Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella LV

Prima parte
Novella LV

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Prima parte - Novella LIV Prima parte - Novella LVI

Un castellano trovata la moglie in adulterio col suo signore gli ammazza,


ond’egli con molti altri è miserabilmente morto.


Egli in effetto è gran cosa che ordinariamente il piú dei nostri ragionamenti si veggiano cascare a parlar dei casi amorosi, e massimamente quando il nostro vertuoso messer Gian Battista Schiaffenato ci è di compagnia, che sempre ha alcuna bella rima amorosa o epigramma o elegia de le sue dotte composizioni da recitare. E perché s’è detto che un innamorato mai non deverebbe adirarsi, dico che l’adirarsi in ogni cosa sta male, quando il furor de l’ira adombra il lume de la ragione, perché il piú de le volte l’uomo che da l’ira è vinto fa strabocchevoli errori che poi cosí di leggero non si ponno emendare, come in una mia istoria che raccontarvi intendo, apertamente vedrete. Si vuole l’uomo adirare ne le cose mal fatte, ma con temperamento, non lasciando trascorrer la còlera fuor dei debiti termini. Se mi dirá alcuno che sia cosa piú facile a dire che a fare, io lo confesso; ma ben gli ricordo che la vertú consiste circa le cose difficili, e dove ne l’operare è maggior difficultá quivi è la gloria maggiore. Ora venendo a la narrazione de la mia novella, devete sapere che, non sono molti anni, ne la famiglia dei Trinci, al tempo che Braccio Montone e Sforza Attendulo capi de la milizia italiana fiorivano, furono tre fratelli, chiamati il primo Niccolò, Cesare il secondo e l’ultimo Corrado. Tenevano costoro il dominio di Foligno, di Nocera, di Trevio e di molte altre terre nel ducato di Spoleto, e quelle con fratevole amore governavano, non si curando altrimenti dividere il nobil e ricco stato. Avvenne che andando assai sovente Niccolò da la cittá di Foligno a quella di Nocera ed alloggiando sempre in ròcca, egli pose gli occhi a dosso a la moglie del castellano ch’era una giovane molto bella e piena di grazia, e di lei sí fieramente s’innamorò che gli pareva non dever vivere se amorosamente quella non godeva. E non avendo riguardo che il castellano a nome di lor tre fratelli guardava la ròcca e che piú tosto deveva carezzarlo che offenderlo, diede opera che la donna di questo amore s’accorgesse. Il che in breve ebbe effetto, perciò che ella avvedutasi che il signore la vagheggiava, si tenne da molto piú e molto caro l’ebbe, onde se gli scopriva tutta piacevole e ridente con la coda de l’occhiolino gli mostrava che era disposta a far quanto a quello era a grado. Del che Niccolò ne viveva contentissimo. Ed essendo i dui amanti d’un medesimo volere, non passarono molti giorni che avuta la commoditá si trovarono in parte ove presero insieme con gran contentezza amoroso piacere. Piacque mirabilmente a Niccolò la donna, e se di lei era prima innamorato, ora tutto ardeva, e per averne assai piú spesso copia, veniva tutto il dí a cacciare nei boschi di Nocera che di porci cinghiari ed altri salvaggiumi sono molto abondevoli. Veniva egli a la caccia volentieri, non solamente per goder la bella ed amorevol castellana che era tutto il suo intento, ma anco a ciò che, sotto il titolo de la caccia, il castellano del suo cosí frequente venire non ingelosisse e pigliasse de l’amorosa pratica sospetto. Perseverò felicemente lungo tempo in questa sua impresa senza impedimento veruno o che persona se n’avvedesse. Ma usando poco discretamente per la lunga consuetudine questa pratica, Fortuna invidiosa del bene e contentezza degli amanti fece che il castellano se n’avvide, ed aprendo meglio gli occhi che prima fatto non aveva, ritrovò egli un giorno il suo signore in adulterio con la moglie, cosí celata e cautamente che eglino punto non se n’accorsero. Di cotanto oltraggio il castellano entrò in un fierissimo sdegno, e la fede che al suo signore aveva giurata convertí in perfidia e l’amore che gli portava cangiò in mortal nemicizia ed odio acerbo e crudelissimo, seco deliberando, andasse il caso come si volesse, d’ammazzarlo. E ben che l’ingiuriato castellano per lo scorno ricevuto fuor di misura entrasse in còlera ed avesse di leggero potuto gli amanti a salva mano uccidere, nondimeno egli per far piú la vendetta compita e vie maggior che si potesse, assai meglio la sua ira ed il concetto sdegno dissimulò e tenne celato, che i dui sfortunati amanti non avevano saputo i loro amori nascondere. Ed avendo lungamente tra sé varii modi imaginato a ciò che tutti tre i fratelli cogliesse a un laccio, si pensò che dilettandosi eglino de la caccia, il mostrar di farne una era il piú sicuro mezzo che trovar si potesse. Fece adunque far l’apparecchio grande, e sparse