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Introduzione | 21 |
Così di verso in verso si disnoda, lunga e stucchevole, la cronistoria di questo suo martirologio amoroso.
Rompono la monotonia pochi episodi. Due colombi tubano: il poeta li guarda con occhio invido... La febbre prostra la Mencia: egli ne ha gravi ambasce. La primavera lieta fa ritorno: tristi pensieri lo assalgono ed egli non trova sollievo che nel confidarsi ad una gentildonna amica, a Virbia gentile. Contempla a lungo il volto della Mencia: vi discerne le fattezze del viso santo d’una fanciulla, un dì amata, della Viola, spentasi in sul fior degli anni nel 1506. Assiste a danze festose, ma con indifferenza, poichè la Mencia non è tra le danzatrici. Ed ora son scene pastorali, nelle quali egli, in veste di pastore, col nome di Delio, fa doni e omaggi a Delia, la Mencia, pastora; ora sono finzioni mitologiche, nelle quali appare, trasfigurata, la Mantovana, che regge il paragone con Venere iddia. Una sola volta può il derelitto amatore baciare la mano della Mencia: quella sua delicata mano d’avorio, che descrive con sì perita minuzia. Una volta sola la sua donna lo visita e gli sorride benigna: ma nel sogno... In un sonetto, poi, l’amata Mencia è morta (CXVII), assunta in cielo nel coro degli angeli. E ciò intempestivamente, poichè nelle rime successive egli ricanta di lei, persona viva; si tratta forse di difetto di collocazione; logicamente questo sonetto dovrebbe chiudere la raccolta.
Vecchio e canuto, in un sonetto di congedo (CCIII) — che fa perfetto riscontro a quello d’esordio (II) — il poeta si accommiata dal lettore con accenti di elegiaco rimpianto. E come ad un sonetto preliminare ne corrisponde altro di chiusa, così alla canzone (I) dedicatoria fa da parallelo la canzone finale rivolta