Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella III
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Novella III
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Guglielmo tedesco con un piacevol argomento
cava danari di mano ad un prelato che era con la sua innamorata.
Credo che la maggior parte di voi oggimai conosca monsignor de la Rocella o per vista o per fama, il quale io conosco molto domesticamente per aver egli una mia lite che faccio, ne le mani. Egli nel vero è mirabil a pensar la vita che il piú del tempo tiene, che due e tre volte almeno la settimana trapassa tutto il giorno a tavola. Né perciò è gran mangiatore né bevitore eccessivo, perciò che io posso santamente giurare d’averlo in casa del signor Scipione Attellano ed anco altrove infinite volte veduto seder a mensa le sei e sette ore continove, e nondimeno senza parangone era vie piú il tempo che consumava in ciancie e favoleggiamenti che non è il resto. Siate sicuri che quel vino che ogni costumato gentiluomo per l’ordinario beverá in un fiato, egli nol beverá in diece volte. Ma gli piace aver i bicchieri grandi e spesso spesso non incannar il vino o trangugiarlo, ma soavemente pigliarne un poco e poi far pausa e masticar buona pezza un boccone. Con tutti questi suoi banchettamenti, non è uomo in Milano che ebro lo vedesse giá mai. E ciò che mirabilissimo mi pare e ch’ogni credenza avanza, è il sentirlo rapportar un processo cosí civile come criminale e sentirlo disputar alcun punto di leggi. Ché, siami lecito cosí dire, pochi senatori in quel senato ci sono, e pur molti ce ne sono dottissimi, che meglio e con piú memoria e piú ordinatamente di lui alleghino o questionino alcuna cosa. Ma io nel vero non ho giá cominciato a parlar per dir le lodi di monsignor de la Rocella, ma tratto da la novella del Montachino, cotanto me n’è paruto dirvene. Ora volendo narrar la mia novella, voi devete sapere che due volte l’anno soglion ordinariamente i tedeschi, l’Alpi a la Lombardia vicine abitanti, menar cavalli presso a Milano da vendere in gran numero, e communemente ora si fermano a Dergheno, ora a Derganello e talvolta anco a la Cagnuola, luoghi molto propinqui a questa cittá di Milano. E per la lunga pratica che giá hanno i mercadanti con i gentiluomini del paese, conoscendo oggimai quanto ciascuno vaglia, il piú de le volte con uno scritto di man propria del compratore, promettente fra certo tempo di sodisfare a l’intero pagamento, danno i cavalli. Egli è altresí costume di molti che si ritrovano al bisogno di danari, prender spesse fiate cavalli a credenza, e, subito che pigliati li hanno, vendergli a contanti per assai minor prezzo di quello che a lor sono costati. Il che anco si costuma su la piazza del Broletto ne le robe mercantili tra mercadanti con opera degli scaltriti sensali. E questa foggia di vendere e comprare da loro si domanda «far stocchi», cagione che molti gentiluomini in modo vanno a poco a poco, e spesso anco in grosso, scemando e diffalcando il loro, che non se ne avvedendo divengano poverissimi. Fu adunque un gentiluomo molto nobile, il cui nome per ora tacer mi par convenevole, a ciò che di quanto sono per narrarvi biasimo non gli segua, il quale spendendo tuttavia senza ritegno largamente e non ritrovandosi per certi suoi bisogni quella quantitá di moneta che voluto averebbe, se ne andò a trovar a Derganello uno di questi mercadanti tedeschi, e convenutosi con lui del prezzo, pigliò da lui molti palafreni, facendoli secondo la costuma lo scritto di mano, che a termine d’un anno gli pagaria intieramente il costo dei detti cavalli. Ora avendo giá il compratore apparecchiato a chi dare a denari contanti essi cavalli, quel giorno stesso tutti gli diede via quasi per la metá meno di quello che al tedesco deveva pagare; onde avuto