Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XI

Seconda parte
Novella XI

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Una donna si trova in un tempo aver tre innamorati in casa


e venendo il marito quello mirabilmente beffa.


Francesco Sforza, secondo di questo nome duca di Milano, dopo la pace e convenzione fatta a Bologna con Carlo quinto imperadore, essendo ritornato pacifico possessore di quel ducato, la maggior parte dei gentiluomini di Milano e del paese quivi intorno, perché le passate guerre avevano lor disfatto le possessioni, ne le quali era di lavoratori, massari, buoi ed altri animali per la cultura de le terre carestia estrema, cercava gente che volesse pigliar le possessioni loro ad affitto, e con picciolo pagamento le affittavano; onde molti ne prendevano e massimamente dei forestieri, con ciò sia cosa che ne traevano grosso profitto. Tra diverse nazioni che vennero a Milano per prender degli affitti, molti bresciani, affittate le case loro e le possessioni ad altri, andavano a Milano e nei luoghi circonvicini, e attesero a prender diversi affitti e far i fatti loro. Di questi ne conosco io piú di duo paia che vi si son fatti molto ricchi, e tale ne so io che su un affitto avanzò oltra tutte le spese mille scudi d’oro di guadagno in meno di dui anni. Ora avvenne che un bresciano, uomo di poca levatura ma che si pensa esser Salomone, avendo imborsato sotto l’ombra di certo signore a cui serviva su le guerre qualche centinaia di ducati, entrò in umore di voler arricchire. Egli non aveva cosa né bene alcuno stabile in questo mondo e si trovava con moglie e figliuoli a le spalle, e con il salario che aveva dal padrone e facendo trafficar i suoi danari poteva assai scarsamente vivere. Ma entratogli in capo questo ghiribizzo di prender un grande affitto non essendo mai piú stato in cosí fatti maneggi, s’accordò con i signori d’una grandissima possessione che è vicina ad Adda, non molto lontana da casa mia, e quivi condusse la moglie e i figliuoli. La possessione era miseramente rovinata e guasta, non v’essendo né lavoranti né bestie, che la guerra e la pestilenza avevano morti, presi e cacciati. Quivi il bresciano attese largamente a spender quella somma di danari che si trovava, facendo quelle riparazioni che piú gli parevano necessarie. E certamente se egli avesse avuto duo mila scudi di contanti da far ciò che a la possessione era bisogno, egli di modo l’averebbe concia che in fine de l’affitto non solamente averebbe cavati tutti i suoi danari, ma anco si averebbe imborsato una gran somma di ducati, perché la possessione è molto buona se vi s’attende e grande, e il fieno che fa per esser copiosa d’acque gli averebbe pagato il fitto. Onde il meschino per voler far il grande e volar senz’ale, non avendo ben misurato le sue forze, in meno di dui anni, avendo l’affitto per sette, si ritrovò con le mani piene di mosche e fu in periglio se non se ne fuggiva di perder la vita. Ma lasciamo questo conto, perché io non mi son messo a dirvi di lui per narrar la fine de l’affitto, che fu che vi perdette tutti i suoi danari e restò anco debitore di buona somma ai padroni de la possessione; ma cominciai a parlare per narrar una piacevol e ridicola novella che a sua moglie avvenne. Egli aveva a Vinegia presa questa sua moglie fuor del chiazzo, essendosi di quella innamorato, la quale per un marchetto la volta dava da beccar a chi ne voleva. Ella era assai appariscente, con un viso molto lieto e proprio da donna allevata tra meretrici. Era ella fin da fanciulla avvezza molto liberale a compiacer del corpo suo a chiunque la ricercava, onde non volendo in quel luogo starsi con le mani a cintola, trovò in breve chi benissimo conobbe la voluntá sua e che cominciò a scoterle stranamente il pelliccione. E questo fu un dei servidori dei signori del luogo, il quale, sí come avviene, dicendo ciò che faceva con lei ad uno dei padroni, giovine e volontaroso, gliene fece venir appetito. Il giovine non diede indugio al fatto, ma trovatola tutta sola dentro a l’orto che raccoglieva erbe per cena, se l’accostò e dopo averla salutata e dettole diece parole amorose, la richiese apertamente d’amore. La donna anzi cattiva femina che a tutti che la ricercavano diceva