Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella LVI
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Novella LVI
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Strana e meravigliosa usanza che era anticamente in Idrusa
ove a ciascuno era lecito senza punizione del magistrato levarsi la vita.
Degli orti de l’isola di Samo ed altre.
S’io mi metterò a narrarvi le cose da me vedute nel tempo che io ho navigato per i mari di Levante, e voi averete assai che fare a prestarmi sí lungamente l’orecchie ed io in cicalare non saperei cosí di leggero ridurmi al fine, perciò che nel vero ho veduto ed udito assai cose degne per molte lor qualitá d’esser raccontate. Tuttavia poi che me lo comandate, io alcune ne dirò; ma prima io vo’ dirvi una molto strana consuetudine che al tempo dei romani s’osservava in una de l’isole del mar Egeo, e udite come. Idrusa che ai nostri giorni da’ naviganti è chiamata Cea o Zea, è isola de le Cicladi giá di belle e popolose cittá copiosa, come le rovine a chi navica dimostrano. Era anticamente in essa isola uno statuto assai strano che per molti secoli intieramente fu osservato, il quale, per quello che se ne legge, era tale. Qualunque persona in detta isola abitante, fosse di che sesso e condizione si volesse, a cui per vecchiezza, infermitá od altro accidente rincrescesse piú vivere, poteva eleggersi quella sorte di morire che piú le piaceva, mentre perciò ad un magistrato a questo dal popolo eletto manifestasse la cagione che a non voler piú restar in vita l’induceva. E questo ordinarono a ciò che apparisse che le persone volontariamente la morte si davano. Il perché tutto il dí uomini e donne assai molto arditamente e con lieto viso andavano a la morte, come un altro sarebbe ito nozze. Ora avvenne che il magno Pompeo navigando per l’Egeo capitò a Idrusa. Quivi di nave uscito, intese dai paesani l’usanza che ne l’isola si manteneva e come quell’istesso giorno deveva una venerabil madrona che sempre onoratamente era vivuta, avendo giá ottenuta licenzia dal magistrato, avvelenarsi. Restò Pompeo senza fine pieno d’ammirazione, parendogli assai strano che cosí di leggero devesse volontariamente una persona ber il veleno, onde comandò che la predetta madrona gli fosse menata dinanzi, essendogli da tutti stato detto che a ciascun, grande e picciolo, dispiaceva la morte di cosí vertuosa donna. Come fu venuta la donna, poi che Pompeo ebbe da lei risolutamente inteso com’ella era deliberata di non piú voler vivere, si sforzò egli con quelle piú efficaci persuasioni che seppe, essortarla che non si volesse avvelenare, ma tanto che era sana ricca e ben veduta dai grandi e dai piccioli del suo popolo, attender a vivere e rimaner in questo mondo fin che naturalmente venisse il tempo del morire. Ma tanto non seppe egli dire né cosí efficacemente persuaderla che dal suo fiero proponimento la potesse rimover giá mai. E perseverando pur Pompeo con nuove e valevoli ragioni per indurla a vivere, ella poi che assai e pazientemente ascoltato l’ebbe, in questa maniera con chiara voce ed allegro sembiante gli rispose: – Tu sei, magno Pompeo, grandemente errato se forse ti persuadi che io senza considerazione grandissima e molto maturo conseglio a far questo ultimo fine mi sia mossa. Io so, e di questo non ho dubio alcuno, che naturalmente ciascuno appetisce la prolungazione de la vita e per il contrario aborre il morire come distruttivo del vivere. E su questo io ci ho piú e piú volte pensato e fatti tutti quei discorsi che cotal caso ricerca. E tra le molte considerazioni che meco pensando assai sovente ne l’animo mio ho discorse, mi s’è rappresentata l’instabil e volubil fortuna, la cui raggirata ruota si