Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella IX
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Novella IX
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La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti
che l’uno di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti.
Il Bandello al molto magnifico ed eccellente
messer Girolamo Fracastoro poeta e medico dottissimo salute
Andò questa state il valoroso ed illustrissimo signore, il signor Cesare Fregoso vostro grandissimo amico e mio signore, a ber l’acque dei bagni di Caldero, ove alloggiò in una casa di messer Matteo Boldiero, persona gentilissima e d’ogni parte di castigata ed integerrima vita. Quivi, come assai meglio di me sapete, di tutta Lombardia e di Lamagna e d’altre parti vicine e lontane molta gente concorre per la salubritá di quell’acque, de le quali mirabilissimi effetti ogni volta che ordinatamente si beveno si sono veduti. Ed io tra gli altri ne posso render verissimo testimonio, che essendo dal noioso mal de le reni fieramente afflitto, voi me le faceste bere alcuni dí qui in Verona, l’un giorno per l’altro mandando a Caldero a prender essa acqua. Il giovamento che ella mi fece, fu tale quale voi ed io desideravamo, perciò che di modo mi liberò da quei dolori che piú non ho dapoi sentito pur una minima puntura, che prima non mi poteva chinar a terra né chinato senza gravi dolori levarmi. Stette il signor Cesare a’ detti bagni alquanti dí, usando de l’onesta libertá la quale a chi beve quell’acque si concede, ricreandosi di brigata con quelli che ai bagni si ritrovavano. Venivano anco da le cittati circonvicine gentiluomini assai a visitarlo, i quali tutti esso signore lietamente riceveva e con ricca e sontuosa mensa onorava, ché conoscete bene come egli sa onorar cui ne l’animo gli cape che il vaglia. Si facevano varii e piacevoli giuochi, e chiunque piú di trastullo pigliava in un giuoco che in un altro, in quello si dava piacere. Ora ragionandosi un giorno dei casi fortunevoli che ne le cose de l’amore avversi avvengono, il capitano Alessandro Peregrino narrò una pietosa istoria che in Verona al tempo del signor Bartolomeo Scala avvenne, la quale per il suo infelice fine quasi tutti ci fece piangere. E perché mi parve degna di compassione e d’esser consacrata a la posteritá, per ammonir i giovini che imparino moderatamente a governarsi e non correr a furia, la scrissi. Quella adunque da me scritta a voi mando e dono, conoscendo per esperienza le ciancie mie esservi grate e che volentieri quelle leggete; il che chiaramente dimostra il vostro colto e numeroso epigramma che sovra le mie Parche giá componeste. State sano.
Io credo, valoroso signor mio, se l’affezione che io meritamente a la patria mia porto forse non m’inganna, che poche cittá siano ne la bella Italia le quali a Verona possano di bellezza di sito esser superiori, sí per cosí nobil fiume com’è l’Adice che quasi per mezzo con le sue chiarissime acque la parte e de le mercadanzie che manda l’Alemagna abondevole la rende, come anco per gli ameni e fruttiferi colli e piacevoli valli con aprici campi che le sono intorno. Taccio tante fontane di freschissime e limpidissime acque ricche, che al comodo de la cittá servono, con quattro nobilissimi ponti sovra il fiume e mille venerande antichitá che per quella si vedeno. Ma perché a ragionar non mi mossi per dir le lodi del nido mio natio che da se stesso si loda e rende riguardevole, verrò a dirvi un pietoso caso ed infortunio grandissimo che a dui nobilissimi amanti in quella avvenne. Furono giá al tempo dei signori de la Scala due famiglie in Verona tra l’altre di nobiltá e ricchezze molto famose, cioè i Montecchi e i Capelletti, le quali tra loro, che che se ne fosse cagione, ebbero fiera e sanguinolente nemicizia, di modo che in diverse mischie, essendo ciascuna potente, molti ci morirono cosí di Montecchi e Capelletti come di seguaci che a quelli s’accostarono; il che di piú in piú i lor odii accrebbe. Era alora signor di Verona Bartolomeo Scala, il quale assai s’affaticò per pacificar queste due schiatte, ma non ci fu ordine giá mai, tanto era l’odio abbarbicato nei petti loro. Tuttavia gli ridusse a tale che se non vi pose pace, ne levò almeno le continove mischie che tra loro assai sovente con morte d’uomini si facevano; di maniera che se si scontravano, i giovani davano luogo ai piú vecchi de la contraria fazione. Avvenne adunque che un anno, dopo natale si cominciarono a far de le feste ove i mascherati concorrevano. Antonio Capelletto, capo de la sua famiglia, fece una bellissima festa a la quale invitò gran nobiltá d’uomini e di donne. Quivi si videro per la maggior parte tutti i giovani de la cittá, tra i quali v’andò Romeo Montecchio che era di venti in ventun anno, il piú bello e cortese di tutta la gioventú di Verona. Egli era mascherato e con gli altri entrò ne la casa del Capelletto, essendo giá notte. Si trovava Romeo alora fieramente innamorato d’una gentildonna a la quale passavano circa dui anni che s’era dato in preda, ed ancor che tutto il dí ove ella a chiese od altrove andava, sempre la seguitasse, nondimeno ella d’un solo sguardo mai non gli era stata cortese. Avevale piú e piú volte scritto lettere, ed ambasciate mandato, ma troppa era la rigida durezza de la donna che non sofferiva di far un buon viso a l’appassionato giovane. Il che a lui era tanto grave e molesto a poter comportare che per l’estremo dolore che ne pativa, dopo l’essersi infinite volte lamentato, deliberò da Verona partirsi e star fuori uno o dui anni e con varii viaggi per l’Italia macerar questo suo sfrenato appetito. Vinto poi dal fervente amore che le portava, biasimava se stesso che in cosí folle pensiero fosse caduto e a modo veruno partirsi non sapeva. Talora tra sé diceva: – Non sia giá vero che io costei piú ami, poi che chiaramente a mille effetti conosco la servitú mia non l’esser cara. A che seguirla ovunque va, se il vagheggiarla nulla mi giova? Egli mi conviene non andar né a chiesa né a luogo ov’ella si sia, ché forse, non la veggendo, questo mio fuoco che dai suoi begli occhi l’esca e l’alimento prende, si scemerá a poco a poco. – Ma che! tutti i suoi pensieri riuscivano vani, perciò che pareva, quanto piú ella ritrosa si mostrava e che ei meno di speranza aveva, che tanto piú l’amor verso lei crescesse e che quel dí che non la vedeva non potesse aver bene. E perseverando piú costante e fervente in questo amore, dubitarono alcuni amici suoi che egli non si consumasse, onde molte fiate amorevolmente l’ammonirono e pregarono che da tal impresa si distogliesse. Ma cosí poco le lor vere ammonizioni e salutiferi consegli curava, come la donna di cose che egli facesse teneva conto. Aveva tra gli altri Romeo un compagno al quale troppo altamente incresceva che quello senza speranza di conseguir guiderdone alcuno, dietro ad essa donna andasse perdendo il tempo de la sua giovinezza col fior degli anni suoi; onde tra molte altre volte una cosí gli parlò: – Romeo, a me che come fratello t’amo, troppo di noia dá il vederti a questo modo come neve al sole consumare; e poi che tu vedi con tutto ciò che fai e spendi, e senza onor e profitto spendi, che tu non puoi trar costei che ad amarti si pieghi, e che cosa che tu adopri non ti giova, anzi piú ritrosa la ritrovi, a che piú indarno affaticarti? Pazzia estrema è voler una cosa non difficile ma impossibile render facile a fare. Tu sei pur chiaro che ella né te né le cose tue cura. Forse ha ella alcuno amante a lei tanto grato e caro che per l’imperadore non l’abbandonarebbe. Tu sei giovane, forse il piú bello che in questa nostra cittá si truovi; tu sei, siami lecito sugli occhi dirti il vero, cortese, vertuoso, amabile e, che assai la gioventú adorna, di buone lettere ornato; poi unico al padre tuo figliuolo ti ritrovi, le cui grandi ricchezze a tutti sono notissime. E forse che egli verso te tien le mani strette o ti grida se tu spendi e doni come ti pare? Egli t’è un fattore che per te s’affatica e ti lascia far ciò che tu vuoi. Omai destati e riconosci l’errore ove tutto il dí vivi; leva dagli occhi tuoi il velo che gli acceca e non ti lascia veder il camino che déi caminare; deliberati por l’animo tuo altrove e di te far padrona donna che lo vaglia. Ti muova giusto sdegno, che molto piú può nei regni de l’amore che non può esso amore. Si cominciano a far de le feste e de le maschere per la terra: va a tutte le feste, e se per sorte vi vedrai quella che tanto tempo indarno hai servito, non guardar lei, ma mira ne lo specchio de l’amor che portato l’hai, e senza dubio troverai compenso a tanto male quanto soffri, perché giusto e ragionevol sdegno in te di tal maniera s’accenderá che affrenerá questo tuo poco regolato appetito e ti metterá in libertá. – Con molte altre ragioni ch’ora non dico essortò il fedel compagno il suo Romeo a distorsi da la mal cominciata impresa. Romeo ascoltò pazientemente quanto detto gli fu e si deliberò il savio conseglio metter in opra. Il perché cominciò andar su le feste, e dove vedeva la ritrosa donna, mai non volgeva la vista, ma andava mirando e considerando l’altre per scieglier quella che piú gli fosse a grado, come se fosse andato ad un mercato per comprar cavalli o panni. Avvenne in quei dí, come s’è detto, che Romeo mascherato andò su la festa del Capeletto, e ben che fossero poco amici, pur non s’offendevano. Quivi stato Romeo buona pezza con la maschera sul viso, quella si cavò ed in un canto se n’andò a sedere ove agiatamente vedeva quanti in sala erano, la quale allumata da molti torchi era chiara come se fosse stato di giorno. Ciascuno guardava Romeo e massimamente le donne, e tutti si meravigliavano ch’egli sí liberamente in quella casa dimorasse. Tuttavia perché Romeo oltra che era bellissimo era anco giovinetto molto costumato e gentile, era generalmente da tutti amato. I suoi nemici poi non gli ponevano cosí la mente come forse averebbero fatto s’egli fosse stato di maggior etate. Quivi era divenuto Romeo consideratore de le bellezze de le donne che erano su la festa, e questa e quella piú e meno secondo l’appetito commendava, e senza danzare s’andava in cotal maniera diportando, quando gli venne veduta una fuor di misura bellissima garzona che egli non conosceva. Questa infinitamente gli piacque e giudicò che la piú bella ed aggraziata giovane non aveva veduta giá mai. Pareva a Romeo quanto piú intentamente la mirava che tanto piú le bellezze di quella divenissero belle, e che le grazie piú grate si facessero, onde cominciò a vagheggiarla molto amorosamente, non sapendo da la di lei vista levarsi; e sentendo gioia inusitata in contemplarla, tra sé propose far ogni suo sforzo per acquistar la grazia e l’amor di quella. E cosí l’amore che a l’altra donna portava, vinto da questo nuovo, diede luogo a queste fiamme che mai piú dapoi se non per morte si spensero. Entrato Romeo in questo vago laberinto, non avendo ardire di spiare chi la giovane si fosse, attendeva de la vaga di lei vista a pascer gli occhi, e di quella tutti gli atti minutamente considerando, beveva il dolce amoroso veleno, ogni parte ed ogni gesto di quella meravigliosamente lodando. Egli, come giá dissi, era in un canto assiso, nel qual luogo quando si ballava tutti gli passavano per dinanzi. Giulietta, – ché cosí aveva nome la garzona che cotanto a Romeo piaceva, – era figliuola del padrone de la casa e de la festa. Non conoscendo anco ella Romeo, ma parendole pure il piú bello e leggiadro giovine che trovar si potesse, meravigliosamente de la vista s’appagava, e dolcemente e furtivamente talora cosí sotto occhio mirandolo, sentiva non so che dolcezza al core che tutta di