Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XIII

Quarta parte
Novella XIII

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Bella astuzia del duca Galeazzo Sforza a ingannare


uno de li suoi consilieri, di cui godeva amorosamente la moglie.


Ogni cosa averei io, signora Camilla, e voi signori miei, creduto che avenire mi devesse, eccetto che di narrare a la presenza vostra novelle. Ma poi che voi, sinora Camilla, me lo commandate, come posso io non ubidirvi? Adunque devete sapere che al principio che io fui condutto in questa cittá con publico e onorato salario per isponere poeti e oratori a la nobilissima gioventú milanese, mi trovai uno giorno di brigata con alcuni uomini da bene, tra li quali era il dotto e integerrimo patricio di questa cittá messer Catellano Cotta. E, ragionandosi de li numerosi figliuoli del duca Galeazzo Sforza, che da varie gentildonne avuti aveva, cosí mascoli come femine, ci narrò una breve istorietta, che sempre rimasa mi è ne la memoria, e quella intendo io ora narrarvi. Fu Galeazzo Sforza, duca di Milano, molto generoso e liberale prencipe, ma troppo dedito a l’amore de le donne, ché, oltre la moglie, non si contentava di una o due gentildonne, ma sempre ne aveva cinque e sei. Onde avenne che, carnalmente mescolandosi con tutte, da quelle ebbe molti figliuoli e figliuole, de li quali alcuni ancora viveno. Amò egli tra l’altre la moglie di uno suo consigliero, che era molto piacevole e forte bella, e con quella piú volte si trovò a prendersi di notte amoroso piacere. Soleva il consigliero starsi per l’ordinario il piú del tempo nel suo studio, che era ne l’intrata de la casa in una camera terrena, per piú commoditá di dare audienza a li suoi clientuli. Tutta la famiglia de la casa, cosí uomini come ancor le donne, sapevano la prattica che la padrona aveva col duca. Per questo esso duca avea grandissima comoditá di godere quando voleva la sua innamorata; e nessuno ardiva avertirne il marito, anzi tenevano mano con lei per accommodar il duca. Avenne una sera d’inverno, che tardi si cena, che il duca poco dapoi l’avemaria era intrato in casa del consigliero e con la donna lungamente si era amorosamente trastullato. Volendo poi partirsi, ché giá era l’ora de la cena, discese le scale, e in quello che egli passava per iscontro l’uscio de lo studio, messer lo consigliero uscí de lo studio. Non si poteva nascondere il duca, ma da subito consiglio aiutato, fatto buono viso salutò il dottore. È costume in Milano che la gran porta de la casa, massimamente quella de li grandi gentiluomini, non si ferma la sera se non quando si vuole cenare. Ora messere lo dottore, conosciuto il duca, che con la spada ignuda in mano e la rotella era, disse: – Signor mio, che andate voi a questa ora facendo cosí solo? – E subito gridò a li servitori che allumassero de li torchi. Il duca in quello li rispose che era venuto a quella estraordinaria ora a parlar seco per cosa di grandissima importanza. Si agitava nel segreto consiglio tra dui de li primi e piú riguardevoli gentiluomini di Milano una lite di grandissima importanza, perché si piativa la rendita tra loro di piú di diece millia ducati di oro ogni anno, né mai si erano potuti amichevolmente accordare, perché ciascuno di loro pretendeva avere ragioni da vendere. E tuttavia vi si erano intromessi parenti de l’una parte e l’altra e persone religiose di autoritá per acquetarli, ma il tutto era stato indarno. Il duca, poi che tutti dui non mediocremente amava, e averebbe voluto vedere una onesta composizione tra quelli, prese occasione da cotesta lite di scusarsi se a cosí fatta ora attorno se ne andava tutto solo. Presolo adunque per la mano, con quello intrò dentro lo studio; e fatto lasciare in quello uno torchietto acceso, poi che si furono assisi, in questo modo il duca al consigliero disse: – So che voi sapete quanto io desideri che la lite si componga che tra li tali dui patricii miei feudatarii si litiga giá molti mesi sono. E perché io ugualmente l’uno e l’altro amo, mi duole che in cotale litigio si consumino. Pertanto, sapendo io quanta sia la reputazione de la dottrina vostra, e quanto sète abondevole di partiti in ogni cosa, di quale importanza si sia, sono a questa ora qui venuto e pregarvi che per amore mio vogliate usare ogni ingegno e ritrovare alcuno ispediente e valevole mezzo a componere questa lite, e far di modo che non si prononzii la determinata sentenzia. E di questo vi assicuro io che maggior piacere fare non mi potete. Io averei bene mandato uno de li miei camerieri a parlarvi; ma, passando per la contrada per alcuni miei affari, mi è paruto essere piú ispediente che io in propria persona facessi questo ufficio. Sí che avete intesa la intenzione mia. – Messere lo consigliero, non pensando piú oltre, si reputò esserli fatto uno segnalato favore, che il duca a tal ora fosse degnato sí domesticamente andargli a casa; e ringraziato quello di tanta umanitá, li promise far ogni cosa possibile acciò che conseguisse il suo intento. E cosí il duca di essere a quella ora trovato in casa, con apparente ragione al suo consigliero, avendo prima a la moglie di lui sodisfatto, a lui anco ottimamente sodisfece. Del che piú volte poi, con la donna tenendone proposito, insieme gioiosamente ne risero.


Il Bandello a la illustre e gentilissima eroina


la signora Clara Vesconte e Pusterla salute


Venne non è molto da Roma a Milano il dotto messer Marco Antonio Casanuova, per andare a Como a vedere li suoi propinqui, perciò, se ben egli nacque in Roma e fu criato de la magnanima casa Colonna, il padre suo nondimeno era cittadino comasco. Egli in Milano fu molto accarezzato da tutti quei che de le buone lettere si dilettavano, per l’arguzia e soavitá de li suoi epigrammi. Ma fra gli altri che di continovo li tenne compagnia fu il nostro dotto messer Gieronimo Cittadino. Egli uno giorno lo condusse in casa vostra a visitarvi. Voi, che giá per chiara fama lo conoscevate, lo raccoglieste con quella singolare umanitá con cui sète solita tutti che a voi vengono ricevere, ma sovra tutti i vertuosi e a le muse consacrati. Si ritrovò allora con voi il gentilissimo e di ogni sorta di scienza adornato messer Marco Antonio da la Torre, gentiluomo veronese, ma per antica origine disceso da la nobilissima famiglia de li Torriani, che lungo tempo con gli avi vostri Vesconti del principato di questa cittá e di tutta Lombardia combatterono, seguendo tra loro alcune sanguinose battaglie. Ora, dopo le accoglienze da voi e dal Torre a esso Casanuova fatte, dopo molti ragionamenti fatti, si intrò a parlare di una mischia fatta dagli scolari in Pavia contra gli sbirri del podestá. E da la commessa questione, che il Torre come seguisse, senza troppi proemii, narrò, egli disse una piacevole novella avenuta in Pavia a uno scolare. Essendo dopo io, secondo il mio consueto, venuto a visitarvi, voi il tutto puntalmente mi diceste, pregandomi che essa novella volessi scrivere; il che per ubedirvi, come a casa tornato fui, descrissi. Ora che le mie novelle in uno vuò raccogliendo, poi che questa per commandamento vostro fu da me scritta, convenevole mi pare che ella, come cosa da voi proceduta, a voi ritorni e resti sempre sotto il valoroso nome vostro appo il mondo, per testimonio de l’osservanza mia verso voi, facendomi a credere che sempre sará da voi allegramente letta e tenuta cara. State sana.