregoso e de la Signora Gostanza sua consorte, altrimenti denominate: Capitoli III Natalitii fatti dal Bandello, dedicati al conte Guido Rangone, fratello della Signora Gostanza Rangone-Fregoso, con lettera datata da «Verona a li XV di Genaro del MDXXXI». Questi Capitoli furono messi a stampa insieme alle Stanze, come diremo.

III. — Ecuba, tragedia di Euripide, tradotta in verso toscano da Matteo Bandello. Precede una dedica in prosa alla Regina di Navarra. Segue al testo una canzone alla stessa, intitolata: «A la sua Hecuba, il Bandello» (pp. 125-127), qui da noi riprodotta tra le Rime estravaganti. La versione bandelliana, composta intorno al 1536, in metro vario, fu edita con questo titolo, di sul manoscritto cartaceo del sec. XVI, di ca[p. 14 modifica]rattere assai nitido, della Biblioteca Vaticana, da Guglielmo Mansi, nel 1813.

IV. — Le Stanze o Canti XI per Lucrezia Gonzaga di Gazuolo. Egli le venne componendo tra il 1536 e il 1538, durante la sua dimora a Castelgoffredo, in quel di Mantova, nel tempo in cui era precettore, come già s’accennò, della celebre principessa, che, nata nel 1522, contava in quel torno non più di tre lustri. A questo poemetto egli attese di proposito nel biennio sovraindicato, e seco ne recò il manoscritto in Francia nel suo esodo definitivo del 1541; ivi, con agio, tra il ’41 e il ’45, lo ritoccò, lo rifinì. Più volte nel novelliere (I-21; II-36) parla della sua prossima pubblicazione, affermando in modo esplicito di avere compiute queste Stanze in lode della «dal mondo riverita e [da me] santissimamente amata, la signora Lucrezia, le quali in breve saranno pubblicate» (I-57). Esse si stamparono, infatti, insieme alle III Parche anzidette, «in Guienna, ne la città di Agen, per Antonio Reboglio, del mese di marzo MDXLV». Editore del poema e dei tre capitoli è Paolo Battista Fregoso, amico del Bandello e congiunto della signora Costanza Rangone-Fregoso, vedova di Cesare, ai servigi della quale viveva il Bandello in Agen; pronubo per così dire delle pubbliche nozze del Bandello con le Muse, il Fregoso dichiara — nella lettera dedicatoria alla signora Costanza — che la pubblicazione viene fatta contro il volere, anzi ad insaputa dell’autore. Non esporremo qui per minuto il singolare aneddoto del manoscritto sottratto al Bandello: questi, o fingesse soltanto d’ignorare la cosa, o, nolente da prima, si acconciasse poi al fatto compiuto, non se ne mostrerà certo del tutto scontento quando, un paio d’anni dopo, [p. 15 modifica]nel 1547, o giù di lì, verrà rammaricando la dispersione di «ben trenta d’essi libri», o copie di tal volume (II-36). E Paolo Battista, dal canto suo, si vanta in detta lettera prefatoria di aver strappato questi versi «di bocca a’ tarli», di non aver «lasciato morire la fama di tanti e tali eroi, e tante e così gloriose eroine», di averli, insomma, tratti «fora di periglio».

In verità, l’oblio più che secolare che — come vedremo — involse le sue Rime, salve quasi per miracolo, mostra che i timori del Fregoso non erano infondati, e come egli bene abbia provveduto alla conservazione di queste operette in rima del Bandello con l’edizione agennese.

I Canti XI e le III Parche non furono in seguito mai più ristampati.


Il Canzoniere del Bandello — del quale è opportuno ora dare più compiuta notizia — è frutto lento, sporadico del suo ingegno, non opera, come le altre sovraccennate, di meditata concezione e di alacre lena.

Sciamarono, negli anni, le rime dal suo animo — meglio, dal suo cervello — per le donne che, in varia epoca, per dirla alla dantesca, intorno al cor gli eran venute! Nel 1525, nei saccheggi seguìti alla battaglia di Pavia, «la maggior parte» dì quelle fino allora composte andò soggetta alla mala sorte toccata a «molti scritti» suoi. Egli stesso narra come fu che soldati spagnuoli manomisero in Milano alcuni suoi «coffani pensando forse trovarvi dentro un gran tesoro». Solo più tardi, dopo lunghe ricerche, dopo aver fatto venire in Francia «d’Italia alcuni forzieri di [mie] robe, con quella parte de le [p. 16 modifica][mie] composizioni così latine come volgari, in verso e in prosa», che durante il sacco di Milano «da un amico [mio] furono salvate» (II-36), potè recuperarne «alcuni fragmenti» (II-11). E proprio questo titolo: Alcuni Fragmenti delle Rime del Bandello — che è perfettamente il medesimo usato dal Petrarca per il Canzoniere5 — egli inscrisse in fronte alla raccolta di quelle che dalla «diruba degli Spagnuoli» gli erano rimaste. Questo fece il giorno in cui, nella primavera del 1544, fu a ciò persuaso dalla affettuosa insistenza di Paolo Battista Fregoso, reduce da Parigi e ospite, ad Agen, della signora Costanza. Scrisse egli allora una canzone — quella con cui si apre il Canzoniere — in lode di Margherita di Francia, figliuola del Cristianissimo re Francesco I, e «acciocchè essa canzone — spiega il Bandello — non venisse sola, esso signor Paolo Battista, mi astrinse di aggiungerle qualche mia rima»6; in realtà vi aggiunge tutte o quasi le sue rime che si ritrova sottomano, un intero codice, che comprende più di duecento componimenti7. [p. 17 modifica]

Di queste sue «cosette», o non ne facesse per davvero gran caso — ma come avrebbe osato allora mandarle «a tanta e tale madama»? — o piuttosto perchè coltivasse nell’animo la speranza di attendere in seguito, con altre ricerche o con nuove composizioni a farne la raccolta meno imperfetta, non volle nè allora, nè poi, consentirne la pubblicazione, alla quale lo veniva invitando lo stesso Paolo Battista. E questi, un anno dopo — marzo 1545 — dando alle stampe i di lui Canti XI ecc., di cui si disse, usciva nel seguente rammarico: «così avessi io le sue rime...» alle mani, voglioso com’era di metterle in luce!