il danaro a la mano, attese a far il suo bisogno. Approssimandosi poi il termine di pagar al tedesco i presi cavalli, il buon milanese che, per altri danni patiti e spese fuor di misura fatte, non si trovava l’annoverato in mano per sodisfare al debito, né sapeva ove prevalersi di tanta somma, si trovava molto di mala voglia; perciò che per le convezioni che i mercadanti tedeschi hanno con la corte, senza altrimenti contestar lite né piatire, come mostrano gli scritti di questi e di quelli, si fa loro ragion sommaria, e prendono i sergenti de la corte e fanno imprigionar i debitori e porre a l’incanto i beni di quelli. Venuto il termine, ecco venir il mercadante il quale cominciò a riscuoter i suoi crediti. Il gentiluomo milanese, che per ora Ambrogio sará chiamato, non si trovando il modo di poter pagare, deliberò partirsi da Milano e segretamente in alcun luogo ricoverarsi tanto che Guglielmo, ché cosí aveva nome il mercadante tedesco, se ne ritornasse ne la Magna. Né dato indugio al pensiero, quel dí medesimo che Guglielmo era giunto, egli si partí e andò verso Lodi per ricoverarsi poi, se bisogno era, a Crema. Aveva egli per moglie una giovane de le prime case di questa cittá, la quale oltra che era assai bella era poi tanto ben aggraziata, cortese, avvenevole e gentile che poche sue pari v’aveva, e da tutti generalmente era molto apprezzata e riverita, ed era quella che meravigliosamente sapeva onorar gli stranieri che il valevano, quando tra loro si trovava. Ella non contenta degli abbracciamenti del marito, quando comodamente poteva, con un molto ricco ed onorato uomo di chiesa, gentiluomo di Milano, che di lei era ferventissimamente innamorato, soleva ritrovarsi ed amorosamente prendersi piacere. E perché il prelato ecclesiastico era giovine nobilissimo, d’alto core e molto bello e gentile, ella non meno amava lui che egli lei amasse; perché d’un medesimo volere trovandosi, come veniva loro in destro si davano il meglior tempo del mondo. Il perché se la partita del marito fu a tutte due le parti carissima, pensatelo voi, perciò che mentre Ambrogio era ne la cittá, potevano i dui amanti rade volte trovarsi insieme che non fossero in grandissimo periglio. Adunque non fu a pena il marito uscito fuor de la cittá che la donna subito del tutto al suo amante diede avviso. Egli che altro mai non desiderava che starsi con lei, a ciò che ella non rimanesse sola e da qualche notturna fantasma fosse spaventata, l’andò molto volentieri la seguente notte a parlare e giacersi con lei, facendole una lieta e grata compagnia; ed insieme si davano il piú bel tempo che fosse possibile, non sapendo che cosa fosse il calendario con le vigilie e feste de lo scemonnito di messer Riccardo di Chinzica, di che la donna viveva assai contentissima. Insomma ogni notte per l’ordinario, monsignore andava a confortar la sua amante e talora anco v’andava di giorno, e di maniera l’accompagnava che ella si teneva molto ben sodisfatta, e sí bene incantavano la fantasma che, venendo sempre quella ed entrando in casa a coda ritta, a coda bassa e mezza lagrimosa se n’usciva. Ora fra questo mezzo domandò Guglielmo ciò che fosse d’Ambrogio ed intese che era in villa né piú oltra ricercò. Ma perché sempre ci sono alcuni che si pigliano le gabelle degli impacci, furono di quelli che gli fecero intendere come Ambrogio ogni notte tornava di villa a giacersi con la moglie e d’un’ora avanti giorno se n’andava fuori, e che egli questo faceva per non pagargli alora i cavalli. Non parve questo difficile a credere al mercadante, perché sapeva molto bene che da tutte l’ore de la notte con duo quattrini per il ponticello de la porta Ticinese si può uscire de la cittá e medesimamente entrarvi. Costoro che la cosa dissero al tedesco avevano, la notte, usando meno che