Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXIV
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Novella XXIV
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Un frate minore con nuovo inganno prende d’una donna
amoroso piacere, onde ne séguita la morte di tre persone ed egli si fugge.
Io porto ferma openione, amabilissime donne e voi cortesi gentiluomini, che qui radunati sète per fuggir novellando il noioso fastidio del caldo del merigge, e quest’ora, che molti dispensano o in dormire o in giuocare, trapassate onestamente in raccontar ciò che a la giornata s’intende degno di memoria, che questo nostro utile e pieno di piacer essercizio sia piú lodevole, – dicasi la parola senza invidia, – che consumar il tempo nel sonno o vero nel giuoco, perciò che mi pare aver udito assai spesso dire che ordinariamente il sonno sul mezzo giorno suol a’ corpi nostri di molte infermitá esser cagione, le quali se cosí tosto non si sentono, come l’uomo poi va verso la vecchiezza, sogliono con distillazioni di catarri, discese d’umori, doglie ed altri stimoli mandarne i suoi messaggeri e d’ora in ora accrescer le male disposizioni. Del giuoco penso che non bisogni farne molta lite, ma che sia assai chiaro il piú delle volte dal giuocare provenir mille disordini, e oltra la perdita del tempo che è cosa preziosissima, e la perdita de la roba che oggidí si stima da molti il primo sangue, ne nascono tra i piú cari amici immortali nemicizie, che tirano a lungo andare dietro a sé questioni, mischie, feriti ed assai sovente morte d’uomini; senza che il giuocare par che tiri a sé per i capegli la bestemmia di Dio e dei santi, peccato troppo enorme e troppo offensivo de la divina maestá. Lasciato adunque il dormire da questa ora a chi lo vuole e il trastullo del giuoco a che piace, seguiteremo del novellare la solita nostra costuma. E poi che a me tocca il dire, vi narrerò un pietoso accidente che intesi non è troppo esser accaduto in Normandia. E ben che molti altri n’abbia per la mani, nondimeno piacemi dirvi questo, il quale essendo stato detto dal personaggio che si sa, si deve creder esser vero. Dicolo anco a ciò possiate vedere a quanto perigliosi errori ne trasporti il governarsi senza ragione. Il che ancora che in tutte le cose si veggia generalmente avvenire, avviene egli molto piú spesso ne le cose ove amore impera: dico «amore» parlando secondo il commun uso, a ciò non dica «abuso». Io non dubito punto che amore non sia cosa santa, divina e a noi mortali necessaria, imperò che se non fosse amore, sarebbe la vita nostra come il cielo senza stelle e sole. Che da amore tutti i beni procedino, tutte le vertú naschino, tutti i buoni costumi s’informino, e che sia nel vero il dolcissimo condimento de la vita umana, cui senza ogni cosa sarebbe insipida e senza piacere o gioia alcuna, chi dubita o non lo crede, cotestui va cercando la candidezza ne la neve e il calore in mezzo il fuoco. E se par talora che da amore nascano liti, differenze, discordie, nemicizie, travagli, morti e altri innoverabili mali, nasce perché noi altri, legati i piedi e le mani a la ragione, diamo, abbagliati da caduco e fugace piacere, il freno de l’azioni nostre in mano a l’appetito e quello seguitiamo per torte e scabrose vie, né sappiamo discernere il sentiero de l’amore da quello de la voglia e del senso, onde andiamo in mille precipizi. Ma io non cominciai a parlare per entrar ne le disputazioni e scole dei filosofanti, e volervi oggi mostrare qual il vero Amore figliuolo de la celeste Venere e qual sia il falso Cupido nasciuto da la terrestre, ché altro luogo ed altro tempo a questo bisogneria. Ma solo a novellare mi posi per dimostrarvi quanto danno sia seguíto dal disonesto appetito d’un cordigliero, il quale, allargate le redini a la sensual sua concupiscenza, è stato di grandissima rovina a due nobilissime famiglie cagione. E se non fosse che la cosa tanto è divolgata che quasi da tutti si sa, io non sarei stato oso a nomar l’ordine del frate giá mai per non dar materia ai maledici di biasimar cosí sacra religione come è quella di san Francesco. Ma in ogni setta, in ogni collegio e in ogni santa congregazione ve ne sono de’ buoni e de’ tristi, né perciò l’ordine o collegio, che santamente fu instituito, si deve biasimare, ma devesi notare e riprender quel malfattore che con le sue triste opere vuol la sua religione render infame. Ora venendo al fatto, dico che nel fertile, ricco e grande quanto altro che al mondo di ritruovi reame di Francia, che sempre è stato in ogni etá inclinatissimo a la religione, era ed oggidí ancora è in molti luoghi antica e lodevole consuetudine che ogni gentiluomo che si trovava aver castello e villa in suo potere, in quello faceva fabricar una agiata camera particolarmente per alloggiarvi dentro i frati minori. E questo facevasi perciò che, stando ordinariamente tutti i gentiluomini francesi mal volentieri ne la cittá, abitano communemente fuori a le lor castella e piazze, ove sono assai piú liberi e ponno piú agiatamente attender la caccia cosí degli augelli come de le fere, de la quale tutti mirabilmente si dilettano. Ne la quadragesima poi ed altre feste solenni, secondo la bisogna mandano a pigliare, sí per la confessioni come altresí per la prediche e altri ufficii divini, quei religiosi che piú secondo la divozione ed inclinazion loro gli aggradano, e per lo piú de le volte si servono dei cordiglieri. Ora non è guari di tempo nel paese di Normandia fu e forse ancora è un gentiluomo, il quale aveva una bellissima moglie, donna, oltra la bellezza, dotata di bei costumi, leggiadre maniere e d’animo molto grande e magnanimo. Questo continovamente dimorava ad un suo castello, diportandosi ora con augelli di rapina, ora con cani ed ora con reti a la caccia ed ora in altri piaceri, secondo che la stagione comportava. Aveva costui gran domestichezza con un frate minore assai giovine, uomo che, da l’abito in fuori, nulla o poco teneva de la vita di san Francesco, come quasi per l’ordinario tutti i religiosi costumano. I quali sí hanno tralignato dai lor maggiori, che se Basilio, Agostino, Benedetto, Bernardo, Domenico e Francesco descendessero dal cielo in terra, non conoscerebbero certo piú i monasteri, e meno i nuovi e poco mal limati lor costumi, ed assai poco le forme e colori degli abiti, di modo che, levandone il nome, tutti ad una voce direbbero questi che ora si chiamano frati o monachi non esser lor discepoli. Ma lasciando questa pratica, vegniamo al frate, il quale ancor che facesse d’ogni erba fascio, sapeva però cosí astutamente governarsi che appo tutti i paesani era in buona openione e tenuto uomo di santa vita, perciò che nel publico sempre si vedeva andar con gli occhi bassi, con le mani insieme composte e con il collo torto e col passo misurato sempre d’un tenore, che pareva proprio un di quei santi padri de l’eremo de la Tebaida. E quando si trovava di brigata o con uomini o con donne, di continovo aveva qualche cosa de le piaghe di san Francesco, dei miracoli di santo Antonio da Padova o di santo Buonaventura, o qualche bel fioretto di santa Chiara. Aveva anco cose assai del Testamento vecchio, del nuovo e de la vita dei santi padri, e secondo i luoghi e auditori, ora una istoria ed ora qualche detto morale esponeva. Sforzavasi praticar con gli uomini quanto meno poteva, per dubio che da loro non fosse a lungo andar conosciuto; con le donne, perché