Il codice autografo «di seta ricoperto e dorato»8, [p. 18 modifica]era, ormai, tra i libri della colta figlia del re di Francia, prossimo a valicare le Alpi e a far ritorno nella patria del Bandello, che questi non avrebbe invece dovuto rivedere mai più. Margherita di Francia, compiute in seguito al trattato di Cateau-Cambrésis nel 1559 le sue nozze col valoroso vincitore di S. Quintino, il duca Emanuele Filiberto di Savoia, seco lo portò in Piemonte con altri suoi codici miniati, nel cofano delle sue gemme preziose.

Habent sua fata libelli!

Il Canzoniere del Bandello, ignorato dagli amatori delle buone lettere, negletto per secoli dagli studiosi, era destinato a perire miseramente nel 1904 nella strage di codici e di libri causata dall’incendio della Biblioteca Nazionale di Torino, dove era pervenuto dalla privata libreria di Casa Savoia. In quel giorno le fiamme ridussero in un pugno di cenere il bell’autografo nuziale, di cui non esistono copie, già conservato con gelosa cura, per secoli, negli scrigni sabaudi! Però ciò che al Fregoso non era riuscito di attuare nel 1544, era stato eseguito da un tardo conterraneo del Bandello, dall’avvocato Lodovico Costa, da Castelnuovo Scrivia. Egli, che in varia guisa s’era adoperato per richiamare in onore il nome del suo eminente compaesano, cent’anni prima, nel 1816, lo aveva salvato con la stampa, dando fuori le Rime in un giusto volume di questo titolo — ornato di un saggio grafico dell’autore (quel medesimo che qui si riproduce a pag. 57) e preceduto dalla di lui Vita dettata dal Mazzuchelli, ma senza alcun commento o dilucidazione al testo — per i torchi della vecchia casa editrice Pomba di Torino. Pochissime rime n’erano [p. 19 modifica]già state ricavate e pubblicate per saggio, sparsamente da altri9.

Narrata così, per sommi capi, la storia esterna del Canzoniere, vediamo di chiarirne sobriamente quella interna. Tenteremo da ultimo la valutazione di questa sua arte del verso, dichiarando altresì le ragioni che ci indussero a riporre in luce, con breve commento, le sue rime.

Il contenuto del Canzoniere è il seguente.

Aprono la silloge delle rime, due dediche: una in prosa ed altra in versi, rivolte ambedue a Margherita di Francia, figliuola di Francesco I. All’opera fa propriamente da proemio un sonetto — rivolto all’ipotetico lettore — di puro stampo petrarchesco, che dà l’intonazione generale, e che contiene un ammonimento, frutto della dura, e a lungo durata, esperienza dell’autore, contro le illusioni e le inevitabili conseguenti delusioni d’amore.

Espone, quindi, il poeta, come fu che egli d’improvviso s’invaghì di donna mantovana sulle rive fiorite del Mincio. Sorgono e s’effondono dal cuor [p. 20 modifica]dell’innamorato gli encomii iperbolici per le bellezze di lei, fisiche e morali: l’elogio degli occhi, sopratutto, costituisce uno dei motivi fondamentali di questa raccolta, e si trasforma in apoteosi nelle Tre Canzoni degli Occhi, poemetto in tre canti quasi indipendente dal resto, fatto a imagine e somiglianza delle tre omonime canzoni del Petrarca. Le compagne della Mencia si volgono ad essa, come per attingerne luce, quali minori astri al sole: e questo, fiammeggiando, incendia l’animo del poeta, gli signoreggia l’intelletto. Ma la Mencia, amata, non riama. Amore, invano, la prende di mira con le sue frecce: ella, altera e disdegnosa, lo disarma, lo deride. E il poeta — che talvolta con abile appiglio, tal altra senza motivo apparente trapassa a rime sacre — invocata la Vergine a soccorso dei traviamenti umani, esalta con fervore la Madre del Figliuol di Dio. Poi la breve parentesi ascetica si chiude, per riaprirsi altre volte, via via, in lode di Maria Maddalena e del redentore del mondo, di Cristo crocifisso, di Cristo risorto.

A sonetti, a canzoni di elevazione morale altri e altre ne seguono con ballate, madrigali e sestine di amoroso struggimento per la donna vagheggiata. Se costei fosse vissuta nell’età augustea, Virgilio avrebbe negletto Enea per cantarla. Oggi salirebbe in gran fama colui che fosse in grado di celebrarla nel verso in modo degno. Ella è spiritual guida: i suoi occhi mostrano, a chi li mira, la via dì «gire al Cielo». Affascinato da questi suoi gaudiosi occhi sereni, il Bandello sospira e si duole per le di lei repulse, per le di lei derisioni. E il poeta che ne invocò l’amore e in seguito soltanto più la benevolenza, da ultimo si mostrerebbe pago anche della di lei pietà. [p. 21 modifica]

Così di verso in verso si disnoda, lunga e stucchevole, la cronistoria di questo suo martirologio amoroso.

Rompono la monotonia pochi episodi. Due colombi tubano: il poeta li guarda con occhio invido... La febbre prostra la Mencia: egli ne ha gravi ambasce. La primavera lieta fa ritorno: tristi pensieri lo assalgono ed egli non trova sollievo che nel confidarsi ad una gentildonna amica, a Virbia gentile. Contempla a lungo il volto della Mencia: vi discerne le fattezze del viso santo d’una fanciulla, un dì amata, della Viola, spentasi in sul fior degli anni nel 1506. Assiste a danze festose, ma con indifferenza, poichè la Mencia non è tra le danzatrici. Ed ora son scene pastorali, nelle quali egli, in veste di pastore, col nome di Delio, fa doni e omaggi a Delia, la Mencia, pastora; ora sono finzioni mitologiche, nelle quali appare, trasfigurata, la Mantovana, che regge il paragone con Venere iddia. Una sola volta può il derelitto amatore baciare la mano della Mencia: quella sua delicata mano d’avorio, che descrive con sì perita minuzia. Una volta sola la sua donna lo visita e gli sorride benigna: ma nel sogno... In un sonetto, poi, l’amata Mencia è morta (CXVII), assunta in cielo nel coro degli angeli. E ciò intempestivamente, poichè nelle rime successive egli ricanta di lei, persona viva; si tratta forse di difetto di collocazione; logicamente questo sonetto dovrebbe chiudere la raccolta.