discretamente il prelato l’andar e il partirsi da la donna, veduto quello piú volte, e nol conoscendo s’imaginarono che fosse il marito e che ciò facesse per non pagare a quel termine i cavalli. Di che forte Guglielmo turbato, il quale averebbe voluto i suoi danari, se n’andò a ritrovar Momboiero, luogotenente di monsignor di Sandiò alora capitano di giustizia di Milano, e seco diede ordine a quanto intendeva di fare. Il perché la notte seguente poste le spie a la casa d’Ambrogio, stava il tedesco aspettando d’intendere se per sorte se ne veniva a giacersi con la moglie, secondo che gli era stato detto. Monsignore lo preposto che nulla di questa trama sapeva, tra le tre e quattro ore se n’andò come era consueto ad incantar il mal tempo con la sua donna. Quelli che in aguato nascosamente s’erano appiattati, videro un accompagnato da cinque servidori arrivar a la porta de la casa d’Ambrogio, e dato certo segno, tutto solo dentro entrare e i servidori subito tornarsi indietro. E non conoscendo chi si fosse colui che in casa ricoverato s’era, tennero per fermo colui esser il marito de la donna; onde un di loro partitosi, diede avviso al tedesco di quanto veduto avevano, e gli altri se ne rimasero a le poste. Guglielmo inteso questo, come di giá con Momboiero ordinato aveva, prese venticinque fanti de la guardia e a la stanza del suo debitore tutto allegro si dirizzò. Quivi giunto e posti i sergenti ai luoghi convenevoli, andò a la porta e cominciò molto forte a batter l’uscio e gridare, domandando per nome il padrone de la casa. Sentendo il gran picchiare de la porta, una de le serve de la donna tutta sonnacchiosa si fece ad un balcone e disse: – Chi è lá giú? chi picchia a quest’ora? – Guglielmo alora le rispose che era bisogno che parlasse col messere de la casa. – Egli non ci è, – disse la donna, – perché la settimana passata andò in villa; sí che, messer mio, andate a la buon’ora e non ci date cotanta seccaggine a quest’ora, che è tempo di dormire e non d’andar cercando di parlar ai gentiluomini. – Voleva Guglielmo rispondere non so che a la fantesca, ma ella come ebbe finito il suo parlare, cosí ritiratasi a dentro, serrò il balcone e ritornossi a letto. Il tedesco che cosí di leggero non credeva a la fante, anzi portava ferma openione che il gentiluomo fosse in casa con la moglie, salí in una fierissima còlera e con maggior romore che prima, fece che i sergenti che seco erano, con le picche ed alabarde cominciarono a mettersi a torno a la porta, ed in poco d’ora la levarono per viva forza fuor dei gangheri e la gettarono a terra. Avvisati gli amanti di questo, che di giá di prima avevano sentito il romore, avendo anco buona pezza preso insiememente amoroso piacere, e volendo dopo la durata fatica alquanto riposare per esser poi piú gagliardi a la giostra, sentendo giá la casa piena di sbirri, attesero a fortificar molto ben la porta de la camera ove erano e dinanzi a l’uscio per di dentro vi accostarono forzieri e casse. La donna tutta tremante in un tratto si vestí, ed il medesimo fece monsignor lo preposto, mettendosi i suoi panni, cioè quelli che la notte soleva portare andando a tener compagnia a la sua cara innamorata, che non prete pareva ma un capitano, andando poi il giorno in abito onorato da ecclesiastico. Guglielmo che a ogni modo deliberato s’era di voler il suo debitor ne le mani, dapoi che in vano ebbe molte stanze ricercate, pervenne a la camera ove erano gli amanti, e non la potendo buonamente aprire, fece con suoi ingegni spezzar la porta, ed avendo le lor lanterne allumate volle che alcuni sergenti dentro entrassero, dopo i quali egli altresí in camera entrò. La donna tutta tremante s’era al letto accostata e quivi amaramente tanta sua disgrazia piangeva. Da l’altra banda monsignor lo proposto che sapeva la cagione