Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella II

Terza parte
Novella II

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Un dottor vecchio si mette per goder amorosamente


una bella giovane, ed essendo seco nulla puote far giá mai.


In quei dí che la felice memoria del signor Giovanni Bentivoglio insieme con i signori suoi figliuoli teneva l’imperio de la grassa e ricchissima Bologna, fiorivano in quella cittá gli studii de la ragione cesarea e pontificia insieme con quelli de la medicina e di tutte l’arte liberali. Erano di continovo quivi solennissimi ed approvati dottori ed uomini dottissimi in ogni facultá. Il perché di tutta Italia e anco di Lamagna, di Francia e da le Spagne concorreva la gioventú a Bologna per riuscir dotta in quella facultá che piú gli piaceva. E sí come diverso era il numero degli scolari e varii gli ingegni loro, cosí anco erano differenti coloro che a la gioventú publicamente leggevano, con ciò sia cosa che la piú parte di loro non solamente s’ingegnavano render dottrinati i lor discepoli, ma si sforzavano ancora con l’essemplaritá de la vita fargli costumati e da bene. Ce n’erano poi di quelli a cui bastava assai legger dottamente ciò che leggevano, e nei circoli disputatorii dimostrarsi negli argomenti e ne le risposte pronti, ingegnosi ed acuti. Si rendevano ancora molto umani e facili dopo le lezioni ad udire i dubii che gli studenti proponevano, e si sforzavano dottamente rissolvergli e sodisfar a tutti. Ora v’era tra gli altri un dottore molto attempato, che era piú vicino agli ottanta che ai settanta anni, il quale era ne le leggi riputato dottissimo e in quelle un gran praticone, e dei consegli suoi era fatta grandissima stima. Ma chi lo levava fuor de le sue leggi, egli si trovava come il pesce fuor de l’acqua. Era assai simile a un gran dottore di questa cittá, il quale, per quanto giá intesi, avendo ad una sua possessione in villa un castaldo, si corrucciò molto seco e a ogni modo lo voleva levare da la cura de la possessione, e non per altro se non perché, avendogli d’alquanti giorni innanzi dato nuova come la porcella aveva partorito nove porcelletti, venne dopoi a dirgli che la cavalla s’era scaricata d’un bello polledro. – Adunque, – diceva ser lo dottore al castaldo, – tu mi vuoi, uomo da poco, rubare ed assassinarmi? Non m’hai tu detto che la troia fece nove porci? ed ora tu vuoi che la cavalla, che è tanto grande e grossa, non abbia fatto se non un polledro? No, no, la non istá bene. Trovami gli altri polledri, se tu non vuoi andar in mano de la giustizia. – Vedete mò, signori miei, se costui aveva del sale ne la zucca. Ora tornando al nostro legista, che deveva ne la sua giovanezza esser stato un gran gocciolone, andando dopo la lezione a casa ed avendo alcuni scolari seco, passando sotto i portici vide in caminando una giovane che gli parve fuor di misura bella, e domandò agli scolari chi ella fosse. Gli risposero che ella era una di quelle misericordiose che non lasciava morir nessuno disperato giá mai. Andò di lungo il dottore a casa e, licenziati gli scolari, ritenne seco uno studente calabrese di cui molto si fidava. Era questo calabrese molto avveduto e sapeva andar a verso col dottore, di maniera che spesso era da quello tenuto a mangiar seco. A costui aperse il ser uomo che egli era in tutto e per tutto guasto de l’amore di quella bellissima giovane, e che moriva se non l’aveva a suo piacere. Il calabrese, che era domestico de la giovane, disse: – Messere, io la conosco, e veramente ella è forte bella e piacevole. A me dá il core, se voi volete, condurvela qui in casa ogni volta che vi sará a grado, e la farò venir per l’uscio da la parte di dietro al giardino, e non sará veduta da persona. Ma io vi avviso che ella vende care le sue mercadanzie, e non vorrá uscir di casa che non abbia in mano una coppia di ducati. – Udendo questo, il dottore, che poco misurava le sue forze, rispose al calabrese: – Per questo non restare, ché io ti darò un doppio ducato, di quelli che hanno la testa del nostro signor Giovanni. – Né diede troppo d’indugio a la cosa, corso a la cassa prese i danari e al calabrese gli diede, e gli disse: – Tu sai che dimane io non leggerò: vedi condurla del modo che detto mi hai. – Partissi lo scolaro e, trovata la donna, le disse: – Io vo’ domatina a buon’ora tu venga a la tal casa per trastullar il mio maestro. Egli è vecchio, e bisognerá che ne gli faccia vezzi. Io dopo ti pagherò cortesemente e tanto che ti contenterai. – Ella era donna da vettura e per un carlino si dava a chi ne voleva, e lo scolare faceva pensiero, come fece, di darle tre carlini e godersi il resto del doppione. Messer lo dottore, in aspettando l’ora di trovarsi con la giovane, non capiva ne la pelle e tutto gongolava. Secondo l’ordine dato, condusse il calabrese la giovane al dottore, che in letto l’aspettava. Entrò ella, poi che fu spogliata, nel letto, e abbracciando il dottore, quello basciò e ribasciò mille volte, facendogli altri vezzi pur assai a fine che messer Mazza si svegliasse. Si sforzava anco egli di risvegliarlo, ma il poltrone non levò la testa giá mai, del che messer lo dottore arrabbiava. La donna, consolandolo, attendeva a fargli carezze. Ma veggendo che il tutto era indarno, gli disse: – Messere, non vi tribolate per ora. Io verrò bene de l’altre volte che sarete meglio disposto. Tra questo mezzo io vi do per conseglio che apparate a mente il Magnificat, e vi gioverá assai. – Che diavolo, – disse il dottore, – vuol dir cotesto Magnificat? Io l’apparai fin da giovine. – Credolo, rispose ella; – ma non sapete voi che ai vespri, come s’intuona il Magnificat, che tutti si levano in piedi e si discoprono la testa? Bisogna che a questo dormiglione voi insegnate a far il medesimo. – E cosí levatasi, la donna si partí. Onde, i miei signori, si vede esser vero il proverbio che dice: «Colui che asino è e cervo esser si crede, al saltar del fosso se n’avvede».


