Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella LVIII

Seconda parte
Novella LVIII

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Niccolò senese da la sua innamorata disprezzato


per disperazione da se medesimo s’impicca.


La meraviglia e stupor grande che in tutti voi, giovini nobilissimi, veggio per la morte di quel rimbambito veglio ed usuraro che, per esser venuto il grano a picciolo prezzo e non averlo venduto quando era carissimo, s’è per se stesso sui suoi granai impiccato, mi fa sovvenire d’un caso altre volte ne la cittá di Siena avvenuto, ben che in parte differente, perché il veglio per l’ingordigia del danaro è ito a casa di cento paia di diavoli, e quello di Siena per irregolato amore e soverchio appetito avvenne. Io volentieri l’accidente vi narrerò, perché so esserci alcuni di voi, e forse tutti, che ne l’amorosa pania sète irretiti e potrete da la mala sorte d’uno sfortunato amante far profitto a voi stessi. Io non vitupero giá che un giovine apra il petto a le fiamme amorose, anzi lo lodo, perché chi in giovinezza non ama si vede poi ne la vecchiaia far le pazzie; ma vorrei che ciascuno in qual etá si sia, quando ama, (ché anco i vecchi possono amare), che sapesse temperar i suoi sfrenati appetiti e non si lasciar trasportar a far le sconce e sconvenevoli cose che molte volte si fanno. E chi avvisto non è al principio a non si lasciar adescare dal senso, si troverá tutto il dí andar di mal in peggio, e al fine sí accecato che non sará poi padrone de le sue operazioni, ma come un buffalo si lascerá tirar per lo naso a le passioni e concupiscibili appetiti. Ma perché piú commoveno gli essempi che le parole, io verrò a la narrazione de la mia novella, che di questa maniera occorse. Nel tempo che papa Pio secondo – che fu senese de la nobil famiglia di Piccioluomini – celebrò il gentil concilio di tutti i prelati ecclesiastici e prencipi cristiani per far il passaggio contra gli infedeli, si ritrovò in Siena un giovine d’onorata e antica famiglia chiamato Niccolò, il quale, dei beni de la fortuna abondevolmente ricco, menava una vita splendida e magnifica. Ora egli, incontratosi un giorno in una bellissima giovane, figliuola d’un povero uomo che era muratore e con l’arte sua la vita si guadagnava, di lei oltra ogni credenza s’innamorò, e sí a dentro nel core gli penetrarono le fiamme amorose che egli in poco di tempo si conobbe non esser piú suo, ma tutto dipender da l’amata giovane. Il perché, spiato ove era di quella la stanza, ancor che a l’abito e ai panni povera l’avesse giudicata, nondimeno poi che intese quella esser poverissima e che filando lana la sua vita reggeva, molto si trovò di mala voglia e mille volte biasimò la natura che cosí bassamente l’avesse fatta nascere. E quasi vergognandosi che ad amarla si fosse messo, volentieri, se potuto avesse, si sarebbe da simil impresa ritratto. Ma il manigoldo d’Amore l’aveva in modo concio che ’l povero amante piú non poteva di se stesso a sua voglia disporre, ma a mal grado suo gli conveniva la veduta giovanetta amare e le pedate di quella di continovo seguitare. Onde sapendo ove era l’albergo del padre di lei, per quella strada due e tre volte passando, non dico la settimana ma ogni giorno, vedeva quella che filando lana in compagnia d’alcune altre povere donne dimorava, e quanto piú spesso la vedeva piú sentiva accendersi e crescer il disio tanto piú di vederla. Sentendosi adunque fieramente struggere e non potendo da la giovane aver una guardatura, si trovava il piú disperato uomo del mondo. E tra l’altre sue doglie non era picciol dolore questo, che a nessuno ardiva palesar questo suo male, parendogli pure di deverne esser forte biasimato che, essendo egli nobile e de le prime schiatte di Siena, si fosse posto ad amar sí bassamente. Ché se avesse avuto alcuno fidato compagno con cui si fosse potuto scoprire e communicargli le sue passioni, averebbe senza dubio sentito alcun conforto e forse con il fedel conseglio de l’amico ritiratosi da sí penosa impresa. Vennegli assai volte un pensiero di farla rapire, ma non gli pareva esser atto da gentiluomo, e tanto piú quanto che credeva