gioioso ed estremo piacere l’ingombrava. Desiderava molto forte la giovane che Romeo si mettesse in ballo, a ciò che meglio veder si potesse e l’udisse parlare, parendole che altra tanta dolcezza devesse dal parlar di quello uscire quanta dagli occhi di lui le pareva, tuttavia che il mirava, senza fine gustare; ma egli tutto solo se ne sedeva né di ballar aver voglia dimostrava. Tutto il suo studio era in vagheggiar la bella giovanetta, e quella ad altro non metteva il pensiero che a mirar lui; e di tal maniera si guardavano che riscontrandosi talora gli occhi loro ed insieme mescolandosi i focosi raggi de la vista de l’uno e de l’altra, di leggero s’avvidero che amorosamente si miravano, perciò che ogni volta che le viste si scontravano, tutti dui empivano l’aria d’amorosi sospiri, e pareva che per alora altro non desiderassero che di poter, insieme parlando, il lor nuovo fuoco scoprire. Ora stando eglino in questo vagheggiamento, venne il fine de la festa del ballare e si cominciò a far la danza o sia il ballo del «torchio» che altri dicono il ballo del «cappello». Facendosi questo giuoco fu Romeo levato da una donna; il quale entrato in ballo fece il dover suo, e dato il torchio ad una donna, andò presso a Giulietta, ché cosí richiedeva l’ordine, e quella prese per mano con piacer inestimabile di tutte due le parti. Restava Giulietta in mezzo a Romeo e a uno chiamato Marcuccio il guercio, che era uomo di corte molto piacevole e generalmente molto ben visto per i suoi motti festevoli e per le piacevolezze ch’egli sapeva fare, perciò che sempre aveva alcuna novelluccia per le mani da far ridere la brigata e troppo volentieri senza danno di nessuno si sollazzava. Aveva poi sempre il verno e la state e da tutti i tempi le mani via piú fredde e piú gelate che un freddissimo ghiaccio alpino; e tutto che buona pezza scaldandole al fuoco se ne stesse, restavano perciò sempre freddissime. Giulietta che da la sinistra aveva Romeo e Marcuccio da la destra, come da l’amante si sentí pigliar per mano, forse vaga di sentirlo ragionare, con lieto viso alquanto verso lui rivoltata, con tremante voce gli disse: – Benedetta sia la venuta vostra a lato a me! – e cosí dicendo amorosamente gli strinse la mano. Il giovine che era avveduto e punto non teneva de lo scemo, dolcemente a lei stringendo la mano in questa maniera le rispose: – Madonna, e che benedizione è cotesta che mi date? – e guardandola con occhio gridante pietá, da la bocca di lei sospirando se ne stava pendente. Ella alora dolce ridendo rispose: – Non vi meravigliate, gentil giovine, che io benedica il vostro venir qui, perciò che messer Marcuccio giá buona pezza con il gelo de la sua fredda mano tutta m’agghiaccia, e voi, la vostra mercé, con la dilicata mano vostra mi scaldate. – A questo subito soggiunse Romeo: – Madonna, che io in qual si sia modo servigio vi faccia, m’è sommamente caro, ed altro al mondo non bramo che potervi servire, ed alora beato mi terrò quando degnarete di comandarmi come a vostro minimo servidore. Ben vi dico che se la mia mano vi scalda, che voi con il fuoco dei begli occhi vostri tutto m’ardete, assicurandovi che se aita non mi porgete a ciò possa tanto incendio sofferire, non passerá troppo che mi vederete tutto abbruciare e divenir cenere. – A pena puoté egli finir di dire l’ultime parole che il giuoco del «torchio» ebbe fine. Onde Giulietta che tutta d’amor ardeva, sospirando e stringendo la mano, non ebbe tempo di fargli altra risposta se non che disse: – Oimè, che posso io dirvi se non ch’io sono assai piú vostra che mia? – Romeo, partendosi ciascuno, aspettava per vedere ove la giovanetta s’inviasse; ma guari non stette che egli chiaramente conobbe che era figliuola del padrone de la casa, ed anco se ne certificò da un suo benvogliente dimandandogli di molte donne. Di questo si trovò forte di mala voglia, stimando cosa perigliosa e molto difficile a poter conseguir desiderato fine di questo suo amore. Ma giá la piaga era aperta e l’amoroso veleno molto a dentro entrato. Da l’altra banda Giulietta bramosa di saper chi fosse il giovine in preda di cui giá sentiva esser tutta, chiamata una sua vecchia che nodrita l’aveva, entrò in una camera, e fattasi a la finestra che per la strada da molti accesi torchi era fatta chiara, cominciò a domandarla chi fosse il tale che cosí fatto abito aveva e chi quello che la spada aveva in mano e chi quell’altro, ed anco le richiese chi fosse il bel giovine che la maschera teneva in mano. La buona vecchia che quasi tutti conosceva, le nominava questi e quelli, ed ottimamente conosciuto Romeo, le disse chi fosse. Al cognome del Montecchio rimase mezza stordita la giovane, disperando di poter ottener per sposo il suo Romeo per la nemichevol gara che era tra le due famiglie; nondimeno segno alcuno di mala contentezza non dimostrò. Andata poi a dormire, nulla o poco quella notte dormí, varii pensieri per la mente rivolgendo; ma distorsi d’amar il suo Romeo né poteva né voleva, sí fieramente di lui accesa si trovava. E combattendo in lei l’incredibil bellezza de l’amante, quanto piú difficile e perigliosa la cosa sua vedeva, tanto piú pareva che in lei, mancando la speranza, crescesse il disio. Cosí combattuta da dui contrarii pensieri, dei quali l’uno le dava animo di conseguir l’intento suo, l’altro del tutto ogni via le troncava, diceva bene spesso tra sé: – Ove mi lascio io da le mie mal regolate voglie trasportare? che so io, sciocca che sono, che Romeo m’ami? Forse lo scaltrito giovine quelle parole per ingannarmi m’ha dette, a ciò che ottenendo cosa da me meno che onesta, di me si gabbi e donna di volgo mi faccia, parendoli forse a questo modo far la vendetta de la nemistá che tutto il dí incrudelisce piú tra i suoi e i miei parenti. Ma tale non è la generositá de l’animo suo che sopportasse d’ingannar chi l’ama e adora. Non son le vaghe sue bellezze, se il viso dà indizio manifesto de l’animo, che sotto quelle sí ferrigno e spietato core alberghi; anzi mi giova credere che da cosí gentil e bel giovine altro non si possa aspettare che amore, gentilezza e cortesia. Ora poniamo che veramente, come mi fo a credere, m’ami e per sua legitima moglie mi voglia: non debb’io ragionevolmente pensare che mio padre nol consentirá giá mai? Ma chi sa che per mezzo di questo parentado non si possa sperare che segua tra queste due famiglie una perpetua concordia e ferma pace? Io ho pure piú volte udito dire che per gli sposalizii fatti, non solamente tra privati cittadini e gentiluomini si sono de le paci fatte, ma che molte volte tra grandissimi prencipi e regi tra i quali le crudelissime guerre regnavano, una vera pace ed amicizia con sodisfacimento di tutti è seguita. Io forse quella sarò che con questa occasione metterò tranquilla pace in queste due casate. – E in questo pensiero fermata, ogni volta che Romeo passar per la contrada poteva vedere, sempre tutta lieta se gli mostrava; del che egli piacer grandissimo riceveva. E ancor che non meno di lei coi suoi pensieri avesse continova guerra ed or sperasse ed or si disperasse, tuttavia perciò passava dinanzi a la casa de l’amata giovane cosí di giorno come di notte con grandissimo periglio. Ma le buone viste che gli faceva Giulietta, di piú in piú infiammandolo, lo tiravano a quelle contrade. Aveva la camera di Giulietta le finestre suso una vietta assai stretta cui di rimpetto era un casale; e passando Romeo per la strada grande, quando arrivava al capo de la vietta, vedeva assai sovente la giovane a la finestra, e quantunque volte la vedeva, ella gli faceva buon viso e mostrava vederlo piú che volentieri. Andava spesso di notte Romeo ed in quella vietta si fermava, sí perché quel camino non era frequentato ed altresí perché stando per iscontro a la finestra sentiva pur talora la sua innamorata parlare. Avvenne che essendo egli una notte in quel luogo, o che Giulietta il sentisse o qual se ne fosse la cagione, ella aprí la finestra. Romeo si ritirò dentro il casale, ma non sí tosto ch’ella nol conoscesse, perciò che la luna col suo splendore chiara la vietta rendeva. Ella che sola in camera si trovava, soavemente l’appellò e disse: – Romeo, che fate voi qui a quest’ore cosí solo? Se voi ci foste còlto, misero voi, che sarebbe de la vita vostra? Non sapete voi la crudel nemistá che regna tra i vostri e i nostri e quanti giá morti ne sono? Certamente voi sareste crudelmente ucciso, del che a voi danno e a me poco onore ne seguirebbe. – Signora mia, – rispose Romeo, – l’amor ch’io vi porto è cagione ch’io a quest’ora qui venga; e non dubito punto che se dai vostri fossi trovato, ch’essi non cercassero d’ammazzarmi. Ma io mi sforzarei per quanto le mie deboli forze vagliano, di far il debito mio, e quando pure da soverchie forze mi vedessi avanzare, m’ingegnerei non morir solo. E devendo io ad ogni modo morire in questa amorosa impresa, qual piú fortunata morte mi può avvenire che a voi vicino restar morto? Che io mai debbia esser cagione di macchiar in minimissima parte l’onor vostro, questo non credo che avverrá giá mai, perché io per conservarlo chiaro e famoso com’è mi ci affaticherei col sangue proprio. Ma se in voi tanto potesse l’amor di me come in me di voi può il vostro, e tanto vi calesse de la vita mia quanto a me de la vostra cale, voi levareste via tutte queste occasioni e fareste di modo che io viverei il piú contento uomo che oggidí sia. – E che vorreste voi che io facessi? – disse Giulietta. – Vorrei, – rispose Romeo, – che voi amassi me com’io amo voi e che mi lasciaste venir ne la camera vostra, a ciò che piú agiatamente e con minor pericolo io potessi manifestarvi la grandezza de l’amor mio e le pene acerbissime che di continovo per voi soffro. – A questo Giulietta alquanto d’ira accesa e turbata gli disse: – Romeo, voi sapete l’amor vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa persona amare, e forse piú di quello che a l’onor mio si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me godere oltra il convenevole nodo del matrimonio, voi vivete in grandissimo errore e meco punto non sarete d’accordio. E perché conosco che praticando voi troppo sovente per questa vicinanza potreste di leggero incappare negli spiriti maligni ed io non sarei piú lieta giá mai, conchiudo che se voi desiderate esser cosí mio come io eternamente bramo esser vostra, che debbiate per moglie vostra legitima sposarmi. Se mi sposarete, io sempre sarò presta a venir in ogni parte ove piú a grado vi fia. Avendo altra fantasia in capo, attendete a far i fatti vostri e me lasciate nel grado mio vivere in pace. – Romeo che altro non bramava, udendo queste parole, lietamente le rispose che questo era tutto il suo disio e che ogni volta che le piacesse la sposeria in quel modo che ella ordinasse. – Ora sta bene, – soggiunse Giulietta. – Ma perché le cose nostre ordinatamente si facciano, io vorrei che il nostro sponsalizio a la presenza del reverendo frate Lorenzo da Reggio, mio padre spirituale, si facesse. – A questo s’accordarono, e si conchiuse che Romeo con lui il seguente giorno del fatto parlasse, essendo egli molto di quello domestico. Era questo messer lo frate, de l’ordine dei minori, maestro in teologia, gran filosofo ed esperto in molte cose e distillator mirabile e pratico de l’arte magica. E perché voleva il buon frate mantenersi in buona openione del volgo ed anco goder di quei diletti che gli capevano ne la mente, si sforzava far i fatti suoi piú cautamente che poteva, e per ogni caso che potesse occorrere, cercava sempre appoggiarsi ad alcuna persona nobile e di riputazione. Aveva tra gli altri amici che in Verona il favorivano, il padre di Romeo, ch’era gentiluomo di gran credito