Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella X

Seconda parte
Novella X

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Piacevoli beffe d’un pittor veronese fatte


al conte di Cariati, al Bembo e ad altri, con faceti ragionamenti.


Egli è circa un anno che in questo medesimo luogo il valoroso e splendidissimo signor Cesare che quivi con quei capitani ed altri gentiluomini e vaghe donne ragiona, e ad un’altra bella compagnia venuta da Vinegia fece un largo e splendido convito, come ordinariamente fa a chi dei nostri gentiluomini veneziani ci cápita; oltra che poche segnalate persone cápitano a Verona che egli non levi da l’osteria e conduca a casa sua, onorando ciascuno secondo la qualitá e valore degli uomini. E nel vero io ho veduti pochi suoi pari che sappiano accarezzare cosí umanamente un forestiero come egli festeggia, intertiene ed onora. Questo maggio passato, se vi ricorda, vennero a Verona alcuni signori e signore mantovane ai quali qui in questo proprio luogo, ai Lanfranchini e sul lago di Garda fece conviti sontuosissimi, di modo che non ci fu persona che non rimanesse stupefatta de la delicatura, copia e varietá dei cibi e del quieto e bellissimo ordine del servire; ed alora la vertuosa e gentilissima signora sua consorte che quivi vedete non ci puoté essere, perciò che non era una settimana che di parto giaceva nel letto. Avete veduto che desinar è stato quello d’oggi, e la cena vederete che non sará meno un pelo, anzi ci sará alcuna cosa da vantaggio. Ma io vi vo’ far vedere che quando a mezzo giorno è il cielo senza una minima nugoletta sereno, che il sole risplenda, che chi non è orbo il vede chiarissimamente, come al presente si vede: cosí voglio io farvi conoscer la generosità, lo splendore e la cortese liberalitá di questo valoroso signore, quasi che tutto ’l dí non si veda e si tocchi con mano. Or ecco che esso signor Cesare se ne ritorna qui ed io a lui mi volterò. Quando voi di qui vi partiste noi eravamo, signor mio, entrati a ragionar de l’eloquente e facondissimo messer Giovanni Boccaccio e de le beffe fatte da Bruno e Buffalmacco a Calandrino lor sozio ed a maestro Simone, quando fu fatto cavalier bagnato di Laterino per voler esser innamorato de la contessa di Civillari. E certamente non si può se non dire che tra l’altre opere in lingua toscana d’esso Boccaccio il Decamerone sia da esser piú lodato di tutte. E ben meritamente il nostro eccellente dottore messer Lodovico Aligeri Dante, ricordandosi che i suoi avoli ebbero l’origine loro da Firenze, l’ha lodato come suo cittadino e s’è allegrato a sentirne parlare; il che dimostra la generositá de l’animo suo e l’amore verso l’antica sua patria. Io medesimamente tutte le volte che mi occorre veder o sentir ragionar dei nostri de la Torre, che cacciati fuor di Milano di cui erano signori e per l’Italia in varii luoghi dispersi, mantengono ancora per tutto l’antica lor nobiltá, non posso fare che non mi rallegri, parendo pure che la natura ed il sangue m’inchini e tiri ad amarli. Vedo altresí voi, signor Cesare, onorare, accarezzare e volentier veder tutti i vostri Fregosi che per l’Italia ne l’arte militare rappresentano il valore dei vostri antichi; e non solamente i Fregasi, ma egli non cápita genovese chi si sia a Verona o uomo del paese de la Liguria che voi non gli diate albergo in casa vostra e che di danari ed altri bisogni non gli soccorriate, perché sono genovesi, e l’onoranda memoria di vostro padre fu duce di Genova, e voi contra piú di sei mila fanti tra italiani e spagnuoli dei quali era capo il capitano generale de l’artiglieria de l’imperadore, Gabriele Tadino, con settecento scelti soldati eletti da voi Genova per forza pigliaste e tutta quella fanteria rompeste, facendo prigione esso Tadino. Ma perché sète qui presente, io non vi voglio in faccia lodare. Solamente dirò che voi ancora non passavate venticinque anni quando faceste questa gloriosa impresa, e Genova ad instanzia de la serenissima Signoria vostra riduceste sotto