di sí, non volse al padrone dir di no, ma tutta ridente se gli offerse sempre pronta a fargli piacere ogni volta che la comoditá ci fosse. E cosí molto volentieri si recò, trovata l’oportunitá, a trastullarsi con quello, e piú e piú volte a quello si sottomise, e si riputava un gran favore che uno dei padroni seco si giacesse. Ella era ardita e baldanzosa molto, e poco temeva il marito, veggendolo che non era buono se non di dir parole spolverizzate e mostrar il grande e il ben agiato e dir male di qualunque persona gli veniva in bocca, e poi nel letto faceva piú del dormiglione che de l’uomo, ed ella l’averebbe voluto vigilante e di duro nerbo. Avvenne che il padrone del luogo che seco si giaceva molto spesso, si partí e stette fuori alcuni mesi; il che piacque a certi compagni che servidori di casa erano, i quali per riverenza del padrone non ardivano trescar con la donna. Ma come egli fu partito, uno di loro chiamato «il lodigiano», giovine bruno e molto gagliardo, fece di modo che con la donna si domesticò ed amorosamente la godeva. Medesimamente un altro servidore milanese divenne anco egli in poco tempo di quella possessore e con lei di modo s’accordò che l’altro punto non se n’avvide. Ed ancor che di lei non so che si bucinasse, ella a cui piaceva troppo menar le calcole, punto non si turbò, pur che l’orto suo fosse ben innacquato, ed ora il milanese ora il lodigiano, secondo che l’agio v’era, a dosso si tirava. E dandosi costoro il miglior tempo del mondo con lei, avvenne che un prete de la contrada a cui ella piaceva, cominciò anco egli a domesticarsi seco e prender il possesso de la donna. Era il prete di pel rosso, giovine e nei servigi de le femine gagliardo, e molto a la donna piaceva; di modo che ad ogni ora ci era chi lavorava. E perché tutti erano del bresciano benvoglienti e conoscenti, praticavano domesticamente per casa, e tanto piú che i dui servidori albergavano ne l’istesso palazzo ove albergava la donna. Andava spesso il bresciano a Milano per suoi affari, il che dava comoditá agli adulteri di far i fatti loro. Un dí montò a cavallo esso bresciano con un suo fratello, e l’ora era molto tarda. La moglie gli chiese ove andava, a la quale egli disse: – Moglie, a me conviene esser domatina a Milano; per questo cavalcaremo tutta notte. – Or sia con Dio, – disse ella. Venne voglia a la donna di giacersi quella notte col prete, perché era gagliardo lavoratore, e l’invitò a cena ed al letto, e per meglio cenare ella ordinò una buona torta. Aveva quella matina dato da desinare il bresciano a certi soldati suoi conoscenti che erano quindi passati, e per mostrarsi ben onorevole aveva messo su la tavola un gran tapeto dei signori di casa e fatto da desinare molto bene, onde era avanzata roba assai. Come fu sera ella diede a buon’ora cena al lavoratore e figliuoli, e sbrattatasi da tutti attese il prete che a l’ora debita venne, e per meglio porsi in appetito, si dispose correr con la donna due o tre miglia e scaricar lo stomaco innanzi cena. Ma a pena aveva egli corso un buon miglio che il milanese arrivò a la porta e forte picchiando disse chi era. Ella alora fatto entrar il prete ne la cantina del vino, lo fece appiattar dietro una botte, e andando ad aprir al milanese gli disse che fosse il ben venuto. – E voi la ben trovata, anima mia, – rispose egli –. Serrato poi l’uscio cominciò suso una panca con lei il milanese a trastullarsi, ed avendo il corso suo compíto, eccoti che il lodigiano diede di piedi ne l’uscio, che era venuto per parlar al marito de la donna. Il milanese che non voleva dal lodigiano esser visto, disse: – Oimè, come faremo? – Noi la faremo bene, – disse la donna, e lo fece nasconder dentro il luoco del necessario che in camera rispondeva. Poi aprí al lodigiano, il quale subito domandò che era del marito. – A Milano se n’è egli ito, – soggiunse la donna. – Adunque sète voi sola? – rispose egli. – E come sono io sola, – diss’ella, – se voi sète meco? – Poi che vostro marito non ci è – disse il lodigiano, – io starò una pezza a diportarmi con voi e non perderò in tutto i passi, ché forse non averò bella comoditá un’altra volta fin a molti dí come ora m’è data. – Ed entrato in ballo, con lei fece una danza. La qual fornita, sentirono