ed in buona stima appo tutti, il quale portava ferma openione esso frate esser santissimo. Romeo medesimamente molto l’amava ed era dal frate sommamente amato, conoscendolo giovine prudente ed animoso. Né solamente praticava in casa dei Montecchi, ma anco con i Capelletti teneva stretta domestichezza, ed in confessione udiva la piú parte de la nobiltá de la cittá cosí d’uomini come di donne. Preso adunque Romeo congedo con l’ordine detto, da Giulietta si partí e andò a casa; e venuto il giorno, si trasferí a San Francesco e a messer lo frate narrò tutto il successo del suo amore e la conchiusione fatta con Giulietta. Fra Lorenzo udito questo, promise far tutto ciò che Romeo voleva, sí perché a quello non poteva cosa veruna negare ed altresí ché con questo mezzo si persuadeva poter pacificare insieme i Capelletti e i Montecchi ed acquistarsi di piú in piú la grazia del signor Bartolomeo, che infinitamente desiderava che queste due casate facessero pace per levar tutti i tumulti de la sua cittá. Aspettavano i dui amanti l’occasione del confessarsi per dar effetto a quanto avevano ordinato. Venne il tempo de la quadragesima, e per piú sicurezza dei casi suoi Giulietta si deliberò fidarsi d’una sua vecchia che seco in camera dormiva, e pigliata l’oportunitá, tutta l’istoria del suo amore a la buona vecchia scoperse. E quantunque la vecchia assai la sgridasse e dissuadesse da cotal impresa, nondimeno nessuno profitto facendo, condescese al voler di Giulietta, la quale tanto seppe dire che indusse quella a portar una lettera a Romeo. L’amante veduto quanto gli era scritto, si ritrovò il piú lieto uomo del mondo, perciò che quella gli scriveva che a le cinque ore de la notte egli venisse a parlar a la finestra per iscontro il casale e portasse seco una scala di corda. Aveva Romeo un suo fidatissimo servidore del quale in cose di molta importanza piú volte s’era fidato e trovatolo sempre presto e leale. A costui, dettoli ciò che far intendeva, diede la cura di trovar la scala di corda, e messo ordine al tutto, a l’ora determinata se n’andò con Pietro, – ché cosí il servidore aveva nome, – al luogo ove trovò Giulietta che l’aspettava. La quale come il conobbe, mandò giú lo spago che apprestato aveva e su tirò la scala a quello attaccata, e con l’aita de la vecchia che seco era, la scala a la ferrata fermamente accomandata, attendeva la salita de l’amante. Egli su arditamente salí e Pietro dentro al casale si ricoverò. Salito Romeo su la finestra che la ferrata aveva molto spessa e forte di modo ch’una mano difficilmente passar vi poteva, si mise a parlar con Giulietta. E date e ricevute l’amorose salutazioni, cosí Giulietta al suo amante disse: – Signor mio, a me vie piú caro che la luce degli occhi miei, io vi ci ho fatto venire perciò che con mia madre ho posto ordine andarmi a confessare venerdí prossimo che viene, ne l’ora de la predicazione. Avvisatene fra Lorenzo, ché proveda del tutto. – Romeo disse che giá il frate era avvertito e disposto di far quanto essi volevano. E ragionato buona pezza tra loro dei loro amori, quando tempo li parve, Romeo discese giú, e distaccata la fune de la corda e quella presa, con Pietro si partí. Rimase Giulietta molto allegra, parendole un’ora mill’anni che il suo Romeo sposasse. Da l’altra banda Romeo, col suo servidore ragionando, era tanto lieto che non capeva ne la pelle. Venuto il venerdí, come dato era l’ordine, madonna Giovanna che era madre di Giulietta, presa la figliuola e le sue donne, andò a San Francesco che alora era in Cittadella, ed entrata in chiesa fece domandar fra Lorenzo. Egli che del tutto avvertito era e giá aveva ne la cella del suo confessionario fatto entrar Romeo e chiavatolo dentro, venne a la donna, la quale gli disse: – Padre mio, io son venuta a buon’ora a confessarmi e cosí anco ho condotto Giulietta, perché so che voi sarete tutto il dí occupatissimo per le molte confessioni dei vostri figliuoli spirituali. – Disse il frate che in nome di Dio fosse, e data loro la benedizione andò dentro il convento ed entrò nel confessionario ove Romeo era. Da l’altra parte Giulietta prima fu che si presentò innanzi a messer lo frate. Quivi entrata e chiusa la porta diede al frate il segno che era dentro. Egli levata via la graticola, dopo i convenevoli saluti disse a Giulietta: – Figliuola mia, per quello che mi riferisce Romeo, tu seco accordata ti sei di prenderlo per marito ed egli è disposto prender te per moglie. Sète voi ora di questa disposizione? – Risposero gli amanti che altro non desideravano. Messer lo frate udita la volontá d’ambidue, poi che alcune cose ebbe detto in commendazione del santo matrimonio, dette quelle parole che si costumano secondo l’ordine de la Chiesa dir nei sposalizii, Romeo diede l’anello a la sua cara Giulietta con grandissimo piacere di tutti dui. Preso poi seco ordine d’andar la seguente notte a trovarla e per il buco de la finestrella basciatisci, se n’uscí cautamente Romeo de la cella e del convento e lieto andò a far i fatti suoi. Il frate rimissa la graticola a la finestra e quella in modo acconciata che nessuno accorger si potesse che fosse stata rimossa, udí la confessione de la contenta giovane e poi de la madre e de l’altre donne. Venuta poi la notte, a l’ora statuita, Romeo con Pietro se n’andò a certo muro d’un giardino, ed aiutato dal servidore salí il muro e nel giardino discese, ove trovò la moglie che insieme con la vecchia l’attendeva. Come egli vide Giulietta, incontra l’andò con le braccia aperte. Il medesimo fece Giulietta a lui, ed avvinchiatogli il collo stette buona pezza da soverchia dolcezza ingombrata che nulla dir poteva. Era al medesimo segno l’infiammato amante, parendogli simil piacere non aver gustato giá mai. Cominciarono poi a basciarsi l’un l’altro con infinito diletto ed indicibil gioia di tutte due le parti. Ritiratisi poi in uno dei canti del giardino, quivi sovra certa banca che ci era, amorosamente insieme giacendo consumarono il santo matrimonio. Ed essendo Romeo giovine di forte nerbo e molto innamorato, piú e piú volte a diletto con la sua bella sposa si ridusse. Poi messo ordine di trovarsi de l’altre volte insieme ed in questo mezzo far praticar messer Antonio per far la pace ed il parentado, Romeo basciata mille e mille fiate la moglie, se n’uscí del giardino seco stesso pieno di gioia dicendo: – Qual uomo oggidí al mondo si truova che di me piú felice viva? qual sará che meco in amor s’agguagli? qual sí bella e sí leggiadra giovanetta come io ho, ebbe giá mai? – Né meno fra se medesima Giulietta si prezzava e si teneva beata, parendole pure che impossibil fosse che si potesse trovar un giovine che di bellezza, di belle maniere, di cortesia, di gentilezza e di mill’altre care e belle doti al suo Romeo fosse uguale. Aspettava adunque con il maggior desiderio del mondo che le cose in modo si adattassero che senza sospetto ella potesse Romeo godere. Cosí avvenne che alcuni dí gli sposi insieme si ritrovarono ed alcuni no. Fra Lorenzo tuttavia praticava quanto poteva la pace tra’ Montecchi ed i Capelletti, ed aveva ridotto le cose ad assai buon termine, di tal maniera che sperava conchiuder il parentado degli amanti con buona sodisfazione di tutte due le parti. Erano le feste de la pasqua de la resurrezione, quando avvenne che su il Corso vicino a la porta dei Borsari verso Castelvecchio molti di quelli dei Capelletti incontrarono alcuni dei Montecchi e con l’arme fieramente gli assalirono. Era tra i Capelletti Tebaldo primo cugino di Giulietta, giovine molto prode de la persona, il quale essortava i suoi a menar le mani animosamente contra i Montecchi e non risguardar in viso a persona. Cresceva la mischia, e tuttavia a l’una ed a l’altra parte venendo aita di gente e d’arme, erano gli azzuffati in modo accesi che senza risguardo veruno si davano di molte ferite. Or ecco che a caso vi sovragiunse Romeo, il quale oltra i servidori suoi aveva anco seco alcuni giovini suoi compagni, ed andavano per la cittá a diporto. Egli veduti i suoi parenti esser a le mani con i Capelletti, si turbò forte, perciò che sapendo la pratica che era de la pace che maneggiava messer lo frate, non averebbe voluto che questione si fosse fatta. E per acquetar il romore, ai suoi compagni e servidori altamente disse, e fu da molti ne la contrada sentito: – Fratelli, entriamo in mezzo a costoro e vediamo per ogni modo che la zuffa non vada piú innanzi, ma sforziamoci a fargli por giú l’arme. – E cosí cominciò egli a ributtar i suoi e gli altri, ed essendo dai compagni seguitato, animosamente s’approvò con fatti e con parole far di modo che la zuffa non procedesse piú avanti. Ma nulla puoté operare, perciò che il furore da l’una e l’altra parte era tanto cresciuto, che ad altro non attendevano che a menar le mani. Giá erano per terra dui o tre per banda caduti, quando indarno affaticandosi Romeo per far a dietro ritirar i suoi, venne Tebaldo per traverso e diede una gagliarda stoccata a Romeo in un fianco. Ma perché egli aveva la corazzina de la maglia non fu ferito, ché lo stocco non puoté passar la corazza. Onde rivoltato verso Tebaldo, con parole amichevoli gli disse: – Tebaldo, tu sei grandemente errato se tu credi che io qui sia venuto per far questione né teco né con i tuoi. Io a caso mi ci sono abbattuto, e venni per levarne via i miei, bramando che oramai viviamo insieme da buoni cittadini. E cosí t’essorto e prego che tu faccia con i tuoi, a ciò che piú scandalo veruno non segua, ché pur troppo sangue s’è sparso. – Queste parole furono quasi da tutti udite; ma Tebaldo, o non intendesse ciò che Romeo diceva o facesse vista di non intenderlo, rispose: – Ah traditore, tu sei morto! – e con furia a dosso se gli avventò per ferirlo su la testa. Romeo che aveva le maniche de la maglia che sempre portava, ed al braccio sinistro avvolta la cappa, se la pose sovra il capo, e rivoltata la punta de la spada verso il nemico quello dirittamente ferí ne la gola e gliela passò di banda in banda, di modo che Tebaldo subito si lasciò cascar boccone in terra morto. Il romore si levò grandissimo, ed arrivando la corte del podestá, dei combattenti chi andò in qua chi in lá. Romeo fuor di misura dolente che Tebaldo avesse morto, accompagnato da molti dei suoi se n’andò a San Francesco a ricoverarsi ne la camera di fra Lorenzo. Il buon frate udendo il caso intervenuto de la morte del giovine Tebaldo, restò molto disperato, stimando che ordine piú non ci fosse di levar la nemicizia tra le due famiglie. I Capelletti uniti insieme andarono a querelarsi al signor Bartolomeo. Da l’altra parte il padre de l’ascoso Romeo con i primi dei Montecchi provarono che andando Romeo per la cittá a diporto con i suoi compagni, che a caso abbattendosi ove i Montecchi erano stati assaliti dai Capelletti, entrò ne la zuffa per levar via i romori ed acquetar la questione; ma che ferito di traverso da Tebaldo, lo pregò che volesse far ritirar i suoi e depor l’armi, e che Tebaldo ritornò a ferirlo, ed il caso com’era successo. E cosí l’un l’altro accusando e tutti scusandosi, innanzi al signor Bartolomeo fieramente tenzionavano. Tuttavia essendo assai manifesto i Capelletti esser stati gli assalitori, e provatosi per molti testimonii degni di fede ciò che Romeo prima ai suoi compagni detto aveva e le parole verso Tebaldo usate, il signor Bartolomeo fatto depor a tutti l’arme, fece bandir Romeo. Era ne la casa dei Capelletti un grandissimo pianto per la morte del loro Tebaldo. Giulietta allargate le vene al lagrimare, a quello punto non metteva sosta, ma dirottamente piangendo, non la morte del cugino piangeva, ma de la perduta speranza del parentado oltra modo s’attristava e miseramente