l’ubidienza del re cristianissimo. Ma tornando al Boccaccio, io dico che non si può negare che Bruno e Buffalmacco per quello che in diverse novelle di loro scrive il Boccaccio non fossero uomini d’ingegno, maliziosi, avveduti ed accorti; tuttavia a dir il vero, se eglino avessero avuto a far con persone svegliate ed avviste, non so come loro le beffe fossero riuscite. Essi si abbatterono in un Calandrino, sempliciotto e disposto a creder tutto quello che udiva ed uomo proprio da fargli mille beffe. Taccio il bambo, quel maestro Simone che quando ei partí da Bologna credo io che con la bocca aperta fuor se n’uscisse e tutto il senno che apparato aveva, col fiato volò via. Io vorrei che si fossero apposti a beffar altri che uno scemonnito pittore ed un medico insensato che non sapeva se era morto o vivo, tanto teneva del poco senno. Credetelo, che averebbero imparato senno a le spese loro e cosí di leggero non veniva lor fatto di far dispregnar Calandrino e fargli l’altre beffe che gli fecero, né averiano fatto credere quello andar in corso e tante meraviglie come credette maestro Simone. Ma le novelle si scriveno secondo che accadeno, o almeno deveriano esser scritte non variando il soggetto, se bene con alcun colore s’adorna. E poi che io veggio che il caldo è in colmo e che fin a cena ci è tempo assai, e che questi nostri gentiluomini e gentildonne col ragionar tra loro in diversi drappelli passano il tempo, io vi vo’ far toccar con mano che in Verona è stato un pittore di molto maggior avvedimento ed accortezza che non furono i dui pittori del Boccaccio; con ciò sia cosa che se eglino ingannarono ser Calandrino e maestro Simone che erano pecora campi, oves et boves, questo nostro di cui intendo parlarvi ingannò, o per dir meglio, senza dubio beffò due segnalate ed accortissime persone e degli altri assai, che quando gli nominerò vi farò far di meraviglia il santo segno de la croce. Egli primieramente beffò il signor Gian Battista Spinello conte di Cariati al tempo che governava la cittá nostra di Verona a nome di Massimigliano d’Austria imperadore, e nondimeno esso conte era astutissimo ed uomo di gran maneggio. Beffò poi il dottissimo e vertuoso signor Pietro Bembo che tutti conoscete di che ingegno sia e prudenza, il quale papa Leone, uomo giudizioso e di buoni ed elevati ingegni conoscitore, non averebbe eletto per suo segretario se conosciuto non l’avesse di prudenza, sagacitá ed accortezza dotato. E se non vogliamo per riverenza di questi dui personaggi eccellenti dire che il nostro pittore gli beffasse, almeno diremo che diede loro il giambo, e v’aggiungeremo per terzo l’eccellente messer Girolamo Fracastore, che sempre che gliene dimandarete, largamente vi confesserá come restò ingannato. Io non credo giá che ci sia uomo di cosí poco vedere che voglia parangonare a costoro Calandrino e maestro Simone; e se il facondissimo Boccaccio avesse avuto questo soggetto, io mi fo a credere che ne averebbe composta una o due bellissime novelle ed ampliatele e polite con quella sua larga e profluente vena di dire. Ma io dirò semplicemente il caso come occorse, senza fuco d’eloquenza e senza altrimenti con ampliazioni e colori retorici polirlo. Devete adunque sapere che il pittore di cui vi parlo fu maestro Girolamo da Verona, che quasi tutti avete conosciuto e poco tempo è che morí. Egli era il piú faceto e piacevol uomo ed il meglior compagno che si possa imaginare, e troppo volentieri dava il giambo ed il pigliava. Era poi tanto affezionato ai nostri signori veneziani che tutta Verona per tale il conosceva. Ora in quei calamitosi tempi de le guerre che tanto a la cittá nostra nocquero e senza dolore non si ponno ricordare, mentre che Verona fu in poter dei nemici di San Marco, non era possibile che maestro Girolamo tacesse e che non discoprisse l’affezion sua. Aveva il conte di Cariati un giorno fatto levar via San Marco ch’era su la porta del palazzo del signor podestá, e in luoco di quello volle che vi si dipingesse l’aquila con l’insegna