Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XXVIII
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Novella XXVIII
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Uno drappieri di Lione, per andar la notte a giacersi con una sposa,
fece certi patti con uno suo garzone di bottega, e lo fa corcarsi
in letto appo la moglie. Il giovane, scordatosi li patti, tutta la notte
amorosamente se prese piacere con la padrona, e ciò che poi avenne.
Poi che, madama eccellentissima, mi avete chiesto che io dica se ho nulla di novo de le cose che ora si maneggiano tra il nostro re cristianissimo e l’imperadore, parendo che il sommo pontefice molto si affatichi per accordargli insieme, affine che si porga soccorso a la giá sí famosa Ongaria che gli infedeli guastano, ardeno e consumano, io non vi saprei nulla dire di piú di quello che si contiene ne le lettere che da Lione vi ho portate. Bene vi potrò narrare uno caso novamente avvenuto a Lione, che per mio giudicio tiene molto de lo strano e del bestiale, per la trascuraggine ed espressa pazzia di uno mercante drappieri; il quale, poco aveduto, e savio stimandosi, da se stesso in capo si ha posto la insegna de li Soderini, che sono duo corna di cervo. E certamente egli è pure una gran cosa a considerare le molte e sconcie operazioni che gli uomini, acciecati da li loro disordinati appetiti, cosí scioccamente fanno, e sovente, dandosi a credere di ingannare il compagno, essi con eterno disonore e vituperio restano gli ingannati, come ora da me intenderete, dandomi grata udienza. Dico adunque che in Lione si trova uno drappieri di essa cittá, il quale non è perciò il piú bello uomo del mondo, il quale prese per moglie una Isabetta, che anco ella non ha privato il cielo di bellezza. Ma per li disonesti portamenti del marito, che quante donne vede tante ne vuole, è fora di modo di lui divenuta gelosa, e talemente fastidiosa che altro mai non fa che garrire per casa. Abitano in una casa ove dimorano diverse famiglie, fra le quali ci era e ancora vi è una vedova, che aveva una nipote nominata Catarina, giovane assai bella e in etá da marito. Il mercante, veggendo ogni ora questa Catarina e sommamente piacendoli, come colui che dietro una capra che avesse avuto una cuffia in capo sarebbe corso, se ne innamorò, o piú tosto li venne appetito di provare se era di buona lena. Cominciò dunque il mercante a dimesticarsi seco e far l’amore con lei, di modo che, crescendo di piú in piú la dimestichezza, egli le richiese che li volesse compiacere del suo amore, e le prometteva gran cose. Ella si scusava con molte ragioni, e massimamente, se si fosse ingravidata, che non averebbe avuto ardire di lasciarsi vedere a persona del mondo, e che la sua zia, da la quale sperava avere del bene, la averia fora di casa cacciata. Veggendo egli che indarno spendeva il tempo e le parole, e che non ci era ordine di goderla se ella non si maritava, le promise usare ogni diligenza per trovarle marito conveniente a lei, pregandola caldamente che quando fosse maritata li volesse allora compiacere. La giovane li diede speranza di contentarlo; onde egli, mostrando di farlo per amore di Iddio e per compassione di lei, ne parlò con la vedova, zia di quella, e cominciò di cercare qualche onesto partito per maritarla. E in fine ritrovò uno giovane lionese chiamato Claudio, che era mercieri e spesso andava fora di Lione per vendere le sue mercierie. Ora venne il tempo che il giorno seguente Claudio deveva sposare la Catarina in chiesa, e l’altro poi giorno andar a letto con la sposa e consumare il santo matrimonio. Il drappieri, non si avendo smenticata la promessa de la Catarina, quello istesso dí che fu sposata, le ricordò che la vegnente notte era il tempo di attendere ciò che promesso gli avea; e sí le disse: – Catarina, vita mia, tu sai che dimane tu ti metterai in letto con tuo marito; pertanto ti prego che questa notte tu voglia essere contenta di giacerti meco. Tu non devi avere piú paura di ingravidarti, con ciò sia cosa, se bene tu questa notte restassi gravida, devendo l’altra notte poi accompagnarti con tuo marito, sempre si presumerá che tu gravida sarai di lui. – Egli seppe sí bene persuadere la giovane con mille promesse che le fece, che ella si contentò quella notte introdurlo dentro il suo camerino a giacersi seco. Dormiva ella in una guardaroba de la camera de la zia, e senza farlo passare per la camera de la vedova, li disse che a la tale ora gli aprirebbe una picciola porticiuola che rispondeva in uno andito o sia loggia. Avuta egli questa buona nuova, si partí