s’affligeva, non sapendo a che fine la cosa riuscisse imaginarsi. Avendo poi per via di fra Lorenzo inteso ove Romeo si trovava, gli scrisse una lettera tutta piena di lagrime e per mano de la vecchia al frate la mandò. Sapeva ella Romeo esser bandito e che forza era che da Verona si partisse, onde affettuosissimamente lo pregava che le volesse dar il modo di partirsi seco. Romeo le scrisse che si desse pace, ché col tempo al tutto provederia, e che ancor non era risoluto ove ricoverar si devesse; ma che piú vicino che fosse possibile anderia a stare, e che innanzi che partisse farebbe ogni sforzo di ritrovarsi con lei a parlamento ove piú comodo a quella fosse. Elesse ella per men periglioso luogo il giardino ove le nozze del suo matrimonio giá fatte aveva; e determinata la precisa notte ch’insieme esser devevano, Romeo, prese le sue arme, del convento con aita di fra Lorenzo uscí ed accompagnato dal suo fidatissimo Pietro, a la moglie si condusse. Entrato nel giardino fu da Giulietta con infinite lagrime raccolto. Stettero buona pezza tutti dui senza poter formar parola, bevendo, insiememente basciandosi, l’un de l’altro le stillanti lagrime che in abbondanza grandissima distillavano. Poi condolendosi che sí tosto divider si devessero, altro non sapevano fare che lagrimare e lamentarsi de la contraria fortuna ai lor amori, ed abbracciandosi e basciandosi insieme, piú volte amorosamente insieme presero piacere. Appropinquandosi poi l’ora del partire, Giulietta, con quelle preghiere che puoté le maggiori, supplicò il marito che seco condur la volesse. – Io, – diceva ella, – caro il mio signore, mi raccorcerò la lunga chioma e vestirommi da ragazzo, ed ovunque piú vi piacerá andare, sempre ne verrò vosco ed amorevolmente vi servirò. E qual piú fidato servidore di me potreste voi avere? Deh, caro il mio marito, fatemi questa grazia e lasciatemi correr una medesima fortuna con voi, a ciò che quello che sará di voi sia di me. – Romeo quanto piú poteva con dolcissime parole la confortava e si sforzava consolarla, assicurandola che portava ferma openione che in breve il suo bando saria rivocato, perciò che di giá il principe n’aveva data alcuna speranza a suo padre; e che quando condurla seco volesse, non in abito di paggio la menarebbe, ma come sua moglie e signora vorrebbe che onoratamente e da sua pari accompagnata andasse. L’affermava poi che il bando piú d’un anno non dureria, perché se in questo mezzo la pace tra i parenti loro non si faceva amicabilmente, che il signore vi metteria poi la mano ed a mal grado di chi non volesse gli faria pacificare. Avvenisse poi ciò che si volesse, che veggendo le cose andar in lungo, egli prenderia altro partito, essendogli impossibile che senza lei lungo tempo vivesse. Diedero poi ordine di darsi nuova con lettere. Molte cose disse Romeo a sua moglie per lasciarla consolata, ma la sconsolata giovane altro non faceva che piangere. A la fine cominciando l’aurora a voler uscire, si basciarono e strettamente abbracciarono gli amanti, e pieni di lagrime e sospiri si dissero a Dio. Romeo a San Francesco se ne tornò e Giulietta in camera. Indi poi a dui o tre giorni, avendo giá Romeo disposto il modo che voleva tenere a partirsi, celatamente in abito di mercadante straniero, di Verona uscito, trovò buona e fidata compagnia a l’ordine ed a Mantova sicuramente si condusse. Quivi, presa una casa, non gli lasciando suo padre mancar danari, onoratamente e ben accompagnato se ne stava. Giulietta tutto il dí altro non faceva che piangere e sospirare, e poco mangiava e meno dormiva, menando le notti uguali ai giorni. La madre veggendo il pianger de la figliuola, piú e piú volte le dimandò la cagione di quella sua mala contentezza e che cosa si sentisse, dicendole che oggimai era tempo di por fine a tante lagrime e che pur troppo la morte del suo cugino pianto aveva. Giulietta rispondeva non saper che cosa s’avesse. Tuttavia come da la compagnia involar si poteva, si dava in preda al dolore ed a le lagrime. Il che fu cagione che ella ne divenne magra e tutta malinconica, di modo che piú quella bella Giulietta che prima era, quasi non assembrava. Romeo con lettere la teneva visitata e confortata, dandole sempre speranza che in breve sarebbero insieme. La pregava anco caldamente a star allegra e trastullarsi e non si prender tanta malinconia, ché al tutto si prenderebbe il miglior modo che si potesse. Ma il tutto era indarno, perciò che ella non poteva senza Romeo pigliar a le sue pene rimedio alcuno. Pensò sua madre che la tristezza de la giovane fosse che, per esser state maritate alcune compagne di quella, ella altresí volesse marito. Cadutole questo pensiero in capo, lo comunicò al marito e gli disse: – Marito mio, questa nostra figliuola mena una tristissima vita, ed altro mai non fa che pianger e sospirare, e quanto piú può fugge la conversazione di ciascuno. Io piú volte l’ho dimandata la cagione di questa sua mala contentezza ed ho spiato da ogni banda per venirne in cognizione, e nulla ho potuto intender giá mai. Ella mi risponde sempre d’un tenore, che non sa che cosa s’abbia; e tutti quei di casa si stringono ne le spalle né sanno che se ne dire. Certo è che alcuna gran passione la tormenta, poi che cosí sensibilmente ella va come cera al fuoco consumandosi. E poi che mille cose tra me m’ho imaginate, una sola m’è venuta a la mente, per la quale io dubito forte che avendo vedute tutte le sue compagne esser il carneval passato divenute spose e che di lei non si parli di darle marito, che quindi nasca questa sua tristezza. Ella a questa santa Eufemia che viene compirá i suoi diciotto anni; onde m’è paruto, marito mio, dirtene un motto, parendomi ch’oramai sia tempo che tu debbia procacciarle un buono ed onorato partito e non tenerla piú senza marito, perché cotesta non è mercadanzia da tener per casa. – Udito messer Antonio quanto la moglie detto gli aveva e non gli parendo fuor di proposito, cosí le rispose: – Moglie, poi che tu non hai potuto cavar altro de la malinconia de la nostra figliuola, e ti pare che se le debbi dar marito, io farò quelle pratiche che piú al proposito mi parranno per trovarle marito condecente al grado de la casa nostra. Ma vedi tu fra questo mezzo spiare se ella talora fosse innamorata e da lei intender che marito piú gli piaceria. – Madonna Giovanna disse di far tutto ciò che saperia, e non mancò di nuovo d’investigare e da la figliuola e dagli altri di casa quanto seppe e puoté; ma nulla mai intese. In questo tempo fu messo per le mani a messer Antonio il conte Paris di Lodrone, giovine di ventiquattro in venticinque anni, molto bello e ricco. E praticandosi questo buon partito con non poca speranza di buon fine, Messer Antonio lo disse a la moglie, ed ella parendole cosa buona e molto onorata, lo disse a la figliuola, del che Giulietta se ne mostrò fuor di modo dolente e trista. Madonna Giovanna ciò veggendo, si trovò pur troppo di mala voglia, non potendo indovinare di questo la cagione. E poi che molti ragionamenti ebbe con Giulietta fatti, le disse: – Adunque, figliuola mia, a quello che io sento tu non vuoi marito. – Io non vo’ altrimenti maritarmi, – rispose ella a la madre, soggiungendo che se punto l’amava e di lei le caleva, che non le favellasse di marito. La madre udendo la risposta de la figliuola, a quella disse: – Che vuoi tu adunque essere se non vuoi marito? vuoi tu farti pinzochera o diventar monaca? Dimmi l’animo tuo. – Giulietta alora le rispose che non voleva esser pinzochera né monaca e che non sapeva ciò che si volesse, se non morire. Restò la madre a queste risposte piena d’ammirazione e dispiacere e non sapeva che dirsi e meno che farsi. Tutti quei di casa altro non sapevano che dire se non che Giulietta dopo la morte del cugino sempre era stata di malissima voglia e che non cessava mai di piangere, né dopoi a le finestre era stata veduta. Riferí ogni cosa madonna Giovanna a messer Antonio. Egli chiamata a sé la figliola, dopo alcuni ragionamenti le disse: – Figliuola mia, veggendoti oggimai d’etá da marito, t’ho ritrovato uno sposo molto nobile, ricco e bello, il quale è signor e conte di Lodrone. Perciò disponti a prenderlo e far quanto io voglio, ché simili onorevoli partiti si trovano di rado. – A questo Giulietta con maggior animo che ad una fanciulla non conveniva, liberamente rispose che ella non voleva maritarsi. Il padre si turbò forte e salito in còlera fu vicino a batterla. Ben la minacciò rigidamente con agre parole, ed a la fine le conchiuse che volesse o no, fra tre o quattro giorni ella deliberasse andar con la madre ed altre parenti a Villafranca, perciò che quivi deveva venir il conte Paris con sua compagnia a vederla, e che a questo non facesse né replica né resistenza se non voleva che le rompesse il capo e la facesse la piú trista figliuola che mai fosse nata. Qual fosse l’animo di Giulietta, quali i pensieri, pensilo chi mai provò le fiamme amorose. Ella restò sí stordita che proprio pareva tócca da la saetta del folgorante tuono. In sé poi rivenuta avvisò del tutto Romeo per via di fra Lorenzo. Romeo le riscrisse che facesse buon animo, perché verria in breve a levarla de la casa del padre e condurla a Mantova. Or fu pur forza che andasse a Villafranca, ove il padre aveva un bellissimo podere. Ella v’andò con quel piacere che vanno i condannati a la morte su le forche ad esser impiccati per la gola. Era quivi il conte Paris, il quale ne la chiesa a messa la vide, e ben che fosse magra, pallida e malinconica, gli piacque, e venne a Verona ove con messer Antonio conchiuse il matrimonio. Ritornò anco Giulietta a Verona, a cui il padre disse come il matrimonio del conte Paris e di lei era conchiuso, essortandola a star di buona voglia e rallegrarsi. Ella fatto forte animo, ritenne le lagrime de le quali gli occhi aveva colmi e niente al padre rispose. Certificata poi che le nozze s’apprestavano per mezzo settembre venente e non sapendo trovar compenso in cosí forzato bisogno ai casi suoi, deliberò andar ella stessa a parlar con fra Lorenzo e seco consegliarsi del modo che tener deveva a liberarsi dal giá promesso matrimonio. Era vicina la festa de la gloriosa assunzione de la sempre beatissima Vergine madre del nostro Redentore; onde Giulietta, presa questa occasione, trovata sua madre, cosí le disse: – Madre mia cara, io non so né posso imaginarmi onde sia nasciuta questa mia fiera malinconia che tanto m’affligge, perché dapoi che Tebaldo fu morto mai non ho potuto rallegrarmi, e par che di continovo io vada di mal in peggio né truovi cosa che mi giovi. E perciò ho pensato a questa benedetta e santa festa de l’assunzione de la nostra avvocata Vergine Maria confessarmi, ché forse con questo mezzo io riceverò alcun compenso a le mie tribulazioni. Che ne dite voi, madre mia dolce? parvi egli ch’io faccia quanto m’è caduto in mente? Se altra via vi pare che prendersi debbia, insegnatemela, ché io per me non so dove mi dia del capo. – Madonna Giovanna che era buona donna e molto religiosa, ebbe caro intender l’intenzion de la figliuola e l’essortò a seguir il suo proposito, commendandole molto cotal pensiero. E cosí di brigata se n’andarono a San Francesco e fecero chiamar fra Lorenzo, al quale venuto e nel confessionario entrato, Giulietta da l’altra banda se n’andava a porsi dinanzi e in questo modo gli disse: – Padre mio, non è persona al mondo che meglio di voi sappia quello che tra mio marito e me è passato, e perciò non fa mestieri che io altrimenti ve lo ridica. Devete anco ricordarvi d’aver letta la lettera che io vi mandai che leggessi e poi la mandassi al mio Romeo, ove scriveva come mio padre m’aveva promessa per moglie al conte Paris