Vecchio e canuto, in un sonetto di congedo (CCIII) — che fa perfetto riscontro a quello d’esordio (II) — il poeta si accommiata dal lettore con accenti di elegiaco rimpianto. E come ad un sonetto preliminare ne corrisponde altro di chiusa, così alla canzone (I) dedicatoria fa da parallelo la canzone finale rivolta [p. 22 modifica]a Lucrezia Gonzaga: ponte di passaggio da questo Canzoniere d’amore ai successivi, amorosi ed encomiastici, i Canti XI.

Elementi personali biografici affiorano in queste rime, benchè imprecisi e discontinui. Si accenna a ripetuti viaggi del Bandello in questa o in quella regione d’Italia, si parla di suoi soggiorni in Francia. Egli visita — ma fissare delle date sarebbe per noi cosa affatto ipotetica — la Toscana, il Lazio, si spinge nell’Italia meridionale. A Roma rievoca i tempi eroici dell’urbe, la tragica fine di Cesare, i trionfi di Scipione Africano; compara l’antica grandezza alla decadenza politica del suo secolo; a Napoli piega il capo, pensoso, sul sepolcro di Virgilio.

Anche elementi encomiastici vi appaiono con qualche frequenza. A Napoli rammenta, con adulazione, il mecenatismo ospitale di Beatrice, regina d’Ungheria, la moglie del valoroso re Mattia Corvino, dalla quale narra di esser stato altra volta salvato da gravissimo morbo con una preziosissima bevanda prodigiosa. E forse a sue non specificate soste in località varie sono da ricollegarsi parecchie delle altre sue rime d’encomio, intercalate alle passionali e sacre: quelle rivolte ad un amico, ad Alessandro Pasolino da Cesena, dove allude vagamente ad una propria caduta da cavallo; a Cecilia Gallerani, che vanta eminente tra le poetesse italiane; a Lucio Scipione Attellano, della cui confortevole amicizia mostra di far gran conto; ad un magnanimo signore innominato, che sappiamo essere — dalla dedica scovata nell’autografo conservato a Modena come indichiamo a suo luogo — il conte Claudio Rangone modenese; ad altro personaggio, pure non dichiarato, che per riscontri con un passo [p. 23 modifica]dei Canti XI ci riuscì di identificare con Luigi Gonzaga detto Rodomonte; a Silvio Savello, cui dice che le gesta umane sono effimere «tele di ragni», se non sono affidate all’immortalità della poesia; a Giulio Romano, con la descrizione di un celebre suo dipinto, con altisonante apostrofe, e con quel fare evocativo che userà poi Giambattista Marino per le opere d’arte della sua poetica Galleria.

Valicate le Alpi, a Valchiusa, al Sorga, ad Avignone rimedita i versi del Petrarca e contempla commosso i luoghi ove egli amò e cantò la bella provenzale. Non lungi da Marsiglia visita, mistico pellegrino, la Sainte-Baume, sacro eremo di Maria di Magdala. E in Francia, dove andò in viaggi e dove rimase poi, morendovi, tutto l’ultimo ventennio della sua vita, ha più volte — come già in Italia — occasione di fare onorevolissimo cenno di un amico insigne, di Giulio Cesare Scaligero, che visse anch’egli, come il Bandello, in stabile dimora ad Agen, e di bruciar incensi al gran re Francesco I, padre di quella celebrata Margherita, alla quale, come si disse, è dedicato ed offerto questo Canzoniere. Con tale dedica e con tale offerta, inspirata da Paolo Battista Fregoso, il Bandello sa di fare cosa gradita alla sua signora e padrona Costanza Rangone-Fregoso che, accolta e riverita in Francia, nel suo esilio vedovile, riconosceva in Francesco I e nelle due Margherite, rispettive di lui figlia e sorella, altrettanti autorevoli protettori e protettrici del suo casato, fieramente percosso dalla fortuna.

Accanto alle sacre e alle encomiastiche, si ritrovano nel Canzoniere in misura preponderante, com’è ovvio, rime d’amore, talvolta anche in veste allegorica; e tutte danno lume alla biografia spirituale del Bandello. [p. 24 modifica]

Tre figure femminili sorridono fra queste carte rimate: ma della Viola, già vedemmo, non v’è che il ricordo soave e fuggevole; di Lucrezia balena il volto luminoso, nelle pagine ultime. La vera Donna o Madonna — «eroina», diremo secondo il vezzo bandelliano — del Canzoniere, è la Mencia. Ed è tempo, ormai, sulla testimonianza di queste rime, neglette dai critici, e non più raccolte in volume, di sgombrare il campo dai troppi dubbi che s’affoltano sugli amori del novellatore poeta. Non sarà più d’ora innanzi possibile fare della Virbia e della Mencia tutt’una persona; della Virbia con qualche fondamento identificabile con Ippolita Torelli-Castiglione, che appare in officio di donna gentile, quale non manca anche alla Vita Nuova di Dante.

Qual sia ’l mìo stato, non cercate udire,
Virbia gentil,. . . . . . . . . . .

le risponde, da lei interrogato, e le apre il suo cuore:

Amo chi me non ama, e ’l mio languire,
Disprezza. . . . . . . . .

disfogando l’ambascia del suo animo contro la Mencia, che «ride... sempre» e del suo mal non «le cale»; della Virbia, adunque, non amante, ma confidente del Bandello, e pietosa sua confortatrice. Men che meno può reggere l’ipotesi della identità della Mencia con Lucrezia, di fronte alle precise determinazioni dei Canti XI.

Quivi (c. VI) è richiamato, e rinarrato, come ricordo d’un tempo che fu, l’idillio con la Mencia:

In mezzo al Mincio poi sì t’attuffasti
     Che quasi ogn’altra cosa andò in oblio.

