Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella V

Terza parte
Novella V

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Bellissima vendetta fatta dagli eliensi contra Aristotimo


crudelissimo tiranno e la morte di quello, con altri accidenti.


La crudeltá del perfidissimo Ecelino m’ha ridutto a memoria una istoria non meno memorabile che pietosa, la quale l’anno dopo la giornata di Giaradadda io lessi in casa del dotto ed integerrimo uomo messer Giacomo Antiquario. Aveva poco innanzi il gentilissimo e di tutte le lingue benemerito messer Aldo Manuzio donato ad esso Antiquario alcuni libri di Plutarco cheroneo non ancora tradotti ne la lingua romana, come ora molti e in latino e in volgare tradotti dal greco si leggono. Lessi adunque in detto libro greco, – in quello, dico, ove Plutarco parla di molte chiare ed eccellenti donne, – l’istoria che ora intendo narrarvi. Fu Aristotimo di natura sua uomo fero ed immanissimo, il quale col favore del re Antigono si fece tiranno degli eliensi nel Peloponesso, che oggi Morea si chiama, regione de l’Acaia. Egli, occupato il dominio de la sua patria, come tiranno tutto il dí usando male la sua potenzia, con nuove ingiurie vessava ed affligeva i miseri cittadini e tutto il suo popolo. Il che non tanto gli avveniva perché di natura egli fosse crudele e feroce, quanto che aveva per suoi conseglieri uomini barbari e viziosi, ai quali tutta l’amministrazione del regno e la guardia de la sua persona aveva commesso. Ma tra tante sue sceleratezze iniquamente da lui commesse, che furono innoverabili, una da lui fatta contra Filodemo, che fu quella che poi gli levò il regno e la vita, è singolarmente commemorata. Aveva Filodemo una sua figliuola chiamata Micca, che non solamente per i castigatissimi costumi che in lei vertuosamente fiorivano, ma anco per l’estrema bellezza che in lei bellissima si vedeva, era appo tutta la cittá in grandissima ammirazione. Di costei era fieramente innamorato un certo Lucio, soldato di quelli che sempre stanno a la custodia del corpo del tiranno, se amore il suo merita esser nomato e non piú tosto, come la fine dimostrò, una sporca, immane e ferina libidine deve dirsi. Era Lucio ad Aristotimo per la simiglianza dei pessimi costumi molto caro, e comandava a questi e a quelli tutto ciò che a lui aggradiva. Il perché mandò uno dei satelliti o siano sergenti del tiranno, e comandò a Filodemo che a la tal ora senza veruna scusazione gli facesse menar la figliuola. Udita cosí fiera ed inaspettata ambasciata, il padre a la madre de la bellissima e sfortunata Micca, astretti da la tirannica forza e fatale necessitá, essortarono dopo infinite lagrime e pietosi sospiri la lor figliuola che al favorito del signore volesse senza contrasto lasciarsi condurre, poi che altro rimedio non ci era che ubidire. Ma la generosa Micca, che era magnanima di natura e saggiamente con ottimi ammaestramenti nodrita, essendo prima disposta di morire che lasciarsi violare, si gittò ai piedi del padre, ed abbracciandogli le ginocchia, caramente lo pregava e con piú efficacia che poteva lo supplicava che a modo veruno egli non sofferisse che ella fosse condutta a cotanto vituperoso ufficio, ma volesse piú tosto lasciarla ammazzare che mai permettere che, essendo violata e perdendo la sua verginitá, restasse vituperosamente viva, da eterna infamia accompagnata. Dimorando eglino in questa contesa, Lucio, per la lunga dimora e da l’ebrezza fatto impaziente e furibondo, senza piú pensarvi su, se n’andò a la casa de la vergine, e quella ritrovando ai piedi del padre prostrata e lagrimante col capo in grembo di quello, con imperiosa voce e piena di gravissime minaccie le comandò che in quell’istesso punto senza mettervi indugio veruno si levasse su e dietro a lui andasse. Il che recusando ella di fare, Lucio, di furor pieno ed entrato in superbissima còlera, cominciò furiosamente a lacerarle le vestimenta a torno, ed avendole fatto restar le spalle