di Lodrone. Romeo mi riscrisse che verrá e che fará, ma Dio sa quando. Ora il fatto sta che tra loro hanno conchiuso, questo mese di settembre che viene, che le nozze si facciano ed io sia condotta a l’ordine. E perché il tempo s’appressa ed io non veggio via da svilupparmi da questo Lodrone, che ladrone ed assassino mi pare, volendo le cose altrui rubare, son qui venuta per conseglio ed aita. Io non vorrei con questo «verrò e ben farò» che Romeo mi scrive restar avviluppata, perciò che io son moglie di Romeo e consumato ho il matrimonio, né d’altri che di lui esser posso, ed ancora che io potessi non voglio, perché di lui solo eternamente esser intendo. Mi bisogna mò l’aita vostra ed il conseglio. Ma udite quanto in mente m’è caduto di voler fare. Io vorrei, padre mio, che voi mi facessi ritrovar calze, giuppone ed il resto de le vestimenta da ragazzo, a ciò che vestita ch’io ne sia, possa la sera sul tardi o il matino a buonissim’ora uscirmene di Verona che persona non mi conoscerá, e me n’anderò di lungo a Mantova e mi ricovererò in casa del mio Romeo. – Messer lo frate udendo questa favola non troppo maestrevolmente ordita e punto non piacendogli, disse: – Figliuola mia, il tuo pensiero non è da mettersi ad essecuzione, perciò che a troppo gran rischio tu ti porresti. Tu sei troppo giovanetta, delicatamente nodrita, e non potresti sofferire la fatica del viaggio, ché usa non sei a caminar a piede. Poi tu non sai il camino e andresti errando or qua or lá. Tuo padre subito che non ti trovasse in casa, manderia a tutte le porte de la cittá e per tutte le strade del contado, e senza dubio di leggero le spie ti troverebbero. Ora essendo rimenata a casa, tuo padre vorrebbe da te intender la cagione del tuo partire cosí vestita da uomo. Io non so come potresti sopportar le minaccie che ti fariano e forse le battiture che ti sarebbero dai tuoi date per intender la veritá del fatto, e dove facevi il tutto per andar a veder Romeo, perderesti la speranza di rivederlo piú mai. – A le verisimili parole del frate acquetandosi, Giulietta gli replicò: – Poi che l’avviso mio, padre, non vi par buono ed io vi credo, consegliatemi adunque voi ed insegnatemi snodar questo mio intricato nodo, ov’io, misera me, ora avviluppata mi trovo, a ciò che quanto possibil fia con minor travaglio, col mio Romeo possa trovarmi, con ciò sia cosa che senza lui è impossibil ch’io viva. E se in altro modo darmi aita non potete, aiutatemi almeno che non devendo essere di Romeo, io non sia di nessun altro. Romeo m’ha detto che voi sète gran distillatore d’erbe e d’altre cose, e che distillate un’acqua che in due ore senza far dolore alcuno a la persona ammazza l’uomo. Datemene tanta quantitá che basti a liberarmi da le mani di questo ladrone, poi che altramente a Romeo render non mi potete. Egli amandomi come so che m’ama, si contenterá ch’io piú tosto mora che a le mani d’altri viva pervenga. Me poi liberarete da una grandissima vergogna e tutta la casa mia, perciò che se altra via non ci sará a levarmi fuor di questo tempestoso mare ove ora in sdruscito legno senza governo mi ritrovo, io vi prometto la fede mia e quella vi attenderò, che una notte con un tagliente coltello contra me stessa incrudelirò e mi segherò le vene de la gola, ché prima morir deliberata sono che di non mantener la fede coniugale a Romeo. – Era il frate un grandissimo esperimentatore che ai suoi dí aveva cercati assai paesi ed erasi dilettato di provare e saper cose diverse, e sopra il tutto conosceva la vertú de l’erbe e de le pietre, ed era uno dei gran distillatori che a quei tempi si trovassero. E tra l’altre sue cose egli componeva alcuni sonniferi semplici insieme, ed una pasta ne faceva, che poi riduceva in minutissima polvere che era di meravigliosa vertú. Ella poi che era con un poco d’acqua bevuta, in uno o dui quarti d’ora di modo faceva dormire chi bevuta l’avesse, e sí gli stordiva gli spiriti e di maniera l’acconciava che non c’era medico per eccellentissimo che fosse e ben pratico che non giudicasse colui esser morto. Teneva poi in cosí dolce morte il bevitore circa quaranta ore almeno e talora piú, secondo la quantitá che si beveva e secondo il temperamento degli umori del corpo di chi la beveva. Fatta che aveva la polvere la sua operazione, svegliavasi l’uomo o donna né piú né meno come se lungo sonno dolcemente avesse dormito, né altro disturbo o male faceva. Ora avendo messer lo frate intesa chiaramente la deliberata disposizione de la sconsolata giovane, a pietá di lei commosso, a gran pena puoté ritener le lagrime, onde con pietosa voce le disse: – Vedi, figliuola mia, egli non bisogna parlar di morire, perché io t’assicuro che se una volta morrai, che di qua non tornerai piú se non il giorno de l’universal giudizio, quando insieme con tutti i morti saremo suscitati. Io vo’ che tu pensi a vivere fin che a Dio piacerá. Egli ci ha data la vita, egli la ci conserva: egli quando gli piace a sé la ritoglia. Sí che caccia da te questo melanconico pensiero. Tu sei giovane e adesso ti deve giovar di vivere e di goder il tuo Romeo. Noi trovaremo rimedio a tutto, non dubitare. Come tu vedi, io sono in questa magnifica cittá generalmente appo tutti in grandissimo credito e buona riputazione. Se si sapesse ch’io fossi stato consapevole del tuo matrimonio, e danno e vergogna infinita ne riporterei. Ma che saria se io ti dessi veleno? Io non n’ho, e quando ben n’avessi non te ne darei, sí perché l’offesa di Dio sarebbe mortalissima e sí anco ché io in tutto perderei il credito. Tu puoi ben intendere che per l’ordinario poche cose d’importanza si fanno che io con la mia autoritá non ci intravenga; e non sono ancor quindeci giorni che il signor de la cittá m’adoperò in un maneggio di grandissimo momento. Perciò, figliuola, io volentieri per te e per Romeo m’affaticherò, e a tuo scampo farò di modo che resterai di Romeo e non di questo Lodrone, né ti converrá morire. Ma bisogna far di modo che la cosa non si risappia giá mai. A te mò conviene esser sicura ed animosa, che ti deliberi di far quanto t’ordinerò, che sará senza farti un minimo nocumento in alcun conto che si sia; ed odi in che modo. – Quivi il frate puntalmente a la giovane manifestò la sua polvere e le disse la vertú che aveva e che piú volte l’aveva esperimentata e sempre trovatala perfetta. – Figliuola mia, – diceva messer lo frate, – questa mia polvere è tanto preziosa e di sí gran valore che senza nocumento ti fará dormire quanto t’ho detto, ed in quel mezzo che tu quietissimamente riposerai, se Galeno, Ippocrate, Messue, Avicenna e tutta la scola dei piú eccellenti medici che sono o furono giá mai, ti vedessero e ti toccassero il polso, tutti ad una voce morta ti giudicheriano. E come tu l’averai digerita, da quell’artificiato dormire cosí sana e bella ti desterai come suoli quando il mattino fuor del tuo letto ti levi. Sí che bevendo quest’acqua lá ne l’apparir de l’alba, poco dopoi ti addormenterai, e a l’ora del levare veggendo i tuoi che tu dormi, ti vorranno svegliare e non potranno. Tu resterai senza polso e fredda come ghiaccio. Chiameransi i medici e i parenti, e insomma tutti ti giudicheranno morta, e cosí su la sera ti faranno sepellire e ti metteranno dentro l’arca dei tuoi Capelletti. Quivi a tuo bell’agio riposerai la notte e il dí. La notte poi seguente, Romeo ed io verremo a levarti fuori, perciò che io del caso per messo a posta avviserò Romeo. E cosí egli con segreta maniera ti merrá a Mantova ed ivi celatamente ti terrá fin che questa benedetta pace tra i suoi e i tuoi si faccia, ché a me dá l’animo agevolmente di farla. Se questa via non prendi, io non so con che altro poterti dar soccorso. Ma vedi: come t’ho detto, egli ti convien esser segreta e ritener questa cosa in te, altrimenti guastaresti i fatti tuoi e i miei. – Giulietta che dentro una fornace ardente per trovar Romeo andata saria non che in una sepoltura, diede intiera credenza a le parole del frate e senza altrimenti pensarvi vi s’accordò e gli disse: – Padre, io farò il tutto che voi mi dite, e cosí ne le mani vostre mi rimetto. Ch’io dica questa cosa a persona non dubitate, ché io sarò segretissima. – Corse subito il frate a la camera ed a la giovane recò tanta polvere quanta capirebbe in un cucchiaio, involta in un poco di carta. Presa Giulietta la polvere, la mise in una sua borsa e molto ringraziò fra Lorenzo. Egli che assai difficilmente poteva credere ch’una fanciulla fosse sí sicura e tanto audace che in un avello tra’ morti si lasciasse chiudere, le disse: – Dimmi, figliuola, non averai tu paura di tuo cugino Tebaldo, che è cosí poco tempo che fu ucciso, e ne l’arca ove posta sarai giace e deve fieramente putire? – Padre mio, – rispose l’animosa giovane, – di questo non vi caglia, ché se per passar per mezzo le penaci pene de l’inferno io credessi trovar Romeo, io nulla temerei quel fuoco eternale. – Or sia col nome del nostro signor Iddio, – disse il frate. Tornò Giulietta a la madre tutta lieta e ne l’andar verso la casa le disse: – Madre mia, io vi dico per certo che fra Lorenzo è un santissimo uomo. Egli m’ha di modo con le sue dolci e sante parole consolata che quasi m’ha tratto fuora de la sí fiera malinconia che io pativa. Egli m’ha fatto una predichetta tanto divota ed a proposito del mio male, quanto si potesse imaginare. – Madonna Giovanna che vedeva la figliuola assai piú del solito allegra e udiva quanto diceva, non capiva in sé per l’allegrezza che sentiva del piacer e conforto de la figliuola, e le rispose: – Cara figliuola mia, che Dio ti benedica! Io mi trovo molto di buona voglia, poi che tu cominci a rallegrarti, e restiamo pur assai ubligate a questo nostro padre spirituale. Egli si vuol aver caro e soccorrerlo con le nostre elemosine, perciò che il monastero è povero ed ogni dí prega Dio per noi. Ricordati spesso di lui e mandagli alcuna buona pietanza. – Credette madonna Giovanna che invero Giulietta per il sembiante de l’allegria che mostrava fosse fuor de la malinconia che prima aveva, e lo disse al marito, e tutti dui se ne tenevano ben contenti e pagati, e si levarono via il sospetto che avevano, che quella fosse in alcuna persona innamorata. Ed ancor che imaginar non si potessero la cagione de la mala contentezza de la figliuola, pensavano che la morte del cugino o altro strano accidente l’avesse contristata. Onde perché pareva loro ancor troppo giovanetta, volentieri, se con onore si fosse potuto fare, l’averebbero tenuta dui o tre anni senza darle marito; ma la cosa col conte era giá tanto innanzi che senza scandalo non si poteva disfare ciò che fatto era e conchiuso. Si prefisse il determinato giorno a le nozze, e Giulietta fu pomposamente di ricche vestimenta e di gioie messa in ordine. Ella stava di buona voglia, rideva e scherzava, ed un’ora mill’anni le pareva che venisse l’ora del ber l’acqua con la polvere. Venuta la notte che il dí seguente, che era domenica, deveva publicamente esser sposata, essa giovane senza far motto a persona apprestò un bicchiero con acqua dentro, e senza che la vecchia se n’avedesse, al capo del letto se lo mise. Ella nulla o ben poco quella notte dormí, varii pensieri per l’animo ravvolgendo. Cominciandosi poi ad appressar l’ora de l’alba ne la quale ella deveva ber l’acqua con la polvere, se le cominciò a rappresentar ne la imaginazion Tebaldo del modo che veduto l’aveva ferito ne la gola, tutto sanguinolente. E pensando che a lato a quello o forse a dosso sarebbe sepellita, e che dentro quel monimento erano tanti corpi di morti e tante ignude ossa, le venne un freddo per il corpo, e di modo tutti i peli se le arricciarono a dosso che oppressa da la paura tremava come una foglia al