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     Ivi lunga stagion allor cantasti,
     De i sensi accompagnato, e lor disio.
     Fur sempre liti in te, vi fur contrasti
     Sì l’appetito allora t’infollìo;
     Ma la Mencia gentil fu sempre tale
     Che a’ tuoi desir tarpò, con grazia, l’ale.


Ed è rammentata anche la morte della Mantovana (ivi):

Ti privò di costei morte dolente
     E del bel laccio il collo ti disciolse.

Chi fosse cotesta abitatrice delle rive del Mincio — in tutto o quasi paragonabile alla Laura del Petrarca — non è possibile, senza dare in avventate congetture, affermare. Le particolarità fisiche di lei, le sue doti morali — le consuete di tutta la poesia italiana coeva — ci consentirebbero forse, se ne valesse la pena, di delineare, come già fece il Renier per la donna nel Medioevo, il tipo estetico della donna nella finzione lirica dei poeti del Cinquecento. Senonchè fatta la tara alle amplificazioni esornative, le sparse allusioni non ci lasciano in mano attributi o referenze storiche sufficenti per discernere tra le gentildonne vissute in riva al Mincio, tra il 1515 e il 1527, quella che sovra tutte piacque al Bandello. Allo stato delle cose, l’uniformità da un lato con le donne cantate in quell’epoca, dall’altro l’indeterminatezza vaga in cui fluttua la fisonomia della Mencia, potrebbero perfino dar credito all’ipotesi che sia figura ideale, puro parto della fantasia del poeta. Ma la Mencia non è Beatrice. E sarebbe tempo perso smarrirci nei meandri di una discussione accademica sulla esistenza — o sull’inconsistenza — reale della donna cantata dal Bandello. Essa è donna, non fanciulla, e per la sua condizione di pudica sposa altrui, lusingata forse dell’omaggio in [p. 26 modifica]rima del Bandello, ma riluttante, anzi fieramente disdegnosa. La posizione spirituale della Mencia dinnanzi al suo devoto è la stessa della Laura davanti al Petrarca. Anch’essa è la bellissima «nemica», la vaghissima «guerriera», che non corrisponde, anzi contrasta alle più accese proteste d’amore. Di qui la mancanza, quasi assoluta, di quella franca impudicizia, che trionfa, con pagano realismo nelle novelle di questo cinquecentista che pur veste la cocolla e, in una cert’epoca, porterà anche mitra e pastorale.

In vero, la novella, scurrile e salace, doveva esser tale in obbedienza alla moda letteraria del tempo: questa, invece, prescriveva alla lirica i candidi veli del più puro platonismo. Nella prosa delle novelle si rispecchiava la prosa della vita; mentre nella evocazione poetica la vita doveva detergersi ed elevarsi tra vaghe imagini evanescenti. E quando il Bandello mescola in una promiscuità che sa di eresia, a motivi profani motivi sacri — manifestando in questi il suo sincero ascetismo largamente attestatoci da ogni altro suo scritto e dalla sua stessa vita — non fa che seguire, anche in questo, l’andazzo dei tempi: nei quali era per l’appunto lecito, sulle orme del Petrarca e del suo corifeo, il Bembo, alternare alle lodi delle bellezze corporee della donna, paragonata ad una dea, quelle per la sua nobiltà spirituale, che la fanno cittadina del cielo, osannante in gara con gli angeli alla Vergine e a Dio nel fulgor dell’Empireo (son. CXVII).

Nulla, pertanto, offende nel Canzoniere la coscienza religiosa dell’autore; nulla v’ha che contrasti con quel singolare attestato di moralità che per difenderlo dai suoi denigratori, a proposito di certe novelle non a torto giudicate licenziose, gli rilasciò una insigne dama [p. 27 modifica]italiana, la marchesa Isabella d’Este. I suoi idillii rientrano tutti nelle consuetudini correnti, che non vietano affatto a personaggi di alta dignità, dalla vita proba, relazioni mondane, e men che mai interdicono loro di cantare in versi la donna prediletta, trasumanata, come figurazione dugentesca, in creatura sovrana. Applicabili al Bandello medesimo sono quelle stesse sue parole dove egli afferma che «sono uomini il cui debito naturalmente è d’amare, onorare, riverire e celebrare tutte le donne e massimamente quelle che lo vagliono»; e anche a lui può riferirsi il suo commento: «Ma per dir vero sempre de le lodi che gli uomini cantano de le donne, portano di continovo con loro un poco di sospetto..... che non si passi alquanto il termine de la verità» (III-17). Egli è nel novero di costoro. Egli intona la sua canzone d’amore con perfetta devozione cavalleresca — qual si conviene ad un amico dell’autor del Cortegiano — e informa la propria lirica alle teoriche dell’amore allora in auge. Per questo il suo Canzoniere impallidisce ai nostri occhi. Il poeta lascia in ombra la palpitante umanità della Mantovana, per esaltarla divina. La Mencia è idolo, anzi icona da porre sugli altari: non è persona salda, ma larva lucente.



Alcune rime ignote all’edizione Costa, o perchè sfuggite alle ricerche fatte dal Bandello (II-26) quando allestì l’autografo, o perchè ad esso posteriori, o perchè estranee al disegno del Canzoniere costituiscono un manipoletto di Rime estravaganti, che raccogliamo in fondo a questo volume, indicandone a suo luogo la provenienza. Ad esse possono, legittimamente, [p. 28 modifica]aggregarsi, per la loro natura lirica, taluni componimenti che il Bandello inserì in altre sue opere poetiche, e, altresì, cinque sonetti-epitaffi, che s’annidano senza nome d’autore nel Novelliere, ma che per una serie di motivi10 non ci peritiamo di restituire al suo [p. 29 modifica]nome inscrivendoli senz’altro tra i suoi. E ciò per convinzione assoluta, pur non ignorando quanto la ricerca della paternità sia sempre ardua, anche in fatto di rime.....

Releghiamo, invece, in una Nota Aggiunta (pagine 230-236) due componimenti, una canzone ed un sonetto, che non siamo in grado nè di escludere nè di comprendere fra quelli suoi di sicura attribuzione.

Anche in questa silloge minore di Rime estravaganti come nella maggiore del Canzoniere, i due elementi prevalenti sono Pamoroso e l’encomiastico. Eccone il contenuto.

