Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XLIII
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Novella XLIII
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Don Anselmo e don Battista, credendosi giacer con una donna,
sono scornati ne la publica piazza di Como.
Egli è certissimamente, signori miei, un gran caso che cosí volentieri i preti bandiscono la cruciata a dosso a le femmine dei loro popolani, parendo proprio che quello sia piú tenuto che piú dei suoi parrocchiani manda a Corneto. Per questo ai giorni nostri sono i preti venuti in molto poca riverenza, che giá solevano tanto esser rispettati. Né di questo io mi meraviglio, essendoci molti di loro che meritarebbero piú tosto guardar i porci per i boschi che stare in chiesa a maneggiar le cose sacre, sapendo molto male leggere e peggio cantare i divini offici, e di quello che leggono nulla o poco intendendo; i quali, come ponno a qualche donna attaccarsi, quella di rado lasciano che non la piglino ai loro appetiti. Altri poi col collo torto infinite ne ingannano, e sotto specie d’esser buoni gabbano il mondo. Che diremo di quelli che, finita di dire la messa, se ne vanno a crapulare ed inebriarsi a la taverna, e tutto il dí come publici barattieri se ne stanno con le carte e dadi in mano? Ma e’ mi pare, secondo che io devea dirvi una novella, che io sia salito in pergamo e voglia predicare. Lasciando dunque la cura di castigargli ai suoi prelati, vi dico che ne la nostra cittá di Como non è troppo tempo, devendosi sepellire uno dei nobilissimi gentiluomini de la cittá, il conte Eleutero Ruscone, tutti i preti e frati di Como furono invitati a cosí solenni essequie. Venuta l’ora di levar il corpo del conte Eleutero, si ritrovò che dui parrocchiani, preti molto stimati, che erano rettori di due parrocchie, ci mancavano. E perché erano uomini secondo l’openione del volgo santissimi, fu mandato a le case e chiese loro e mai non se ne seppe indicio trovare. Il che fu cagione di molte mormorazioni, dubitandosi che non fossero stati da qualche ribaldi morti. Ora, poi che gran pezza furono ricercati e veggendosi che non comparivano, cominciarono a far l’essequie con gran pompa e solennitá, le quali essendo finite e devendosi per nome del signor governatore publicare certi editti, il popolo che aveva accompagnato i funerali si ragunò su la piazza de la cittá, e in quella i santi parrocchiani comparsero. Ma udite di che maniera. Abitava nel mezzo de le due chiese dei dui detti parrocchiani un tintore che si chiamava mastro Abondio da Porlezza, uomo molto piacevole, il quale aveva per moglie una Agnese da Lugano, donna appariscente e giovane e molto onesta, il cui costume era d’andar ogni dí a messa a la parrocchia di don Anselmo, che era uno dei dui parrocchiani. Il quale, vedutala ogni dí a messa e parendogli bella, di lei cosí si accese che, seco domesticandosi, a la prima le domandò il piú bello de la casa. Ella, senza fine de la disonesta domanda scandalizzata e dicendo al prete che andasse a dir l’ufficio, cominciò andare a messa a la chiesa de l’altro prete, che don Battista si chiamava; il quale, come la vide, disegnò imparentarsi seco, come don Anselmo anco aveva disegnato. Onde, pigliata un poco di conoscenza seco, egli, per non perder tempo, le domandò l’elemosina di santa Nefissa. Parendo a la buona donna esser caduta de la padella su le bragie, prese per ispediente andar a messa ad uno spedale, ancor che non fosse cosí comodo e vicino a casa. Il marito, accortosi di tal mutazione, le domandò perché faceva cotesto. Ella per non dar sospetto al marito gli narrò puntalmente il successo del tutto; il quale a la moglie, mezzo adirato, rispose: – Adunque tu vuoi a posta di questi schiericati cessar di far bene? la non mi piace cosí, ché questo spedale è troppo lontano da casa e tu perderesti troppo tempo i giorni che si deve attendere a la tintoria. Io voglio che noi facciamo un bellissimo tratto, che a lor dará il conveniente castigo de le loro sceleraggini, e agli altri preti sará in essempio di non tentare l’altrui moglieri. Lascia, ché io caverò ben destramente a questi due l’amore fuor de le brache. Tu anderai domatina a la chiesa di don Anselmo, e s’egli ti dice nulla, mostra, cosí mezza vergognosa, fargli un poco di resistenza; poi lasciati vincere e dilli che gli compiacerai, e dágli ordine che venga il tal dí a le due ore di notte, perché io sarò fuor di Como. Dapoi anderai un altro giorno a la parrocchia di don Battista e seco farai il medesimo contegno, e gli assegnerai pur quello proprio dí, le cinque ore di notte. – La buona donna fece quanto dal marito le fu imposto molto diligentemente, ed ebbe ogni cosa effetto come avevano ordinato, perciò