che menava il tedesco a quell’ora a casa con i sergenti de la corte, avendo la sua spada in mano ignuda e veggendosi solo tra tanta sbirraglia, elesse per minor male con buone parole da quegli svilupparsi che far altrimenti romore. Conoscendo adunque che quivi le sue forze tra tanti armati non averebbero avuto luogo, fatto buon viso, si fece loro incontro e gli domandò che cosa fosse cotesta, e ciò che a cosí straordinaria ora andavano ricercando. A cui subito il tedesco che fermamente credeva lui esser Ambrogio, rispose dicendo: – Che cosa? Al corpo di Cristo, Ambrogio, Ambrogio, tu lo saperai ben tosto e non ti varranno le tue arti. Io ti so dire che giá mai piú non m’ingannerai. Tu me n’hai fatta una e sará la prima e la sezzaia, ché da ora innanzi mi fiderei prima di non so chi che mai piú darti una stringa in credenza. Pagami pure, pagami i miei cavalli e poi ti va a nascondere ove piú t’aggradirá. Tu ti credevi fuggire ed io ti ci ho còlto: a la fé che altri sa tanto quanto tu. Dammi i miei danari se non vuoi vituperosamente esser menato in prigione. – Monsignore sentendo queste bravate, in questa maniera gli disse: – Uomo da bene, voi sète fortemente ingannato, perché io non sono colui che voi andate cercando e m’avete preso in fallo. Miratemi ben nel viso e conoscerete l’error vostro, ché io sono altri che voi non v’imaginate. – Ma poco profitto del suo dire traeva, perché il tedesco stava pur ostinato e non voleva a modo veruno conoscerlo, tenendo sempre replicato che voleva i suoi danari. Puoté monsignor dire e ridire: – Io non ho a far nulla con voi né mai a me vendeste cavalli, – che niente gli giovò. A la fine veggendo il tedesco che il contender andava in lungo, comandò ai sergenti che piú non attendessero a parole che colui si dicesse, ma che lo prendessero; di modo che monsignore a mal grado suo fu preso e menato fuor di camera ne la sala. Era quivi il resto degli sbirri adunato per menar via a la corte il preso monsignore. Il che egli veggendo e parendogli troppo duro, non tanto per rispetto di se stesso quanto per l’onor de la donna, che si sapesse publicamente che egli in casa di lei fosse stato preso, tornò di nuovo a dir al tedesco: – Voi v’affaticate indarno certamente, perché io non ho a far nulla con voi né so chi vi siate. E se io ho comprati cavalli, io sempre gli ho a danari contanti pagati. Ma vedete un poco se io son colui che dite esser vostro debitore o no, e vi chiarirete che io non son quello che voi andate cercando. – Onde per fargli fede di quanto diceva, cavatasi di capo la cuffia de l’oro che egli la notte in simil diporti soleva mettersi, mostrò loro una gran chierica e disse: – Parvi ch’io sia quel debitore che andate cercando? Andate, andate e ricercatelo altrove, e lasciate starmi. – Il tedesco imbriaco da la còlera e forse anco dal vino e non bene riconoscendo se il prigione fosse il suo debitore o no: – Vedi, – disse, – che bel tratto è questo! Al corpo di Cristo che queste tue arti ti recheranno poco profitto. Tu ti sei fatta far la chierica in capo per non poter esser convenuto in giudicio; ma questo tuo pensiero nulla ti gioverá, ché avendo tu moglie come hai, tu non puoi esser né prete né frate. A dirti il vero tu non ti sei apposto a ciò che ti bisogna. Pagami i miei cavalli e le spese che ho fatto, secondo che per il tuo scritto fatto di tua mano, che negar non puoi, sei ubligato; e quando pagato m’averai, va ove tu vuoi. – Monsignor lo proposto gli teneva pur detto che egli era in errore, e che niente gli deveva dare, e che da lui cavalli né altra cosa aveva presa giá mai, e che mettesse ben mente a ciò che si faceva; ma il tutto era indarno, perciò che il tedesco non era disposto a lasciarlo andare se prima non era pagato. Mentre che eglino contendevano di questa maniera, uno