Celebra, nel sonetto di congedo delle III Parche (1531), la nascita del figlio del suo signore, di Giano Fregoso; esalta, nella canzone di chiusa dell’Ecuba (1536), un’altra gentildonna di Francia, con cui ebbe commercio intellettuale per affinità di tendenze letterarie, la futura autrice dell’Heptaméron, Margherita regina di Navarra, sorella di Francesco I; vagheggia in versi, nel sonetto di dedica dei Canti XI, l’amata alunna Lucrezia Gonzaga; piange in altri sonetti due illustri personaggi defunti, il suo Fracastoro (1553), e ripetutamente il marchese di Pescara, Ferrante d’Avalos (1525), rivolgendo le sue espressioni di rimpianto a Lucio Scipione Attellano ed alla vedova del Pescara, a Vittoria Colonna, poetessa.

Delle poche rime d’amore qui adunate, due sonetti sono epigrafici, da inscriversi cioè sulla tomba di due donne vittime del più nobile degli affetti, come narra in prosa, nelle novelle; un terzo è per Antonia Scarampa, angelica suonatrice, spentasi precocemente; le altre poesie sono per la Mencia e avrebbero potuto trovar luogo nel Canzoniere, là dove, con spunti ana[p. 30 modifica]loghi e con locuzioni pressochè identiche, il poeta racconta come incappò nei lacci amorosi e come, con alternative di speranze e di sconforti, sempre soggiacque al fascino di Madonna, vivo, fulgido sole.



Altri versi — oltre a questi del Canzoniere e delle Rime estravaganti — certamente ancora si occultano tra le carte d’archivio e fra le pagine di qualche miscellanea coeva, e solo il caso potrebbe condurci a disseppellirli. Nè d’altra parte mette conto d’insistere nelle ricerche, perchè, anche aumentando in quantità, il valore qualitativo della produzione poetica del Bandello non potrebbe sostanzialmente venir mutato.

Per compiutezza diamo tuttavia, in fascio, notizia di quelle sue rime che non giunsero a noi, ma delle quali, in qualche modo, rimane ricordo.

Di sue «composizioni latine come volgari» è cenno nella più volte citata prefazione del Fregoso ai Canti XI. Nel Novelliere poi egli stesso con certa frequenza allude a proprie rime, sia che le leggesse nelle consuete riunioni a cui partecipava (I-43) e che altri «volentieri di molte» prendesse copia (II-23); sia che richiesto di versi da Ginevra Bentivoglia-Pallavicina, si dichiari dolente di non averne di nuovi da farle leggere, soggiungendo: «io vi dico che non saprei cosa mandarvi che voi non abbiate vista e letta, perciò che da poi che vi lasciai, le mie Muse sono state meco in tanta collera, che io non ho mai nè saputo, nè potuto comporre un verso» (III-35); sia che si riprometta «di rubar alquanto di tempo ai... continovi affari del [mio] signore [per] attender a le Muse e [per] tornar con loro in grazia» (III-56). [p. 31 modifica]

Più specificamente, da altre allusioni, noi conosciamo l’esistenza di un suo Carme sulla Natività, composto il 3 gennaio 1517 per la marchesa Isabella Gonzaga11; di una Canzone che Luigi da Porto, «in Vinegia avendo letta e riletta alla presenza di molti gentiluomini», lodò (III-23). Di due sonetti, che egli mandò al conte Agostino Landi, ragguardevole personaggio piacentino12, è menzione in una sua lettera del 12 maggio 1540 al Landi medesimo. In altra13 si parla pure di certa sua «Composizione sovra il formaggio» che ci mostra il nostro frate sorridente in atteggiamento di poeta giocoso, canzonato dal padron suo Cesare Fregoso per il vizio della gola... Di versi burleschi, di capitoli satirici, di rime leggere e gaie dovette, adunque, ammannirne anch’egli per sollazzar brigate goderecce, che se la scialavano nelle corti principesche, in «amenissimi luoghi», con feste «con balli, canti e suoni», con pranzi «luculliani» (II-45), con cene saporite, allietate talvolta dall’intervento di rimatori estemporanei, come, ad esempio, soleva avvenire «in Vinegia», dove Galeazzo Valle vicentino dava, «cantando a l’improviso ne la lira, agli ascoltanti grandissimo piacere con le sue belle invenzioni in diverse rime» (I-56). Amico [p. 32 modifica]di «messer Francesco Berni», al quale dedica una novella (I-34), si ritrovò anch’egli a comporre tra le molte sue sentimentali e spirituali, di stampo petrarchesco, facili rime alla bernesca, che servivano allo svago di un’ora. Una volta almeno, noi lo sorprendiamo col desiderio di scriverne, e ciò quando, durante un banchetto, dopo aver parlato delle rime «piacevoli del Bernia» e delle «festevoli Muse del Pistoia», esce a dire: «Che io per me — a proposito de “i peccati della moglie” di Gandino bergamasco e delle pazzie del frate confessore (I-34) — sarei, se stile avessi, sforzato a farvi suso una Iliade e mandarla a Roma, che fosse consacrata a messer Pasquino o al gran barone ser Marforio»; del mordace «maestro Pasquino», di cui fa il nome anche in altra novella (I-39).

Eppure, se non mancano nel suo Canzoniere taluni sonetti di frivola galanteria — che prendono argomento dalla morte d’un cane o d’un gatto, o dai «ricchi, leggiadri ed odorati guanti» della sua dama, con leziose smancerie d’un arcadico «settecentismo» anticipato — non vi furono però inclusi i fatui componimentuzzi che per avventura gli uscirono dalla penna. Il Bandello — lo attesta Paolo Fregoso — non era così corrivo come a tutta prima parrebbe, e taluni dei suoi parti in prosa e in verso, «non li satisfacendo in pieno come avrebbe voluto, consacrò a Vulcano».

