Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XIV
Questo testo è completo. |
Novella XIV
◄ | Quarta parte - Novella XIII | Quarta parte - Novella XV | ► |
Uno scolare in uno medesimo tempo in uno istesso letto
gode due sue innamorate, e l’una non si accorge de l’altra.
Avendovi, signora mia osservandissima, detta la cagione del romore seguíto tra gli scolari, ove erano alcuni auditori miei, contra li sergenti de la corte, e forse avendovi alquanto attristata per la morte di alcuni, che nel menar de le mani tra l’una e l’altra parte seguí, mi pare essere debito de l’officio mio con alcuna piacevole novella levarvi parte de la tristicia da voi, come pietosa che sète, presa. E per cagione di parlar di scolari potendo essere processo il despiacere vostro, col parlar pure di uno scolare mi sforzerò allegrarvi. Ne lo studio de la cittá di Pavia fu uno scolare, il cui nome per convenienti rispetti mi pare di tacere, il quale, ancora che per essere di elevato ingegno attendesse agli studi filosofici, tuttavia, come su il fiorire de la giovanezza, che volentieri séguita il vessillo di amore, si diede tutto in preda a una assai bella donna, moglie di uno cittadino che de li beni de la fortuna si trovava commodamente agiato. Seppe sí bene fare lo scaltrito scolare, che si fece molto dimestico di esso cittadino, il quale assai spesso lo invitava a disinare e a cenare seco; di modo che con questo pratticare in casa divenne anco dimestico de la sua amata donna. E cosí, in breve, andò la bisogna, che a quella narrando il suo amore e aggiungendovi preghiere caldissime, non essendo ella di marmo ma di carne e osse, di maniera insieme si dimesticarono che amorosamente piú volte preseno l’uno de l’altro piacere; onde, ogni volta che ci era la commoditá, non mancavano a darsi buon tempo e vita chiara. Ma perché la troppa abondanza talora genera fastidio, e li giovani quante donne el dí veggiono tante ne desiderano, l’appetitoso scolare vide una vedovella che sovente pratticava con la sua innamorata, che era tutta baldanzosa e festevole, che molto gli piacque, e si mise in animo di provare se di quella poteva diventare possessore. Onde cominciò con la coda de l’occhiolino, quanto piú destramente poteva, amorosamente vagheggiarla. Ella, veggendo lo scolare in quella casa molto dimestico cosí del marito padrone de la casa come anco de la moglie di quello, senza pensarvi alcuna malizia, credette che egli fosse parente loro. E parendole lo scolare tutto costumato e di buona grazia, mostrava non despiacerle che da quello fosse amata. Onde assiduamente conversando in quella casa, e il piú de le volte ritrovandovisi lo scolare, ella cominciò farli buon viso e mostrarli che di lui le calesse; ma si governava in modo che non voleva che la donna de la casa se ne avedesse. Accortosi il giovane di questo, per non guastare la coda al fagiano, navigava ancora egli sotto acqua; e non avendo commoditá di poterle parlare segretamente, con gli occhi si aiutava. Le scrisse poi una amorosa lettera, la quale destramente le diede. Ella la prese e la lesse, e li fece risposta che non meno amava lui che egli lei amasse, ma che non vedeva commoditá di dargli udienza segreta: per uno fastidioso cognato che in casa avea, non era possibile; pregando quello che, in casa ove pratticava e che ella soleva spesso venire, sí guardasse da la padrona de la stanza di non parlare in segreto, perché ella direbbe ciò che vedesse al fastidioso di suo cognato. Piacque molto a lo scolare che la vedovella non avesse sospetto de la prattica che egli con la padrona de la casa avea, e andava tuttavia chimerizzando come farebbe a godere essa vedovella, la quale medesimamente non meno desiderava provare gli abbracciamenti del giovane, che egli si facesse quelli di lei. Avenne indi a poco che andò fore di Pavia il padrone de la casa, e non era per tornare fra quattro o cinque dí. Il perché la maritata invitò per cena e a letto il suo scolare, che di grado accettò l’invito. Andò lo scolare buona pezza innanzi cena a trovare la sua donna, perché, come detto vi ho, egli per la dimestichezza che col marito avea, andava da ogni ora in quella casa senza rispetto veruno. La donna poi, per potere piú liberamente da ogni ora essere con l’amante, tenne tal mezzo con quelle sue massare, che tutte le tenevano mano. Ora, mentre che in diversi ragionamenti andavano aspettando l’ora de la cena, ecco arrivare a l’improviso la vedovella, la quale fu da la maritata cortesemente ricevuta. E dopo le consuete tra loro accoglienze disse