la voce che in uno di quei boschi nocerini aveva tra molti veduto il piú smisurato e gran porco cinghiaro che mai in quelle selve si fosse visto. Scrisse poi a Foligno ai tre fratelli che il seguente giorno piacesse loro di venire, perché la matina dopoi a buon’ora anderebbero a caccia ed averebbero il piú bel piacere che di caccia avessero giá mai. Si ritrovò a caso quel giorno Berardo da Varano duca di Camerino esser a Foligno, il quale sentendo di questa caccia parlare, andò anco egli con i dui maggior fratelli a Nocera: in lor compagnia v’andarono molti gentiluomini ed altri. Piacque a nostro signor Iddio che Corrado, terzo fratello, s’era il giorno avanti da Foligno partito e cavalcato a Trevio, ov’era da alquanti giovini a un paio di nozze con una bellissima festa stato condutto. Andarono dunque a Nocera Niccolò, Cesare ed il signor di Camerino con lor brigate e giunsero sul tardi. Cenarono tutti in Nocera, e dopo cena Niccolò e il Varano andarono a dormire in ròcca e Cesare restò ne la cittá, ove quasi tutti gli altri alloggiarono. La notte su l’ora del primo sonno, avendo il ribaldo castellano mutinati tutti i fanti de la guardia de la ròcca, andò con parte di loro a la camera ove Niccolò dormiva, e quello senza romore con i camerieri preso, a lui per esser l’adultero, prima tagliò via tutti dui i sonagli col membro virile insieme e poi cavògli crudelmente il core. Né contento di questa acerbissima vendetta, fece del corpo mille pezzi con le proprie mani. I nostri vicini bergamaschi quando sentono alcuno che maledicendo il compagno gli dice: «Ti venga il cacasangue, la febre, il cancaro» e simili imprecazioni, sogliono dire: «Io non so dir tante cose, ma io vorrei che tu fussi morto». Deveva bastar a l’irato fuor di misura castellano uccider il suo padrone e non incrudelir poi nel morto; ma l’ira come è sfrenata, non sa servar modo. Il perché entrato dopoi ne la camera ove il duca di Camerino dormiva, quello con le sanguinolente mani prese e col resto di quelli che in ròcca alloggiavano cacciò in una oscura prigione. Cominciandosi poi a scoprir l’aurora e giá quelli che ne la cittá albergavano mettendosi in punto per la caccia, mandò il crudel castellano uno dei suoi scelerati ministri a chiamar Cesare in ròcca a nome del fratello. Egli che nulla sapeva e meno nulla di male sospettava, come fu entrato in ròcca si vide miseramente far prigione, e tutti quelli che seco erano incarcerare. Il castellano per non esser inferiore a qualunque piú crudel barbaro che mai si fosse, fece menar cosí legato Cesare ne la camera ove Niccolò in mille pezzi smembrato nel suo sangue si stava, e gli disse: – Cesare, ecco il ribaldo adultero di tuo fratello; vedi qui il capo e riconoscelo a le sue fattezze. Quanto mi duole che Corrado non sia a queste nozze che io faccio, perché anch’egli se ne sederebbe a questa sontuosa mensa, a ciò che nessuna reliquia del sangue dei tiranni Trinci al mondo restasse. Ma chi fa ciò che può ha fatto assai. Io non ce l’ho potuto cogliere: che maledetto sia Trevio e chi ci abita. – Detto questo, il perfido castellano sovra le membra di Niccolò, crudelmente di sua mano, Cesare, che piú morto era che vivo e che mai parola essendo a sí fiero spettacolo fuor di sé non disse, come un agnello svenò e lasciò voltarsi nel sangue del fratello e suo. Dopo cotanta sceleraggine il fiero e piú che neroniano castellano fece domandar i primi e piú riputati uomini di Nocera, ai quali dinanzi la porta de la ròcca congregati egli che su le mura tra i merli era, cominciò a parlare ed essortargli a volersi metter in libertá, dicendo loro che il tempo oportuno era giunto che si potevano, volendo, liberare da la tirannia dei Trinci, perché egli aveva Niccolò e Cesare imprigionati, i quali intendeva indi a poco far morire a ciò che la sua patria liberasse. Non parve al ribaldo manifestare che i dui fratelli fossero morti, se prima non spiava e conosceva le menti dei nocerini. Quando i ragunati intesero che dui dei loro signori erano incarcerati, udendo sí fatto tradimento tutti ad una voce agramente il ripigliarono, e poi con buone parole il pregarono che di cotanto errore, quanto commesso aveva, pentito, lasciasse liberi i lor signori dai quali si tenevano giustamente ed umanamente governati; che se questo egli faceva, talmente opererebbero appo essi signori, che gli impetrarebbero del grave commesso fallo perdono. L’assicurarono poi che essi ed il popolo simigliantemente non permetterebbero mai che i lor signori fossero sí villanamente morti, e che subito del tutto avvertirebbero Corrado ché in aita dei fratelli ne venisse. Gli dissero altresí che Braccio per modo veruno non comportarebbe che suo cognato, che era il duca di Camerino, stesse