cavalli nel cortile. Ed ecco il bresciano che indietro era tornato, il quale cominciò a chiamar la moglie. La donna sentito il marito, disse: – Oimè, io son morta. Ecco il mio marito, che Dio lo faccia tristo, che è tornato, e non so come né so ciò che si voglia dire. – Ma pur volendo celar il lodigiano e non avendo accorgimento di mandarlo o di farlo nasconder altrove, lo fece ricoverare sotto il tapeto de la tavola, che tanto largo era che d’ogni banda toccava terra. Ora aiutata da subito conseglio andò ad aprir al marito e gli disse: – Voi siate il ben tornato; e che vuol dir cotesto? Almeno fosse il ritorno vostro stato di mezz’ora prima, perché Morgante è corso fin qui dietro al nostro prete con una spada in mano, e io non so ove il prete sia. Morgante perciò m’ebbe tanto rispetto che non gli diede. Ma sète venuto a tempo di cena e ci è una buona torta. – Or bene, – disse il bresciano, – egli mi rincresce del sere che non vorrei che avesse male, e tu lo devevi ritener qui ché non s’incontrasse in quel pazzerone. Ma sai che è? Manda la fante a metter a letto mio fratello che è cascato in Adda, e penso abbia un poco di febre e non vo’ che mangi questa sera. – Sia con Dio, – disse la donna; e data una voce a la fante che ad imitazione di madonna si dava buon tempo quando ci era alcuno che seco giacesse, le commise che conducesse il cognato a letto. In questo avendo voglia il bresciano di scaricar la vesica, se n’andò diritto al destro ove il milanese era nascoso, il quale sentendo aprir l’uscio e udita la voce del marito de la donna, non sapeva che farsi; e tuttavia stette cheto. Egli era buio ed il bresciano fece il suo bisogno e lavò il volto al milanese d’altro che d’acqua rosata, ma non s’avvide che persona quivi fosse ascosa. Dapoi domandò la moglie perché non accendeva fuoco il camera. – Io son stata in cucina, disse ella, – e pur mò quando arrivaste io era partita dal fuoco e venuta qui a far non so che; ma io subito l’allumerò. – E pigliata la lucerna che ardeva e posto de le legne sul focolare, facendo vista d’accendere il fuoco ammorzò la lucerna a sommo studio, volendo dar fine a quanto l’era caduto ne l’animo. Il marito alora entrato in còlera, volse dar d’un piede a la moglie e diede nel tapeto de la tavola e nei fianchi del lodigiano, il quale fu vicino a gridare e manifestarsi; pur si ritenne. E pensando il bresciano che fusse uno dei mastini de’ massari, lo sgridò; e la donna altresí che era da l’altra parte de la tavola, diede de le mani sotto il tapeto e preso il lodigiano gli disse forte, mostrando con i piedi di percoterlo; – Tira fuora, tira fuora, mastinaccio. – Il lodigiano comprendendo l’intenzione de la donna, carpone, essendo nel luogo buio che niente vi si poteva vedere, se n’uscí fuori che di lui il bresciano punto non s’accorse, e si fermò in sala. Il marito bestemmiando e garrendo la moglie e minacciandola di darle de le busse, teneva detto che allumasse il fuoco. Ella si levò di camera e serrando tosto l’uscio, chiavò dentro il marito. Il lodigiano recatesela in braccio, in capo d’una panca diede un pasto al suo cavallo. Gridava il marito che aprisse, e mostrando ella aver di lui paura, attendeva pure a pascer il cavallo del lodigiano. Né contenta di dargli una provenda, volle che due ne beccasse, di modo che il buon compagno in poco d’ora si trovò aver messo il diavolo né l’inferno tre volte. Fatto questo, gli disse la donna: – Voi ve n’uscirete per la porta de la strada ed indi a poco tornate con scusa di parlar a mio marito, e cenaremo insieme. – Il bresciano pieno di mal talento, tuttavia gridava minacciando la moglie, e diceva ella non volergli aprire se non le giurava di non batterla. Egli che era tutto veleno e còlera contra la moglie, salito suso una scaletta che andava di sopra donde poi si scendeva nel cortile, andava ad alta voce gridando: – Al corpo del giusto Dio io ti coglierò. – Ella che era certa l’uscio che dava adito nel cortile esser chiavato, come sentí il marito esser in solaro, aperse l’uscio de la camera ed entrata dentro, chiavò quello per cui il bestione era ito di sopra, di modo che ser capocchio si trovò confinato lá su e non poteva entrar nel cortile né tornar in camera. Ora egli sarebbe tempo perduto a voler