Il Bandello al magnifico


messer Giovan Battista Oddo da Matelica


Egli è pur passata un’etá che io di voi nuova alcuna non ho avuta giá mai avendovi io nondimeno indrizzato di me nuova per due mie lettere. Ed invero io mi persuadeva voi esser andato ne la Marca; ma questi dí ricercando io altro, intesi non so come che voi eravate pure in Mantova e che v’eravate in una vedova maritato, che v’aveva dato del ben di Dio. Piacquemi molto questa nuova, e subito determinai rallegrarmene con voi; il che ora con questa mia faccio con tutto il core. Voi potrete mò a le muse ed a voi stesso vivere, se tuttavia i molti fastidii che alcuni dicono esser proprii a la vita maritale, come il riso e il pianto sono proprietá degli uomini, vi lascieranno godere di quell’ozio che le muse vorrebbero. Sapete che, come dice uno dei nostri poeti, il coro dei poeti ama la solitaria vita e di portarsi per gli opachi e fronduti boschi, e volentieri fugge la pratica e commercio de le cittá. Giovami però credere che, avendo voi sposata una vedova, – che non può essere che non sia giá vicina a la etá matura, – l’averete trovata modesta e di maturi costumi, e che non vorrá se non quello che vorrete voi. Cosí nostro signor Iddio degni concedervi e far di modo che il vostro letto genitale non abbia questione né liti giá mai. Almeno non sarete stato in pericolo d’incorrere ne la fiera disaventura ne la quale, non è troppo, incorse un giovine inglese. Ed a ciò che sappiate la mala sorte de lo sfortunato inglese, io ve la mando, al nome vostro intitolata, in una mia breve novella. Eravamo questi dí molti in un compagnia, e si ragionava di molti accidenti che impensatamente agli uomini accadeno: quivi si ritrovò Odoardo Fernelich da Londra, mercadante, il quale narrò il pietoso caso, sí come voi leggendolo intenderete. State sano.