alabastrine nude, senza alcuna compassione di tal maniera la flagellò, che da ogni banda correva il sangue, e di molte gravi piaghe e profonde rimase la vergine ferita. Né crediate, signori miei, che ella punto si smovesse dal suo fermo proposito. Con tanta fortezza d’animo ella le impresse piaghe sopportava, che mai non fu sentita mandar fuor voce alcuna di dolore né lamentarsi con gemiti od in altro modo. Ma il povero padre e la misera madre, a sí fiero e miserando spettacolo da interna e parental pietá commossi, dirottamente piangendo, poi che s’avvidero né pregando né piangendo di poter liberar la figliuola da le mani di quel crudelissimo mostro, cominciarono con alta voce a chiamare e implorar il soccorso e l’aita dei dèi immortali e degli altri uomini, parendo pur loro che immeritamente fossero vessati e afflitti. Alora il superbo e inumanissimo barbaro, e da l’ira e dal vino furiosamente commosso e agitato, nel paterno grembo la costantissima vergine, con un coltello svenandole la candidissima gola, subito ammazzò. Non solamente il perfido e crudo tiranno, udita cosí non piú usata sceleraggine, non volle per via nessuna punire chi l’aveva commesso di tanto orrendo misfatto, mostrando averlo piú caro che prima; ma in quei cittadini i quali sí fiera crudeltá vituperavano divenne piú fiero e piú crudele assai che non soleva. Onde una gran parte di loro ne la publica piazza fece tagliar in pezzi, come si fanno al macello le pecore e i vitelli, e l’altra parte condannò a perpetuo esilio. Di questi banditi, ottocento in Etolia, provincia vicina a l’Epiro, che oggi Albania si dice, se ne fuggirono. Questi cosí fuor de la patria discacciati ebbero mezzo di far con ogni instanzia pregar Aristotimo che si contentasse di permettere che le mogli loro e i piccioli figliuoli andassero a trovargli in Etolia; ma si cantava a sordo e le preghiere furono sparse al vento. Tuttavia, – tosto udirete la cagione, – indi a pochi giorni mandò per tutta la cittá un suo trombetta, e fece publicamente far alcune gride: che fosse lecito a le mogli dei banditi, con i figliuoli e robe che condurre si potessero, andar a trovare i mariti. Questo proclama fu da tutte le donne, i cui mariti erano fuorusciti, con piacer grandissimo inteso; e, secondo che la fama risuona, si ritrovarono esser almeno seicento. E per darle piú ferma speranza de la partita, ordinò il perfido tiranno che tutte di brigata il tal giorno partissero. In quel mezzo apparecchiarono le liete donne tutto ciò che portar volevano, proveggendosi di cavalcature e di carrette. Venuto il segnalato dí per levarsi de la cittá, tutte ad una porta loro determinata cominciarono a ridursi. Chi veniva con i piccioli figliuoli a mano e in capo portava alcune sue robe, chi a cavallo e chi sovra carri con le robe e figliuoletti si vedevano affrettarsi, secondo che povere e ricche si trovavano. Ora, essendo ogni cosa ad ordine e giá aperta la porta de la cittá, cominciarono ad uscir fuori. Non erano a pena le buone donne de la terra uscite, quando i satelliti e sergenti del tiranno sovravennero e, non avendo ancora giunto ove le donne caminavano, cominciarono ad alta voce a gridare che si fermassero e non fossero ardite di passar piú innanzi, anzi che senza dimora tornassero dentro. Quivi facendo furiosamente rivoltar le carra e con acutissimi stimuli pungendo e cacciando i buoi e giumenti, di modo gli raggiravano ed agitavano che a le misere donne non era lecito né andar innanzi né tornar indietro, di sorte che molte cadevano con i piccioli loro figliuoli in terra, e restavano miseramente da le bestie e da le rote conquassate, tutte peste, ed assai morte. E quello che era miserabile a vedere, che non si potevano insieme aitare l’una e l’altra, e meno soccorrere ai pargoletti figliuoli. Da l’altra banda quei ribaldi sergenti con bastoni e sferze, fieramente cacciandole verso la cittá, le percotevano e flagellavano, sforzandole ad entrar dentro. Ne morirono alcune