Larghe e frequenti furono inoltre le relazioni intellettuali del Bandello coi poeti, con le poetesse dell’età che fu sua; ha con molti e molte di esse consuetudine di vita aristocratica e di studi, perfino corrispondenza in rima; scambia versi latini e volgari, si fa teorico dell’arte del poetare con una sua «poetica» in ampolloso latino, e a suo modo, si fa storico di tal [p. 33 modifica]arte, tentando di allestire — come già Lorenzo il Magnifico a istanza di Federico d’Aragona, secondogenito del re di Napoli — una sorta di Antologia, adunando all’uopo «composizioni di molti belli ingegni de l’età [nostra], essendo a Roma, a Napoli, e in varii luoghi (II-11). Composizioni latine riceve da Cristoforo Cerpelio bresciano (III-56) nonchè dallo Scaligero, dal Fracastoro. Marco Antonio Sabino fa anche stampare a Milano da maestro Gottardo da Ponte una «ingegnosa e dotta elegia» in onor suo (III-2), nella quale discorrendo «De suis temporibus scriptoribus quibusdam», egli ci presenta Matteo Bandello in mezzo ai più segnalati scrittori del suo tempo. Rime in volgare gli tributano «le coltissime Muse» del Castiglione (I-44) e Luigi da Porto (III-23) «tra i rimatori, ...dei primi» di quel secolo. E gli offrono o dicono — o egli finge che dicano — versi in sua presenza, altri numerosi autori di rime latine e di versi nella volgar lingua, amici suoi, di cui ritroviamo i nomi ad ogni pie’ sospinto nelle Novelle, destinati tutti, con quelli già da noi ricordati, a ornare le pagine della raccolta poetica da lui ideata, ma, per la deprecata dispersione delle sue carte, del tutto perduta. Sono tra questi Niccolò Amanio da Crema, Camilla Scarampa, Pietro Barignano, dei quali riporta, rispettivamente, un intero capitolo (I-45), la prima quartina di un sonetto (III-23), due versi di un madrigale (I-13); Niccolò d’Arco, di cui dichiara di aver nelle mani «selve, endecasillabi ed epigrammi ecc.» (II-36); Francesco Peto e Antonio Tilesio, che gli danno copia autografa quegli di «un arguto epigramma», questi del suo poema sul «Pomo punico o granato» (IV-13); a quella guisa che gli manda «bellissimi madrigali» Margherita Pelletta-Tizzona, poe[p. 34 modifica]tessa e suonatrice, che non solo compone ne la lingua volgare, ma su le sue rime fa «i canti» e col suono li accompagna «con isnodata e velocissima mano» (III-17). Nè altrimenti usa Antonio Bologna, che un bel dì «sonò di liuto e cantò un pietoso capitolo, che egli dei casi narrati (I-26) aveva composto ed intonato». A sua volta il Porcellio, Giovanni dei Pandoni, poeta vissuto a Milano ai tempi di Francesco Sforza, pone la sua «eccellenza nelle lettere e il pregio de le Muse» (I-6) a servizio di un’altra arte sorella della poesia, della pittura, istoriando con epigrammi le pitture che adornavano le sale del palazzo del conte Gasparo Vimercato.

A parte poi uomini di varia dottrina, come Bartolomeo Dardano «nel verso latino, di gran vena» (II-3), come Pietro Usperto «non solamente iureconsulto consumato» ma che ha «a le umane leggi aggiunte le buone lettere» (IV-28), quanti il Bandello introduce a leggere loro versi! Ecco Giambattista Schiaffenato, che «sempre ha alcuna bella rima amorosa o epigramma o elegia de le sue dotte composizioni da recitare» (I-55); Francesco Berni, che mette di buon umore i convenuti a Verona, in un giardino, col suo «piacevole e facetissimo capitolo del prete di Povigliano... e con alcuni sonetti i più festevoli del mondo» (III-55); Marco Antonio Casanova in Milano «molto accarezzato da tutti quei che de le buone lettere si dilettavano, per l’arguzia e soavità de li suoi epigrammi» (IV-14).

Ogni volta che può il Bandello conduce il discorso su argomenti di poesia. Ne ragiona, consumando seco lui la notte intera «a Castel Giffredo... di versi e di cose de la lingua volgare» con Luigi Gonzaga, detto Rodomonte (I-39); ne discute «a tavola» con [p. 35 modifica]Bernardo Tasso, il padre di Torquato, recitando il Tasso «bellissimi sonetti» a elogio di Ginevra Malatesta, e il Bandello, spintovi da Claudio Rangone, «alcune rime» che chiama però «basse ed insulse» da non «doversi a parangone di quelle del Tasso recitare» (I-43). Ed egli mostra di invidiar l’arte descrittiva di Stefano Dolcino esclamando: «perchè non ho io quella vostra inaccessibile, candida, latina e sì dolce vena... a ciò che di voi tanto cantar potessi quanto meritate? Felice voi...» (II-58); e soventi volte ritorna su questioni teoriche e fa che gentiluomini e gentildonne — come in casa di Ippolita Sforza-Bentivoglia il giorno in cui Cecilia Bergamina e Camilla Scarampa lessero, ciascuna un loro sonetto — si propongano di determinare quale sia «l’ufficio del poeta» (I-1). Dopo di che non ci stupiremo di vederlo legiferare in materia, nella lettera latina che prepose — con un suo epigramma classico, notevole perchè egli si denomina anche qui «Delius» — ad un’opera del conte Tommaso Radini-Tedeschi, piacentino, la Calipsychia, bizzarro romanzo spirituale del secolo XVI. La poetica, che qui professa, e che sconfessa poi in una dedica di novella (III-2), non ha importanza in sè, ma soltanto ci attesta che anch’egli si propose, e, a suo talento, risolse il problema dell’arte. Infine, se a cotesti del suo secolo, aggiungiamo i poeti classici greci, latini, italiani di cui traduce o parafrasa passi nelle Novelle — da Euripide (II-38; III-5; 63) a Virgilio (III-4; 53), ad Ovidio (II-51; III-3), a Marziale (III-2), a Dante (I-12; II-10; 24; 31; 35; 40; III-64; IV-9), al Petrarca del Canzoniere (I-41; (III-43) e dei Trionfi (II-22), avremo la prova quant’altra mai persuasiva dell’interesse che il Bandello sempre prese alla poesia, sforzandosi di acqui[p. 36 modifica]stare, come nella prosa, anche in essa qualche nome. La stessa sua produzione poetica, che a prima giunta appare inorganica e tutta frammentaria, presenta un comune fondo ideale ed un nesso che la coordina. Basterebbero a comprovarlo i versi del congedo della canzone ultima del Canzoniere là dove dichiara il suo fermo proposito — come Dante in sul finire della Vita Nuova — di non parlar più di Lucrezia se non per celebrarla, in apposito poema, degnamente:

Se forza al mio desir, Donna, darete,
     I’ canterò di Voi cose sì belle,
     Che fermerò col sol tutte le stelle.

