Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LIII

Terza parte
Novella LIII

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Tomasone Grasso, usuraio grandissimo, fa predicar


contra gli usurai per restar egli solo a prestar usura in Milano.


Quando noi, signori miei, averemo detto e detto, converrá per forza dire che questa cieca cupidigia di voler aver danari fuor di modo è cagione di molti mali. E non solamente rende bene spesso l’uomo infame e fa che da tutti è mostrato a dito, ma sovente anco lo caccia a casa di trenta para di diavoli in anima e in corpo. Onde ora io vo mostrarvi in una mia novelletta che è vera istoria, come gli uomini oltra modo cupidi del guadagno diventano sfrontati e quanto poco stimano Dio. Fu ne la cittá nostra di Milano, non è gran tempo, uno chiamato Tomasone Grasso, il quale a’ suoi tempi avanzò in prestar danari ad usura quanti usurai mai furono innanzi a lui, onde ne divenne oltra misura ricchissimo. Nondimeno, per nasconder il suo vizio, egli ogni dí era il primo ad entrar in chiesa e di sua mano a quanti poveri ci erano dava un imperiale per elemosina; udiva due e tre messe e altre simili dimostrazioni faceva: di modo che chi conosciuto non l’avesse si sarebbe creduto che egli fosse stato il piú catolico e santo uomo di Milano. Quando poi si predicava, egli mai non perdeva nessun sermone, ma, sempre di rimpetto al predicatore mettendosi, il tutto con sommissima attenzione udiva. Venne a predicar in Milano fra Bernardino da Siena, in quei tempi predicatore famosissimo, che poi fu da la santa madre Chiesa nel numero dei santi collocato; e perché era d’etá giá vecchio ed appo tutti in openion d’esser, come era, uomo santissimo, tutta la cittá concorreva ai suoi sermoni, di modo che in breve acquistò appo grandi e piccioli credito grandissimo. Tomasone non lasciava giorno che non l’andasse a udire; ed avendolo sentito dodici o piú sermoni, deliberò, veggendo che non predicava contra gli usurai, andarlo a visitare, e v’andò. Era Tomasone un uomo di venerabile presenza e autoritá, e vestiva molto civilmente. Fra Bernardino, visitato da costui, lo raccolse amorevolmente e con lui entrò in onesti e santi ragionamenti, essendosi posti a sedere. Tomasone faceva da ser Ciappelletto e si mostrava tutto religioso e zelante de l’onor di Dio e de la salute de l’anime. Onde, dopo molti ragionamenti, egli al santo frate in questo modo parlò: – Padre riverendo, tutti noi milanesi abbiamo un infinito obligo al nostro Redentore messer Giesu Cristo, che abbia inspirato la vostra santissima religione a mandarvi in questa nostra cittá a predicare, perciò che mediante la grazia del Salvatore io spero che le vostre predicazioni faranno bonissimo frutto e saranno cagione d’emendare la mala vita di molti, che vivono discorrettamente. Regnano in questa nostra cittá dei vizii e peccati assai, ma piú che vizio alcuno che ci sia, v’è il maladetto peccato de l’abominevole usura, e molti ci sono che altro mestiero non fanno. Io, mosso da caritá, ve l’ho voluto dire, a ciò che nei vostri fruttuosi sermoni possiate talora riprender questo scelerato vizio e diradicarlo da questa cittá. – Il santo uomo, che altrimenti non conosceva chi fosse Tomasone, e buono e leale gentiluomo lo giudicava, lo ringraziò assai ed essortò a perseverare in buon proposito. Poi cominciò ferventissimamente a predicare contra il vizio de l’usura, di maniera che in tutte le prediche altro mai non faceva che biasimare e riprendere chi prestava ad usura; il che agli auditori non poco di fastidio generava. Onde, essendo da alcuni uomini da bene visitato, fu avvertito che non s’affaticasse tanto contra gli usurai, ma seguitasse il suo solito modo di predicare. – Non vi meravigliate di questo, – disse il santo frate, – perciò che io sono stato spinto da quel gentiluomo vestito di pavonazzo, che ogni dí mi sta a sedere per iscontro quando io predico. – E dati alcuni altri contrasegni, fu da tutti conosciuto che egli era Tomasone Grasso. Onde uno di quelli: – Oimè, – disse, – che è ciò che io sento? Costui, padre, che dite, è il maggior usuraio che in tutta Italia sia, e in questa cittá non si troverá chi presti ad usura se non egli. Ed io per me piú volte, astretto da’ bisogni, ho preso con grandissimi interessi danari da lui. – Udendo fra Bernardino questa cosa, restò