in tanta calca e molte restarono sciancate, ma dei fanciulli e fanciulle assai piú perirono e furono guastati. E cosí fu tutto il restante incarcerato. Le robe che seco recavano, tutte ebbe il tiranno. Questo immane e scelesto misfatto infinitamente fu grave e molesto agli eliensi; onde le donne sacrate a Bacco, adornate de le lor vestimenta sacerdotali, e portando in mano i sacri misteri del loro iddio, passeggiando alora Aristotimo per la piazza dai suoi satelliti circondato, andarono processionalmente a trovarlo. I sergenti, per la riverenza de le donne religiose, le diedero luogo che penetrar potessero innanzi al tiranno. Egli, veggendole di quella maniera vestite e portanti in mano i sacri misteri baccanali, si fermò e con silenzio le ascoltò. Ma poi che conobbe che erano venute per pregarlo in favor de le incarcerate donne, subito da diabolico furor agitato, con orrendo romore agramente riprese i suoi satelliti che avessero permesso che quelle gli fossero venute innanzi. Comandò poi che fuor de la piazza fossero con molte sferzate senza rispetto veruno cacciate, e ciascuna di loro, per aver preso ardire d’andarlo a supplicare per le misere prigionere, condannò in dui talenti; nome di danari che in quei tempi s’usavano, e il minor talento attico valeva cinquecento scudi, poco piú e poco meno, come appo gli scrittori si truova. Dopo cotante sceleratezze dal tiranno commesse, Ellanico, uno dei primari e riputati cittadini di quella cittá, ancor che fosse quasi decrepito, deliberò mettersi ad ogni rischio e tentar se poteva liberar la sua patria da la fiera tirannide de lo sceleratissimo Aristotimo. A cotestui, sí per esser de l’etá caduca che era e per non aver figliuoli, che morti erano, non metteva molto fantasia il tiranno, parendogli che non fosse per far tumulto ne la cittá. Fra questo mezzo quei cittadini, che dissi poco innanzi essersi ridutti in Etolia, proposero tra loro di tentar la fortuna ed usar ogni mezzo per ricuperar la patria ed ammazzar Aristotimo. Il perché, avendo ragunate alcune squadre di soldati, occuparono certo luogo vicino a la cittá, dove sicuramente potevano dimorare e con grande loro commoditá ed avvantaggio combatter la patria e cacciarne Aristotimo. Come i banditi in quel luogo furono accampati, molti cittadini d’Elide fuggivano fuori, e con gli esuli s’accompagnavano tutto il dí, in tal maniera che di giá i fuorusciti avevano forma d’un giusto essercito. Del che gravemente turbato Aristotimo e quasi giá presago de la sua rovina, andò a la prigione ove erano le mogli degli esuli, che vi dissi che da lui erano state incarcerate. E perché era d’ingegno turbulento e feroce, tra se stesso conchiuse dever piú tosto con le dette donne con paura e minaccie il caso suo trattare che con umanitá e preghiere. Entrato adunque ove elle erano, imperiosamente e con ferocia comandò loro che devessero mandar messi con lettere ai mariti che fuori guerreggiavano, e quelli con grandissima instanzia pregare che lasciassero di farli piú la cominciata guerra: – Altrimenti – diceva egli, – io v’assicuro che non seguendo effetto di quanto vi dico e vi comando, io a la presenza vostra prima farò crudelmente morire, lacerandogli a brano a brano, tutti i vostri figliuoli, e poi con acerbissime battiture tutte vi farò flagellare e d’ignominiosa e crudelissima morte morire. – Non fu a cosí fiero e tirannico annonzio donna che si movesse a risponder una minima parola. Veggendo il perfido tiranno cotanto silenzio, con instanzia grandissima le diceva che devessero rispondergli ciò che erano per fare. Ma elle, ben che non ardissero proferir parola di risposta, nondimeno con taciturnitá, mutuamente guardandosi l’una e l’altra in viso, mostravano assai chiaro che nulla il suo minacciare stimavano, pronte piú tosto a morire che dar essecuzione al comandamento e voler di quello. Megistona alora, che era moglie di Timoleonte, matrona sí per la nobiltá del marito come anco per la propria vertú