sono piú semplici e non tanto scaltrite, era piú assiduo, e secondo che trovava il terreno o molle o duro, con i suoi stromenti s’ingegnava cavarne qualche costrutto; e di modo faceva sotto acqua i fatti suoi che restava con tutti in buona openione. Sapete che proverbialmente da tutti si dice: «Chi è tristo e buono è tenuto, può far del male, ché non gli è creduto». Astretto dunque costui da l’amistá del baron normando, spesse volte andava a trovarlo ed era sempre albergato nel castello, ove secondo il costume era una camera per lui ben in ordine. E praticando assai domesticamente in casa e veggendo di continovo la bella moglie del barone, fece del «compar pugliese» e di modo di lasciò avviluppar ed infiammar da l’amor di quella, che mai non poteva aver né requie né riposo se non tanto quanto la vedeva e ragionava con lei. Era la donna bellissima, con dui occhi in capo che di continovo scintillavano come due fulgentissime stelle, e quelli di sorte reggeva e cosí dolcemente girava che era quasi impossibile d’affisar la vista nel lor vago splendore ed ivi non restar preso come pesce a l’amo. Era poi soavissima parlatrice, con certo modo troppo gentile e affabile da intertenere chiunque si metteva seco di qual si sia cosa a divisare, perché secondo il grado e professione di colui col quale ragionava, cosí ella saggiamente o proponeva qualche bella cosa o a la proposta gentilmente rispondeva. Messer lo frate che era scaltrito ed aveva passato piú d’una volta sotto l’arca di santo Longino, e di giá udita in confession la donna e conosciutala sovra ogni credenza onestissima, si trovava a modo d’un augelletto invischiato ne l’amorosa pania e non sapeva in maniera alcuna distrigarsi, onde viveva in pessima contentezza senza saper che farsi. Egli aveva usate l’arti che con simil donna gli erano parute a proposito, ma giovamento alcuno non gli era riuscito giá mai. Ella se pur s’avvide che il frate fosse di lei innamorato, alcun sembiante mai non ne fece; ma secondo il suo solito viveva e a tutti dimostrava onestamente buon viso, ed assai domesticamente talora col frate scherzava. Onde ei prese pur un giorno tanto d’ardire che sotto coperta entrò a parlar seco di propositi amorosi, e andò con varii modi tentando il guado per veder se v’era via nessuna ove potesse fermar il piede; ma egli cantava a’ sordi, e cosa che dicesse o facesse non gli recò giá mai profitto alcuno. Conoscendo adunque la donna de la natura che era, ché la vedeva in tutto lontana da simil pratiche, non ardiva apertamente scoprirle l’animo suo, dubitando non guastar di tal maniera i casi suoi che restasse privato di poter liberamente, come faceva, andar ad albergar nel castello, – o forse ebbe téma che una matina non si trovasse tre some di bastonate su le spalle, – ché pure la vista de l’amata donna ed il poter seco ragionare pareva che grandemente scemassero le sue passioni amorose ne le quali miseramente ardeva. Sciocchi per certo son costoro che, nei lacci d’amore irretiti e annodati, vanno ricercando a le fiamme loro la fine od in qualche parte ammorzarle col veder la cosa che tanto si brama, tanto si desidera, e non s’avveggiono i cechi che quanto piú cercano di scemarle piú l’accrescono e le fanno maggiori, perciò che veggendo la beltá de la donna amata, in tal modo il core si raccende che assai piú de l’usato s’infiamma. E chi non sa che l’uomo innamorato solamente con la memoria e ricordanza de la sua innamorata dá di continovo forza ed accrescimento a le fiamme e per se stesso le va nutrendo? E se ciò è, che veramente è, che sará di colui che ognora abbia innanzi agli occhi l’obbietto tanto amato? Certo egli sentirá ogni momento destarsi il concupiscibil appetito, e di maniera il suo fervente amore farsi ferventissimo che non saperá trovar modo di sanarse né forse di render minori le fiamme, perché, non se n’accorgendo, egli accresce fuoco a fuoco. Misero, ché con l’aggiunger legna a l’incendio pensa farlo minore, e non s’avvede che il vero rimedio di questo morbo è il fuggir la vista de la cosa amata. Ora il frate andava pur cercando d’acquetar il suo desio e tuttavia lo faceva piú intenso, perché quanto piú vedeva la donna tanto piú desiderava dí vederla, con speranza di poter un giorno ritrovarla di tal disposizione che quella sua durezza si spezzasse; ed egli, che altro in questo mondo non bramava, aveva speme con questo di conseguir il compimento d’ogni suo disio. Egli aveva letto istorie assai e forse per via di confessione conosciuto che molte donne di grandissimo stato, ancor che fossero onestissme, nondimeno a lungo andare s’erano lasciate vincere da varie sorti d’uomini, imperò che Amore non ha molto riguardo a grado né a sangue di personaggi, ma ben sovente accende un grande ed onorato gentiluomo de l’amor di qualche villanella, ed altresí infiammerá una nobilissima signora de le fiamme d’un povero e di vilissimo sangue nasciuto giovine, e se talora sará nobile, sará senza costumi e senza vertú. Cosí tra speme e disperazione il frate se ne viveva. Deliberò egli piú volte di scioglier questo nodo e veggendo quasi impossibile il venir a capo del suo amore, levarsi da questa pratica come da cosa che un dí gli potrebbe apportar qualche scorno. Ma come egli a la bellezza, a le belle maniere, agli atti e a l’altre doti de la sua tanto amata donna pensava, di modo l’amorose fiamme nel petto se gli raccendevano che altro far non sapeva né voleva se non pensar a lei, e giorno e notte imaginarsi qualche modo o via col cui mezzo egli potesse pervenir al desiato fine. Ché tale è questa passione d’amore, che sempre in sé assai piú speranza che disperazione apporta, e di modo vela gli occhi degli appaniati e chiusi in questo laberinto, che troppa fatica ci vuole a mettersi in libertá. Il frate adunque dopo molti pensieri tra sé conchiuse trascorrer temporeggiando, con speranza che un’ora gli concederebbe quello che tutto un anno dar non gli potrebbe, o vero che con astuzia ed inganno diverrebbe possessore di ciò che per servitú e per amor ottener non poteva. Il baron normando ancor che vedesse il frate frequentar piú de l’usato la stanza, non pensò altro di male, anzi aveva piacere che egli spesso lo venisse a vedere, e festeggiando molto, ed assai sovente l’adoperava nei suoi bisogni, usando l’opera di quello in diverse faccende, mandandolo a varie imprese, di modo che era divenuto come uomo di casa ed era da tutti quivi dentro riverito ed onorato, e di giorno e di notte usciva ed entrava nel castello a suo piacere. Onde veggendosi esser lá dentro accetto, non mancava a se stesso, pigliando ogni picciola occasione che se gli offerisse di venir al castello, e scaltritamente faceva nascere de l’oportune occasioni di venirvi. Ma in tutto questo tempo, che fu lo spazio di piú d’un anno, mai non puoté messer lo frate trovar mezzo di far che la donna avesse di lui pietá, perciò che tanto n’aveva l’ultimo dí come il primo. Avvenne in questo tempo che la donna ingravidò del marito d’un maschio, come il parto al tempo suo fece manifesto. Il barone, che altri figliuoli ancora non aveva, fece meravigliosa festa del partorir de la moglie, e cosí tutta la famiglia, e tanto piú che la donna ed il picciolo figliuolino erano sani, di modo che nel castello e ne la villa era una grandissima allegrezza, e stavano tutto il dí in balli, canti e feste. Avuta questa nuova del parto, un fratello d’essa donna venne a