fuor di modo pieno di meraviglia; e volendo certificarsi, mandò per lui, il quale subito venne. Il santo frate entrò seco in ragionamento e venne a dirgli che egli era un grande usuraio e che, essendo cosí, molto si meravigliava che egli l’avesse stimolato con tanta instanzia a predicar contra l’usura. – Per questo, – rispose alora Tomasone, – venni io a pregarvi ed essortarvi che voi predicaste contra l’usura, perché vorrei esser solo a questo mestiero, per guadagnar piú danari. E chi v’ha detto che altri non ci sia che io, che presti a usura, s’inganna, ed io lo so, ché da qualche giorno in qua non guadagno la metá di quello che io soleva guadagnare, il che mi fa conoscere che altri ci siano cosí savii come io, che anco essi attendono al danaro. E dicovi, padre mio, che chi non ha danari, e pur assai, è una bestia. Voi siete, perdonatemi, poco pratico de le cose del mondo, e il viver vostro è a un modo e il nostro a un altro. E la somma del tutto è questa: che conviene, a chi vuole esser riputato e fra gli altri onorato, aver danari. Sia pur l’uomo nasciuto nobilissimamente e de la casa dei Vesconti, che è la casa del nostro signor duca: se non averá danari, non sará di lui tenuto conto alcuno. Io ho qualche pochi danari, che non pensaste ch’io fossi tutto oro, e se vado in castello per parlar al duca, subito son fatto entrare, se ben egli fosse in letto, perché quando ha avuto bisogno di ducento e trecento migliaia di ducati, io l’ho servito con quel profitto che tra lui e me s’è accordato. Non ci è anco gentiluomo o cittadino o mercante o povero in questa cittá che non mi onori, perché io faccio servigio a tutti. Direte mò voi che io deverei prestar i miei danari senza premio alcuno. Padre mio, cotesto modo di prestar non si costuma e non sarebbe il fatto mio. Io voglio il pegno in mano e voglio che i miei danari tornino a casa con guadagno. Basta a me ch’io non sforzo nessuno, né astringo a venire a tòrre danari in prestito da me. E perché l’avere danari è una cosa che senza fine allegra il core, e quanto piú se n’ha tanto piú cresce l’allegrezza, io mi mossi, quando vi parlai, a pregarvi che voi predicaste contra gli usurai, a ciò ch’io solo tutto il guadagno avessi. – Si sforzò il santo frate con verissime e sante ragioni di voler levar questa fantasia di capo a Tomasone, ed assai gli predicò, mostrandogli negli Evangeli che Cristo nostro Salvatore di bocca sua comanda che si debbia prestar danari al prossimo senza speranza di cavarne uno spilletto. Egli puoté allegare la ragione civile e la canonica e il Testamento vecchio col nuovo, ma niente profittò, perciò che Tomasone perseverava ostinato nel suo proposito. Strinsesi il santo frate ne le spalle di compassione, udendo cosí fatte risposte di Tomasone, e da sé licenziatolo, pregò nostro signor Iddio che gli occhi de la mente gli illuminasse. E poi che di Tomasone tanto ve n’ho detto, vi dirò ancora un fioretto che, poco innanzi a questo ragionamento che fece col santo frate, avvenne. Andava, come avete giá inteso, Tomasone ogni dí a la predicazione, ed avendo fra Bernardino gagliardamente predicato contra gli usurai, un povero calzolaio, che era ito per pigliar danari in prestito da lui, finito che fosse il sermone, sentendo cosí acerbamente gridar il frate contra l’usura, si smarrí. E tornando Tomasone a casa, non ardiva ricercarlo, ma dietro passo passo lo seguitava. Veggendolo, Tomasone gli disse: – Compagno, vuoi nulla da me? – Io vorrei bene qualche cosa, – rispose il calzolaio, – ma non ardisco a chiedervi, avendo sentito il frate sí fieramente garrire contra gli usurai; e dubito che voi non siate convertito e piú non vogliate prestare. – Disse alora Tomasone: – Dimmi, che mestiero è il tuo? – Io sono calzolaio, – rispose egli. – Sta bene, – disse Tomasone. – Tu sei stato al sermone e vai a bottega: che mestiero sará ora il tuo? – Sarò calzolaio, – rispose il povero uomo, – perché non so far altro mestiero. – Ed io, – soggiunse Tomasone, – sarò prestatore, perché altro essercizio non ho per le mani. – E gli diede quei danari che volle. Questo è quel Tomasone che poi si convertí e restituí tutto il mal tolto, certo ed incerto, e lasciò tante elemosine e cose pie, che tutto ’l dí in Milano si fanno; il quale, se visse male, almeno, per quello che si può giudicare, morí bene e da cristiano.


