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Introduzione 35

nardo Tasso, il padre di Torquato, recitando il Tasso «bellissimi sonetti» a elogio di Ginevra Malatesta, e il Bandello, spintovi da Claudio Rangone, «alcune rime» che chiama però «basse ed insulse» da non «doversi a parangone di quelle del Tasso recitare» (I-43). Ed egli mostra di invidiar l’arte descrittiva di Stefano Dolcino esclamando: «perchè non ho io quella vostra inaccessibile, candida, latina e sì dolce vena... a ciò che di voi tanto cantar potessi quanto meritate? Felice voi...» (II-58); e soventi volte ritorna su questioni teoriche e fa che gentiluomini e gentildonne — come in casa di Ippolita Sforza-Bentivoglia il giorno in cui Cecilia Bergamina e Camilla Scarampa lessero, ciascuna un loro sonetto — si propongano di determinare quale sia «l’ufficio del poeta» (I-1). Dopo di che non ci stupiremo di vederlo legiferare in materia, nella lettera latina che prepose — con un suo epigramma classico, notevole perchè egli si denomina anche qui «Delius» — ad un’opera del conte Tommaso Radini-Tedeschi, piacentino, la Calipsychia, bizzarro romanzo spirituale del secolo XVI. La poetica, che qui professa, e che sconfessa poi in una dedica di novella (III-2), non ha importanza in sè, ma soltanto ci attesta che anch’egli si propose, e, a suo talento, risolse il problema dell’arte. Infine, se a cotesti del suo secolo, aggiungiamo i poeti classici greci, latini, italiani di cui traduce o parafrasa passi nelle Novelle — da Euripide (II-38; III-5; 63) a Virgilio (III-4; 53), ad Ovidio (II-51; III-3), a Marziale (III-2), a Dante (I-12; II-10; 24; 31; 35; 40; III-64; IV-9), al Petrarca del Canzoniere (I-41; (III-43) e dei Trionfi (II-22), avremo la prova quant’altra mai persuasiva dell’interesse che il Bandello sempre prese alla poesia, sforzandosi di acqui-