rallegrarsi seco e a star qualche giorno per via di diporto col cognato. Il frate di giá v’era venuto, perché innanzi il partorire aveva udita la confessione de la donna, e tuttavia vi dimorava, e cosí stavano diportandosi tutti di brigata con gran piacere. In questo tempo il frate era dentro la camera de la donna a ragionar con lei quasi da ogni ora. Stava la donna, secondo la costuma, nel letto molto onoratamente, perché oltra il paramento de la lettiera che era superbo e pomposo, e la camera tutta di finissime tapezzarie guarnita, ella di ricche vestimenta, d’oro e trapunti fregiate, vestiva dal mezzo de la persona in su, secondo che sovra il letto sedeva, ché il resto sotto una bellissima coperta celava ed il capo col petto di perle e gioie di gran valuta adornava, accresceva di modo la sua nativa bellezza che pareva il doppio maggiore. Del che messer lo frate prendeva meravigliosa contentezza. E in vero una bella giovane riccamente addobbata, stando il dí in un sontuoso e ben apparato letto del modo che stanno le donne di parto, fa un bellissimo vedere e pare che senza dubio raddoppi le sue bellezze, e tiene in sé un certo non so che di galante che le dá mirabilmente in tutti gli atti suoi grazia. Potevano esser circa otto o dieci giorni che la donna s’era scarcata del peso del parto, quando il signor del castello, con molti altri in camera ragionando di varie cose come in tal brigata si suole, disse a la moglie: – Donna, questa notte che viene io voglio venirmi a giacer con voi. – La donna che forse altre volte aveva sentito dire che si deverebbe star quaranta giorni prima che il marito dopo il parto si giacesse con la moglie, si mostrò alquanto schifevole e ritrosa di questa voglia del marito, e pareva che molto mal volentieri in questo gli compiacesse. Il barone che desiderava giacersi con lei, rivolto al frate, disse: – Padre, voi avete studiato a Parigi e tante volte predicato, che dite voi di questo caso? parvi egli che io commetta peccato a giacermi con mia moglie questa notte che viene? Diteci il parer vostro, perciò che a quello ci atterremo. – Era il frate assai dottrinato ed instrutto ne le cose de la Sacra Scrittura cosí del vecchio come del nuovo Testamento, e se ben mi ricordo, egli era dottor parigino, onde alquanto in se stesso ristretto, non dopo molto cosí disse: – Monsignore, se la vostra donna par che alquanto sia renitente a quello che ora le ricercate, ne devete sommamente lodare e ringraziar nostro signor Iddio che sí fatta moglie v’abbia concesso, ché in vero sono a’ nostri tempi rare, perché ciò che ella fa procede da conscienza timorata e che a modo alcuno non vorrebbe far cosa che offendesse in un minimo punto la maestá divina. Cosí fossero elle oggidí tutte le donne, ché il secolo nostro sarebbe piú onesto e lodato di quello che è. Ma io non voglio a la presenza sua lodarla, ché conosco ch’io le farei dispiacer grandissimo, e di giá veggio che comincia ad arrossire. Ben mi giova credere, e so che non m’inganno, che subito che conoscerá ciò che voi volete fare non esser peccato, vi compiacerá molto volentieri. – E rivolto a la donna le disse: – Non sète voi, madama, sempre pronta ad ubidire a monsignore in quello che sète debitrice di fare? – La donna disse di sí. – Or sia con Dio, – rispose il frate. – Devete adunque sapere, signori miei, che nostro signor Iddio nel Levitico, libro del Testamento vecchio, ordinò ai giudei alcune cerimonie nel partorir de le donne, perciò che se partorivano un fanciullo tenevano un modo, se nasceva una figliuola si faceva ad un altro. Ordinò adunque, per parlar solamente del nascer del maschio, che ogni volta che la donna partoriva prole maschile, che stesse sette giorni ne la sua immondizia e poi fin al numero dei quaranta dí a purificarsi, e in questo tempo non era lecito a l’uomo mischiarsi seco. Passato questo numero di giorni, offeriva un agnello al tempio in mano dei sacerdoti, e s’era povera donava due tortorelle o dui piccioni. Queste cerimonie legali per la morte del nostro redentore Giesu Cristo furono sciolte e introdutta la nuova legge evangelica, di modo che non dura piú quell’obbligo a le donne cristiane né di star il detto numero di giorni a purgarsi né di far l’oblazion de l’agnello o di quelli augelli. Come anco si sono levati i sacrificii ed olocausti dei vitelli, capri e d’altri animali, ne la cui vece ora s’offerisce quell’immaculato e prezioso agnello del vero corpo e sangue de l’universal redentore e salvatore messer Giesu Cristo. Ma per quanto or tocca al proposito nostro, dicono i sacri dottori unitamente che la donna per divozion sua vol star dopo il parto, o partorisca femina o maschio, qualche dí che non vada a la chiesa, ed in questo tempo astenersi dagli abbracciamenti maritali. Per questo non deve essere vituperata e che non pecca, come anco non si può biasimare né pecca se in questo tempo si congiunge col marito, e massimamente ogni volta che il marito la ricerchi, essendo il debito ad ambidui che si rendino il convenevol atto del matrimonio quantunque volte se lo domandano, come santamente hanno determinato i sacri canoni de la catolica Chiesa. Onde oggidí in molti luoghi è ancora tal consuetudine che le donne dopo il parto non vanno a la chiesa né anco odono messa in casa fin che non passano i quaranta giorni, e alora vanno a farsi benedir dai lor parrocchiani. Vi sono poi de l’altre assai che passati gli otto o dieci giorni che hanno parturito, e nei quali prendeno un poco di riposo e ristorano con la quiete e delicati cibi le doglie e fastidii del parto, vanno in ogni luogo e si mettono a letto con i mariti. E l’una e l’altra consuetudine non si riprende né è dannata. Conviene adunque senza contesa che voi, madama, in questo caso siate ubidiente a monsignor vostro marito, perciò che altrimenti facendo e negandogli il debito del matrimonio, ove non è periglio de la sanitá corporale, voi peccareste gravemente. – Era messer lo frate in quel castello appo tutti tenuto in buona stima cosí di dottrina come di buona vita, ed eragli, ogni volta che diceva cosa alcuna appartenente a la salute de l’anima, data intiera credenza senza contradizione alcuna. Ed era in questo il nostro frate come oggi si trovan molti, che ancor che vivano male e commettano molti peccati, tuttavia se sono ricercati per conseglio di quello che si debbia dire o fare, ne rispondono la veritá. E se talora vien detto loro da chi conosce che vita fanno: – E come, padre, voi fate la tale e la tal cosa? – eglino s’armano del detto del nostro Redentore, che disse ai giudei e ai suoi discepoli che non devevano imitar l’opere dei farisei, ma far ciò che dicevano si devesse operare. Disse dunque il frate la veritá di quanto era richiesto, a la cui determinazione rimase la donna contenta. E cosí a la presenza del padre spirituale restarono d’accordio che la seguente notte, a la metá di quella, monsignore anderebbe a la camera de la moglie e starebbe seco quel piú e meno di tempo che piú gli aggradiria. In questo si rivolse monsignor a una cameriera de la moglie e le disse: – Damigella, e’ vi conviene questa notte esser vigilante, a ciò che a la mezza notte io trovi l’uscio de la camera aperto e non mi convenga aspettare. Ma sará forse meglio che voi lo lasciate aperto. – La cameriera rispose che sarebbe presta a quanto l’era comandato. E di questo ragionamento in altro travarcando, si diportarono buona pezza con varii