Il Bandello a la valorosa signora


Giulia Sanseverina e Maina


Non è molto che, essendo una bella compagnia di gentildonne in Milano, presso a Porta Beatrice, nel bellissimo giardino di messer Girolamo Archinto e fratelli, essendovi ancora un drappello di cortesi e gentilissimi giovini, poi che messer Girolamo, essendo i dí canicolari, ebbe con soavissimi frutti ed un generoso e preziosissimo vino bianco alquanto rinfrescati gli uomini e le donne, sovravenne il conte Francesco da Persico, cremonese, giovine per nobiltá, costumi e buone lettere di singolare stima e d’una piacevol pratica. Il quale, veggendo che la collezione era sul fine, disse: – Ed io, signore mie, era venuto per bere. – E dato di mano ad una caraffa di vetro, piena d’acqua purissima e fredda, quella saporitamente cominciò a bere, non essendo mai stato avvezzo a ber vino. Poi che con l’acqua s’ebbe cavata la sete, disse sorridendo: – Ora potrò io sí bene cicalare come qual altro che ci sia, poi che ho molle il becco. – E cosí ragionandosi di varie cose e d’uno in altro parlamento travarcandosi, il signor Gian Girolamo Castiglione a certo proposito disse: – Io so che il signor Rolando Pallavicino mio cognato ha fatto un bel tratto. Egli aveva menata pratica di dar moglie a mio nipote, nasciuto di lui e di mia sorella che questi anni passati si morí, e giá aveva concluso il matrimonio ne la signora Domicilla Gambara; e subito innamoratosi di lei, di nora se l’ha fatta moglie, e serrato fuori il figliuolo. Io non so come la sposa si contenterá di cotesto cambio, perdendo un bel giovinetto e pigliando un brutto vecchio. – Ella fará, – rispose la signora Leonora di Correggio, contessa di Locarno, – come fece la buona memoria di vostra sorella, che era giovane bellissima e pur si contentò del signor Rolando fin che visse. – Ora, di questo fatto variamente ragionandosi, il conte Francesco disse: – Nessuno si meravigli di ciò che ha fatto il signor Rolando, perciò che, se ben la pratica ci era di dar quella signora al figliuolo, non era perciò conchiusa. Ora io vi vo’ narrare una cosa avvenuta ai giorni dei nostri padri, ove intenderete come, essendo giá una sposata e fatte le nozze, un altro se la prese per moglie e di contessa la fece reina. – E quivi narrò la novella che io ora, signora Giulia, vi dono, a ciò che piú non mi diciate di quelle cose che spesso dir mi solete, sapendo voi ch’io m’accorgo molto bene che di me vi burlate. Ma io per piú non poter, fo quanto io posso. Intendami chi può, ché m’intend’io. State sana.