di casa d’Austria. Fu l’impresa data a maestro Girolamo il quale mal volentieri prese l’assunto di farlo; nondimeno non essendo a quei dí chi gli desse guadagno, per esser una gran parte dei cittadini fuori, chi in essiglio e chi per non veder tutte l’ore lo strazio che dai soldati si faceva, non avendo altro essercizio a le mani da guadagnarsi il vivere, si mise a dipingere le dette insegne. E mentre dipingeva v’era sempre gente in piazza ed alcuni si fermavano a vedere. Il buon pittore a cui troppo era dispiaciuto il levar via San Marco e gli doleva dever far quell’arme, non si poteva contener che non sospirasse e molte volte dicesse: – Durabunt tempore curto, – onde fu subito accusato al conte per un gran marchesco. Il conte dubitò che forse ne la cittá fosse alcun occulto trattato contra l’imperadore e che il pittore ne fosse consapevole. Il perché fattolo a sé chiamare, diligentemente cominciò ad essaminarlo e domandargli a che fine aveva dette quelle parole latine. Egli che non credeva esser stato sentito e vedeva che il negarle non ci aveva luogo, da subito conseglio aiutato, con un buon viso rispose: – Signore, io vi confesso aver dette le parole che mi ricercate, e le dico anco di bel nuovo, che quelle insegne non dureranno. Sapete voi perché? Perché ho avuti tristi colori che a l’aria e a la pioggia non reggeranno. – Piacque mirabilmente la pronta risposta al conte, ed in effetto pensò che a cotal fine qual narrato aveva, il pittore le parole puramente dette avesse, e piú innanzi non investigò il fatto. Ché ancora che trattato contra gli imperiali non ci fosse, nondimeno il sagace pittore disse le parole, come agli amici affermava, con salda speranza che i veneziani devessero ricuperar la cittá e far levar via l’aquila con l’insegna d’Austria, come non dopo molto fu fatto. Vi par egli che al bisogno si sapesse schermire e che molto galantemente si salvasse? Egli seppe sí ben fare e di modo governarsi che del conte divenne molto domestico e ne traeva assai profitto. Ma vegnamo a parlar del signor Pietro Bembo, la cui novella sará molto piú festevole e da ridere ed io meglio ve la saperò contare, perché la cosa fu in casa nostra ed io vi fui presente, e vi fu anco il nostro Fracastore che ebbe la parte sua de la beffa. Non accade che con ambito di parole a voi tutti che qui sète io m’affatichi a voler dar a conoscere che personaggio si sia il signor Pietro Bembo, essend’egli per le sue rare ed eccellentissime doti ed opere ne l’una e l’altra lingua composte e stampate a tutta cristianitá notissimo. Questo vi dirò ben io esser sua consuetudine, per l’amicizia che ha con noi che suoi ospiti siamo, ogni volta che viene a Verona venirsene domesticamente a smontar in casa nostra, ove tanto v’alberga con i suoi che vengono seco quanto gli piace dimorar ne la cittá, e con noi diportarsi nei luoghi nostri di Valle Policella e di Pantena, come noi volgarmente diciamo, ove ai nostri poderi gli doniamo quegli onesti piaceri che la stagion comporta ed il luogo ci può dare. Vi venne egli una volta tra l’altre e seco vi era quell’altro dottissimo giovine, – giovine, dico, a par del signor Pietro, – messer Andrea Navagero. Fu quando a casa nostra in Verona vennero, del mese di gennaro, ed arrivarono la sera a le ventiquattro ore. Miei fratelli ed io secondo il costume nostro facemmo lor quelle grate accoglienze che per noi si seppero le maggiori. Invitammo subito alcuni gentiluomini a venirgli a tener compagnia, tra i quali venne messer Girolamo Fracastore nostro e dei dui ospiti amicissimo. Vedetelo lá, il Fracastore, dico, che ora tutto solo se ne sta a contemplar le limpide e cristalline acque di questi fonti e forse compone alcuna bella cosa degna del suo sublime ingegno. Messer Gian Battista mio fratello, di sempre acerba ed onorata memoria, mi disse ciò che intendeva fare per ricreazion de la compagnia, a cui io risposi che mi rimetteva a lui. Si diede ordine che la cena fosse onorevole. Poi che gli osti nostri si furono a le camere loro