e piacevoli ragionari. Il diavolo che, come si dice, dove non può metter il capo ficca la coda, pose in testa a l’innamorato frate un strano ghiribizzo o capriccio, come lo vogliamo chiamare. Egli, udita la conchiusione del marito con la moglie, non poteva ad altro rivolger il pensiero che a trovar il modo che potesse esser con la donna, e sapendo che di volontá di lei a godimento alcuno non ne verrebbe giá mai, deliberò con inganno ed audacia infinita quello ottenere che per altra via conosceva impossibile a conseguire. Pensati adunque e lungamente discorsi tutti i pericoli che gli potevano accadere, deliberò, avvenisse ciò che si volesse, di mettersi come assassino a la strada e rubar quello che di grado aver non poteva; e ancor che n’acquistasse la morte, mentre che una volta godesse la cosa amata, si propose metter la vita a rischio di morire. Grandissima in vero è questa passione che gli sciocchi chiamano «amore», ed ha in sé tanta forza o, per dir meglio, apporta seco tanto veleno che bene spesso trae l’uomo, a cui ella s’appiglia, fuor de l’intelletto e inducelo a far cose che sono fuor d’umana credenza. Se una volta l’uomo si lascia avvelenare da questo pestifero morbo e al principio non gli rimedia, egli può dire d’aver perduto l’intelletto. Per questa passione David, che era uomo secondo il core di Dio, fece villanamente ammazzar Uria eteo per levargli Bersabea sua moglie. Prima di lui Sansone, la cui fortezza era fuor di misura, si lasciò soggiogare come vilissimo fanciullo ad una meretrice. Che diremo di Salomone, la cui sapienza non ebbe né mai averá paraggio alcuno di uomo mortale? E nondimeno egli ammorbato da questo letargo ed ebro di questo pestifero veleno, sprezzato il sommo suo fattore Iddio, da la cui liberalitá aveva in dono ottenuto tanto sapere e tante ricchezze che l’argento in casa sua quasi non era in prezzo, pose tutto il suo core a pigliarsi piacer con le donne. E che credete voi che abbiano voluto dimostrar quegli antichi poeti, detti vati e sapienti da l’antichitá e chiamati sacri e divini, quando hanno descritto gli adulterii, gli incesti, gli stupri ed altri disonesti amori di Giove e de l’altra infinita turba dei loro tanto celebrati dèi? Veramente non ad altro effetto hanno fatto questo i poeti ed uomini saggi, se non per darne ad intendere sotto questo velo quanta e quale sia la potenzia di questa amorosa passione. Tutto questo sia da me detto a fine che l’uomo, come si sente passar per le vene questo dilettevol male, cominci a fargli resistenza e deliberi troncargli con ogni prestezza la via, ché io v’assicuro che molto facilmente chi vuole subito porgli rimedio ritroverá perfetta sanitá. Per il contrario se si lascia da questo dolce veleno invescare, se permette che pigli fondamento, la infermitá diviene insanabile. E questo si vede per esperienza tutto ’l dí ed ora piú espresso si tocca con mano nel nostro frate, il quale, non dando repulsa ai primi pensieri, tanto si lasciò da quelli trasportare che determinò metter la vita a sbaraglio, quella non curando e meno l’onore. Fatta, come avete sentito, tal deliberazione, altro non attendeva che la notte e parevagli quel giorno piú de l’usato lungo assai. Cenò la sera il padre molto sobriamente, sovvenendogli che era per correr le poste, e non voleva trovarsi con lo stomaco caricato. Egli teneva benissimo in mente la disposizion de la camera e di che modo stavano i letti, né altro aspettava che l’ora d’andar a mettersi in battaglia. Ora tutta quella prima parte de la notte egli infinitamente fu combattuto da varii pensieri, perché, pensando al periglio che gli poteva sovravenire, conchiudeva non volersi porre a tanto rischio, ma aspettar altra piú sicura comoditá; e con questo si corcava per dormire. Ma il sonno era dagli occhi suoi bandito, di modo che ora presentandogli Amore la bellezza de la donna amata, egli tra sé diceva: – Adunque sarò io cosí da poco che per téma di questa mia vita frale perderò il godimento de la piú cara, bella e piacevol cosa del mondo? Sarò io cosí vile che non metterò non questa, ma se n’avessi mille de le vite, ad ogni estremo rischio per posseder quella cosa, che merita per le infinite sue doti che tutto il mondo la serva, la riverisca e adori? Non è egli di molto piú valuta infinitamente quello che io averò che quanto mai perder io possa? E la roba, s’io n’avessi, e la vita e l’onore non sono da esser parangonati al bene ch’io n’aspetto. – Cosí piú e piú volte cangiato pensiero, restò in questo, ultimamente, d’andarvi. Con questo si mise con l’orecchie aperte a ciò che ne la elezione de l’ora non s’ingannasse, e mille volte in quello spazio di tempo venne su l’uscio de la camera per ascoltar se l’ore toccavano, facendosi a credere che il barone non levarebbe fin dopo la mezza notte d’un pezzo. Onde d’una grossa ora innanzi a quel punto, avuto prima modo d’aver certe vesti del barone e bene nettatosi, con una cuffia in capo del modo che sapeva esser da quello portata, se n’andò a la camera de la donna, e trovato l’uscio, secondo l’ordine dato, aperto, entrò pianamente dentro, e ancor che fosse oscuro come in bocca di lupo, andò diritto al letto. Quivi trovata la donna che dormiva, soavemente la destò e se le corcò a lato, e quella, che appresso al marito esser credeva, recatasi ne le braccia, cominciò a prenderne quel piacere amorosamente, del quale questi innamorati dicono non esserne altro maggiore al mondo. Era il frate gagliardo e di buon nerbo e giunto al luogo che tanto desiderato aveva, il perché si deve credere che facesse opera di valente e prode de la persona cavaliero. Ed a ciò che la donna non lo mettesse in ragionamenti ed egli parlando fosse cagione di scoprir l’inganno, com’ella voleva entrar in proposto alcuno, cosí egli, mostrandosi svogliato di cicalare ma ben ebro del suo amore, la basciava, le chiudeva la bocca con le mani, la stropicciava e facevale mill’altri vezzi, giocando e scherzando a la mutola, di modo che mai non permesse che potesse troppo ragionare. Ora avendo corso qualche posta e rimesso il diavolo piú volte ne l’inferno, ancor che estremamente gli dolesse il dipartirsi, pure pensando a’ casi fortunevoli che potevano occorrere, e per il piacer amoroso da la donna preso essendosi in parte pasciuto il concupiscibil appetito, sazio non giá ma lasso e stracco, si levò con infinito dispiacere da canto de la donna e ritornò a la sua camera, ove entrato e da varii pensieri assalito e dubitando di ciò che avvenne, deliberò in quell’ora partirsi. E cosí non dando indugio a la deliberazione, andò e fecesi aprir dal castellano la porta del castello, fingendo che il signore lo mandava in affari di grandissima importanza, con commessione che non voleva che uomo sapesse la sua partita. Credettegli il castellano di leggero e gli aprí la porta. Come messer lo frate fu fuora del castello, non tenne mai né via né sentiero, ma postosi, come si suol dire, le gambe in spalla, andò tutto il resto de la notte per traversi ove non era strada né orma d’alcun passo umano e meno di cavalli. E questo faceva ché teneva per fermo d’esser seguitato come la cosa in castello fosse scoperta, ché ben pensava, quando il marito andasse a trovar la moglie, che si verria in cognizione de l’inganno. Venuta poi la mezza notte, non stette guari il barone che andò a la camera de la moglie, e trovata la porta chiusa, che dopo il partir del frate la donna aveva