che ella sdegnata se ne sarebbe; il che a lui sovra ogni cosa averia recato estremo dolore, perché averebbe prima voluto morire che farla sdegnare. Stare anco cosí e di passione consumarsi, troppo duro gli pareva. Mentre che egli in questi travagli riposo non ritrovava e ogni dí andava di mal in peggio, vennegli a le mani una buona femina, di coteste ruffe che vanno per tutto con i paternostri in mano e sempre muoveno le labra che paiono simie, la quale sapeva benissimo l’arte di corrompere le fanciulle da marito e maritate. A costei parve a l’amante potersi senza vergogna discoprire e dirle tutto il caso suo. Fecela adunque a la casa venire e, dopo molte parole, lo stato in cui si trovava puntalmente le manifestò, e con affettuose preghiere la richiese che volesse di lui aver compassione e far con la giovane, – che dato ad intendere le aveva qual era, – che pieghevole in verso lui si rendesse. La vecchia ricagnata, avendo da l’amante ricevuti alcuni danari, promise di far il possibile per indurre la giovane a far ciò ch’egli volesse; di che l’amante rimase di speranza pieno, aspettando con desiderio grandissimo la rivenuta di quella. Andò la ribalda vecchia un giorno di festa e ritrovò la giovanetta che tutta sola in un cortile sedeva, ove molte famiglie di poveri uomini albergavano; e datole il buon giorno salutandola, appo lei s’assise. La giovane, che altrimenti non la conosceva, la risalutò e le disse che fosse la ben venuta e ciò che ella andava ricercando. La maliziosa vecchia che sapeva la madre de la giovane esser di molti mesi avanti morta, quasi piangendo disse: – Figliuola mia, se tu non mi conosci io punto non mi meraviglio, perché sono circa tre o quattro anni che io dimoro in contado a la villa di Corsignano. Ma io era ben forte domestica de la benedetta anima, che Dio abbia in gloria, di tua madre, e piú volte t’ho avuta in queste braccia quando tu eri garzonetta. E Dio per me ti dica quanto m’è rincresciuta la morte di tua madre, che veramente era buona donna. Onde essendomi occorso di venir a Sierra per alcune mie faccende, ho voluto venir a vederti, parendomi di veder tua madre quando ella era giovane come ora tu sei. Che Dio ti benedica, figliuola mia cara! Io credeva oggimai trovarti maritata, perciò che tu sei grandicella e non deveresti perder il tempo indarno. Ma io credo che la povertá di tuo padre sia cagione che non ti lascia maritare, come sarebbe il debito di prender marito. Or dimmi, prenderesti tu volentieri marito? – Sí, prenderei, – rispose ella, – quando fosse volontá di mio padre, perché senza sua licenza non farei cosa alcuna. – Vedi, figliuola, molte volte i padri non si curano di levarsi d’appresso le figliuole, ricevendone profitto, come io mi credo che tuo padre faccia da te. E se tu baderai che egli ti mariti, avverrá per ventura che tu sarai prima vecchia che egli ti venga fatto di prender marito, onde poi indarno ti pentirai d’aver lasciato scorrere tanto che tu non abbia goduta la tua giovanezza. Ed a dirti il vero, questa tua bellezza non si deverebbe cosí perder senza frutto. Ma se tu punto mi crederai, e deimi tu credere perché so ciò che dico, tu ti provederai per te stessa, ché chi fa i fatti suoi non s’imbratta le mani. Io non sono venuta qui a parlarti senza fondamento, come colei che t’amo e ti vorrei veder menar una vita allegra e darti buon tempo, e far di modo che per l’avvenire tu non istessi sempre a spolparti le dita filando. Se tu vuoi, e’ mi dá il core di farti aver tal dote che tu potrai maritarti in persona che non ti converrá sempre filare, perché averai il modo di tener de le serventi e non t’affaticar sempre mai. E poi che in cotesto ragionamento entrate siamo, io ti dirò pure il come e ti porrò innanzi il tuo bene. Fa poi tu. Uno dei primi gentiluomini de la cittá è tanto innamorato di queste tue bellezze che non ritrova requie, e se non ha la tua grazia egli ne è per impazzire. Se tu vuoi amarlo come vuol il debito che tu faccia, averai di dote mille fiorini d’oro. Non ti par egli che questa sia dote da una gentildonna e cavaleressa? Piglia la ventura fin che Dio te la manda, e non lasciar passar questa