vento. Oltra questo se le sparse per tutte le membra un gelato sudore, parendole tratto tratto che ella da quei morti fosse in mille pezzi smembrata. Con questa paura stette alquanto che non sapeva che farsi; poi alquanto ripreso d’ardire, diceva fra sé: – Oimè, che voglio io fare? ove voglio lasciarmi porre? Se per sorte io mi destassi prima che il frate e Romeo vengano, che sará di me? Potrò io sofferire quel gran puzzo che deve render il guasto corpo di Tebaldo, che a pena per casa ogni tristo odore quantunque picciolo non posso patire? Chi sa che alcuno serpe e mille vermini in quel sepolcro non siano, i quali io cotanto temo ed aborrisco? E se il core non mi dá di mirargli, come potrò sofferire che a torno mi stiano e mi tocchino? Non ho io poi sentito dir tante e tante volte che molte spaventevoli cose di notte sono avvenute non che dentro a sepolture ma ne le chiese e cimiteri? – Con questo pauroso pensiero mille abominevoli cose imaginando, quasi si deliberò di non prender la polvere e fu vicina a spargerla per terra, e andava in strani e varii pensieri farneticando, dei quali alcuno l’invitava a pigliarla ed altri le proponevano mille casi perigliosi a la mente. A la fine poi che buona pezza ebbe chimerizzato, spinta dal vivace e fervente amore del suo Romeo che negli affanni cresceva, ne l’ora che giá l’Aurora aveva cominciato a por il capo fuor del balcone de l’oriente, ella in un sorso, cacciati i contrarii pensieri, la polvere con l’acqua animosamente bevendo, a riposar cominciò e guari non stette che s’addormentò. La vecchia che seco dormiva, ancor che tutta la notte avesse compreso che la giovane nulla o poco dormiva, non pertanto del beveraggio da quella bevuto s’accorse; e di letto levatasi, attese a far suoi bisogni per casa come era usata. Venuta poi l’ora del levarsi de la giovane, tornò la vecchia a la camera dicendo come fu dentro: – Su su, ché gli è tempo di levarsi. – Ed aperte le finestre e veggendo che Giulietta non si moveva né faceva vista di levarsi, se le accostò e dimenandola disse: – Su su, dormigliona, levati. – Ma la buona vecchia cantava a’ sordi. Cominciò a scuoterla fortemente e dimenarla quanto poteva, e poi tirarle il naso e punzicchiarla; ma ogni fatica era nulla. Ella aveva di modo legati gli spiriti vitali che i piú orrendi e strepitosi tuoni del mondo non l’averebbero con il tremendo romore che fanno destata. Del che la povera vecchia fieramente spaventata, e veggendo che né piú né meno faceva sembiante di sentire come averebbe fatto un corpo morto, tenne per fermo Giulietta esser morta. Onde fuor di misura dolente e trista, amarissimamente piangendo se ne corse a trovar madonna Giovanna, a la quale, dal soverchio dolor impedita, a pena puoté dire ansando: – Madonna, vostra figliuola è morta. – Corse la madre con frettoloso passo tuttavia lagrimando, e trovata la figliuola acconcia del modo che udito avete, se fu dolente e da estremo cordoglio ingombrata non è da domandare. Ella mandando le pietose voci fino a le stelle averebbe mosso a compassione le pietre ed addolcite le tigri quando per la perdita dei figliuoli piú irate sono. Il pianto e il grido de la madre e de la vecchia udito per tutta la casa, fu cagione che ciascuno quivi corresse ove il romor si faceva. Vi corse il padre, e trovata la figliuola piú fredda che il ghiaccio e che sentimento alcuno non mostrava, fu vicino a morir di doglia. Divolgatosi il caso, di mano in mano tutta la cittá ne fu piena. Vi vennero parenti ed amici, e quanto piú crescevano le genti ne la casa il pianto vie piú si faceva maggiore. Fu subito mandato per i piú famosi medici de la cittá, i quali, usati tutti quegli argomenti che seppero i piú convenevoli e salutiferi e nulla con l’arte loro di profittevole aita operando, e la vita intesa de la giovane che giá molti dí era consueta di fare, che altro non faceva che pianger e sospirare, tutti concorsero in questa openione, che ella veramente da soverchio dolor soffocata fosse morta. A questo si raddoppiò il pianto senza fine, e per tutta Verona generalmente ciascuno di cosí accerba ed impensata morte si dolse. Ma sovra tutti la dolente madre era quella che acerbissimamente piangeva e si lamentava e non voleva ricever consolazione veruna. Tre volte abbracciando la figliuola, isvenne e tanto morta quanto quella pareva; il che doglia a doglia accresceva e pianto a pianto. L’erano a torno di molte donne, che tutte si sforzavano a la meglio che si poteva di consolarla. Ella aveva di modo allentate le redine al dolore e cosí in poter di quello s’era lasciata trascorrere, che quasi in disperazione caduta, non intendeva cosa che se le dicesse, ed altro non faceva che pianger e sospirare e mandar ad ora per ora le strida sino al cielo e scapigliarsi come forsennata. Messer Antonio non meno di lei dolente, quanto meno con lagrime sfogava il suo cordoglio tanto piú a dentro quello maggior diveniva; tuttavia egli che teneramente la figliuola amava, sentiva dolor grandissimo, ma come piú prudente meglio sapeva temperarlo. Fra Lorenzo quella matina scrisse a lungo a Romeo l’ordine dato de la polvere e quanto era seguíto, e che egli la seguente notte anderia a cavar Giulietta fuor de la sepoltura e la porteria a la sua camera. E perciò che egli studiasse venirsene travestito a Verona, che lo attenderia fino a mezza notte del seguente giorno, e che si terria poi quel modo che meglior lor fosse paruto. Scritta la lettera e suggellata, la diede ad un suo fidato frate e strettissimamente gli commise che quel dí andasse a Mantova e trovasse Romeo Montecchio e a lui desse la lettera e non ad altra persona, che fosse chi si volesse. Andò il frate ed arrivò a Mantova assai a buon’ora e smontò al convento di San Francesco. Messo giú il cavallo, mentre che egli cercava il padre guardiano per farsi dar un compagno per poter accompagnato andar per la cittá a far sue bisogne, trovò che molto poco innanzi era morto uno dei frati di quel convento, e perché era un poco di sospetto di peste, fu giudicato dai deputati de la sanitá il detto frate esser senza dubio morto di pestilenza, e tanto piú che se gli ritrovò un gavocciolo assai piú grosso d’un ovo ne l’anguinaia, che era certo ed evidentissimo indizio di quel pestifero morbo. Or ecco che in quell’ora a punto che il frate veronese domandava il compagno, sovravennero i sergenti de la sanitá che al padre guardiano comandarono, sotto pene gravissime per parte del signor de la cittá, che egli per quanto aveva cara la grazia del prencipe a modo veruno non lasciasse uscir persona fuor del monastero. Il frate venuto da Verona voleva pure allegare che alora alora era arrivato né s’era mescolato con nessuno; ma invano s’affaticò, ché a mal suo grado gli convenne rimanere con gli altri frati nel convento, onde non diede quella benedetta lettera a Romeo né altrimenti gli mandò a dir cosa alcuna. Il che fu di grandissimo male e scandalo cagione, come a mano a mano intenderete. Fra questo mezzo in Verona s’apparecchiavano le solennissime esequie de la giovine che si teneva per morta, e si deliberò farle quel dí stesso ne l’ora tarda de la sera. Pietro servidor di Romeo sentendo dire che Giulietta era morta, tutto sbigottí e deliberò tra sé d’andar a Mantova, ma prima aspettar l’ora della sepoltura de la giovane e vederla portar a la sepoltura, per poter dire al padrone che veduta morta l’aveva. Ché pure ch’egli potesse di Verona uscire, faceva pensiero cavalcar di notte ed a l’aprir de la porta entrar in Mantova. Fu adunque sul tardi con universal dispiacere di tutta Verona levata la bara funebre con Giulietta dentro, e con la pompa di tutti i chierici e frati de la cittá indirizzata verso San Francesco. Pietro era cosí stordito, e per la compassione del suo padrone, il quale sapeva che unicamente la giovane amava, cosí fuor di sé che mai non ebbe avviso d’andar a veder fra Lorenzo e parlar seco, come l’altre volte era solito di fare; ché se egli andava a trovar il frate, averebbe intesa l’istoria de la polvere, e dicendola a Romeo, non succedevano gli scandali che successero. Ora vista che egli ebbe Giulietta in bara e quella manifestamente conosciuta, montò a cavallo, e andato di buon passo a Villafranca quivi a rifrescar il suo cavallo e dormir una pezza attese. Levatosi poi di piú di due ore innanzi giorno, nel levar del sole entrò in Mantova e andò a la casa del padrone. Ma torniamo a Verona. Portata la giovane a la chiesa e cantati solennemente gli ufficii dei morti, come è il costume in simili essequie di farsi, fu circa mezz’ora di notte messa ne l’avello. Era l’avello del marmo molto grande fuor de la chiesa sovra il cimitero, e da un lato era attaccato ad un muro che in un altro cimitero aveva da tre in quattro braccia di luogo murato, ove quando alcun corpo dentro l’arca si metteva, si gettavano l’ossa di quelli che ivi primieramente erano sepelliti, ed aveva alcuni spiragli assai alti da la terra. Come l’arca fu aperta, fra Lorenzo fece tantosto in una de le bande de l’avello ritirar il corpo di Tebaldo, il quale perché di natura era stato molto magro ed a la morte aveva perduto tutto il sangue, poco era marcito e non molto putiva. Fatta poi spazzar l’arca e nettare, avendo egli la cura di far la giovane sepellire, dentro ve la fece quanto piú soavemente si puoté distendere e porle un origliero sotto il capo. Indi si fece riserrar l’arca. Pietro entrato in casa, trovò Romeo che ancora era in letto, e come gli fu innanzi, da infiniti singhiozzi e lagrime impedito non poteva formar parola. Del che Romeo grandemente meravigliato e pensando non ciò che avvenuto era ma altri mali, gli teneva pur detto: – Pietro, che cosa hai? che novelle mi rechi da Verona? come sta mio padre ed il resto dei nostri? Di’, non mi tener piú sospeso: che cosa può egli essere che tu sei cosí afflitto? Orsú, spedisceti. – Pietro a la fine fatto violenza al suo dolore, con debole voce e con parole interrotte gli disse la morte di Giulietta e che egli l'aveva veduta portar a sepellire e che si diceva che di doglia era morta. A questo cosí dolente e fiero annonzio restò Romeo per buona pezza quasi fuor di se stesso; poi come forsennato saltò fuor di letto e disse: – Ahi traditor Romeo, disleale, perfido e di tutti gli ingrati ingratissimo! Non è il dolore che abbia la tua donna morta, ché non si muor di doglia; ma tu, crudele, sei stato il manigoldo, sei stato il micidiale. Tu quello sei che morta l'hai. Ella ti scriveva pure che prima voleva morire che lasciarsi da nessun altro sposare e che tu andassi per ogni modo a levarla de la casa del padre. E tu sconoscente, tu pigro, tu poco amorevole, tu can mastino, le davi parole che ben anderesti, che faresti e che stesse di buona voglia, e andavi indugiando di dí in dí, non ti sapendo risolvere a quanto ella voleva. Ora tu sei stato con le mani a cintola e Giulietta è morta. Giulietta è morta e tu sei vivo? Ahi traditore, quante volte l'hai scritto e a bocca detto che senza lei non potevi vivere? e pur tu sei vivo ancora. Ove pensi che ella sia? Ella qui dentro se ne va errando ed aspetta pure che tu la segua e tra sé dice: «Ecco bugiardo, ecco fallace amante e marito infidele, che a la nuova ch'io son morta sostiene di vivere». Perdonami, perdonami, moglie mia carissima, ché io confesso il gravissimo mio peccato. Ma poi che il dolor ch'io provo fuor di misura penosissimo non è bastante a tormi la vita, io stesso farò quell'ufficio che il dolore deverebbe fare. Io mal grado di lui e di morte che non mi vogliono ancidere, a me stesso darò morte. – Questo dicendo diede di mano a la spada che al capo del suo letto era, e quella subito tratta del fodro verso il suo petto