dir le braverie del bresciano, il quale la buona moglie lasciando bravare e maledir quanto voleva, cavò il milanese di prigione ed ancor che fosse tutto innacquato e ben molle d’urina, se lo tolse a dosso e cominciò a macinare. Macinato ch’ebbe il milanese quanto volle, la donna gli disse: – Tu n’andrai a casa per la via de l’orto e ti caverai questo saione, perché tu puti fieramente. Poi fa che torni a cenar con noi, ché io voglio che godiamo di brigata la buona torta che ho fatto fare e molte altre vivande che ci sono, a la barba di quel castronaccio di mio marito che fa professione di saper governar col suo senno tutta Italia. – Era a pena partito il milanese, quando il lodigiano entrò nel cortile e disse ad alta voce chiamando il bresciano: – Non ho udito dire che voi sète tornato? – Egli che era in palco rispose: – Tu sia il ben venuto: io sono qui a noverar le stelle e divenir astrologo. – In questo la donna venne ne la corte e disse: – Voi sète venuto a tempo, lodigiano. – E che vuol dir questa comedia, – disse alora il lodigiano, – che messer è in palco e voi sète qui? E’ mi par proprio veder un atto di comedia. – Io vi dirò, – rispose la donna. – Volendo io accender il fuoco essendo mio marito tornato a casa, per mala disgrazia spensi il lume che in mano aveva, onde egli fieramente meco adiratosi mi volle battere; ma, la Dio mercé, mi son pure finora salvata, perciò ch’io lo rinchiusi in camera, e volendo egli riuscirne per disopra a la via del cortile, gli fermai l’uscio dietro, di modo che egli ancora è in alto e non fa se non garrirmi e minacciarmi di darmi tante busse che mi fiaccherá l’osso del collo; onde io voglio prima che possa discender giú, che mi perdoni e mi prometta non battermi, perché, a la croce di Dio, io non ammorzai volentieri il lume. – Al corpo di Dio, – disse alora il bresciano, – che io te ne darò un giorno tante che tu ti ricorderai per parecchi dí del fatto mio, e ti scarmignerò di tal modo senza pettine che una pagherá tutte. – Orsú, messere, – disse il lodigiano, – cotesto è picciol fallo. Io vo’ che per amor mio perdoniate a madonna e che mettiate giú questa vostra còlera e piú non ne sia altro. Orsú, fate, madonna, recare del lume, ché io aprirò a messere. – Arrivò in questo cantando il milanese, e sentendo ciò che dicevano, disse: – Olá, che ora è questa da far romore? Al corpo del vermocan che saria meglio bever un tratto e andar a dormire. – Fra tanto la donna andò a la cucina e fece che la fante recò del lume. Il bresciano cosí, borbottando, venne giú ed iratamente disse: – Moglie, ringrazia Dio e costoro che ci sono venuti, altrimenti io t’insegnava scherzar meco. Affrettati ed alluma il fuoco, ché io mi muoio di freddo, ed ordina tosto da cena. – La donna accese il fuoco e mise la fante in faccende; e mentre distendeva la tovaglia, disse il bresciano: – Amici miei, voi cenerete meco e mangerete de la torta. – Il milanese rispose che cenato aveva, ma che nondimeno piglieria dui bocconi. – Or sia con Dio, – disse il bresciano, – ché se questa pazza non mi faceva entrar in còlera, io averei cenato e voi non avereste mangiata de la torta. Moglie, va per vino e cava del «raspato» de la possessione di San Pietro, ché a dirti il vero, la maggior paura che io avessi era che tu non trangugiassi la torta senza me. – Ella facendo vista di prender animo, gli rispose: – Io lo deveva ben fare, poi che avendo io a caso spento il lume, faceste tanto romore. – Detto questo ella andò per vino e trovò dentro il rivolto il prete che aspettava pur uscir fuori; ma ella volle che entrasse dentro e desse ber al suo stallone. Gli disse poi quanto voleva che facesse. Indi tratto un grandissimo strido e lasciato il vaso in terra, se ne venne fuggendo ove il marito era, il quale avendola sentita gridare, con i dui che seco erano andò ad incontrarla. Ella tutta tremando disse loro che dentro il vòlto aveva visto uno e che non sapeva chi si fosse. Il bresciano crollando il capo: – Io veggio bene, – disse, – che tu hai bevuto. – Aveva una vertú la donna oltra l’esser puttanissima, che assai spesso s’inebriava. – Mai sí, – rispose ella, – io ho bevuto. Andatevi voi, ché io per me non sono per venirci. – Andarono tutti tre e trovarono il messer che