tutto gioioso e lieto. Ma, sovenendogli la estrema gielosia che la moglie sua di lui aveva, e giá l’ora tanto tarda, che non si poteva piú servire di una escusazione che altre volte per cotali contrabandi era solito usare, dicendo volere andare al podere suo che fore di Lione aveva, doppo diversi pensieri sopra questa materia fatti, si risolse assai scioccamente conferire ogni cosa con uno altro Claudio, giovane di venti anni, di Borgo in Brescia, che dal padre era stato posto con lui, perché imparasse l’arte de la drapperia, e devea per obligazione stare tre anni a servire in bottega. Chiamatolo adunque a sé, li disse: – Claudio, io vuo’ che tu mi giuri su queste Ore de la nostra Donna, che di quello che io ora ti manifesterò, che tu a chi si sia non lo dirai giá mai, essendo la cosa di importanza tale, quale tu intenderai, ché conoscerai che ricerca ogni segretezza. – Giurò il giovane di tenere il tutto celato. Avuto egli con sagramento questa promessa, narrò al giovane tutto lo ordine che dato avea con la Caterina, e come quella istessa notte egli devea andarsi a giacere con lei. Ma perché non voleva che sua moglie, che fieramente di lui era gelosa, se ne accorgesse né sapesse che egli dormisse fora di camera, che era bisogno ingannarla: – Lo inganno adunque sará questo: come ella sará ita a letto, io mostrerò avere alcuna cosa a fare, e uscirò fore di camera, portando meco la candela, e in quello mezzo ella, come è suo costume, si addormenterá. Vedi mò se io mi fido del fatto tuo, e se il caso deve essere tenuto segreto: io voglio che tu allora, che ben sai come sta la mia camera; voglio, dico, che dispogliato, non ti cavando la camisciuola di lana, come io solito sono di fare, entri in camera e serri l’uscio. Ti corcherai dapoi a lato a mia moglie, e corcandoti le metterai una mano sovra il petto, senza fare motto veruno, e ce la tenerai uno pochetto, e dopo la retirerai a te e ti metterai su la tua sponda, voltando a quella le spalle, ché io il piú de le volte sono costumato di tenere questo modo. Domattina poi, acciò che mia moglie non possa conoscerti, e meno accorgersi de l’inganno, tu ti leverai innanzi giorno e anderai a fare ciò che bisogna. – Di nuovo poi li ricordò che avesse cura de l’onore suo, e che se la moglie se gli accostava, che egli la ributtasse senza parlare, e che verso quella non si rivoltasse giá mai. Promise il giovane il tutto osservare. Cosí, mentre che il castronaccio del drappieri voleva porre le corna in capo al marito di Caterina, egli se le piantò da se medesimo. E cosí aviene a chi non considera il fine de le cose che fa. Ora non istette guari, che andò a trovare la sua Caterina, da la quale gioiosamente, secondo l’ordine messo, fu ricevuto, e intrato con quella in letto, colse il primo frutto del giardino di lei con gran piacere di tutte due le parti. Claudio anco egli, secondo che era ammaestrato, intrò in camera de la padrona e si corricò. Ma mettendo la mano su il petto de la donna, perché ogni cuffia per la notte è buona, sentí tale svegliarsi che dormiva, e scordatosi il commandamento del padrone, non voltò altrimenti le reni a la donna, ma le rivolse la punta del suo nervoso e duro piuolo. Ella, che destata era, pensando essere col marito, il raccolse molto volentieri, e abbracciati insieme, cominciarono il giuoco de la danza trivigiana; di modo che Claudio, che era di buona lena e gagliardo, in poco tempo molto valorosamente corse cinque lanze. Onde la buona donna, che non era usa a sí fatte feste, pensando parlare col marito, disse: – Che cosa è questa, marito mio, che voi fate? volete voi guastarvi? serbate, serbate questi cosí affettuosi e frequenti abbracciari a le altre notti. Voi, da che io sono vostra moglie, non vi sète sí valoroso cavaliere mostrato giá mai, né tante carezze unqua mi faceste. – Claudio lavorava il giardino del suo maestro e lo inacquava, giocando sempre a la mutola; di modo che, nonostante le cinque prime poste, due altre ne corse. E fingendo di voler dormire, si retirò su la sua sponda. Ma come si accorse che la donna si era addormentata, cheto cheto si levò fora del letto e andò a basso a vestirsi, e intrò in bottega e attese a fare ciò che bisognava. Si levò anche il padrone, e intrò entro in bottega. La moglie, credendo fermamente esser giaciuta con il marito, si levò assai a buona ora; e considerando la fatica che pensava quello avere durata, apprestò una collazione di ova fresche e di preziosi confetti ristorativi e migliore vino che in Lione si trovasse. Poi fece dimandare il marito e lo invitò a cibarsi e prendere