va di continovo rivolgendo, né mai ferma un tenore dura. Si vede tutto il dí che ella essalta e leva uno dal profondo de l’abbisso a l’altezza del cielo, donandogli quante ricchezze egli sappia desiderare. Un altro poi che era felicissimo ed a par degli dèi al mondo onorato, e a cui nulla di bene mancava a potersi chiamar in questa vita beato, in un subito e di roba e d’onore privando, fa diventar povero e mendíco. Colui si truova ricco e sano, con bella moglie e bei figliuoli a lato, e vive in festa e in gioia; ma questa fortuna devoratrice de le nostre contentezze priva colui de l’inestimabil tesoro de la sanitá, fa che la bella moglie altrui piú stima che il marito e diventa adultera, e col suo velenoso dente di maniera morde i figliuoli, che in breve tempo tutti miseramente se ne muoiono, di modo che il misero uomo si truova privo di quei figliuoli che disposto aveva dopo morte lasciar dei suoi beni eredi. Ma che vado io perdendo le parole in voler far chiara la volubilitá de la fortuna, che è piú chiara assai che il sole e de la quale tutto il dí mille e mille essempi manifestamente si vedeno? Piene se ne veggiono tutte l’istorie de le genti, e il paese de la Grecia ne può far ampissimo testimonio, ove tanti eccellenti uomini che col dito toccavano il cielo si sono veduti in un momento tornar al basso, e tante gloriose cittá che tanti popoli reggevano ora a la tua cittá romana servire. Ti può, magno Pompeio, di queste dannose mutazioni la tua Roma esser lucidissimo specchio, e tanti tuoi cittadini per il passato ed al presente abondevolmente fartene fede. Ma tornando a casa, ti dico che trovandomi io esser vivuta molti anni, né so per qual sorte, in grandissima prosperitá e mai non aver sofferto avverso caso fortunevole nessuno, ma che sempre di bene in meglio sono andata fin a questo dí, ho gran paura che questa fortuna, pentita di essermi stata cosí lungamente favorevole, non cangi stile e cominci oggimai nel mio dolce vivere a sparger le sue velenose amarezze e farmi bersaglio dei suoi pungenti e nocivi strali. Per questo ho maturamente deliberato levarmi fuor de la giurisdizione de le sue forze e degli infortunii suoi ed infermitá noiose e gravi che a noi mortali miseramente soprastanno. E credilo a me, magno Pompeio, che molti in vecchiezza con poco onore hanno lasciata la vita, che se ne la giovinezza fossero morti morivano senza fine gloriosi, e sarebbe la fama loro eternamente appo i venturi secoli chiarissima durata. Pertanto, signor mio, per non fastidirti piú con mie lunghe parole, lasciami seguir la mia deliberata disposizione e volontariamente levarmi fuor d’ogni periglio, perché talora e bene spesso il peggio è vivere troppo. – E detto questo, con ammirazione e compassione di quanti ce n’erano, intrepidamente bebbe una gran coppa di veleno che seco recata aveva e non dopo molto se ne morí. Cotale era la strana usanza che in Idrusa s’osservava. Ma poi che cosí attentamente m’ascoltate, un’altra cosa mirabile vi narrerò che intesi esser stata ne l’isola di Samo nel mare Icario. Questa è quella Samo ove era il famoso e cantatissimo tempio di Giunone e dove a quei tempi si faceva tanta copia di bellissimi vasi. S’afferma che al tempo antico erano nel mezzo de l’isola alcuni orti bellissimi, pieni d’arbori che fanno i pomi in grandissima abondanza. E quando essi pomi erano maturi ed in esser da mangiarsi, poteva qualunque persona entrar dentro quegli orti e tanti pomi mangiare quanti voleva. Ma non era lecito a nessuno portarne fuori d’essi orti pur un solo, perché non era possibile poter da quegli orti partirsi. Ora avendovi raccontate due cose mirabili, perché, secondo il detto del poeta, Iddio del numero dispari