la vedovella a la maritata: – Io ho inteso che vostro marito è cavalcato, e perché sète sola, sono venuta cenare vosco. – Siate pure la benevenuta, sorella mia. – E poi alquanto avendo ragionato, lo scolare a le donne disse: – Restatevi in pace, ché io me ne vado a cena. – La maritata allora, levatasi in piede: – Per mia fé, voi non vi partirete, – soggiunse, – ché se bene mio marito non ci è, cenerete pure di brigata con noi. – E cosí, essendo l’ora de la cena, fu data l’acqua a le mani e servirono le massare, mentre che si cenò ragionando tra loro di piacevoli e varie cose. Finita che fu la cena, essendo giá l’ora alquanto tardetta, disse la maritata a lo scolare: – Amico mio, voi per cortesia vostra sarete contento accompagnare questa mia come sorella sino a l’albergo suo, che è a punto lungo la strada che voi, andando a casa, bisogna che facciate. – E rispondendo lo scolare che molto volontieri, la vedovella allora, tutta ridente, disse: – No no, sorella mia. Tu mi hai dato cena, e tu mi darai anco letto, perché questa notte io intendo giacermi teco. – Sia con Dio! – rispose la maritata, ancora che ne l’animo suo le despiacesse, parendole troppo duro a perdere la buona notte che sperava di avere col suo amante. Egli medesimamente forte si contristava, veggendosi rompere il suo disegno, perché sperava, andando con la vedovella, di mettere alcuno ordine a li casi suoi, e poi tornarsene a dormire con la maritata. E parlando tra loro dui, senza dare sospetto veruno a la vedovella, andavano pure imaginandosi di trovare qualche modo per cui si potessero godere insieme. Onde disse la maritata a lo scolare: – Io sono disposta per ogni modo che tu questa notte resti meco. Vedi se tu sai imaginarti qualche inganno, col quale possiamo indurre costei che tutti tre si corchiamo nel mio letto, che come sai è grandissimo e ne caperebbe piú di quattro. Io monstrerò non volere che tu ti parti. E fra tanto faremo qualche giuoco. – Si misero dapoi tutti tre a giuocare a «Gie l’e». Avendo buona pezza di tempo consumata in giuocare, disse lo scolare: – Egli è ora di andare a letto. Vogliamo noi giocare tutta la notte? Il mio albergo è molto lontano. – Soggiunse allora la maritata: – Io ti insegnerò, amico mio. Quando mio marito è a casa e tu ceni nosco, tu dormi dentro la camera di mezzo: tu lí dormirai questa notte. – Fatto questo, mentre le due donne si corcâro, lo scolare, dato l’ordine con una massara di quanto voleva fare, si andò sovra la camera de le donne, e la massara da una fenestra con una pertica frugava a la fenestra de la camera de la donna, e lo scolare di sopra faceva strepito, di modo che pareva che ci fossero ladri. La maritata, ciò sentendo: – Oimè, sorella mia, – disse, – li ladri sono in casa! – La massara in questo, correndo verso la camera de la padrona, forte ansando, picchiò a l’uscio, e lo scolare, descendendo con la ignuda spada in mano, gridava: – Ahi traditore, tu se’ morto! – E parea che seguitasse uno. Dapoi tornando di sopra, trovò che la massara era intrata in camera e diceva a le donne che avea visto il ladro fuggire e che con la spada messer lo scolare fieramente lo incalzava. Le altre massare tutte erano giá in camera, mostrando di essere sgomentate e piene di gran paura, e tutte aveano veduto piú di uno ladro. Lo scolare disse averne cacciati dui, li quali erano saltati giú da una finestra bassa in strada e che egli non avea potuto aggiungergli a tempo, e che avea serrata essa finestra. La maritata allora, mostrando fieramente adirarsi contra le massare, disse loro uno carro di ingiurie; e fingeva per ogni modo di volerle battere, sapendo come avevano espressa commissione dal marito che ogni sera fermassero quelle finestre. Ma lo scolare con buone parole parve che mitigasse assai la simulata còlera de la adirata donna, la quale borbottando dice che non potrá mai dormire sicuramente quella notte, se lo scolare non resta a dormire in quella camera. Di questo la vedovella mostrava non contentarsi; ma la maritata tanto bene le seppe dire e tanto lodò lo scolare, dicendo che era buono e discreto giovane e che non farebbe alcuna cosa meno che onesta, e che se pure volesse passare li termini del devere, che elle erano due e che di liggiero lo castigarebbero, che la vedovella dopo molta resistenza vi si accordò; onde di commune concordia fu messa la vedova in mezzo. Cosí portati tutti tre in letto, la maritata, che avea costume, dormendo, di sornacchiare, come fu in letto, vinta dal sonno, cominciò grandemente a sornacchiare. Il che