cavati gli stivali e le vestimenta da viaggio, se ne vennero in sala ove ardeva un buon fuoco e si misero a sedere. Il Navagero cominciò a parlar col Fracastore, ed alcuni altri ed io ci intertenevamo col signor Bembo di varie cose ragionando. Messer Giulio mio fratello, perché era cagionevole alquanto de la persona, presa licenza se n’andò via. In quello arrivò messer Gian Battista, la cui venuta fu cagione che il Navagero, lasciato il Fracastore, si ritirò a parlar seco. Erano quasi le due ore di notte quando io domandai se volevano cenare. Essi risposero che potevano ancora star una ora. Ed in questo ecco che si sentí picchiar molto forte a la porta, né guari stette che venne di sopra un dei nostri servidori il quale al Bembo disse: – Signore, egli è di sotto un vostro parente che viene per visitarvi, e dice che anch’egli ha nome Pietro Bembo. – Sentendo questo il signor Bembo stette un pochetto sovra di sé; dapoi rivolto a noi altri disse: – Che buona ventura può aver condutto in qua questo vecchio? Egli suol aver la stanza in Vicentina ad un suo podere, e sono piú di vent’anni ch’io nol vidi ancor che siamo stretti parenti. – Alora messer Gian Battista comandò che si accendessero duo torchi per andar a farlo venir su. Voleva il Bembo andargli incontra, ma noi nol sofferimmo; onde io ci andai e condussi il vecchio in sala, al quale il capo e le mani forte tremavano. Com’egli fu in sala, parlando schietto il parlar veneziano dei nicoletti, abbracciò il Bembo dicendo: – Lodato sia Iddio, Zenso mio, che avanti ch’io mora ti veggio, la Dio mercé, sano, (si chiamano l’un l’altro Zenso se hanno un medesimo nome), e con questo lo basciò in fronte lasciandogli un poco di bava sul viso. E perché sappiate come era vestito, udite. Egli aveva indosso una toga a la ducale che giá fu di scarlatto e alora era scolorita e pelata che se le vedeva tutta l’orditura, e non aggiungeva a un gran palmo ai piedi. Aveva poi una cornetta che si chiama da’ veneziani becca, di panno morello, piú vecchia che la madre di Evandro e in alcuni luoghi stracciata. La berretta era a la veneziana, unta e bisunta fuor di misura. Le calze erano ne le calcagna lacerate, con un paio di pantofole che i veneziani chiamano zoccoli, sí triste che i diti dei piedi per la rottura de le calze pendevano fuori. Messer Gian Battista l’abbracciò e gli disse: – Magnifico, voi ci avete fatto torto a non venir a smontar qui in casa vostra, ché essendo parente del signor Bembo, sète padrone di noi altri. – E volendo mio fratello mandar a l’osteria a pigliar i cavalli, disse il vecchio che non bisognava, perché era venuto suso una cavalla a vettura e ito ad albergo col Cigogna suo antico oste. Il signor Pietro veggendo il vecchio sí mal in arnese e che cosí sgarbatamente parlava, mezzo si stordí e non sapeva che dirsi. In questo il vecchio entrò a ragionar di casa Bemba e sí minutamente raccontò tutti i parenti loro e di quanto gli era per molti anni avvenuto, che pareva che avesse il registro di ciò che diceva innanzi agli occhi. E parlando del padre ed avo e di messer Carlo fratello del Bembo, si lasciava di tenerezza cader alcune lagrime. Poi disse: – Io ho inteso, Zenso mio, che tu componi di bei versi che sono piú belli che non è il Serafino né il Tebaldeo. Che Dio ti benedica, Zenso mio. – Dicendo questo sternutò dinanzi e di dietro tre volte molto forte e disse: – Perdonatemi, figliuoli miei, ché io son vecchio ed il freddo dei piedi m’ha causato questo; – onde s’accostò al fuoco e cavando i piedi de le pantofole, or l’uno ed or l’altro scaldava. Veggendo il Bembo che i diti apparivano fuori, mezzo turbato disse a mio fratello: – Di grazia levatemi questa seccaggine di questo mio parente rimbambito. – Mio fratello si scusò che non sapeva come fare. Il vecchio alora disse: – Figliuoli, non vi meravigliate se io sono cosí mal in ordine, perché questo è abito cavalcaresco, ma a casa io ho bene de l’altre veste; – e poi entrò in un pecoreccio di pappolate da far ridere ogni svogliato e