fatta col chiavistello fermare, egli a quella picchiò. La cameriera, che era stata buona pezza vigilante, s’era giá corcata senza pensiero alcuno, altro non attendendo, e di modo riposava sepolta nel sonno che ancora che monsignor picchiasse e la donna la garrisse appellandola, ella non si destava. A la fine pure destata, andò a l’uscio mezzo sonnacchiosa e disse: – Chi è lá? chi picchia? – Rispose il barone: – Chi picchia, eh? apri, apri, sciocca! non mi conosci? – Conobbe ella a la voce il padrone e disse a la madonna: – Madonna, e’ mi par monsignore che picchi. Volete ch’io gli apri? – Apri, – rispose la donna. –. Domine aiutaci, che sará questo? – Aperse la giovine e il marito, entrato, disse: – Io so che dormivate e che m’avete fatto bussare: e perché non avete lasciata la porta aperta? – E con questo se n’andò a letto. È commune sentenza di molti che le donne sogliono dar piú sagge risposte a l’improviso che a pensarvi suso. Io non ardirei farmi in ciò giudice, perciò che non vorrei dir cosa che a persona recasse noia, ma crederei bene che tutte le cose fatte pensatamente e maturamente, o siano da uomini o da femine dette o vero messe in opera, che sempre riusciranno meglio che le fatte o dette senza considerazion alcuna; come da questa donna si potrá far giudicio, la quale, còlta a la sprovista, diede occasione a la sua ed altrui morte. Cosí anco il marito, se meglio avesse considerato i casi suoi, non cadeva nei travagli che precipitò, ma le cose sue con piú saggio modo ed intiero giudizio fatte averebbe. Dico adunque che la donna alora scioccamente parlò, perché se sovra questo avesse ben pensato, non averebbe detto parola, ma atteso ciò che il marito l’avesse voluto dire e secondo le proposte a quello risposto. Ora impensatamente con ammirazione li disse: – Che cosa è cotesta, monsignor mio? Ancora non è un’ora che voi sète partito di qui, e piú de l’usato meco trastullato vi sète amorosamente e fatto il buon cavaliero, e cosí tosto ci tornate? Che buona faccenda è questa? – Il marito, anch’egli poco consegliato e sovragiunto a l’improviso in cosa di tanta importanza, non seppe dissimular il dolore che aveva d’esser di Normandia passato in Inghilterra senza barca e aver acquistata la contea di Cornovaglia. Non seppe lo sfortunato barone imitar il re Agiluffo longobardo da simil beffa schernito, ma tutto pieno di malissima voglia disse: – Come! moglie, che dite voi? Io vengo pur ora da la camera mia e non sono piú stato questa notte qui. Come sta questo fatto? – La donna, dolente oltra modo del caso occorso e giá presaga del suo futuro danno, con infiniti singhiozzi ed amarissime lagrime narrò al marito quanto era, poco avanti, a lei avvenuto, del che egli disperato stette buona pezza impedito dal dolore e da l’ira che non puoté mai favellare. Da l’altra parte la donna tutta fuor di sé era piú morta che viva. Se ella niente detto prima avesse, non restava se non con un poco di dubio se il marito v’era innanzi stato o no. E di questo era assai meglio restarne tra due che cercarne piú chiarezza, perché non faceva il marito avvisto di ciò che intender non deveva, né gli metteva fantasia e grilli in capo, essendo il caso tale che quanto piú se ne parlava piú putiva. Egli altresí, poi che ella trascuratamente era trascorsa a discoprir ciò che deveva tener celato, se avesse taciuto, esso solo restava con l’affanno de lo scorno ricevuto, con questo conforto almeno che conosceva la moglie non volontariamente ma per inganno aver senza colpa sua peccato. Egli è pur forza, graziosissime donne, che io dica un motto ad escusazione di tutti noi che qui siamo, cosí uomini come donne, contra alcuni che vogliono esser tenuti santi, e Iddio sa che vita fanno, i quali se per aventura vedeno in mano a chi si sia il Decamerone del fecondissimo e da non esser mai senza prefazione d’onore nomato messer Giovanni Boccaccio ed altri libri volgari e in rima, entrano in còlera grandissima e sgridano fieramente chi quelli legge, dicendo i cattivi e mali costumi da sí fatte lezioni appararsi a le donne divenirne meno oneste. E qui dicono le maggior pappolate del mondo. Io sempre fui di questo parere, che il saper il male non sia male, ma il farlo sí, anzi credo che sia cagione molte fiate di schifar mille inconvenienti. Ed a ciò che non andiamo troppo lontano a pigliar testimonii, eccovi: se questo barone e la donna sua avessero letta o udita la novella d’Agiluffo, certamente non incorrevano in tanti inconvenienti come fecero, perché si sarebbero d’un’altra maniera governati. Ma l’ignoranza che non fu mai buona, – ed ogni ignorante sempre è tristo, – fu cagione che il povero cavaliero in tal disordine cadde. Egli cercava il male come i medici. Ora le cose fatte non ponno essere non fatte. Lo sciagurato barone pensò piú volte come poteva esser questa cosa e varie chimere andò tuttavia ne l’animo rivolgendo, né al vero s’appose giá mai. Aveva il cognato nel castello, del quale non bisognava aver dottanza alcuna; con il cognato non era persona che fosse di simil affare. Non gli pareva anco che in casa vi fosse uomo del quale potesse presumere che fosse stato oso di commetter cosí enorme fallo. Del frate, se veduto l’avesse, non averia creduto agli occhi proprii simile sceleraggine, tanta era la buona openione che di quello aveva. E circa questo fatto varie cose con la moglie discorrendo, che altro non faceva che piangere e poco dava orecchie a ciò che le dicesse, non sapeva dove dar del capo. A la fine pure, o che gli nascesse qualche dubio del frate o vero che con lui volesse consegliarsi o che che si sia, partí da la camera de la moglie che con i suoi lamenti averebbe mosso a pietá i sassi, e andò a la camera del frate e ritrovò quella aperta e che il frate non vi era. Del che rimase forte meravigliato, e il sospetto cominciò a farsi maggiore che egli avesse fatto il tradimento. Cosí tutto solo andò a la camera del castellano e domandò se a nessuno aveva quella notte aperto. Il castellano gli disse del modo che ’l frate era partito, ond’egli tenne per fermo il frate esser stato l’adultero e malfattore, e pieno d’ira e di mal talento contra quello, ritornò a la moglie, la quale ritrovò tanto stordita e cosí immersa nel dolore che rassembrava piú ad una statua di marmo che a donna viva. Era con la donna la donzella, che lagrimava fieramente non per altra cagione se non perché vedeva la sua padrona esser in tanta agonia e martíri, né sapeva di che. Ella aveva portato del lume in camera e postolo in un cantone di quella; poi postasi a canto a la madama e quella recatasi in braccio, la consolava a la meglio che poteva. Ritornato il marito e fatto levar via la damigella e andar ne la guardacamera, ragionò lungamente con la moglie. E giá avendo deliberato di far uno scherzo a la braccesca al frate, domandati tre dei suoi piú fidati servidori, insiememente con loro s’armò, e a cavallo tutti di brigata montati, andarono a quel camino ove si puotero imaginare il frate esser ito, né a nessuno di lá dentro disse il signor cosa veruna. Andarono buona pezza per quei confini come fanno i segugi e sagaci cani che la lepre cercano, ma niente mai trovarono. La notte era scura ché la luna non luceva, e il frate s’era di giá assai dilungato e preso altro camino di quello che il cavaliero faceva, il quale veggendo che indarno s’affaticava, deliberò tornar al castello. Poi che ’l barone fu uscito di camera, la