despiacendo a la vedova, disse: – Oimè! come è possibile dormire con questo sornacchiamento ne la testa? – Allora lo scolare, soavemente a quella accostatosi e postale una mano su le ritondette e dure poppe, pian piano le disse: – Vita mia, questa è una ventura che la fortuna mi manda. Non la risvegliate a veruno modo; lasciatela dormire a sua posta. – E quivi con molte dolci parole narrandole quanto la amava e quanto le era servitore, e quanta amorosa passione per quella di continovo sofferiva, sí bene seppe cicalare e dire il fatto suo che, da l’agio e il buio e dal caldo de le lenzuola aiutata, la vedovella, che pure l’amava, si lasciò tutta in poter di quello, il quale, con gran piacere di amendue le parti, amorosamente prese il possesso de li tanto desiderati beni. E dando ordine che per l’avenire si potessero insieme talvolta dar piacere, la maritata si risvegliò; e desiderando godere il suo amante, non sapeva come governarsi. Tra questo la vedovella, che era alquanto lassa dal macinare, sentendo che la maritata si era destata e in effetto avendo assai piú caldo che non voleva, disse a la maritata, non pensando piú innanzi: – Sorella mia, io cangierei volentieri loco con voi, perché qui in mezzo io mi muoio di caldo e non oso voltarmi verso lo scolare. – Che fa egli, il dormiglione? – soggiunse la maritata. – Egli, – rispose la vedovella, – si dorme come una marmotta, e da che si corcò non si è piú mai destato. – E nondimeno da tre volte in su, senza cangiar vettura, avea corso le poste. Cangiò adunque luoco la maritata e andò a lato de lo scolare; il quale, sentendo non molto dopo la vedova dormire, rientrò piú volte in possesso de li beni de la maritata, macinando; e cosí destramente macinò che l’una non si accorse de l’altra giá mai. Onde le donne assai liete e contente, come fu giorno, si levarono. La maritata poi una sera, cenando col marito e con lo scolare, disse al marito che le era stato narrato da una sua vicina quanto a lei era successo, ma cambiò li nomi de lo scolare e de la vedovella; e sovente con lo scolare, ridendo, diceva che la vedovella era una gran dormigliona. Ma lo scolare, che sapeva come la cosa stava, avea gran piacere di avere in quello modo le due donne trattate.
Il Bandello al magnifico e dottissimo filosofo
e poeta soavissimo messer Geronimo Bandello
cugino carissimo salute
Mi fu bisogno, come sapete, questo novembre passato, per certi negozii di grandissima importanza passare in Francia e andare a la corte del re Lodovico di questo nome duodecimo, che si teneva a Bles, lungo il fiume Legeri, che da’ francesi volgaremente si chiama Loera. Il viaggio nel vero è stato assai lungo, e da l’Alpi sino a la corte, per essere il verno, molto faticoso per cagione de le continove e altissime nievi e degli indurati ghiacci, che, cavalcando, di continovo forza è calpestare. La medesima fatica si prova al ritorno. Questo bene ci è: che il camino è sicurissimo, e vi si può cavalcare di notte e di giorno con l’oro in mano senza sospetto di trovar fra via cosa ch’al caminar fosse molesta. Gli alloggiamenti poi sovra ogni credenza per la Savoia e Francia tu trovi tanto agiati, e sí commodamente sei di ogni cosa servito, che meglio essere non si può. Il che è grandissimo alleggiamento a la fatica che si soffre in caminando, perché li tuoi cavalli sono abondevolmente proveduti di tutto ciò che a quelli conviene. Ora, essendo io in corte, ebbi grandissima dimestichezza col riverendo padre frate Guglielmo Parvi, maestro in sacra teologia e ordinariamente auditore de la sacramentale e auricolare confessione di esso re. Egli, uno giorno che si trovò scioperato da le molte facende che gli occorreno molto sovente, mi narrò la mirabile conversione di uno grandissimo prencipe, che prima era stato grande e publico peccatore e persecutore de la Chiesa catolica. Me la fece poi leggere negli annali de l’Acquitania impressi in idioma francese. E perché mi parve molto degna e notabile, la tradussi in lingua italiana. Io mi credeva nel mio ritorno passar per la patria nostra; ma mi convenne con diligenzia prendere il dritto camino a Milano. Onde tra me ho deliberato di detta sacra istoria farvene uno dono e scriverla al nome vostro, sapendo quanto de le cose religiose vi dilettate. E giá mi pare vedere qualche poetica descrizione da voi sovra essa istoria composta. Ne farete partecipe mio padre, se da Roma è tornato, ché ancora non ne ho nova veruna; e agli altri parenti e amici nostri, che le cose sacre gustano, vi piacerá anco di mostrarla. State sano.