occasione che di rado suol venire. – E come vuol egli, – disse la giovane, – darmi sí fatta dote, che io non so chi si sia? – Oh! – rispose la messaggera, – tu sei sempliciotta anzi che no, e non intendi o mostri non voler intender il fatto come sta. Io t’ho giá detto che egli è di te grandemente innamorato e piú brama che tu l’ami che cosa che sia al mondo. E tu deveresti tenerti ben avventurosa che un simile gentiluomo t’amasse. Perciò, figliuola mia, disponti ad amarlo e donagli il tuo amore. Noi faremo bene le cose, che né tuo padre né altri lo risaperá giá mai. – La giovane, quantunque di basso legnaggio e vilissimo fosse, era nondimeno d’animo generoso, altissimo e casto. Il perché, come ella sentí la conchiusione e scelerata domanda de la ribalda vecchia, tutta arrossí nel viso e piena d’onesto sdegno con minacciosa voce le disse: – Taci, taci, ruffa e ribalda vecchia! che venga fuoco dal cielo che te e tue pari arda! Io non so che mi tenga che io non ti cavi gli occhi con queste dita. Via col malanno che Dio ti dia, femina del diavolo! che possi tu fiaccarti il collo! A me sei venuta con queste tue disoneste ciance? Se tu ci torni piú, a la croce di Dio che tu non ti partirai sana da me! Io te l’ho detto e dico: che tu non abbia piú ardir di venirci, perché certamente tu pagheresti questa e quella insieme. – Partissi cheta cheta la malvagia vecchia tutta scornata, e il successo de la cosa a l’amante narrò. Egli pensando che la giovane forse non si fosse voluta fidare de la vecchia, ancor che molto gli dispiacesse la rigida risposta, propose tra sé d’adoperar altro mezzo; onde primieramente, col mezzo d’un domestico del padre di lei, con danari tentò di corromperlo. Ma il buon uomo non volle udirne parola, risolvendo l’ambasciatore che prima affogarebbe la figliuola che mai comportare che ella divenisse bagascia di chi si sia. Il giovine, molto di mala voglia che il fatto non gli succedeva secondo il suo disio, tentò molte altre vie, e tutte furono indarno, con ciò sia che la fanciulla era nel suo casto proposito piú salda e ferma che non è un duro ed antico scoglio in mare contra le impetuose onde. Degna veramente era ella a cui natura dato avesse origine generosa e ricchezze convenienti a sí nobil animo com’era in lei; tuttavia merita ella d’esser celebrata, perché l’animo suo gentile e casto la rendeva commendabile. Ora l’infelice amante, poi che vide da la giovane al tutto disprezzarsi e che egli medesimo, avendo preso ardire di parlarle, altra mai risposta da lei cavato non aveva se non che ella serbava la sua verginitá a colui che sarebbe suo marito, e che prima era per morire che altrimenti fare, si ritrovò il piú disperato uomo del mondo. E poi che alcuni giorni si sforzò smenticarsi costei, e conobbe non esser a lui possibile levarsela di mente, anzi che pareva di punto in punto che l’amor crescesse e piú ardente divenisse, d’estrema malinconia perdette il cibo e il sonno, di modo che pareva una persona incantata. Menato adunque da la fiera sua passione che mordacemente lo struggeva, andò un dí ove la giovane in compagnia d’alcune altre donne filava, e quivi, amaramente piangendo, si sforzò, seco parlando, quella ai suoi disii far arrendevole. Ma egli pregava un monte che s’inchinasse, perciò che ella gli diceva che seminava ne la rena. Onde il misero giovine, veggendo la durezza di quella, le disse: – Ahi bella giovanetta! poi che ai miei estremi martíri e gravose pene, che per te di continovo soffro, non vuoi aver pietade, ed io senza te viver non posso, che vuoi ch’io faccia? – Ella, che mal volentieri si vedeva quella seccaggine a le spalle, quasi in còlera gli disse: – Se mi volete far piacere, andate e non mi venite innanzi gli occhi piú mai. – Avuta questa risposta, Niccolò disse: – Ed io t’ubidirò e farò di modo che tu né altri da oggi in lá piú non mi vedrá. – Andato con questo a casa, entrò in una camera, e con una fune attaccata ad un chiodo, come poi si vide, s’impiccò, e miseramente la gioventú sua e il mal regolato amore finí. Sí che, giovini, io v’essorto ad amar moderatamente, a ciò che non v’intervenga come al povero senese avvenne.