contorse, mettendo la punta a la parte del core. Ma il buon servidore Pietro fu tanto presto che egli non si puoté ferire, e in un tratto l'arme gli levò di mano. Gli disse poi quelle parole che in simil caso ogni fedel servidore al suo padrone deve dire, ed onestamente di tanta follia quello ripigliando, lo confortò quanto seppe e puoté il meglio, essortandolo a dever vivere, poi che con soccorso umano a la morta giovane aita dar non si poteva. Era sí a dentro Romeo de la crudelissima nuova di cosí impensato caso stordito e quasi impietrato e divenuto marmo, che lagrima da gli occhi non gli poteva uscire. E chi l'avesse in faccia guardato averia detto che piú a statua che ad uomo assembrasse. Ma guari non stette che le lagrime cominciarono a stillare in tanta abbondanza che pareva un vivo fonte che con sorgente vena acqua versasse. Le parole che piangendo e sospirando disse averebbero mosso a pietá i piú duri e adamantini cori che mai tra barbari fossero. Come poi il dolor interno si cominciò a sfogare, cosí cominciò Romeo varie cose tra sé pensando, a lasciarsi vincer da le sue acerbe passioni e dar luogo ai malvagi e disperati pensieri, e deliberò poi che la sua cara Giulietta era morta, non voler a modo veruno piú vivere. Ma di questo suo fiero proponimento non ne fece sembiante alcuno né motto disse, anzi l'animo suo dissimulò, a ciò che un'altra volta dal servidore o da chi fosse non ricevesse impedimento a far quanto in animo caduto gli era di mandar ad essecuzione. Impose adunque a Pietro che solo era in camera, che de la morte de la moglie niente a persona dicesse e meno palesasse l'errore in che quasi era caduto di voler uccider se stesso; poi gli disse che mettesse ad ordine dui cavalli freschi, perché voleva ch'andassero a Verona. – Io vo', – diceva, – che a mano a mano tu ti parta senza far motto a nessuno; e come tu sei a Verona, senza dir nulla a mio padre che io sia per venire, fa che tu truovi quei ferramenti che bisognano per aprir l'avello ove mia moglie è sepolta, e puntelli da puntellarlo, perché io questa sera al tardi entrerò in Verona e me ne verrò tutto dritto a la casetta che tu tieni dietro al nostro orto, e tra le tre e le quattro ore anderemo al cimitero, perciò che io vo' veder la sfortunata mia moglie cosí morta come giace, ancora una volta. Poi di buon matino io sconosciuto uscirò fuor di Verona e tu mi verrai un poco dietro, e ce ne tornaremo qui. – Né guari stette che rimandò Pietro indietro. Partito che fu Pietro, scrisse Romeo una lettera a suo padre e gli domandò perdono se senza sua licenza s'era maritato, narrandogli a pieno tutto il suo amore ed il successo del matrimonio. Pregavalo poi molto affettuosamente che a la sepoltura di Giulietta come di sua nora che era, volesse far celebrar un ufficio da morti solenne, e questo ordinasse de le sue entrate che fosse perpetuo. Aveva Romeo alcune possessioni che una sua zia morendo gli lasciò, per testamento instituendolo suo erede. A Pietro anco provide di modo che senza star a mercede altrui poteva comodamente vivere. E di queste due cose ne fece al padre instanzia grandissima, affermando questa esser l'ultima sua volontá. E perché di pochi giorni avanti quella sua zia era morta, pregava il padre che i primi frutti che da le sue possessioni si cavassero tutti gli facesse dar a' poveri per amor di Dio. Scritta la lettera e suggellata, se la pose in seno. Prese poi un'ampolletta piena d'acqua velenosissima, e vestito da tedesco montò a cavallo, dando ad intender ai suoi che ne la casa restavano, che il giorno seguente a buon'ora tornarebbe, e non volle da persona esser accompagnato. Camminando adunque con diligenza, egli ne l'ora de l'avemaria entrò in Verona e se n'andò di lungo a trovar Pietro e trovollo in casa, che il tutto che gli era stato imposto aveva apprestato; onde cosí lá circa le quattr'ore con quegli strumenti e ferramenti che giudicarono esser al bisogno se ne andarono verso la Cittadella, e senza trovar impedimento veruno giunsero al cimitero de la chiesa di San Francesco. Quivi trovato l'avello ov'era Giulietta, quello con lor ordigni destramente apersero ed il coperchio con fermi puntelli puntellarono. Aveva Pietro per commissione di Romeo portato seco una picciola lanternetta che altri chiamano «ceca», altri «sorda», la quale, scoperta, diede loro aita ad aprir l'arca e ben puntellarla. Entrò dentro Romeo e vide la carissima moglie che invero pareva morta. Cadette subito Romeo tutto svenuto a lato a Giulietta, di quella assai piú morto, ed un pezzo stette fuor di sé tanto dal dolore oppresso che fu vicino a morire. In sé poi rivenuto la carissima moglie abbracciò e piú volte basciandola, di caldissime lagrime lo smorto viso le bagnava, e dal dirotto pianto impedito non poteva formar parola. Egli pianse assai e poi disse di molte parole che averebbero commosso a pietá i piú ferrigni animi del mondo. A la fine avendo tra sé deliberato di non voler piú vivere, presa la picciola ampolletta che recata aveva, l'acqua del veleno che dentro v'era postasi a la bocca, tutta in un sorso mandò giú per la gola. Fatto questo, chiamò Pietro che in uno dei canti del cimitero stava, e gli disse che su salisse. Salito che fu ed a l'orlo de l'arca appoggiato, Romeo in questo modo gli parlò: – Eccoti, o Pietro, mia moglie, la quale se io amava ed amo tu in parte lo sai. Io conosco che tanto m'era possibil vivere senza lei quanto senza anima può viver un corpo, e perciò portai meco l'acqua «del serpe», che sai che in meno di un'ora ammazza l'uomo, e quella ho bevuta lietamente e volentieri per restar morto qui a canto a quella che in vita tanto amai, a ciò che se vivendo non m'è lecito di starmene seco, morto almeno con lei resti sepolto. Vedi l'ampolla ove era dentro l'acqua che, se ti ricordi, ci diede in Mantova quello spoletino che aveva quegli aspidi vivi ed altri serpenti. Iddio per sua misericordia ed infinita bontá mi perdoni, perciò che me stesso non ho io ucciso per offenderlo, ma per non rimanere in vita senza la cara mia consorte. E sebbene mi vedi gli occhi molli di lagrime, non ti pensar giá che io per pietá di me che giovanetto mora, pianga; ma il pianto mio procede dal dolore che sento grandissimo per la morte di costei che degna era viver piú lieta e tranquilla vita. Darai questa mia lettera a mio padre, al quale ho scritto quanto desidero che faccia dopo la morte mia, cosí circa questa sepoltura come circa i miei servidori che sono in Mantova. A te che sempre m'hai fedelmente servito ho fatto tal parte che non averai mestieri servir altrui. Io son certo che mio padre dará essecuzione integralmente a quanto gli scrivo. Or via, io sento la vicina morte, perciò che conosco il veleno de l'acqua mortifera giá tutte le membra avvelenando, m'ingombra. Dispuntella l'arca e qui mi lascia appresso a la mia donna morire. – Pietro per le giá dette cose era in tal modo dolente che pareva che dentro al petto il core se gli schiantasse per l'infinito cordoglio che sentiva. Le parole furono assai che egli al padrone disse, ma tutte indarno, perché a la velenosa acqua rimedio alcuno giovar piú poteva, avendo ella giá tutte le parti de l'infetto corpo occupate. Romeo, presa Giulietta in braccio e quella di continovo basciando, attendeva la vicina ed inevitabil morte, tuttavia dicendo a Pietro che l'arca dispuntellasse. Giulietta che giá la vertú de la polvere consumata e digesti aveva, in quel tempo si destò, e sentendosi basciare dubitò che il frate venuto per levarla e averla a portar in camera, la tenesse in braccio ed incitato dal concupiscibile appetito la basciasse, e disse: – Ahi padre fra Lorenzo, è questa la fede che Romeo aveva in voi? Fatevi in costá. – E scotendosi per uscirli de le braccia, aperse gli occhi e si vide esser in braccio a Romeo, ché ben lo conobbe ancora che avesse vestimenti da tedesco, e disse: – Oimè, voi sète qui, vita mia? ove è fra Lorenzo? ché non mi levate voi fuor di questa sepoltura? Andiamo via per amor di Dio. – Romeo come vide aprir gli occhi a Giulietta e quella sentí parlare, e s'avvide sensibilmente che morta non era ma viva, ebbe in un tratto allegrezza e doglia fuor d'ogni credenza inestimabile, e lagrimando e la sua carissima moglie al petto stringendosi disse: – Ahi vita de la mia vita e cor del corpo mio, qual uomo al mondo ebbe mai tanta gioia quanta io in questo punto provo, che portando ferma openione che voi foste morta, viva e sana ne le mie braccia vi tengo? Ma qual mai fu dolor al mio dolor eguale e qual piú penosa pena il mio cordoglio agguaglia, poi che io mi sento esser giunto al fine dei miei infelicissimi giorni e mancar la vita mia quando piú che mai deveva giovarmi di vivere? Ché s'io vivo mezz'ora ancora, questo è tutto il tempo che io restar in vita possa. Ove fu giá mai piú in un sol soggetto in uno istesso punto estrema allegrezza e doglia infinita, come io in me medesimo manifestamente provo? Lietissimo sono io, e vie piú che dir non si può di gioia e contentezza pieno, poi che a l'improviso veggio voi, consorte mia dolcissima, viva, che morta credei e tanto amaramente ho pianto. E veramente, moglie mia soavissima, in questo caso debbio ragionevolmente allegrarmi con voi. Ma doglia inestimabile e dolore senza pari patisco, pensando che tantosto piú non mi si concederá di vedervi, udirvi e starmi vosco godendo la vostra dolcissima compagnia tanto da me bramata. È ben vero che la gioia di vedervi viva avanza di gran lunga quella doglia che mi tormenta, appropinquandosi l'ora che da voi dividermi deve; e prego il nostro signor Iddio che gli anni i quali a l'infelice mia gioventú leva, aggiunga a la vostra, e vi conceda che lungamente con piú felice sorte di me possiate vivere, ché io sento che giá la vita mia finisce. – Giulietta sentendo ciò che Romeo diceva, essendosi giá alquanto rilevata, gli disse: – Che parole son coteste, signor mio, che voi ora mi dite? questa è la consolazione che volete darmi? e da Mantova qui sète venuto a portarmi sí fatta nuova? che cosa vi sentite voi? – Narrolle alora lo sventurato Romeo il caso del veleno che bevuto aveva. – Oimè, oimè, – disse Giulietta, – che sento io? che mi dite voi? Lassa me! adunque a quello che io odo, non v'ha fra Lorenzo scritto l'ordine che egli ed io insieme avevamo messo? che pur mi promise che il tutto vi scriveria. – Cosí la sconsolata giovane piena d'amarissimo cordoglio, lagrimando, gridando, sospirando e quasi di smania fuor di sé andando, contò minutamente ciò che il frate ed ella ordinato avevano a ciò che ella non fosse astretta a sposar il marito che il padre voleva darle. Il che udendo Romeo, accrebbe infinitamente dolore agli affanni che sofferiva. E mentre che Giulietta fieramente del lor infortunio si querelava e chiamava il cielo e le stelle con tutti gli elementi crudelissimi, vide Romeo quivi il corpo del morto Tebaldo che alcuni mesi innanzi egli ne la zuffa, come giá intendeste, aveva ucciso. E riconosciutolo, verso quello rivolto disse: – Tebaldo, ovunque tu ti sia, tu déi sapere che io non cercava d'offenderti, anzi entrai ne la mischia per acquetarla e ti ammonii che tu facessi ritirar i tuoi, ché io ai miei averei fatto depor l'arme. Ma tu che pieno eri d'ira e d'odio antico, non curasti le mie parole, ma con fellone animo per incrudelir in me mi assalisti. Io da te sforzato e perduta la pazienza, non volli ritirarmi un dito indietro, e diffendendomi volle la tua mala sorte che io t'ammazzai. Ora ti chieggio perdono de l'offesa che al corpo tuo feci, e tanto piú che io giá era tuo parente divenuto per la tua cugina da me giá per moglie sposata. Se tu brami da me vendetta, ecco che conseguita l'hai. E qual vendetta maggiore potevi