molto riguardevole e tra tutte quelle donne primaria, che al venire del tiranno non s’era mossa da sedere né degnata di fargli onore ed anco proibito aveva che nessuna si levasse, sí come era sedendo in terra, a questo modo, sciogliendo la lingua, a la proposta fatta dal tiranno con ferma voce rispose: – Se in te, Aristotimo, di viril prudenza o di conseglio fosse alcuna picciola parte, certamente tu non comandaresti a le donne che ai loro mariti scrivessero e commettessero ciò che deveno fare, ma tutte noi a loro come a nostri signori averesti lasciato andare, ed usate piú modeste parole e migliori consigli che non sono stati quelli con i quali poco innanzi ci hai beffate e pessimamente trattate. E se ora ti trovi privo d’ogni speranza e ti persuadi col mezzo nostro voler gabbar essi nostri mariti, io t’assicuro che tu sei in un grandissimo errore, con ciò sia che noi piú non soffriremo esser da te ingannate. Vogliamo ancora che tu pensi e porti ferma opinione che essi non sono né diverranno cosí pazzi giá mai che, volendo aver cura dei figliuoli o de le mogli, debbiano lasciar a dietro e disprezzar la salute e libertá de la patria. Pensa pure che tanto di danno non reca loro se noi ed i figliuoli perdono i quali adesso aver non ponno, quanto di contentezza e d’utile conseguiranno se i cittadini loro e se stessi insieme con la patria ponno dal giogo de la tua superbia ed insopportabile servitú e pessima tirannide liberare. – E seguendo il suo libero parlare Megistona, non possendo piú sofferire il ribaldo Aristotimo la sua iracondia di che tutto era colmo, turbato oltre misura, comandò che il picciolo figliuolo di quella subito dinanzi gli fosse menato, come se alora l’avesse voluto svenare. E cercandolo i ministri, veggendolo la madre tra gli altri infanti scherzare, ché per l’etá non conosceva ove si fosse, il chiamò per nome dicendo: – Figliuol mio, vien qua, a ciò che prima perdi la vita che tu possa avere per l’etá sentimento alcuno od isperienza de la severissima tirannide ove noi siamo. A me è molto piú grave vederti servire contra la del tuo sangue nobiltá, che ora qui dinanzi a’ piedi miei averti a brano a brano smembrato. – In quello che cotai parole Megistona costantemente e senza paura diceva, il furioso ed iracondo tiranno, cavata del fodro la spada, contra quella, deliberato d’ammazzarla, si mosse. Ma uno chiamato Cilone, familiare d’Aristotimo, se gli fece incontro e con buon modo gli vietò che cosí atroce, diro ed orrendo misfatto non commettesse. Era questo Cilone finto e simulato amico del tiranno, e con gli altri famigliari di quello conversava, ma d’odio incredibile l’odiava, ed uno di quegli era che avevano congiurato sotto il governo d’Ellanico contra esso tiranno. Questi adunque, veggendo Aristotimo con tanta furia voler in Megistona incrudelire, l’abbracciò dicendogli esser segno d’animo vile e che traligni da’ suoi maggiori, e che a patto nessuno non conviene ad uomo d’alto grado bruttarsi le mani nel sangue feminile. Da Cilone persuaso, Aristotimo a pena disacerbò l’ira, e lasciate le donne se n’andò altrove. Avvenne non molto dopoi un gran prodigio di questa sorte. Mentre che la cena al tiranno si preparava, egli in camera con sua moglie s’era ritirato. In questo tempo fu veduta sovra la casa tirannica un’aquila, in alto volando, a poco a poco discendere a basso ed un grandissimo sasso, come se a posta fatto l’avesse, avere lasciato cadere sul tetto de la giá detta camera, e con gran strepito e langore levarsi in alto e nascondersi agli occhi di coloro che stavano mirandola. Dal romore e vociferazione di quelli, che l’aquila vista avevano, eccitato e spaventato, Aristotimo, avendo inteso ciò che occorso era, mandò a chiamar il suo indovino a ciò gli dichiarasse ciò che cotale augurio significava, essendo egli ne l’animo turbato pur assai. L’indovino gli disse che stesse di buon animo, perché portendeva esso augurio lui esser amato da Giove, che in ogni cosa