damigella vi ritornò e si pose a canto a la padrona, la quale, dato alquanto tregua a’ suoi dolori e pensando a’ casi suoi, e varii pensieri facendo e d’uno in un altro travarcando e ad uno attaccata, come si può da l’effetto seguíto imaginare, non volle piú star in vita e a la deliberazion non tardò a dar compimento. E per non esser impedita dal suo fiero proposto, trovate certe sue favole, mandò la damigella col lume in altre camere a ricercar non so che. La damigella v’andò di lungo. Come ella fu uscita fuor di camera, la disperata dama, avviluppatosi un pezzo di lenzuolo al collo, di modo se lo annodò a torno e strinse sí forte che da se stessa si suffocò. Si può credere che la meschina e mal nata dubitasse, per le parole forse del marito a lei dette, che egli non l’uccidesse o che non le volesse bene o che le facesse qualche altro scorno; o tenendo fermo che questo suo errore fosse manifesto e non potendo sofferir la luce degli uomini né l’esser come putta mostrata a dito, vinta da la estrema passione de l’onore che le pareva aver miseramente perduto, che eleggesse per minor male la morte. Ora nel penar del morire che fu violentissimo, o forse pentita e spaventata da la morte e volendosi ben che tardi aiutare, dimenando i piedi diede ne la picciola culla al letto vicina ove era riposto il novellamente nasciuto fanciullino, e di tal maniera fu la percossa, aiutata da la rabbia de la morte che la stimolava e costringeva, che la culla insieme col picciolino figliuolo cadde in terra. La bisogna andò cosí, che il povero bambino cadde boccone e morio in brevissimo spazio d’ora, avendo sempre la culla di sopra. La damigella, poi che ebbe trovato ciò che era ita a ricercare, tornò a la padrona ed entrando in camera sentí lo strepito che faceva la sfortunata dama, che, non essendo ancora in tutto morta, gemeva e singhiozzava assai forte e si dimenava fieramente. A questo romore la damigella fattasi avanti col lume in mano, avvicinandosi a la culla e quella trovata riversa e di giá il tenero fanciullo trapassato ma ancora tepido, e veduto il fiero ed orribil spettacolo de la donna che col lenzuolo annodato al collo era ne l’ultimo punto del morire e faceva i piú orrendi atti e spaventevoli del mondo, cominciò con gridi altissimi a mandar le voci al cielo e far un lamento cosí pietoso che averia mosso a pietá i piú barbari e crudeli cori che possano trovarsi. Sapete che l’orrore ed il silenzio de la notte sempre seco apporta piú di téma e di spavento che non fanno i romori del giorno. Risuonava il tetto dei fieri e lagrimosi gridi de la dolente giovane, e il batter che faceva con le mani per tutto si sentiva. Abbracciata poi la misera donna che l’ultimo spirito mandava fuori, piangendo diceva: – Ahi lassa me! dolce mia padrona, perché cosí miserabilmente m’avete ingannata e voi crudelissimamente perduta? perché meco le passioni vostre non avete communicate? perché non deponeste voi nel mio petto cosí fiero proponimento, cosí deliberata voluntá, a fine o che io v’avessi consegliata e levata fuor di cosí orridi e crudi pensieri, o fossi stata in tanti martíri vostra compagna, e come sempre di qua fedelmente v’ho servita, vi fossi anco venuta dietro e sofferto questa medesima fortuna che voi, lassa me! cosí fieramente sofferta avete? Per questo mi mandaste voi fuori a recarvi queste cosette, a ciò che io non vi potessi dare aita? Ahi lassa me! che debb’io fare? Onde cosí subito è nato nel vostro delicato petto, nel vostro pietoso core cosí duro e cosí dispietato pensiero d’ancidervi e con le proprie mani strangolarvi? Io sin da fanciulla fui con voi nodrita e qui venni vosco quando a marito veniste, e sempre d’ogni vostro pensiero vi piacque, la vostra mercé, farmi consapevole; e perché ora m’avete voi questo che tanto importava celato? Giá mai in voi non conobbi cosa degna d’una minima riprensione e atto mai non vidi meno che onesto. E chi mai piú di voi fu in tutte le cose che facevate avveduta e prudente? E tale meritevolmente era la fama vostra, la quale per tutto cosí candida, cosí chiara e cosí onorata volava che da tutti eravate predicata una de le piú sagge, de le piú oneste e de le piú costumate dame de la Normandia. Ed ora in un punto ogni cosa è perduta! Ahi trista me! lassa me! che dirá il mio padrone quando ritroverá che io cosí poca guardia e cosí mal governo ho avuto dei casi vostri? Oimè! che questo è bene stato un accidente miserabile, una notte oscura e sfortunata, un punto di stella crudelissimo. Oimè! padrone, la vostra cara consorte che tanto amavate, ed ella voi tanto amava, piú viva non vederete. Il vostro figliuolino, di cui tanto al suo nascer vi sète allegrato, quanto ora vi attristerá, quanta vi dará pena e di quante amarissime lagrime vi sará cagione, quando insieme con la dolente madre, non so come, cosí miserabilmente morto trovarete! Oimè, Dio, oimè! che veggio? ahi, padrona mia cara, che avete voi? oimè che fierissimo dolore, ahi che forte pensiero è stato questo che v’ha fatto diventar di voi stessa micidiale! – Molte altre pietose parole disse la dolente giovane, ed oltra le parole si pose le mani ai capegli e molte chiocchette di capo se ne svelse, tuttavia gridando come fuor di sé. A questo lagrimoso grido e a le dolenti voci de la pietosa giovane si risvegliò tutta la famiglia, e di mano in mano, secondo che entravano in camera, il pianto cresceva maggiore, perché con le lamentevol voci si sentiva un doloroso romore d’una dissonante armonia resultante da varie voci d’uomini e donne, da giovini e vecchi e da tutti quelli che erano in castello, con percuoter mano a mano, battersi il petto, dar dei piedi in terra ed altri atti che in simil casi sogliano farsi, e massimamente ove intervengono donne, che di natura loro son piú tenere e dilicate e piú di leggero si muovono a pietá e piú facilmente piangono che non fanno gli uomini, che in effetto sono piú duri e crudi di core. Risvegliossi anco in questo il fratello de la mal venturosa donna, e come forsennato a la cosí dolente ed insperata nuova levatosi di letto, e a pena mezzo vestito, latrando come un cane, se n’entrò in camera de la sorella suffocata, la qual veduta in quel modo col morto figliuolino, subito svenne e cadde in terra tramortito, di maniera che altro tanto assembrava morto quanto la sirocchia ed il nipotino. Se questo altro accidente raddoppiò i gridi e i lamenti, Iddio ve lo dica, ché io per me non mi reputo bastante a dirlo. Tanto era vario il romore e cosí orrendo lo strepito che in quella camera rimbombava, che se fosse tuonato come quando piú iratamente il cielo con focosi lampi folgorando tuona, lá dentro nulla si sarebbe sentito. Furono a lo svenuto giovine con fregamenti e con spruzzargli acqua fresca nel viso e con altri argomenti fatti ritornar gli smarriti spiriti. Il quale come in sé rivenne, dopo l’essersi estremamente doluto e lamentato e senza fine pianto, domandò ove fosse il marito di sua sorella. Il castellano, che era quivi, impensatamente gli disse come il signore era partito a cavallo, armato, con tre servidori molto in fretta, ma che a qual banda fosse cavalcato né per qual cagione, non sapeva. Il giovine senza altro piú innanzi considerare tenne per fermo che il marito fosse stato quello che avesse la moglie col picciolo fanciullino uccisi, e che per questo misfatto se ne fosse fuggito. Il perché fatti montar a cavallo dui suoi servidori che erano venuti