dei capi de la guardia de la notte che a quell’ore suol andar a torno, passando per la contrada vide la porta de la casa d’Ambrogio sgangherata e battuta per terra e sentí il romore che di sopra si faceva; e dubitando dei ladronecci che far si sogliono, con i suoi fanti entrò dentro e salite le scale pervenne a la sala ov’era il romore. Quivi su la porta trovando alcuni sergenti de la corte, domandò loro la cagione del romoreggiare che ivi entro si faceva, e intendendo che erano venuti a prender un debitore di Guglielmo tedesco andò avanti e disse: – Che romor è questo? – E guardando in viso il prigionero, subito conobbe che egli era monsignor lo proposto. Onde disse a questi fanti che il tenevano che si ritirassero a dietro, perché egli pigliava il prigione sovra di sé. E tiratolo a parte gli domandò che voleva dire ch’egli a quell’ora in casa d’Ambrogio si trovasse. Il proposto che domesticamente lo conosceva, gli narrò come stava il fatto; del che il capitano ridendo lo confortò a star di buon animo e che farebbe ogni cosa per levarli la seccaggine del tedesco da dosso. Poi tirato da banda Guglielmo, gli disse: – Che hai tu a far con questo prigione che qui è sovra la mia fede? conosci tu chi egli si sia? – Dicendo il tedesco che gli aveva altre volte dato cavalli in credenza, e che buona quantitá di danari da lui doveva avere e che voleva esser pagato, rispose il capitano: – Da Ambrogio può ben essere che tu debbia aver danari, ma da costui non giá. E perché io m’avveggio che tu né questi altri lo conoscete, io ti vo’ sgannare ed assicurarti che costui non è Ambrogio, ancor che in casa d’Ambrogio sia stato preso. E tanto te ne vo’ dire, che egli è persona onoratissima di questa cittá, ricco e di famiglia molto nobile. Per questo ti dico che tu ci pensi ben suso, perché peggio te ne potrebbe avvenire di quello che tu pensi; e resta sicuro che se Momboiero s’avesse potuto imaginare che costui qua entro si fosse trovato, che mai non ti averebbe concesso questi fanti, i quali ti furono dati per pigliar Ambrogio e non altri. Costui è uomo che sí di leggero non si scorderá questa ingiuria, e ti potrebbe far fare un dí uno scherzo che ti spiacerebbe. – Il tedesco riscaldato sul fatto e piú cruccioso che la mala ventura, e dolente d’aver fatta la spesa indarno, insieme col capitano s’accostò al prigione e gli disse: – Io non so chi tu sia, ma per quello che mi dice qui il capitano, mi sembra che tu sia gentiluomo e prelato. Pertanto tu devi aver riguardo a l’onor tuo ed al biasimo che te ne può seguire. Tu déi altresí non meno curar l’onore di questa donna che mostri che tu ami, ed averlo caro quanto la vita propria. Io mi credevo che tu fossi il marito suo, mio debitore, e per questo t’ho io fatto far prigione. La spesa è fatta, né, perché tu non sia quello ch’io mi pensava, vorranno costoro un quattrino meno del pagamento che ho promesso loro. Pertanto poi che tu invece del mio debitore mi sei capitato a le mani, io non vo’ che tu ti parta che almeno tu non mi paghi le spese che ho fatte in condurre costoro qui. Sí che disponti a questo e fa che vengano i danari, altrimenti ti giuro che come sia giorno anderò per tutto Milano publicando il fatto come sta. E se bene io non so il tuo nome, svergognerò almeno la tua innamorata, avvengane poi ciò che si voglia. E contra voi, capitano, a la presenza di costoro protesto d’ogni danno che ne patisca, se voi non mi rendete il mio prigione, perché io non vi credo cosa che mi diciate, e porto fermissima openione che cotestui sia il mio debitore. Io lo voglio come sia giorno farlo menar legato a le prigioni. Pensi mò egli che onore a lui e a la donna sará come si sappia. – Voltatosi poi a monsignore disse: – Questa è l’ultima conchiusione: che io vo’ essere pagato di queste spese. Ma nel