gli saria favorevole. Ma il profeta ai cittadini che aveva isperimentati buoni e fedeli manifestò al capo del tiranno sovrastare il maggior periglio che avesse patito giá mai. Quegli adunque che con Ellanico avevano fatta la congiura dissero non esser piú da tardare e deliberarono d’ammazzar il tiranno il dí seguente. La notte poi ad Ellanico mentre dormiva parve veder il figliuolo che gli diceva: – Che stai dormendo, padre? Io sono uno dei tuoi figliuoli che Aristotimo ha ucciso. Non sai che il dí che viene tu hai da esser capitano e duce de la patria? – Da questa visione confermato, Ellanico levò ne l’aurora ed essortò i conscii de la congiura ad essequir quel dí istesso quanto di giá a beneficio de la patria avevano ordinato. Ora Aristotimo ebbe la certezza come Cratero, tiranno d’una altra cittá, con grosso essercito veniva in suo favore contra i fuorusciti eliensi, e che giá era arrivato in Olimpia, cittá tra il monte Ossa e il monte Olimpo. Pieno adunque di speranza e di fiducia, prese tanto d’ardire, pensando giá avere rotti e presi gli esuli, che s’assicurò senza i custodi del corpo suo, con Cilone ed uno o dui altri dei suoi, in quell’ora che i congiurati giá erano in piazza congregati, quivi venire. Ellanico, veggendo cosí bell’occasione di liberar con la morte del perfido tiranno la cara patria, non attese altrimenti a dar il segno ai compagni che determinato s’era; ma l’ardito vegliardo, levate le mani e gli occhi al cielo, con chiara e sonora voce, ai compagni vòlto, disse: – Che tardate, o cittadini miei, negli occhi de la vostra cittá a dar fine a cosí bello e preclarissimo atto, come meritatamente devete fare? – A questa voce Cilone fu il primo che con la fulminea spada ancise uno di quelli che il tiranno accompagnavano. Trasibulo poi e Lampido si misero dietro ad Aristotimo, che, l’assalto loro fuggendo, corse nel tempio del dio Giove, dove fu, come meritava, dai congiurati di mille ferite morto. Eglino avendolo ucciso tirarono il corpo ne la piazza, chiamando il popolo a la libertá. E concorrendo ciascuno, pochi furono che prevenissero le donne. Elle a la prima voce corsero in piazza, rallegrandosi con i liberatori de la patria di cotanta egregia opera, e de l’allegrezza loro le liete voci ne davano manifesto segno. Fra questo, essendo una grandissima turba con romore inestimabile corsa al palazzo del tiranno, la moglie di quello, udite le popolari grida e certificata de la morte del marito, si chiuse in una camera con due sue figliuole. Ivi, sapendo quanto erano odiate dagli eliensi, essa moglie, fatto un laccio d’una fune, se stessa ad una trave appiccò. Furono gittate per terra le porte de la camera da molti, i quali, punto non mossi da l’orribil spettacolo de l’impiccata donna, presero le due tremanti figliuole del tiranno, e le menavano via con animo di prima violarle e saziar largamente la libidine loro con quelle, e poi anciderle. Erano elle di forma bellissime e su il fiorire de la etá per esser maritate. In quello sopravenne Megistona, la quale, accompagnata da altre madrone, come intese ciò che coloro volevano fare, agramente gli riprese dicendoli che essi, che volevano ordinare uno stato civile, facevano cose che un disonestissimo tiranno non averebbe fatte. Cessero tutti a l’autoritá de la nobilissima madrona, a cui parve d’esser benissimo fatto di levar da le mani di quelli le due vergini. E cosí fece, e ne l’istessa camera ove la madre loro morta era le condusse. Ma sapendo esser da tutti deliberato che nessuno del sangue tirannico restasse vivo, a le due giovani rivolta cosí le disse: – Ciò che io posso darvi è che io vi permetto che voi possiate eleggervi quella maniera di morire che meno vi dispiaccia. – Alora la maggiore d’etá si discinse una correggia e cominciò annodarla per impiccarsi, essortando la minore che ciò che a lei vedeva fare facesse anco ella, e guardasse non commetter cosa vile né indegna del grado loro. La minore a cotai parole prese la