faceva la gatta morta, il quale come gli vide, disse loro: – Lodato Dio che io veggio qui tre miei amici. – E che cosa è questa? – disse il bresciano. – Io ve lo dirò, – soggiunse il prete; – questa sera essendo partito di casa di Mondarello, qui vicino fui assalito da non so chi, il quale sfodrata la spada mi disse: – Ahi traditore, tu sei morto! – e mi corse a dosso; e io fuggendo me ne venni qui in casa, dove la madonna sgridò colui che mi perseguitava. Ora venendo qui non so chi per cavar vino, io volli uscire ch’io era dietro ad una botte, ma quella donna gridando se ne fuggí, ed a la voce io la conobbi donna. – Orsú, siate pure il ben trovato, domine, – disse il bresciano. – Andiamo a cena. Ma ditemi, che avete voi a far con quella bestia di Morgante, ché mia moglie mi disse che Morgante era colui che vi venne dietro con la spada in mano? – Nulla ho io da far con Morgante, né chi mi assalí fu egli, perciò che come sapete, Morgante è grande e grosso e per questo gli hanno messo cotal nome, e colui che mi voleva ammazzare è picciolo, proprio de la vostra statura. – E cosí parlando vennero di brigata a la camera ove la cena era in ordine. Come la donna vide il domine: – Ecco, – disse ella, – che io non era ubriaca. – Si scaldarono e poi si diede l’acqua a le mani e tutti di compagnia lietamente cenarono. La donna ancor che molto bene fosse pasciuta di dolcitudine, nondimeno ella mangiò molto bene e bevette secondo l’usanza sua meglio. E ser castronaccio dopo che molte ciancie ebbe dette, ringraziò Iddio che sí bella e buona compagnia gli aveva dato a cena. Dopo cena tutti accompagnarono il sere a la chiesa. I tre compagni quando agio avevano, attendevano a consolar la donna, la quale seppe sí ben fare che tutti tre accordò insieme e con loro si dava buon tempo, i quali si davano amorevolmente luoco l’un l’altro. Ella poi non contenta di costoro, a molti anco fece copia del corpo suo, parendole che il tutto fosse niente se non star su l’amorosa vita, e piú che poteva cangiava pasto. Né mai ser beccone se n’accorse, o se pur se n’avide, egli mangiò tanto zafferano che fece buono stomaco. E per quello che io ne intendo, ella fa il medesimo ora a Verona dove sta. Pensate se ella è di quelle buone; ma non è meraviglia, perché allevata e nodrita in chiazzo, credo io che dentro vi voglia viver e morire.


Il Bandello al molto magnifico


messer Gherardo Boldero salute


Quanto siano grandi e perigliose le passioni de l’amore che in delicato e molle petto fondano le lor radici, oltra che tutti gli scrittori con molte ragioni mostrino quanti mali ne seguano, si vede molto meglio tutto il dí per i varii effetti di morti ed altri danni che ci nascono, che tutti procedono perché l’uomo non sa amare, ma a poco a poco si lascia da un fuggitivo piacer velar gli occhi e talmente dal concupiscibile appetito trasportare che volendo poi ripigliar il freno de la ragione e voltarsi a dietro, ha assai che fare e il piú de le volte si vede andar in rovina. Ché se l’uomo come si sente al senso inviluppare adoperassi gli occhiali de la ragione, egli piú perfettamente amarebbe, e nel regno d’amore non si sentirebbero tanti pianti, tanti lamenti, tanti sospiri, tante strida e tante querele, ed Amore che vien chiamato fiero, crudele, spietato e traditore, si vedria esser mansueto, piacevole, pio, fedele e di tutte le vertú ornato. Ma perché piú e piú fiate s’è de le pazzie che questi sciocchi innamorati fanno parlato, e tutti i libri di tutte le lingue pieni ne sono, per ora non intendo altrimenti parlarne. Tuttavia volendo io, come debbo, qualche cosa mandarvi per gratitudine de le molte vostre da me ricevute cortesie, una novella che in queste contrade avvenne e da me fu non è molto scritta, vi mando, la quale messer Gian Antonio Gribaldo Muffa gentiluomo di Chieri, essendo in Pinarolo, a la presenza de l’illustrissimo signor Cesare Fregoso luogotenente generale di Sua Maestá cristianissima e di molti altri signori e capitani narrò. Qui per prova si vederá a quanti inconvenienti amore mal regolato meni chi lo segue, ed ancora che tutto il dí si veggiano di questi strabocchevoli casi avvenire, nondimeno molti che non metteno mente a ciò che si facciano, spesso dentro v’incappano. State sano.