Il Bandello al magnifico messer Lorenzo Zaffardo


Quando da la villa vostra vicina a Revero il mese passato mi partii, me n’andai giú a seconda per Po sino a Ravenna, ove dal nostro gentilissimo e vertuoso messer Carlo Villanova, quivi per la Chiesa romana governatore, fui tre dí ritenuto e molto accarezzato. Ora, avendo egli il secondo dí nel monastero di Classi fatto preparare un solenne desinare ed una lauta cena, montati la matina a cavallo, con alcuni ravegnani in compagnia, quivi n’andammo, perché il monastero è circa tre miglia fuor de la cittá, vicino a la Pigneta, per la via che va a la volta di Cervia, ove il sale in gran copia si fa. E cavalcando per la Pigneta, – ove per mio conseglio non è da caminare quando è gran romore di venti, – avemmo gran piacere sí per veder l’artificio che usano col fuoco a cavare fuori de le durissime pigne, come essi le chiamano, i pignuoli, ed anco per veder la moltitudine degli armenti quasi selvaggi che per la Pigneta pascono. Vedemmo altresí molte testuggini cosí terrestri come marine, di mirabil grandezza, ottime da mangiare. Ma piú d’ogni altra assai ce n’era una, vie piú grande senza parangone che non è la maggior rotella da fante a piè che mai si vedesse. Pervenimmo poi in un bellissimo pratello non di molta ampiezza, tutto circondato d’altissimi e spessi pini, ove tutto il giorno è in alcuna parte di quello ombra. E mirando e lodando molto la beltá del luogo, disse messer Carlo: – Io voglio che questa sera noi ceniamo su questa minutissima e verde erbetta, ché se non fosse tanto tardi, io manderei a prender il desinare. Ma il sole giá s’innalza, e meglio è che prendiamo il camino verso Classi, e poi questa sera goderemo l’amenitá di questo bellissimo luogo. – Cosí ci mettemmo in via, sempre a l’ombra cavalcando fin a Classi. Quivi trovammo Pandolfo di Mino, che ci aspettava ed aveva fatto l’ufficio del sescalco. Smontati adunque, essendo il desinare presto, data l’acqua a le mani, ci mettemmo a tavola. E parlando de la bellezza del luogo, disse Pandolfo: – Signor governatore, a ciò che voi sappiate, commune openione è dei ravegnani che questo sia il luogo ove Nastagio degli Onesti, amando la Traversara, quando qui si ridusse, vide il crudele strazio che di lei fu fatto da messer Guido degli Anastagi e da’ suoi fierissimi cani. – E ridendo ciascuno de la sciocchezza del volgo che le favole talora riputa istorie, dopo che desinato si fu, volle messer Carlo che la novella del Boccaccio, che seco aveva, de l’occorso caso, fosse letta. Ella nel vero attristò gli animi di molti come se vera stata fosse ed eglino si fossero a lo strazio trovati presenti; onde poi si cominció a dire che noi eravamo fuori per ricreazione e non per piangere. Il perché messer Carlo narrò una piacevol novella, la quale fu in gran parte risa ed assai gli ascoltanti allegrò. Questa adunque novella, al nome vostro scritta, vi dono, la quale credo vi sará grata, sí per esser detta da messer Carlo, e da me, ché tutti dui vostri siamo, scritta. State sano.