cintura con le mani, che la sorella annodava, quella caldamente pregando che prima di lei la lasciasse morire. Alora la maggiore soggiunse, dicendo: – Io, mentre ci fu lecito di vivere, non fui per negarti, sorella mia, cosa alcuna giá mai, e quando ora ti piace che io resti alquanto dopo te viva, cosí sia. Ma bene t’assicuro, sorella mia carissima, che a me vie piú de la morte stessa sento esser grave che io prima di me debbia vederti morta. – Questo dicendo, la correggia a la sorella diede, avvisandola che avvertisse a mettere il nodo vicino a l’osso del collo, a ciò che piú tosto ed assai piú facilmente rimanesse soffocata. E poi che vide quella esser giá morta, disciolta che dal collo di quella ebbe la mortale cintura, onestamente il corpo di quella con le vestimenta tutto ricoperse.Voltatasi poi a Megistona, caldamente la pregò che fosse contenta d’ordinare che il corpo de la sorella e il suo non fossero da nessuno ignudi veduti. E cosí detto, intrepidamente col medesimo laccio si strangolò e finí la sua vita. Onde veramente giovami di credere che nessuno degli eliensi fosse tanto inumano e tanto infesto al crudel tiranno, che di cosí bell’ingegno di queste due verginelle e de la grandezza de l’animo loro non si movesse alquanto ad avergli compassione. Megistona dopoi tutte due insieme fece seppellire. Oh quanto sarebbero state queste due sirocchie di vie piú gran lode celebrate, se di cosí scelerato padre non fossero state figliuole! Ma non deverebbero le macchie paterne in cosa che si sia denigrare le vertuose e buone opere dei loro discendenti.


Il Bandello al magnifico dottor di leggi


messer Francesco Taverna


Si suole proverbialmente dire che il consiglio de le donne preso a l’improvviso è salubre e buono, e che ciò che fanno senza pensarvi su si ritruova per l’ordinario ottimamente fatto. E di cotali azioni se ne dánno infiniti esempi. Ma degli uomini dicono avvenire il contrario, con ciò sia che se l’uomo è per negoziare una cosa, che quella negoziazione tanto piú sempre riuscirá meglio a debito fine condotta, quanto che piú lungamente sará pensata e sovra quella discorso tutto quello che indi ne può nascere. Ed io certamente porto ferma opinione che tutte l’opere cosí speculative come pratiche tanto sortiranno piú nobile e lodevole effetto, o siano discorse e messe in opera da le donne o dagli uomini, quanto che piú volte, prima che si facciano, saranno maturamente crivellate e fattovi sopra i convenevoli discorsi che se gli ricercano. Ci sono poi di quelli che sono di parer contrario, e loro a modo veruno non piace che a l’improviso ed impensatamente sia possibile che si operi cosa buona, dicendo che la natura ci ha dato l’anima razionale con le sue divine e meravigliose potenze, a ciò che possiamo, sovra ciò che far intendiamo, pensatamente e con il lume de la ragione discorrere il bene e il male che da tale operazione potrá pervenire. Onde non consentono che il conseglio de le donne, dato senza i debiti discorsi del pro e del contra, possa esser buono. Dicono anco di piú: che assai sovente avverrá che un uomo discorrerá con varii argomenti sopra una cosa, e nondimeno, prendendo talora per fondamento vero alcuna proposizione che in effetto vera non è, inavertentemente nel consegliare, o nel disporsi ad operare, gravemente errerá. Di queste openioni ragionandosi non è molto in una bella compagnia, messer Antonio Sbarroia, mercadante genovese, volendo mostrare il conseglio de le donne preso a l’improviso non esser per l’ordinario buono, narrò una novella avvenuta a Parigi, secondo che egli diceva, non è molto di tempo. Io, che presente ci era, la scrissi e al vostro nome intitolai in testimonio a la posteritá de la nostra cambievole benevoglienza. Vi piacerá, quando talora stracco vi troverete da le frequenti consultazioni de le liti dei clientuli, leggerla e dar giudizio se la donna di cui ne la novella si parla prese buon conseglio o no. Ed a voi mi raccomando. State sano.