che, come i preti videro la donna, cosí le furono d’intorno. Ed ella mostrandosi piacevole, gli diede ardire che domandassero tutto quello che loro piaceva. Il che essi facendo, ebbero l’ordine da la donna secondo che il marito ordinato le aveva. Don Anselmo si presentò a le due ore di notte e fu da l’Agnesa serrato in un luogo de la casa ove era un letto, dicendogli che si corcasse. Il prete incontinente si spogliò ed entrò in letto. Venne dapoi la donna e cosí al buio accostatasi al letto, disse a don Anselmo: – Messere, non vi rincresca aspettar un poco, perché mi conviene dar ordine a certe cose de la bottega, e poi verrò a starmi vosco. – In questo il marito di lei picchiò a l’uscio e disse: – Agnese, se’ tu qui? apri. – Oimè, – disse ella, – mio marito è venuto, ed io sono morta! tosto, messere, entrate in questa botte, e lasciate far a me. – E facendo levare il prete, diceva: – Marito, io vengo. – Mise il prete dentro la botte e ve lo chiuse; poi, presi i panni di quello, gli serrò in un forziero, ed aperse al marito dicendogli: – Che ora è questa di venire? – Maestro Abondio aveva una lucerna in mano e disse che per la fortuna del lago non era potuto andar innanzi, e che voleva dar ordine per tinger certi panni verdi. Onde, dicendo questo, di modo acconciò la botte che il messere non poteva senza licenza uscirne. Era la botte piena di certa polvere verde che i tintori adoprano. E messe Abondio, per piú spaventar il prete, disse: – Moglie, va e fa scaldare un calderone d’acqua, ch’io vo’ distemperar questo verde e dimatina a buon’ora adoperarlo. – Mai sí! – rispose la donna. – Noi siamo a l’ordine. Non sai che dimane si faranno l’essequie del conte Eleutero Ruscone e che nessuno fin dopo desinare lavorerá? I famigli nostri sono tutti fuor di casa. Andiamo a dormire e faremo meglio; e poi dimane il verde si acconcerá. – Pensate mò che animo era quello di don Anselmo: io crederei che l’amore gli fosse uscito de le calcagna. Uscí il marito del luogo, e la donna confortò il messere che non dubitasse, ché ella andarebbe a liberarlo. Ne l’acconciare che messer Abondio aveva fatto de la botte, il prete s’era tutto carco di polvere verde che le carni gli rodeva, e quanto piú egli si gettava tanto piú faceva il suo peggio, di maniera che il povero sacerdote si vedeva molto mal parato, essendo ignudo e del mese di gennaio. Ora al bòtto de le cinque ore comparve l’altro parrocchiano, messer don Battista, e fu da la donna in una camera menato e dettogli che si spogliasse, ché ella anderebbe fin sopra a far cessare coloro che vi lavoravano. Questi erano maestro Abondio con uno dei famigli de la tintoria, che a posta facevano quel romore. Come puotêro imaginarsi che don Batista fosse spogliato e ito a letto, maestro Abondio uscí chetamente di casa e poi cominciò a bussare a l’uscio e chiamare la moglie che venisse ad aprirgli. Ella, scese le scale, se ne venne a la camera e fece entrare don Battista, cosí ignudo come era, in un’altra botte, ove era polvere di gualdo che s’adopera a far i panni neri. Il povero prete tutto tremante ci entrò, ché aveva sentita la voce del marito de l’Agnese e non sapeva che farsi. Come maestro Abondio fu entrato in casa, sapendo il secondo ratto esser ne la zucca, fece aprir la camera ove don Battista si spolverizzava di gualdo, e disse – Moglie mia, va e fa scaldare de l’acqua e falla recar qui per acconciare questa botte di gualdo. – La moglie rispose come fatto aveva l’altra volta circa don Anselmo. Il marito mostrò di contentarsi e disse: – Poi che dimane si fanno i funerali del conte Eleutero Ruscone, che era cosí buon gentiluomo e tanto difensore del nostro popolo, io non voglio che dimane ne la mia tintoria si lavori. – Ed accostatosi a la botte ove era dentro Don Battista, quella di maniera acconciò che il prete si sarebbe indarno affaticato per uscire. E cosí tutta la notte i santi preti stettero a far penitenza, ora sperando che la donna venisse a liberargli ed ora disperando, come in simili disaventure suol avvenire. Era anco la polvere del gualdo, come la verde, un pochetto mordente e massimamente offendeva gli occhi, di maniera che anco don Battista, fregando gli occhi, fece tanto che gli divennero rossi come un gambaro cotto. Cominciarono a buon’ora tutte le chiese a suonar le loro campane per i funerali che devevano farsi; il che era ancora ai preti di grandissima noia, sentendo avvicinarsi il giorno. Furono fatte l’essequie, e trovandosi, come giá v’ho detto, tutto il popolo di Como su la piazza, maestro Abondio deliberò di vergognare una volta per tutte i dui parrocchiani e insegnarli a lasciar stare le mogli altrui. Onde in quell’ora, dai suoi famigli aiutato, condusse le botte, ove