rifrescamento per ristorar le forze. Come ser isciocco vide tante cose insolite apparecchiate, forte si meravigliò e dubitò che ella avesse da Claudio inteso come era stato con la Catarina, e a la donna disse: – Moglie mia, che apparecchiamenti sono cotesti? che vogliono dire tante carezze che fore del tuo consueto mi fai? – Che vogliono dire? – rispose la moglie. – Chi lo sa meglio di voi? devereste pure avere in la memoria la fatica insolita che questa notte durata avete. – In questo egli, mezzo in còlera, disse: – E che diavolo di fatica ho io durata? Io non ho fatto nulla. – Onde volendo levare fora del capo a quella, se de la Catarina sospettava, cominciò sagramentare che, al corpo e al sangue, cosa che si fosse egli non avea fatta. – Oh, – disse la donna, – io non sono giá cosí trasognata, che sí tosto mi sia uscito di mente ciò che questa notte meco faceste Ché dapoi che mio marito sète, non vi dimostraste mai sí prode cavaliere, né la metá faceste mai di quello che la passata notte operaste. – Non è cosí gran cosa, – rispose egli – correre una o due poste. – Una o due poste? – soggiunse la donna. – A la croce di Dio, io so bene che passarono sette. – A questa risposta restò il marito mezzo fuori di sé, e tutto a uno tratto, pieno di fellone animo contra Claudio, tenne per fermo che da quello, senza passare le Alpi, in una notte era stato cacciato sino a Corneto. Indi, senza pensarvi piú su, vinto da l’ardente e furiosa còlera, andò in bottega, e di prima giunta li diede a pugno chiuso una gran percossa su il volto. Dato poi di mano a uno bastone assai forte e grosso per misurare li panni, che si chiama «canna» o «alla», quello con spesse bastonate da orbo li ruppe con gran furia addosso. Né contento di averlo sí stranamente senza pettine carminato, lo cacciò con male parole fora de la casa, spogliatolo in farsetto con l’aita di altri suoi famigli, né li volle dare mantello né le altre sue robe. Il giovane, trovandosi cosí mal acconcio e liggiero di panni, si trovava molto di mala voglia. Ed essendo lo inverno e sentendo che il freddo il tormentava, si deliberò tornare a casa il padre a Borgo in Brescia, lontano da Lione cerca otto leghe; e cosí vi andò, e innanzi al padre tutto vergognoso e lagrimando sí presentò. Era il padre di Claudio in Borgo in Brescia notaio e uomo di buona fama, de li beni de la fortuna per pari suo assai agiato. Come egli vide il figliuolo presentarsi cosí male in arnese in quella fredda stagione, dubitò forte che Claudio avesse fatto in casa del suo maestro alcuno misfatto, per lo quale egli vituperosamente l’avesse cacciato fora di casa. Onde, chiamati alcuni suoi parenti e riduttisi in una camera, cominciò severamente e con rigido viso, a la presenza di quelli suoi parenti, esaminare il figliuolo e astringerlo con menaccie a palesarli la cagione perché fosse di quello modo stato cacciato via dal suo maestro. Claudio, che dubitava, non dicendo la veritá, di essere aspramente battuto, narrò tutta l’istoria precisamente di quanto gli era occorso; il che fece ridere e insiememente meravigliare tutti quelli parenti suoi. Ma il padre suo, non dando intieramente credenza a le vere parole del figliuolo, doppo aver con li parenti suoi lungamente sovvra il caso assai cose dette, si deliberò condurre il figliuolo a Lione e confrontarlo con il maestro. Fatta questa conchiusione, fece vestire Claudio, e con quello si inviò verso Lione, tuttavia esaminandolo; il quale sempre li rispondeva di uno tenore, non sapendo altro che dire se non come il fatto era in effetto stato. Giunti che furono a Lione, il notaio, insieme con Claudio suo figliuolo, andò a trovar il mercante a la bottega, e colá trovatolo, li disse che voleva parlar seco. E cosí di brigata andarono ne la chiesa quivi vicina, che di Santo Eligieri si appella, chiesa in Lione molto onorevole e frequentata. Quivi arrivati, disse il notaio: – Sire, io desidero sapere da te la cagione perché hai cosí vituperosamente cacciato via e tanto sconciamente battuto mio figliuolo che qui vedi; perciò che se egli averá commesso cosa che degna sia di gastigo, io lo punirò acerbissimamente. – Il buono mercante, tutto per vergogna in viso arrossito, non sapeva altro che dire se non che Claudio era uno ghiotto e che non valeva nulla e che a modo veruno nol voleva in casa. Onde, veggendo il notaio che il drappieri non sapeva in escusazione sua dire cosa valevole e che nel parlare si ingarbugliava, tenne per fermo che il caso fosse come il figliuolo avea sempre narrato. Il perché in questa guisa disse: – Amico, poi che tu non