s’allegra ed il ternario è sacro, passarò da le due a le tre cose mirabili. Vi dico adunque che nel mar Tirreno è un’isola chiamata Etalia, distante da terraferma circa cento stadii, ne la quale, per quello che riferisce Diodoro, erano le minere del ferro per dui accidenti molto mirabili, con ciò sia cosa che dai cavatori spesse fiate vòte, in termine di certo tempo cresceva il ferro e le cave come di prima si riempivano. L’altra meraviglia è che dentro l’isola il ferro ne le fornaci cotto, distillato non si poteva ridurre in massa per modo alcuno se non si portava in terraferma, ove dopoi si riduceva in quelle forme che l’uomo voleva. E come il ferro in Etalia cresce, in Paro, isola de l’Illirico famosissima per la nobiltá del candido marmo, cresceva esso marmo ne le fesse. Scrive Plinio che in dette lapidicine di Paro essendo rotto un pezzo di marmo, vi si trovò nel mezzo l’imagine di Sileno. Ma per non star tutt’oggi in mare, smonterò sul Padovano e vi dico che in Lipia nel contado di Padova grandissima quantitá di sassi si suol cavare, e tanti quanti indi se ne cavano sempre altri tanti di nuovo rinascono, di modo che il luogo non si truova vòto giá mai. Ora chi volesse de le meravigliose opere de la dedalea natura parlare, troppa fatica prenderebbe e cosí di leggero non si verria al fine.
Il Bandello a la molto illustre e vertuosa eroina
la signora Isabella Gonzaga di Povino
Io rivolgeva questi dí molte de le mie scritture che in un forziero senz’ordine erano mescolate sí come a caso quivi dentro erano state gettate. E venendomi a le mani alcune mie novelle che ancora non erano state trascritte né collocate sotto la tutela d’alcun padrone o padrona miei, restai forte smarrito che ancora a voi nessuna donata ne avessi, avendone di giá dedicate a questi ed a quelle piú d’un centinaio; onde me stesso accusai di trascuraggine ed inavertenza grandissima, che tanto tardato avessi a mandarvene una in segno de la mia riverenza ed osservanza verso voi. Ché certamente io mi confesso degno di castigo non picciolo, essendo troppo al mondo manifesto il debito ed obligo che io ho a la felice ed onorata memoria del valoroso signor Pirro Gonzaga e de la gentilissima signora Camilla Bentivoglia, vostri onoratissimi padre e madre, che tanto m’amavano e tutto il dí con nuovi beneficii m’obligavano, e mentre vissero furono da me secondo le debolissime forze mie sempre tenuti in quella riverenza che io seppi la maggiore, come ne le stanze mie si vederá che io in lode ho composte de la vostra nobilissima sorella dal mondo riverita e da me santissimamente amata, la signora Lucrezia, le quali in breve saranno publicate, ove anco vederete il nome vostro essere celebrato. Ora per emendar il fallo da me commesso, ve ne mando una d’esse mie novelle, la quale giá lungo tempo è che dentro le case del signor Lucio Scipione Attellano fu narrata da messer Niccoloso Baciadonne, che molti anni nel regno d’Orano aveva mercadantato e ricercate assai regioni e luoghi di Affrica. Egli per esser uomo che di molte cose rendeva benissimo conto e molto agli auditori da cui volentieri era ascoltato sodisfaceva, essendo in Milano ed avendo col gentilissimo Attellano cenato, a la presenza d’alcuni altri gentiluomini che di brigata erano, la narrò. Per questa novella, signora mia, voi conoscerete che anco sovente tra le nazioni barbare s’usano de le lodevoli cortesie. Degnate adunque con la solita vostra umanitá e gentilezza accettarla e farmi questo favore che io del vostro nome possa prevalermi. E basciandovi le dilicatissime mani, ne la buona grazia del valoroso vostro consorte, il signor Rodolfo Gonzaga marchese, e vostra, inchinevolmente mi raccomando. State sana.