malinconico, di maniera che il Bembo ancor che in còlera fosse, non poteva far che non ridesse. Volendo poi il vecchio nettarsi il naso cavò un fazzoletto assai grande, rotto in piú luoghi e tanto sporco che pareva che fosse stato un mese in cucina a nettar le padelle. Il Navagero ancor che ridesse, tuttavia mezzo adirato gli disse: – Messere, voi sète venuto a far un grand’onore al vostro parente, ed essendo stato tanto a vederlo, l’avete fatto maschio. Egli è ben fatto che questi gentiluomini vi diano da cena, perché noi non ceneremo di qui a buona pezza. – O figliuol mio, – rispose egli, – io veggio bene che i poveri vecchi sono malveduti dai giovini. Io ho avuta tanta voglia di veder il mio parente, ed ora tu vuoi che me ne vada? A le guagnele di san Zaccaria, tanto che egli stará qui, io lo vo’ godere. Cenate pure tanto tardi quanto volete, ché io aspetterò, perché non sono tre ore che il mio oste quando smontai mi fece mangiar quattro fegatelli di cappone e ber duo bicchieri di vernaccia. – Io me ne crepava de le risa, e per non guastar la coda al pavone mi ritirai verso la credenza, fingendo veder ciò che si faceva. Mio fratello senza punto cangiarsi di viso, rivolto al vecchio disse: – Magnifico, lasciate dir chi vuole, ché voi sète in casa vostra. – Il Bembo gli teneva pur detto: – Voi, messer Gian Battista, pensate farmi piacere e mi fate il maggior dispetto del mondo. Lasciatelo andar per l’amor di Dio, ché io mi muoio di vergogna. – Alora il Fracastore mosso a compassione del fastidio del Bembo, al vecchio disse: – Magnifico, il signor Navagero vi dá un buon conseglio: voi sète attempato anzi che no e il tempo è freddo. Io che medico sono, v’essorto a cenar a buon’ora ed andarvi a posare. – Domine magister, – rispose il vecchio, – pigliate questo conseglio per voi, ché io non lo voglio. Ma saperei ben volentieri chi è questo Navagero, ancor che essendo col mio Zenso deve esser Andrea, che intendo aver di gran lettere. – Voi v’ingannate, – disse il Navagero, – perché io mi chiamo Pancrati. – Io non so, – soggiunse il vecchio, – chi usurpi questo nome se non quelli da ca’ Giustiniana. So bene che i Navageri non l’hanno. – E qui fece un altro catalogo di casa Navagera. Ora la cosa andò molto in lungo con dispiacer infinito del Bembo, il quale vedeva questo suo parente, ché per tale lo credeva, in raccontar le genealogie veneziane esser un Tullio, ma nel resto dimostrarsi il maggior sciocco del mondo. A la fine il vecchio mutata la voce e il modo di parlare, ridendo disse: – Io so che sète galanti uomini a non riconoscer il vostro Girolamo pittore. Che vi venga il gavocciolo, «poëtis quae pars est». – Fu subito riconosciuto, e risolvendosi il tutto in riso, egli se n’andò in una camera, e spogliatosi l’abito da comedia si rivestí i suoi panni e ritornò in sala, dando a tutti la baia e facendoli di nuovo molto ben ridere. Affermava il Bembo averlo sempre tenuto per il suo parente, ed ancor che lo vedesse sí mal in arnese e cosí mal costumato, che credeva che per la vecchiaia fosse ribambito, e che in vero n’aveva una strema vergogna. Il Navagero si disperava di non averlo conosciuto, perché e in Vinegia e in Verona esso pittore a lui e al Bembo era molto domestico. Ma sovra tutti il Fracastore era quello che non si poteva dar pace, ché tutto ’l dí avendo pratica con lui e conversando familiarmente insieme e dilettandosi de le chiacchiere di quello, alora fosse sí smemorato e fuor di sé che mai non gli fosse venuto in mente. Medesimamente gli altri gentiluomini veronesi che ci erano e domesticamente di continovo il praticavano, confessarono senza dubio non averlo in quell’abito buffonesco conosciuto giá mai. Insomma tutta la cena fu piena di riso e di gioia, né mai il signor Pietro mi scrive, – che pure per cortesia sua spesso mi manda lettere, – che qui sempre non faccia menzione di questa beffa e che ancora non ne rida. Ma ora io non vo’ dirvi la beffa che fece a Massimigliano Cesare in Isprucco, che forse non fu men faceta di questa.