vuoi servare le convenzioni che tra noi giuridicamente furono per scrittura autentica per mano di publico notaio fatte, che sono di tenere mio figliuolo in bottega tre anni, e, facendogli le spese, insegnargli il mestiere de la drapperia, tu mi restituirai li novanta scudi che per tale cagione ti diedi. – Il drappieri, vinto da la còlera, non solamente diceva non li volere dare uno tornese, ma che, non si partendo egli e il tristo di suo figliuolo, li menacciava di far loro fare sí strano scherzo che sarebbe a tutti dui rotto il capo. Onde, lasciatosi vincere da la còlera, cacciò mano a la daga che a lato portava e, non guardando che era in chiesa, voleva ferirli. Seguiva senza dubbio lo effetto; ma molti preti, che erano in chiesa, corsero al romore e spartirono la mischia, e al mercante fu levata la daga di mano e stranamente da quelli sacerdoti percosso, che fosse stato ardito a mettere mano a le arme ne lo sacrato tempio del nostro signore Iddio. Parendo al padre di Claudio avere ragione di potersi a la giustizia querelare, andò a trovare li giudici de la giustizia di Lione, e prepose loro la sua querela. Onde fu di bisogno, per contestar la sua lite, che narrasse loro tutta la istoria occorsa tra il mercante e la Catarina, e tra suo figliuolo e la moglie del mercante. Fu messa in iscritto la detta istoria con gran piacere di tutti gli assistenti, e massimamente de li signori giudici, e vituperio infinito di esso mercante. Il quale, essendo citato dinanzi al tribunale de la giustizia, e non sapendo né potendo negare cosa alcuna che opposta li fosse, doppo la debita consultazione, fu condannato a restituire al notaio li novanta scudi, a Claudio tutte le robe che ritenute gli aveva, e le spesa del processo. Publicata la sentenzia da li signori giudici, il castrone ser balordo, non contento che tutto Lione sapesse come egli si aveva acquistato il cimiero di Cornovaglia, volle anco che a Parigi, in quella grande e popolosa cittá, li suoi cornazzani privilegi si publicassero; onde si appellò de la sentenzia data in Lione e provocò al giudicio del parlamento parigino. Cosí fu necessario mandare il formato processo, a le spese di chi perderia la lite, a Parigi, perché da quello gravissimo senato non ci è appellazione. Fu adunque bisogno che il notaro con il suo figliuolo Claudio, e altresí il mercante andassero presentarsi a Parigi, e proseguire la loro cominciata lite. Devete pensare, se a Lione una simile lite avea dato piacere e insiememente meraviglia a chi intesa l’aveva, che di non minore trastullo fu a li signori consiglieri di quello parlamento, parendo pure a tutti il caso essere stato molto strano, e che se egli avea posta la paglia appresso al fuoco, che non poteva con ragione alcuna lamentarsi se era arsa. La cosa fu subito divolgata per Parigi, dove di altro non si parlava che de la sciocchezza del drappieri, e da tutti era mostrato a dito come il maggiore bestione che mai fosse. Prononziarono adunque quei signori consiglieri essere stato a Lione bene giudicato e male appellato, condannando il mercante a pagare tutte le spese che il notaro in quella lite avea fatte. Ora, essendosi questo caso molto divolgato, pervenne a le orecchie del marito de la Catarina, Claudio mercieri, il quale, sentendosi essere intrato nel numero de li cornigliani e per cotale mostrato a dito ovunque andava, ché sino a’ fanciulli lo chiamavano uno «becco», si mise in tanta còlera e rabbia contra il drappieri, che prima di lui avesse voluto godere la Catarina, che si deliberò prenderne segnalata vendetta. Onde uno giorno, armatosi di corazza e maniche di maglia, se ne andò a la bottega di esso, e quivi trovatolo, gli disse la maggior villania del mondo, tuttavia appellandolo «becco cornuto», non mettendo mente che egli era de la medesima pece macchiato. Doppo cacciò mano a la spada e si aventò addosso al mercante, e li tirò una gran stoccata a la volta del petto; ma egli si retirò e, da li servitori suoi di bottega aiutato, si salvò. Indi tra Claudio e li servitori de la bottega si cominciò la zuffa, al cui romore corsero molti vicini, li quali, intendendo la cagione di tale mischia, si interposero tra l’una parte e l’altra, acciò non ci seguisse maggiore scandalo. A la fine, per far la pace, fu forza che il drappieri con qualche decina di scudi contentasse il mercieri; e cosí pacificarono, e ciascuno, con le sue corna in capo, attese a fare il fatto suo. Ora inteso avete come uno poco di piacere di una notte fu quasi per roinare il mercante, che, oltra tanti danari isborsati, restò con perpetua vergogna.