Questo «desire» ritorna nell’esordio delle Stanze, alle quali, quindi, le rime porgono l’addentellato:

L’alto desir ch’in petto mi germoglia,
     E vuol ch’io dica quanto i’ vidi allora
     Ch’ebbe principio la penace doglia,
     Ch’al cor così s’impresse e fe’ dimora,

(c. I, strof. 1ª)

ritorna identico, e documenta la continuità materiale e spirituale del Canzoniere e dei Canti XI, le due più cospicue opere poetiche del Bandello.


Il Bandello poeta non è adunque che un modesto epigono del Petrarca, di cui imitò profondamente il Canzoniere nel pensiero e nell’arte, nelle fattezze esteriori e in quelle interiori.

Tuttavia il contenuto storico, o più direttamente biografico di questa raccolta, la perseverante sua fatica continuata pressochè ininterrotta dalla giovinezza alla vecchiaia, del dettare per rima, la copia stessa dei suoi versi, ci fecero persuasi che mettesse conto di [p. 37 modifica]procurare del suo Canzoniere un’edizione corretta degli svarioni tipografici, che deturpavano quella, ora esaurita, del Costa, corredata di notizie utili alla intelligenza del testo e alla vita dell’autore14. Ci confortarono in questa persuasione le parole di Erasmo Pèrcopo, editore di taluni componimenti bandelliani qui riposti in luce, il quale nel 1908 augurava per l’appunto che qualcuno raccogliesse ed esaminasse «il Canzoniere bandelliano non ancora fatto oggetto di studio e appena nominato nell’ultima e più ampia storia della nostra letteratura cinquecentesca». E rincalzava la sua osservazione con argomenti che a noi paiono conclusivi per la presente indagine, — prima indagine di qualche ampiezza, condotta sull’attività poetica, in genere, del Bandello, in ispecie su quella del Canzoniere. Ciò «non già — egli scriveva — perchè il Bandello lirico debba ritenersi quale lo ritennero i contemporanei un Petrarca redivivo, giacchè in quel genere artisticamente val poco, non ha caratteristica propria, e non è che uno dei più fidi seguaci del cigno di Valchiusa; ma perchè non è bene che un’opera letteraria di uno dei nostri maggiori scrittori del Cinquecento rimanga più oltre sepolta ed obliata, fra tante esumazioni di scrittorelli insignificanti».






Note

  1. Per brevità le citazioni delle opere, indicate tutte specificatamente nella Bibliografia, che segue a questa Introduzione, sono qui affatto sommarie. Delle Novelle, poi, si indica senz’altro, fra parentesi, il rinvio, designando la parte, delle quattro di cui si compone il Novelliere, con numero romano, e la novella con cifra araba, e tenendosi a testo l’edizione laterziana curata dal Brognoligo.
  2. Nei Canti XI, e. I, str. 177: «Ove a me vissi e a le Muse ancora». E in Novelle: «... Seco [con Cesare Fregoso] fermato mi sono, essendomi da la sua indicibile cortesia dato il modo che a me stesso e a le Muse vivo» (III-6); «... mi truovo un poco d’ozio mercè de la cortesia [di] Gostanza Rangona e Fregosa, che mi dà il modo di vivere a me stesso e a le Muse» (III-26); «Voi potrete mo’ — consiglia a Giov. Battista Oddo da Matelica — a le Muse e a voi stesso vivere» (III-3).
  3. Vi nacque nel 1485; morì in Francia, a Bassens, nel 1561; cfr. Picco, La date ecc. cit.
  4. Questo per esempio, a noi noto:

    Non jam me spernes. Latitant sub veste beatum
    Ingenium, Musæ. Delius, Omne Sophos,

    preceduto dalle parole: «Religio ad lectorem, F. M. Bandello interprete». Così nel frontespizio della Calipsychia, cit., del conte Lazzaro Tommaso Radino-Tedesco. Ad essa è anche premessa una lettera in prosa latina del Bandello, diretta all’autore conte Lazzaro, in cui il Bandello dichiara il contenuto della bizzarra opera; cfr. anche dedica a novª. III-2.