erano dentro i preti, su la piazza, quelle sempre rotolando, di modo che i poveri uomini tutti si dipinsero, l’uno di nero e l’altro di verde, che pareva un ramarro. Maestro Abbondio aveva una scure in collo, che pareva che volesse andar a far de le legna al bosco. E perché era uomo molto piacevole e che spesso faceva de le burle, tutto il mondo se gli mise a torno. Egli cominciò a tagliare i legami dei cerchi, gridando tuttavia: – Guardatevi, comaschi, ché dui serpenti usciranno de le mie botte! – Slegati che furono i cerchi, le botte andarono in un fascio e gli sciagurati preti che parevano dui diavoli, essendo da le polveri mascherati, non sapendo ove s’andassero, perciò che poco o nulla vedevano, si misero chi qua e chi in lá. Il popolo, che non gli aveva potuti conoscere, cominciò a gridare: – Piglia, piglia,! dálli, dálli! – Fuggendo i preti, un can corso del governatore, che si trovò su la piazza, s’avventò a dosso a don Anselmo e lo morse in una gamba, e lui gridante ad alta voce mercé tirò in terra e poi gli diede di morso in quella faccenda che in mezzo le gambe gli pendeva, ed insieme con dui sonagli via di netto gliela strappò; di che il povero uomo tramortí. Corsero alcuni, avendo veduto il tratto che fatto aveva il cane, e mossi a pietá, andarono a sollevarlo; dai quali aiutato ed in sé rivenuto, disse chi era, pregandogli per l’amor di Dio che fosse menato fuor de la piazza. Don Battista, non sapendo ove s’andasse, fu da alcuni ritenuto, che gli domandavano chi egli fosse; il quale, facendosi conoscere, domandava mercé che non lo lasciassero in quel luogo. Maestro Abondio, veggendo il suo disegno riuscito d’aver fatto sí chiaro scorno ai dui disonesti preti, cominciò a dire che ciascuno si tacesse. E salito suso una panca che quivi era, narrò al popolo di Como la istoria come era successa, di maniera che la simulata santitá dei parrocchiani si conobbe esser sempre stata ipocrisia. Fu don Anselmo a casa sua portato, e stette molti dí prima che egli fosse sanato, e guadagnò questo: che senza sospetto, poteva aver pratica e parlar con le donne senza pericolo che piú le ingravidasse. Don Battista medesimamente, con gran vituperio menato a casa, ebbe un’acerba punizione dal vescovo di Como, il quale lo condannò a pagar le botti e le polveri a messer Abondio e a star molti dí in una scura prigione. A don Anselmo, oltra quello che il cane l’avesse perfettamente castrato, diede anco la prigionia per alcuni dí, e tutti dui gli sospese, che piú non potessero far l’ufficio del parrocchiano.
Il Bandello al riverendo don Urbano Landriano
E’ si suol communemente dire che a chi ama mai non manca argomento di scrivere a la persona amata, anzi d’ora in ora e di momento in momento nascono nel core di quello nuovi argomenti, i quali fanno che sempre l’amico ha occasione di dar nuova di sé a l’amico. Il che io nel vero in me stesso esperimento e di giá piú volte n’ho fatto prova, e non ci ho dubio veruno. Voi forse al presente, essendo qualche dí che mie lettere ricevute non avete, potrete di leggero dubitare che, per esser voi a Napoli, e io qui ne l’amenissima stanza di Landriano, ove, la Dio mercé, a me stesso vivo e a le muse, piú di voi non mi ricordi, o vero che soggetto mi manchi da scrivervi. Ma né l’uno né l’altro in me ha luogo, perciò che se me proprio posso obliare, mi smenticherò anche il mio ufficiosissimo Urbano, avendo sempre con efficacissimi effetti conosciuto quanto amato m’avete e piú che mai amate, e i lunghi viaggi che talora per i miei affari voluntariamente avete fatti. E come mai di mente uscir mi potrebbe, quando voi al piú algente verno, essendo tutta Italia neve e ghiaccio, vi partiste da Fermo e quasi volando a Mantova veniste, avendo avuta la falsa nuova del mio male? Sí che non v’accade dubitare che io non sia sempre di voi ricordevole. Non devete altresí pensare che mi manchi argomento o soggetto di scrivervi, amandovi come faccio, e tanto piú essendo ai dí passati dimorato qui meco per sua ricreazione e diporto forse quindici giorni il venerabile e grazioso predicatore fra Marco Sassuolo, il quale mi ha tenuto con la sua religiosa ed umanissima pratica molto allegro, e m’ha detto molte novelle con le quali abbellirò il mio libro. Ora mi narrò egli un dí una beffa avvenuta a Modena nel convento di San Domenico, che fece assai ridere quelli che ad udirla si trovarono, la quale avendo io scritta, vi mando e col nome vostro in fronte ho dato fuori. Vostro padre è in Milano e di rado vien qui, e con tutta la casa sta bene. Io sono restato padrone de la casa vostra e spesso vi chiamo, e massimamente a le pescagioni de le lamprede del Lambro, che in grandissima copia assai sovente prendiamo. State sano.