seco, ed egli con loro a cavallo salito, uscí del castello e a quel camino andò ove credeva il barone esser andato. E come volle la mala fortuna sua, che di maggior numero di morti voleva accrescer la tragedia, si mise a punto per quella strada a cavalcare per la quale il cavaliero a casa ritornava; che avendo egli tutti quei confini indarno cercati e non ritrovato il frate, tutto di mala voglia e sovra ogni credenza dolente, passo passo e a quanto era a la moglie occorso pensando, verso il castello cavalcava. Non era guari andato il fratello de la donna che s’accorse che il barone era quello che a l’incontro gli veniva. E ancor che fosse oscuro, pur l’alba cominciava a farsi bianca, imperò che giá i raggi del nascente sole le facevano sparire quelle belle e graziose varietá di colori che cosí vagamente innanzi a l’apparir del sole la dipingono. Onde tantosto che il cognato incontrò, con minaccevol voce disse: – Ahi disleale e traditore, tu sei morto! – E senza indugio, gonfio di stizza e di còlera inestimabile pieno, se gli avventò a dosso e cominciò a giuocar di buone stoccate. Era il cavaliero normando ben armato ed uomo molto forte, il quale veggendosi in quell’ora a quel modo dal cognato assalito, insieme col riparare le percosse, gli chiedeva amorevolmente la cagione di tanto furore. Ma il giovine, ebro d’ira e di doglia de la morte de la sirocchia e volontaroso di vendicarla, non intendeva cosa che il cognato dicesse, ma con ogni sforzo cercava d’ammazzarlo. Giá aveva il barone comandato ai tre suoi servidori che s’erano fatti innanzi con l’arme d’asta, che per quanto avevano cara la grazia sua che non ferissero suo cognato né i compagni, ma gli facessero star indietro, perciò che egli voleva pur intender da lui la cagione di questo assalimento. Ma per cosa che dicesse, mai il cognato altra risposta non gli diede: solo attendeva a ferirlo a la meglio e a la piú dritta che poteva. Il cavaliero, veggendo il fatto andar da dovero e molto periglioso, si diffendeva destramente, né sapeva né poteva imaginarsi che volesse dir questo. E tuttavia riparando le bòtte, teneva pur detto al cognato che si ritirasse a dietro e gli scoprisse la cagione di questa sua cosí subita, improvista fiera nemicizia, perché avendolo in luogo d’amorevol fratello, troppo gli rincresceva venir seco a questione, essendo desideroso di metter la vita per lui, e pigliar nemicizia per amor suo contra ciascuno che lo volesse offendere. Ma il giovine, o sentisse le parole o no, attendeva a menar le mani piú valorosamente che fosse possibile. Da l’altra parte chi sa che al cavaliero, veggendo sí fatta novitá, il diavolo non mettesse in animo che il fratello fosse stato quello che avesse violata ed incestata la sorella e, temendo che questa sceleratezza venisse a luce, fosse venuto ad ammazzarlo per dottanza che il barone non ammazzasse lui? Ma che che se ne fosse cagione, il cavaliero, perduta la pazienza, poi che vide il cognato non gli voler dar risposta alcuna ma con ogni sforzo offenderlo, e conoscendo che parola che dicesse nulla gli recava di profitto, vinto dal fiero sdegno che l’infiammava, non solamente attese a diffendersi, ma cominciò con fiero animo e con il ferire a gagliardamente offender il nemico. Ed avendo avuto giá due ferite, ben che di poco momento, trasse una punta al povero giovine ne la gola, e passatala da banda a banda, nel ritirar de la sanguinolente spada, vide che il cognato cadette morto. Erano stati i servidori anco tra loro a le mani, ma senza sparger punto di sangue. Ora al cader de l’infelice giovine fu dato fine a la crudel questione. Intesa poi il cavaliero dai servidori del cognato la cagione di questa sventura, se rimase di mala voglia, pensilo ciascuno, imperò che si vedeva in un punto medesimo tanto sfortunatamente e fuor d’ogni credenza aver perduta la moglie che a paro de le pupille degli occhi suoi cara aveva, perduto il figliuolo che unico e tanto desiderato gli era nasciuto, e perduto il cognato che come fratello amava, con dubio di restar di continovo in fiera e mortal nemicizia con i parenti di quello. Onde senza fine oppresso da un fierissimo cordoglio, fu quasi per impazzire. Stette buona pezza cosí travagliato e fuor di sé che non sapeva se era vero ciò che era seguito o se pure s’insognava, e tuttavia si sentiva come due tenaglie al core che duramente glielo stringevano e sterpavano. E invero chi l’avesse veduto in viso averebbe giudicato che il povero gentiluomo era di maniera tormentato e cosí fieramente da soverchio dolor vinto, che non sapeva né star ov’era né quindi partirsi e montar a cavallo. I servidori suoi erano altresí, per la morte udita de la padrona e per il morto giovine che si vedevano dinanzi, tutti storditi. Pure eglino fecero tanto che il cavaliero, montato a cavallo, se ne ritornò al castello, e fatto portar il corpo del cognato, quello fece acconciar appresso a la moglie e al figliuolo. Chi potrá narrar la doglia del barone quando vide la moglie e il figliuolo morti dinanzi agli occhi suoi? Medesimamente chi dirá i singulti, le lagrime, i sospiri, i gemiti e lamenti di tutta la famiglia come videro il lor signore giunger con cosí funebre, spaventosa e orribil pompa? Alzarono tutti, a l’entrar del luogo che fece il cavaliero, le lagrimose voci con un pietoso batter di mano, e ciascun di loro si sforzava d’accrescer con le parole e gesti doglia al suo dolore. Diceva la cameriera in quel punto parole, con un aggruppar le mani insieme, che averebbero fatto per forza pianger Democrito, che d’ogni cosa che vedeva era consueto ridere e beffarsene. Mettetevi, pietose donne e voi cortesi giovini, in animo quei tre corpi de la maniera che erano ancisi, ed imaginatevi le lagrime di tutta la famiglia; fatevi uno specchio innanzi agli occhi e miratevi dentro quello sfortunato cavaliero, pensando che la passione sua interna fosse molto piú intensa da quella che mostrava fuori con le parole e con il dirotto pianto; e mi persuado che non sará possibile che con la rappresentazione di cosí pietosa rimembranza non spargiate qualche lagrima. Io per me mi sento giá gli occhi rugiadosi e bagnati da le vegnenti lagrime. E invero davano quei corpi senza dubio agli occhi di chiunque gli mirava, orrendo, terribile, compassionevole e fierissimo spettacolo. Il cavaliero, senza fine rimaso dolente, non si poteva in modo veruno consolare. E prima che si sepellissero, volle che giuridicamente da la publica giustizia fosse formato il processo del tutto. Fra questo mezzo vennero molti de la contrada a veder quello che senza lagrime non si poteva vedere, né riguardar senza commovimento di sangue. Sogliono communemente tutti i corpi morti a chi li guarda dar di lor orribil vista, aborrendo la natura simil obbietto come a lei contrario. E se i corpi di natural morte privati de lo spirito loro si rendono a chi quelli mira non solamente spiacevoli ma fastidiosi e pieni di spaventoso orrore, che deveno far quelli ove interviene separazione violenta, ferite, percosse e spargimento di sangue, de le quali ciascuno da per sé genera nausea e tutte insieme farebbero non che ambascia, ma paura ai piú sicuri e ferrigni occhi del mondo? Pensate poi che cosa era a veder la miseranda donna tutta nel viso livida gonfia e come una biscia sparsa e picchiata di varie macchie, che oramai piú a fiero mostro che a femina morta rassembrava, con quegli occhi tumidi torbidi e stravolti i