  5. Di esso seguiamo il testo, cit., procurato dal Carducci e Ferrari, nella prefazione del quale a proposito dell’«originale intero e compiuto» delle Rime, e cioè del «manoscritto vaticano latino 3195» sta scritto: «La intitolazione è: Francisci Petrarchæ laureati poetæ Rerum vulgarium fragmenta, dove è da avvertire che fragmenta non significa pezzi di poesia, non più intera, ma rime sparse» (p. xi).
  6. Queste e le altre citate subito dopo, sono parole sue, della dedica a Margherita di Francia (vedila qui a p. 43 sgg).
  7. Esattamente 205. E cioè: sonetti 162, canzoni 15, ballate 14, madrigali 10, sestine 4. Il Costa non distingue che sonetti e canzoni, comprendendo, anzi confondendo sotto questa generica denominazione, le altre varietà metriche sopradesignate. Non computati i due componimenti di incerta attribuzione, il numero delle rime bandelliane sale a 233 aggiuntivi cioè i 28 componimenti delle Rime estravaganti, precisamente sonetti 20, canzone 1, madrigali 4, sestine 3.
  8. Per questo codice, vedasi il Napione, Vite ecc., cit., t. II, p. 291. Delle «gioie, argenterie, tappezzerie, mobili di Margarita di Francia, duchessa di Savoia» esistono nell’Archivio di Stato di Torino due Inventari (mazzo 1º, n. 4; n. 5) il primo redatto nell’anno 1559, l’altro «dopo il di lei decesso, in febbraio 1576» che riguarda anche «gli abiti» e cioè tutto quanto esisteva «in due coffani ne la camera di Sua Altezza». In altro incarto (mazzo 10º, n. 13 «Storie Particolari»; Storia della Real Casa, Categoria 3ª) vi sono epitalami, manoscritti e a stampa, in lode della duchessa Margherita. Tutto questo materiale abbiamo esplorato nella speranza di trovare un elenco dei libri o codici recati in Italia dalla augusta Sposa; ma esso manca e non v’ha il menomo accenno all’autografo bandelliano. Di esso noi possediamo però due descrizioni, l’una anteriore all’incendio, in Pasinus, Codices, cit., p. 448; l’altra posteriore, la qui seguente, in Peyron, Codices, cit., pp. 273-274: «Chartaceus, sæc. XVI, constat foliis 154, in 4º minimo. Serico tegumento ornatus. Continet: Alcuni fragmenti de le Rime del Bandello». Lo descrive minutamente, e dà conto delle parziali pubblicazioni avvenute di queste Rime prima dell’edizione integrale del Costa, cit.; e annota: «Codex hic visus est autographus doctis viris, atque ipsum exemplar quod ab auctore Margaritæ Francicæ oblatum est, quodque postea una cum aliis compluribus codicibus eximia illa in bibliothecam viri sui Emanuelis Philiberti transtulit».
  9. Ireneo Affò, Memorie, cit., pp. 80-83, nel 1787 la Canzone in lode di Lucrezia con la quale si chiude il Canzoniere. — F. G. Napione, già aveva allestito per la stampa nel 1783-84, e pubblicava poi nel 1787 in Piemontesi, cit., t. V, indi ripubblicava nell’agosto 1818, in Vita, cit., t. II, pp. 295-299: «Alcuni sonetti per saggio delle rime manoscritte del Bandello», precisamente gli otto seguenti, che dobbiamo ritenere gli paressero i migliori, o almeno i più rappresentativi dell’arte del Bandello: quelli segnati nell’autografo VIII, XLII, XCVI, CX, CXXII, CXL, CXXIX, LXXVIII che nel presente volume prendono rispettivamente questa numerazione: X, XLIX, CXV, CXXXVII, CLII, CLXXII, CLX, XCV. — Giovanni Lami, Catalogo, cit., p. 57, il son. XLVII, ora qui LIV, ricavandolo però non dall’autografo torinese, ma da un Codice della Riccardiana di Firenze. Finchè metteva a stampa l’intero autografo il Costa, cit., nel 1816.
  10. Un esame stilistico e metrico ci induce in questa persuasione, che per brevità esprimeremo sommariamente così: I. Tutti i cinque sonetti-epitaffi sono dello stesso autore; cfr. la caratteristica dell’«oimè», che ricorre in ben quattro di essi (son. 24, v. 8; 25, v. 9; 26, v. 9; 28, v. 4) e per due volte allo stesso posto; cfr. le rime di taluni ripetute identiche in altri (son. 25, bella, stella, quella in son. 26) o simili (son. 24, morire, schernire, coprire, in son. 26, finire, seguire, gire); cfr. per la disposizione delle rime sempre uguale nelle quartine, e uguale spesso nelle terzine (in son. 25 e son. 28 c, d, e; d, c, e; in son. 24 e son. 26 c, d, c; d, c, d dove, oltre alla medesima postura, c’è l’uso di due sole rime); II. I cinque sonetti-epitaffi sono dello stesso autore dei tre sonetti-epitaffi editi dal Pèrcopo, e cioè del Bandello; cfr. le frasi, pur consuete nelle Novelle del Bandello, («fiero caso» son. 26; «fiera doglia» son. 27; «dolor fiero» son. 24; «casi miei» son. 28 e «casi miei» in Pèrcopo, son. 14 di questo volume; «tanta doglia», «fiero messo» in Pèrcopo, son. 15, quivi); cfr. lo spunto analogo in son. 28: «Ferma viator il passo...» e in son. 27: «Tu che qui passi e ’l bel sepolcro miri», e in Pèrcopo son. 16, quivi: «Piangi viator ch’ogni huom che passa... adora questa pietra»; cfr. le rime (son. 26 volse, tolse, in Pèrcopo son. 14 volsi, tolsi; e son. 25 e son. 26 bella, stella, quella in Pèrcopo son. 16 stella, bella); III. I cinque sonetti-epitaffi sono da ascriversi al Bandello autore delle Rime; cfr. il gruppo di rime tipiche (miri, martìri, sospiri che si ritrovano in son. 27 e in sonetti I, XLIV, XXXII, XLV, CXLIX) e quell’altro gruppo da noi già rinvenuto nei sonetti editi dal Pèrcopo e che ha una stragrande diffusione nelle Rime (son. 26 bella, appella, quella, stella, e son. CXLIX belle, stelle, quelle, appelle; nonchè, con tutte o con alcune di esse, in son. 25 e in sonetti I, XVIII, XIX, XX, XXXVIII, XCII, CXIV, CXVII, XLI, ecc.); IV. Il preciso riscontro dei due versi
    Nè fu bisogno ferro al mio morire

    (Son. 24, v. 9, in nov. I-22)

    N’altre armi fur bisogno a darmi morte

    (Son. 15, v. 12, Pèrcopo).

  11. Luzio-Renier, Mantova e Urbino, cit., p. 238.
  12. A. Ronchini, Lettere, cit., a tale data.
  13. Paolo Negri, Nuove lettere, cit., pp. 21-22, in data 1º luglio 1540. Questa, come altre di queste lettere, è a firma di Cesare Fregoso, ma di pugno del Bandello suo segretario; è un ringraziamento per «la forma di formaggio, la quale si goderà perchè io spero guarire innanzi che il Bandello se l’abbia trangugiata tutta. Che al sapor, anzi odor di quella si è levato di letto, e non ne vuole perdere uno punto de le sue ragioni. La Composizione sovra il Formaggio, come sia in essere, o me la farò leggere, o la leggerò io. Et poi si manderà a V. S.»
  14. Per le edizioni, vecchie e nuove, del Bandello, e per i saggi critici e per la sua fortuna in Italia e all’estero, vedasi la Bibliografia premessa (1911) a Picco, Quaranta novelle cit., pp. 25-35.