vero tu non solamente doveresti sodisfarmi de le spese, ma mi deveresti anco pagar i cavalli. E non ti meravigliare di quanto ti dico. Il marito de la tua donna ha avuto i miei cavalli e a suo piacer cavalcati quando ha voluto. Tu invece di lui cavalchi la sua moglie quando in destro ti viene e godi del suo amore. Perché adunque in cambio di quello, non mi déi pagar i cavalli? – Mossero a risa queste parole del tedesco tutti i circonstanti, e monsignor anco non si puoté contenere che di cosí piacevol argomento e induzione arguta non ridesse. Ora le parole furono moltiplicate pur assai, stando per lungo spazio in grandissima contesa, non volendo monsignor pagar cosa alcuna, e il tedesco non essendo disposto a lasciarlo se non pagava le spese. A la fine veggendo il capitano che senza costo non si sarebbe mai a capo di cotesta fastidiosa lite venuto, essortò il proposto che a quei fanti alcuna cosa donasse. Il proposto dubitando che la cosa in modo non si divolgasse che poi non se le potesse provedere, elesse per minor male di sodisfar al tedesco pagando le spese fatte in quei fanti, a ciò che la cosa non andasse piú in lungo. Onde col mezzo del capitano mandò per un suo agente e fece recar quella somma di moneta che fu di bisogno. E cosí de le mani di quei sergenti si liberò, con speranza di far tante poste e correr a vettura che rifrancarebbe i suoi danari. Che egli li abbia fin qui rifrancati, io non so: so bene che ancora va per le poste tutto il dí; e ben che il marito tornasse e poi al tedesco sodisfacesse, seppero gli amanti far di modo che Ambrogio mai de l’accidente occorso niente seppe.
Il Bandello al magnifico giovine
messer Niccolò Salerno
Quanto s’ingannino tutti quegli uomini che s’innamorano e fanno servitú con quelle donne che per prezzo dánno ogni dí il corpo loro a chi le ricerca, infinite volte s’è veduto, per ciò che in cosí fatto amore quasi non mai o di rado reciprocazione si truova. Ma il piú è che non sofferendo né potendo amor sofferir compagnia, se ami una di queste ti converrá aver tanti rivali quanti quella goderanno, il che in amore si riputa peggio che morte. E certo ne l’animo mio non può cadere come sia possibile che un gentiluomo possa piegarsi in modo alcuno ad amar donna che egli sappia esser sempre presta di sottomettersi a chiunque le dá danari e, come si fa in Vinegia, pattuirá con dui e tre che ciascun di loro abbia il suo determinato giorno da giacersi seco, parendo a me che qualunque ama qual donna si sia e sappia quella aver di sé fatto copia ad altrui o aver animo di farlo, debbia subito quell’amoroso fuoco ammorzare e lasciarla a colui a cui s’è data o vuol dar in preda. Tuttavia si trovano molti che per amor di queste cosí fatte donne fanno di molte pazzie; le quali come s’avvedeno che un giovine sia del lor amor tócco sul vivo, fanno le ritrose e mille arti usano per piú irretirlo ed invescarlo, e la notte sugli occhi suoi introducono chi piú lor piace in camera a giacersi seco, e lui lasciano miseramente dinanzi la porta su la nuda terra languire. Potrei mille altre taccarelle circa queste donne da vettura, – ché cosí chiamar si ponno, – dire, ma per onor degli uomini mi vergogno a raccontarle. Si ragionava di questa materia ne la ròcca di Castiglione de le Stiviere a la presenza del molto illustre ed ingegnoso signore il signor Aloise marchese di Gonzaga, ove erano uomini molto dotti e nobili, tra i quali messer Emilio degli Emilii, gentiluomo bresciano e persona dottrinata e piacevole, narrò una novella di nuovo a Vinegia accaduta, per la quale egli ci mostrò che il piú de le volte con simili donne l’uomo cápita male. Onde avendo io la novella scritta, quella vi mando avendola al nome vostro intitolata, che appo voi sará pegno del mio, verso voi e tutta casa vostra, amore. State sano.