in prigione; e molte altre cose gli misero innanzi. Lo scelerato castellano veggendo che la cittá non era per liberarsi, rispose ai cittadini che fra il termine di tre o quattro ore darebbe loro risoluta risposta, e che in questo mezzo voleva meglio pensar sul fatto. Licenziati i cittadini, subito chiamò a sé dui giovini dei quali molto si confidava, e diede loro tutti i suoi danari e gemme che aveva, pregandogli a partirsi subito e trovar un luogo fuor de la giurisdizione dei tiranni ove poi potesse mandar i figliuoli. Montarono a cavallo i dui compagni ed uscirono per la porta del soccorso, e s’accordarono come furono fuori che era meglio romper la fede a l’infedel castellano che essere rubelli del signor Corrado, onde quanto i ronzini gli poterono portare cavalcarono verso Trevio ove sapevano esser Corrado. I cittadini subito che furono da la ròcca partiti, sonarono a consiglio e congregati elessero un cittadino che se n’andasse a trovar Corrado ed avisarlo degli imprigionati suoi fratelli, non sapendo ancor la morte loro. Giunsero primieramente i dui partiti de la ròcca, e trovato Corrado, a quello la crudelissima morte dei dui fratelli e la prigionia del duca di Camerino e di molti altri dissero. Egli udita sí fiera novella senza punto tardare fece metter ad ordine alcuni cavalli, e volendo montar a cavallo, venne il messo de la cittá di Nocera, al quale Corrado commise che ritornasse subito indietro e facesse intender a la cittá come il castellano giá aveva crudelmente ucciso i dui fratelli; pertanto imponesse ai cittadini che mettessero buona guardia a torno a la ròcca a ciò che il traditore non scappasse, mentre ch’egli andasse a cercar aiuto da Braccio. Montato adunque Corrado a cavallo, se n’andò di lungo a Tuderto ove alora Braccio che n’era signore si ritrovava, e a quello narrò la morte dei dui fratelli e come Berardo suo cognato era in prigione. Signoreggiava in quei tempi Braccio Perugia e molte altre cittá de la Chiesa ed era gran contestabile del regno di Napoli e prencipe di Capua; onde subito ragunati quei soldati che vicini gli erano e agli altri fatto intendere che il seguissero, se ne cavalcò a Nocera in compagnia di Corrado. Giunto a la cittá, mandò Braccio un trombetta al castellano, per intender da lui a suggestione di cui tanta sceleratezza egli aveva commesso. Rispose il castellano che da nessuno instigato i tiranni aveva ucciso, ma per vendicar la patria sua in libertá e per punir l’ingiuria che ne la propria moglie Niccolò gli faceva. Domandato che restituisse Berardo e gli altri che in prigione aveva, nulla ne volle udire. Il perché dopo il terzo giorno essendo giá assai numero di soldati convenuto, Braccio fece dar l’assalto a la ròcca; e diffendendosi quanto potevano quei di dentro, durò l’assalto piú di sei ore. A la fine prevalendo, i bracceschi entrarono dentro. Il castellano fuggí nel maschio de la fortezza ove aveva giá impregionata la moglie, e seco vi si ridussero dui suoi figliuoli ed il fratello. Furono presi ne la ròcca il padre del castellano con trentanove provigionati che tutti a la morte dei dui fratelli erano stati. Come Corrado vide quelli che i fratelli gli avevano uccisi, da fierissimo sdegno acceso, il padre del castellano con le proprie mani ammazzò e in mille pezzi fattolo dividere, il fece per cibo dar ai cani. Tutti gli altri crudelmente furono morti, perciò che alcuni vivi a coda di cavalli furono per sassi, per spine e fossi tirati, lasciando or qua or lá le lacerate carni. Altri con affocate tenaglie spolpati ed arsi, altri in quattro quarti vivi divisi, ed altri, in cuoio di buoi nudi posti, furono fino al mento interrati. Era stato, ne l’entrar che per forza in ròcca si fece, liberato il duca di Camerino con gli altri incarcerati. Il castellano salito sovra de la torre, poi che vide al fatto suo non esser scampo, avendo giá visto il crudo strazio che di suo padre e d’alcuni altri fatto s’era, a ciò che da ogni banda vendicato morisse, legate le mani a la bella moglie, quella gridante mercé da l’alta torre gettò in terra, la quale tutta si disfece e morí subito. Né guari stette che vinto dal fumo che Braccio fatto far aveva, fu dai bracceschi preso ed insieme con i figliuoli e fratello da l’alta torre, come de la moglie fatto il crudel aveva, a terra precipitato. Corrado di questo non contento, fece ai corpi loro mille vituperii fare e comandò che insepolti restassero per ésca di corbi. Fece poi seppellire le reliquie dei dui fratelli e volle anco che a la donna fosse dato sepoltura. A cosí miserando adunque fine l’amore di Niccolò e l’ira del castellano sé ed altrui, come udito avete, condusse; onde si può bene la mia istoria con tre versi del nostro gentilissimo poeta conchiudere:


Ira è breve furor, e chi nol frena,

è furor lungo, che ’l suo possessore

spesso a vergogna e talor mena a morte.


Il Bandello al magnifico


messer Marcantonio Bandello


Fui questi giorni passati a Vinegia, cittá nel vero tra le mirabili mirabilissima, se si considera il sito, i marmorei e superbi palazzi, le mercadanzie preciose e ricchissime che di continovo ci sono, la varietá de le molte e varie nazioni che vi praticano, ed ove nulla di vettovaglia nasce, l’abbondanza grandissima d’ogni sorte di cose da mangiare. Ma sovra il tutto di stupore ed ammirazion indicibile esser si vede quell’amplissimo e di venerabili vecchi ripieno senato, del quale si potrebbe con veritá affermare ciò che del senato romano Cinea ambasciadore di Pirro re di Epiro era solito dire, cioè che era un senato di molti regi. Ma io non mi mossi giá a scrivervi per empir il foglio de l’eccellenze infinite che sono in quella eccellentissima cittá, ma presi la penna in mano per darvi nuova come da Vinegia era tornato a Milano per Dio grazia con buona sanitá. E perché mi saria paruto cascar in grande errore a ritornar da cosí ricca cittá senza recar cosa alcuna di nuovo, v’ho portato una meravigliosa novella che io essendo in Vinegia intesi e subito scrissi. Trovai quivi il gentilissimo messer Galeazzo Valle vicentino, uomo che in Levante per quei mari lungamente ha navicato, e suole spesso cantando a l’improviso ne la lira dar agli ascoltanti grandissimo piacere con le sue belle invenzioni in diverse rime. Eravamo un dí nel palazzo grande di casa Foscari col magnifico messer Aloise Foscari e fratelli, padroni del palazzo. Quivi esso messer Galeazzo avendo secondo i soggetti che gli erano dati, cantato su la lira molte belle cose, e ragionandosi de le cose che egli in Levante veduto avea, tra molti ragionamenti che fece, narrò una meravigliosa istoria avvenuta in un’isola del mar Egeo, la quale a tutti sommamente piacque. Onde ora ve la mando, avendola al nome vostro scritta. Voi ne farete copia ai nostri communi parenti, al dotto messer Girolamo ed a messer Enrico Bandelli. State sano.