Il Bandello al magnifico e vertuoso


messer Emilio degli Emilii


Sono, sí come sapete, giá alcuni anni che io cominciai a scriver le mie novelle secondo che dagli amici m’erano narrate o per altra via mi venivano a le mani; ed avendone giá scritte molte, fui a mal grado sforzato d’abbandonar Milano per la cagione che giá vi dissi e d’andarmene peregrinando variamente per l’Italia. Tornato poi che fui a Milano, trovai con mio grandissimo dispiacere che dai soldati spagnuoli alcuni miei coffani erano stati sconficcati, pensando forse trovarvi dentro un gran tesoro; ma veggendo che altro non c’era che libri ne portarono via una gran parte e lasciarono i forzieri aperti, di maniera che, oltra i libri stampati, mi furono rubati molti scritti di mia mano, cosí mie composizioni come di molti belli ingegni de l’etá nostra che io aveva raccolti essendo a Roma, a Napoli e in varii altri luoghi. E tra l’altre cose mi rubarono la maggior parte de le mie rime ed alcune novelle insieme con quel mio gran volume dei vocaboli latini, da me raccolti da tutti i buoni autori che a le mani venuti m’erano, il quale tanto vi piacque quando lo vedeste. Di questo libro piú mi grava la perdita che di tutti gli altri, perché mai piú non mi verrá fatto che io abbia l’ozio di durar piú tanta fatica, e ben che io avessi l’ozio, non averò piú la copia di tanti libri quanti alora aveva. Poi è morto il non mai a pieno lodato e degno di viver molti secoli, il dottissimo messer Aldo Manuzio, col cui mezzo non si stampava libro ne la Magna, in Francia e in Italia che io subito non l’avessi. Sí che io sono fuor di speranza di mai piú metterlo insieme. Ora avendo io ricuperati alcuni fragmenti cosí de le mie rime come de le novelle, mi son messo a trascrivere esse novelle ed anco, – secondo che di nuovo alcuna n’intendo, – scriver e come a le mani mi vengono a metterle insieme, non mi curando dar loro ordine alcuno. Onde avendone alquante scritte che sono state da molti lette, m’è stato detto che in due cose sono biasimate. Dicono per la prima che non avendo io stile non mi deveva metter a far questa fatica. Io rispondo loro che dicono il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E per questo non faccio profession di prosatore. Ché se solamente quelli devessero scrivere che hanno buon stile, io porto ferma openione che molto pochi scrittori averemmo. Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che scritta fosse ne la piú rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterá il suo lettore. E queste mie novelle, s’ingannato non sono da chi le recita, non sono favole ma vere istorie. Dicono poi che non sono oneste. In questo io son con loro, se sanamente intenderanno questa onestá. Io non nego che non ce ne siano alcune che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubio confesso che sono disonestissime, perciò che se io scrivo ch’una vergine compiaccia del suo corpo a l’amante, io non posso se non dire che il caso sia disonestissimo. Medesimamente se la moglie concede il suo corpo ad altri che al marito facendolo duca di Cornovaglia, chi presumerá dire che ella non sia disonesta? Taccio di quelle che con fratelli, cognati, cugini ed altri del proprio sangue si meschiano. Né peccano meno gli uomini de le donne. Ché se l’uomo lasciata la propria moglie morir di freddo sola nel letto, va adulterando le mogli altrui, chi sará che nomi costui onesto? Egli sará pur chiamato adultero, e gli adulteri per la legge Giulia deveno esser puniti. Ed in effetto io credo che non si trova nessuno di sana mente che non biasimi gli incesti, i ladronecci, i micidiali ed altri vizii. Confesso io adunque molte de le mie novelle contener di questi e simili enormi e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le donne gli commettono; ma non confesso giá che io meriti d’esser biasimato. Biasimar si deveno e mostrar col dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle che da me scritte sono e che si scriveranno, sono e saranno scritte de la maniera che i narratori l’hanno raccontate. Affermo bene averle scritte e volerne de l’altre scrivere piú modestamente che sia possibile, con parole oneste e non sporche né da far arrossire chi le sente o legge. Affermo anco che non si troverá che ’l vizio si lodi né che i buoni costumi e la vertú si condannino, anzi tutte le cose mal fatte sono biasimate e l’opere vertuose si commendano e si lodano. E perché avendone alcuna volta parlato insieme, ho trovato che voi sète de la mia openione, io lascerò dire ciò che si vorranno questi cosí scropolosi che forse altra intenzione hanno di quella che ne le parole mostrano, sovenendomi di quello che una volta disse il piacevole e faceto Proto da Lucca al signor Prospero Colonna. Egli diceva che lo scriver le cose mal fatte non è male mentre non si lodino, e che ne la Sacra Scrittura sono adulterii descritti, incesti ed omicidii, come chiaramente si sa. Ora avendone nuovamente scritta una che narrò a una bella compagnia il nostro Pandino da Pandino, che è di quelle che muoveno lo stomaco a questi critici, ve la mando e sotto il nome vostro voglio che sia letta, perché essendo voi, come sète, uomo di giudizio, non de lo scrittore vi scandalezzarete ma di chi averá le sconcie e disoneste cose operato, come il dever ricerca. State sano.