tu desiderare che sapere che colui che t'uccise si sia da se stesso a la presenza tua avvelenato e a te dinanzi volontariamente se ne mora, a te ancora accanto restando sepellito? Se in vita guerreggiammo, in morte in un stesso sepolcro resteremo senza lite. – Pietro a questi pietosi ragionamenti del marito e al pianto de la moglie se ne stava come una statua di marmo, e non sapeva se era vero ciò che vedeva e udiva o veramente se si sognava, e non sapeva che dirsi né che farsi, cosí era stordito. La povera Giulietta piú che altra donna dolente, poi che senza fine si dolse, a Romeo disse: – Dapoi che a Dio non è piaciuto che insieme viviamo, piacciagli almeno che io qui con voi resti sepolta. E siate pur sicuro, avvenga mò ciò che si voglia, che quindi senza voi non mi dipartirò giá mai. – Romeo presala di nuovo in braccio, la cominciò lusinghevolmente a pregare che ella si consolasse e attendesse a vivere, perciò che egli se n'anderebbe consolato quando fosse certo che ella restasse in vita, e a questo proposito molte cose le disse. Egli si sentiva a poco a poco venir meno e giá quasi gli era in buona parte offuscata la vista, e l'altre forze del corpo sí erano deboli divenute che piú dritto tener non si poteva; onde abbandonandosi si lasciò andar giú e pietosamente nel volto de la dolente moglie guardando, disse: – Oimè, vita mia, che io mi muoio. – Fra Lorenzo, che che fosse la cagione, non volle Giulietta portar a la camera quella notte che fu sepellita. La seguente notte poi, veggendo che Romeo non compariva, preso un suo fidato frate, se ne venne con suoi ferramenti per aprir l'arca ed arrivò in quello che Romeo s'abbandonò. E veggendo aperta l'arca e riconosciuto Pietro, disse: – Buona vita, ov'è Romeo? – Giulietta udita la voce e conosciuto il frate, alzando il capo disse: – Dio vel perdoni, voi mandaste ben la lettera a Romeo? – Io la mandai, – rispose il frate, – e la portò frate Anselmo che pur tu conosci. E perché mi dici tu cotesto? – Piangendo acerbamente, Giulietta: – Salite su, – disse – e lo vederete. – Salí il frate e vide Romeo giacersi che poco piú di vita aveva, e disse: – Romeo, figliuol mio, che hai? – Romeo aperti i languidi occhi lo conobbe e piano disse che gli raccomandava Giulietta, e che a lui non accadeva piú né aita né conseglio, e che pentito dei suoi mali a lui e a Dio ne domandava perdono. Puoté a gran pena l'infelice amante proferir queste ultime parole e percuotersi lievemente il petto, che perduto ogni vigore e chiusi gli occhi se ne morí. Quanto questo fosse grave, noioso e quasi insopportabile a la sconsolata moglie non mi dá il core di poterlo dimostrare, ma pensilo chi veramente ama e s'imagini a sí orrendo spettacolo ritrovarsi. Ella miseramente e senza pro affliggendosi, il pianse assai, e molte fiate l'amato nome invano chiamando, piena d'angoscia sovra il corpo del marito si lasciò tramortita cadere, e buona pezza isvenuta stette. Il frate e Pietro oltra modo dolenti tanto fecero che ella rivenne. Rivenuta che fu, s'aggruppò in una le mani ed allargato il freno a le lagrime, tante e tante ne versò quante mai femina spargesse, e basciando il morto corpo diceva: – Ahi dolcissimo albergo di tutti i miei pensieri e di quanti piaceri mai abbia goduto, caro ed unico mio signore, come di dolce fatto mi sei amaro! Tu sul fiore de la tua bella e leggiadra giovanezza hai il tuo corso finito, nulla curando la vita che tanto da tutti viene stimata. Tu sei voluto morire quando altrui il vivere piú diletta, e a quel fine giunto sei ove a tutti o tardi o per tempo arrivar conviene. Tu, signor mio, in grembo di colei sei venuto a finir i giorni tuoi, che sovra ogni cosa amasti e da la quale unicamente sei amato, ed ove quella morta e sepellita esser credevi, volontariamente sei venuto a sepellirti. Giá mai tu non hai pensato aver queste mie amarissime e veracissime lagrime. Giá non ti persuadevi andar a l'altro mondo e non mi vi ritrovare. Io son certissima che non mi vi ritrovando, che tu qui tornato sei a veder se io ti vengo dietro. Non sento io che lo spirito tuo qui d'intorno vagando se ne va e giá si meraviglia anzi si duole che io tanto tardi? Signor mio, io ti veggio, io ti sento, io ti conosco, e so che altro non attendi se non la venuta mia. Non temere, signor mio, non dubitare che io voglia qui senza la compagnia tua rimanere, con ciò sia che senza te la vita assai piú dura e vie piú angosciosa mi sarebbe che ogni sorta di morire che l'uomo imaginar si possa, ché senza te io non viverei, e se pur paresse altrui che io vivessi, quel vivere mi sarebbe un continovo e tormentoso morire. Sí che, signor mio caro, sta sicuro che io tantosto verrò a starmi sempre teco. E con qual compagnia posso io andar fuora di questa misera e travagliata vita, che piú cara e piú fidata mi sia, che venirti dietro e seguitar i tuoi vestigi? Certo, che io mi creda, nessuna. – Il frate e Pietro che a torno l'erano, vinti da infinita compassione piangevano, e come meglio sapevano s'ingegnavano di darle alcun conforto; ma il tutto invano. Le diceva fra Lorenzo: – Figliuola mia, le cose fatte esser non può che fatte non siano. Se per lagrime Romeo suscitar si potesse, noi ci risolveremo tutti in lagrime per aiutarlo; ma non ci è rimedio. Confortati e attendi a vivere, e se non vuoi tornar a casa tua, a me dá il core metterti in un santissimo monastero, ove potrai servendo a Dio pregar per l'anima del tuo Romeo. – Ella a modo veruno non voleva ascoltarlo, ma nel suo fiero proponimento perseverando, si doleva che non potesse con la vita sua ricuperar quella del suo Romeo, e in tutto si dispose voler morire. Ristretti adunque in sé gli spirti, con il suo Romeo in grembo, senza dir nulla se ne morí. Or ecco mentre che i dui frati e Pietro s'affaticavano intorno a la morta giovane credendo che fosse svenuta, che i sergenti de la corte a caso quindi passando videro il lume ne l'arca e tutti vi corsero. Quivi giunti presero i frati e Pietro e inteso il pietoso caso degli sfortunati amanti, lasciati i frati con buona guardia, condussero Pietro al signor Bartolomeo e gli fecero intendere del modo che trovato l'avevano. Il signor Bartolomeo fattosi minutamente contar tutta l'istoria dei dui amanti, essendo giá venuta l'alba, si levò e voller veder i duo cadaveri. Si sparse la voce di questo accidente per tutta Verona, di modo che grandi e piccioli vi concorsero. Fu perdonato a' frati ed a Pietro, e con particolar dolore dei Montecchi e Capelletti e general di tutta la cittá, furono fatte l'essequie con pompa grandissima; e volle il signore che in quello stesso avello gli amanti restassero sepolti. Il che fu cagione che tra i Montecchi e Capelletti si fece la pace, ben che non molto dopoi durasse. Il padre di Romeo letta la lettera del figliuolo, dopo l'essersi estremamente doluto, sodisfece pienamente al voler di quello. Fu sopra la sepoltura dei dui amanti il seguente epitaffio intagliato, il quale in questo modo diceva:
Credea Romeo che la sua sposa bella
giá morta fosse, e viver piú non volse,
ch’a sé la vita in grembo a lei si tolse
con l’acqua che «del serpe» l’uom appella.
Come conobbe il fiero caso quella,
al suo signor piangendo si rivolse
e quanto puoté sovra quel si dolse,
chiamando il ciel iniquo ed ogni stella.
Veggendol poi la vita, oimè, finire,
piú di lui morta, a pena disse: – O Dio,
dammi ch’io possa il mio signor seguire:
questo sol prego, cerco e sol desio,
ch’ovunque ei vada io possa seco gire. –
E ciò dicendo alor di duol morio.
Il Bandello al magnifico e vertuoso
messer Francesco Torre
Rade volte, come per esperienza veduto avete, suol avvenire che quando questi gentiluomini veneziani vengono a diporto in terraferma tra loro di brigata o con le moglie ed altre donne, e cápitano a Verona, il signor Cesare Fregoso mio padrone non gli faccia sontuosi e splendidi conviti, tanto qui in Verona quanto fuori, al mormorio de le freschissime e limpidissime fontane di Montorio tanto dal Boccaccio nel Filocopo celebrate, e a Garda da cui il famoso lago di Benaco ora ha preso il nome. A Garda hanno questi signori Fregosi un gran palagio con giardini bellissimi ove sono tutti gli arbori di frutti soavissimi che questo cielo può nodrire. Quivi sono naranci, cedri, limoni, pomi granati bellissimi, per non raccordar tana altre sorti di frutti. Vi si gode poi l’amenitá del piscoso e bellissimo lago che ne l’una e l’altra sponda Pomona, Bacco e Flora pomposamente adornano. Ma io porto de le civette ad Atene. Ora essendo questi dí una bella ed onorata compagnia di vaghe e bellissime donne veneziane con i mariti ed altri lor parenti ed amici venuta a Verona ed avendo loro il signor Cesare fatto apparecchiar un desinare ed una cena a Mortorio, fece anco invitar molti gentiluomini veronesi, e la signora Gostanza sua moglie invitò alcune donne. Voi alora eravate a Mantova mandato dal reverendissimo vescovo di Verona Gian Matteo Giberto a negoziar alcuni suoi affari appo l’illustrissimo e reverendissimo signor Ercole cardinal di Mantova. Il che al signor Cesare non mezzanamente dispiacque, con ciò sia cosa che molto desiderava che voi fossi a Verona per intertener cosí gentil e bella compagnia di donne. Fu il desinare secondo l’usanza fregosa bello e veramente luculliano, ed oltra le carni domestiche vi si mangiarono tutti quei salvaggiumi cosí d’augelli come di quadrupedi che la stagione comportava, mescolando variamente, secondo che convenevol pareva a messer Antonio Giovenazzo nostro maestro di casa, di tutte quelle maniere di pesci che quelle fontane in abbondanza fanno, con i piú delicati che produce il famoso Benaco. Dopo il desinare si fecero molti piacevoli giuochi sotto un folto e molto lungo e largo frascato fatto a posta, ove anco al suono dei piffari si ballò da chi poco curava il caldo. A l’ora poi del merigge, essendo il caldo grande e i balli cessati, si misero uomini e donne diversamente a ragionar insieme secondo che loro piú era a grado. Io mi ritirai in una molto onorata compagnia ov’era il signor Cesare, e sentii che parlavano del Decamerone del Boccaccio e d’alcune novelle di quello, raccontando le beffe fatte da Bruno e Buffalmacco al povero Calandrino e a quel valente medico, maestro Simone da Villa. Era quivi il gentilissimo dottor di leggi messer Lodovico Dante Aligeri, il qual disse molte cose in commendazione del Boccaccio, nomandolo suo compatriota, perciò che esso Aligeri, come chiaro si sa, è disceso per linea maschile da uno dei fígliuoli del famoso e dottissimo Dante che in Verona rimase al servigio dei signori de la Scala. Il conte Raimondo da la Torre vostro zio, uomo di molte buone doti ornato, seguendo il parlar di messer Lodovico narrò una piacevol novella, la quale il signor Cesare mi comandò che io scrivessi. Il che avendo fatto, ancor ch’io creda che piú volte voi l’abbiate udita raccontare, m’è paruto convenevole tale quale descritta l’ho, che sia vostra. So bene che non averò saputo rappresentar l’eloquenza di vostro zio né por in iscritto la novella cosí puntalmente come fu da lui narrata. Io ho ben avuto buon animo, ma il non saper piú è stato cagione che secondo l’animo non ho avuto le forze. Tale adunque qual è ve la dono ed al vertuoso vostro nome dedico e consacro. Scrissi non è molto la novelletta che voi pure a Montorio narraste quando un’altra compagnia dal signor Cesare vi fu condutta, e quella ho donata al nostro gentilissimo conte Bartolomeo Canossa a cui le cose da voi narrate sogliono mirabilmente piacere. Ma a chi non piace egli ciò che voi con la penna od in prosa od in verso scrivete o tra gli amici ed altrove ragionate? Egli sará bene di poco gusto e di rintuzzato ingegno. State sano.