quali, secondo che prima erano il dolce e vero albergo del piacere e sommo diletto, alora erano oscuri, orrendi e spaventevoli, e fatti nido di sozza ed orribil apparenza, e pareva a punto che guardassero stralunatamente in traverso con fiera e minacciosa vista chiunque ardiva di guatargli. Quella bocca che quando s’apriva mostrava la pompa ricca e meravigliosa de le perle orientali e dei piú fini coralli e preziosi rubini che si possano vedere, e che era la stanza de la pura e candida eloquenza, alora spaventava senza fine ciascuno, né v’era chi ardisse fisamente mirar cosí orribile ed oltra misura sfigurata sembianza. Ella pareva proprio che come un can alano digrignasse i denti, che cominciavano a diventar qual osso fracido e corrotto, essendo quelle giá rosate labra alquanto enfiate e in su rivolte. Le mani, prima schiette di pura neve e d’avorio, ove non appariva nodo né vena soperchiava, erano d’oscura pallidezza tinte e di maniera dal corrotto sangue infette, e l’unghie divenute lividissime, che non erano piú morbide né da esser basciate né tócche. Quella gola, innanzi di marmo e latte, che pareva una preziosa ed amabil colonna d’avorio, era alora oltra misura dai lacci del lenzuolo di modo segnata e guasta che non era possibile senza lagrime mirarla. Ma che vado io d’una in una raccontando quelle parti che giá furono bellissime ed ai riguardanti oltra modo dilettevoli, se alora si miravano laide, sozze e spiacevoli e quasi fetide? Nondimeno con tutto ciò che fossero noiose, guaste e molto spaventevoli, tenevano tuttavia un certo non so che tutto pieno di pietá, tutto pieno di compassione, che mirabilmente moveva i riguardanti ad estrema pietá. Ed essendo ciascuno di quei corpi da per sé atto a muover a misericordia i circonstanti per innoverabili rispetti, – la dama, considerato ciò che era stata e la fine a che l’altrui colpa l’aveva condutta; il picciolino figliuolo, per la innocenzia sua a breve etá che ai nemici suol rompere gl’indurati e crudelissimi petti a movergli a compassione; il fratello de la donna, per il fiore degli anni suoi che alora erano per dar di sé buon odore, – trovandosi mò tutti insieme a in una volta d’occhi dando di loro a chiunque gli mirava sí fiero spettacolo, pensate se doppiamente devevano cavar le lagrime e le pietose a compassionevoli querele a tutti. Con grandissimo adunque dolore a lagrimoso pianto del barone e con general tristezza de la famiglia e di tutta la contrada, furono quei corpi sepelliti e fatte loro le solenni ed usitate secondo la lodevol consuetudine cristiana essequie. Né vi meravigliate che il corpo de la donna, ben che di se stessa fu micidiale, fosse sepellito in terreno sacrato, imperò che la damigella, essaminata, testificò che aveva visti segni di contrizione in lei poco innanzi l’ultimo punto del morire, per i quali si puoté pietosamente conietturare che ella si pentisse d’essersi strangolata, ancor che non si potesse aiutare. Del fratello medesimamente fu dato testimonio che s’era domandato in colpa prima che trapassasse. Su la sepoltura fu alora in francese posto un epitafio, la cui sentenza in lingua italiana tradotta diceva in questo modo come qui séguita:
Ferma, viator, il passo: io son colei
che credendo il consorte aver a lato,
un altro v’ebbi, ond’hommi soffocato,
e meco il figlio a caso, oimè, perdei.
Il mio fratello a questi avvisi rei
contra il marito mio si mosse armato,
pensando l’omicida ei fosse stato,
ché non sapeva ancor i casi miei.
Come l’incontra, il fere a l’improviso;
quel si diffende e ’l prega e molce e dice:
– A me, cognato, questo perché fai? –
Ma risposta da quello non elice,
onde il fratello al fin rimase anciso.
E s’or non piangi, quando piangerai?
Fu poi giudicato per via di giustizia diligentissimamente il fatto processo sui commessi omicidii, a ritrovatosi il barone non n’aver colpa, fu dal cancegliero d’Alenzone con autoritá regale giuridicamente assoluto. Vedete ora, pietose donne, costumati giovini e voi tutti gentiluomini che qui secondo la usanza nostra sète adunati, chi per novellare, chi per udire e trastullarsi, a che miserando fine inducesse il disonesto appetito d’un poco pensato uomo queste tre persone, e a che rischio anco ponesse il barone, che cosí poteva esser anciso come egli il cognato svenò. E se per sorte esso frate era dal barone incontrato, vi so dire che egli averebbe, come dicono i mariuoli, avuto le sue a colma misura, e penso che mai piú non ingannava né uomo né donna. E forse non sarebbe stato male che egli avesse portata la pena che meritava e gli altri fossero restati vivi, o che almeno il cavaliero l’avesse di quella maniera concio che in Bergamasca il famoso a quei tempi capitano Bartolomeo Coleoni di sua mano conciò un prete. Io vi ho lungo tempo tenuto in ragionamento di cosa dispiacevole che impossibil è che si racconti senza compassione. Ma volendo io narrar il caso com’era successo, non poteva altrimenti fare che per simil camino non vi conducessi. Ed ancor che a me stesso dispiacesse l’andarmi tanto ravvolgendo in materia cosí lagrimosa, nondimeno considerando il profitto che tutti ne potranno cavare, ho narrato questa istoria molto piú volentieri che qualche altra che ho per le mani, per la quale forse vi averei fatto ridere senza altro male. Debbiamo adunque tutti far ogni sforzo a noi possibile, a fine che non lasciamo dentro a’ nostri petti radicare queste cosí ardenti concupiscibili passioni e tanto sfrenate, perciò che il piú de le volte se mandano altamente le radici entro a’ nostri fragili cori, ne inducano poi a mille disordini e di maniera ci avviluppano il cervello, che non mezzanamente convien che ci affatichiamo se vogliamo in noi ripigliar il freno dei nostri mal regolati desiderii. Perciò se farete per mio conseglio, tutti i pensier vostri e tutte le voglie fermerete a la caviglia de la ragione; il che facendo, non ci sará periglio che l’appetito vi trasporti a far opera veruna meno che lodata. Debbiamo anco con giudizioso occhio internamente mirare con chi pratichiamo e di chi ci fidiamo, tenendo per vero e fermo il volgar proverbio: che non è ingannato se non chi si fida. Ma chi è saggio sa ottimamente far elezione di quella persona de la quale egli fidar si deve.
Il Bandello al molto magnifico suo compare
messer Girolamo Salerno
Se i disordini che nascono dal morbo de la irregolata gelosia non fossero manifesti, io mi sforzarei quanto nocivi siano a dimostrarli. Ma perché so che voi gli sapete, e conoscete assai chiaro di quanti mali sia la gelosia cagione e come spesso gli indiscretamente ingelositi mariti diano occasione a le mogli di farsi poco da bene, non ve ne dirò altro. Voglio bene che il marito tenga gli occhi al pennello e che per dapocaggine sua non presti a la moglie materia d’esser trista, ma voglio anco che consideri la donna essergli data per compagna e non per schiava. E di questo ragionandosi a la presenza di madama Fregosa e questionandosi di che sorte sia l’amor del geloso, dopo molte cose da molti dette, messer Lodovico Misono, filosofo e medico eccellente, fece sovra questo un accomodato discorso ed insiememente narró una novelletta. Onde avendo io il suo ragionamento e la novella descritto e con le mie novelle accompagnato, ho voluto il tutto metter sotto il vostro nome, a ciò resti al publico come testimonio de la nostra cambievole benevoglienza e de l’amor mio verso tutta casa vostra. State sano.