Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXVI

Seconda parte
Novella XXVI

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Luchino Vivaldo ama lungo tempo e non è amato;


poi, essendo in libertá sua di goder l’amata donna, se n’astiene.


Io non potrei dirvi, molto vertuosa signora mia, quanto caro mi sia l’essermi oggi trovato qui in questa onorata compagnia, sí perché dapoi che io pratico in casa vostra sempre ho trovato che ci sono ragionamenti piacevoli ed onesti, ora di lettere, ora d’arme, ora di casi fortunevoli cosí d’amore come d’altri accidenti, ed ora d’altre cose sempre vertuose; ed altresí perciò che non ci vengo mai che io non mi parta con aver imparato alcuna cosa. Son molti dí che io ho sentito dire in molti ragionamenti: «Costui è dei cacatocci di Milano», ma non m’è mai venuto fatto di poter intender a che fine si dicesse; ed ecco che oggi, non lo cercando, l’ho inteso senza ricercarne altrui, ché io fui piú e piú volte per dimandarne, ma impedito da altri miei affari, non so come, rimaso me ne sono. Ora venendo a quello che mosso m’ha in questo nobilissimo consesso a ragionare, vi dico che le lodi che date si sono al signor duca Francesco gli sono state meritevolmente date, con ciò sia cosa che in vero egli fu uomo eccellentissimo e gloria de la milizia italiana. Il quale se si fosse trovato a quei buoni tempi quando la republica romana fioriva, giovami di credere ch’egli a nessuno di quei grandi Fabii, Marcelli, Pompei a Cesari sarebbe state inferiore. Di Scipione la gloria è tale, cosí è da’ greci a da’ latini celebrato, che per altrui parole né scemar si può né accrescere. Ma che direte voi se parlando di continenza io vi porrò qui in mezzo un privato cittadino, ch’assai piú lode di questi dui tanto piú merita quanto che la sua continenza fu vie maggiore? Né di questo altri giudici voglio che tutti voi che qui sète. Ne dice adunque che la famiglia dei Vivaldi ne la cittá nostra di Genova è sempre stata in bonissima riputazione, e ci sono stati in quella uomini ricchissimi e molto amatori de la patria, tra i quali ci fu messer Francesco Vivaldo negli anni di Cristo mille trecento settantuno, che fu il piú ricco cittadino dei tempi suoi e dei passati che fosse in Genova. Costui donò a la Republica del suo patrimonio nove mila lire de la moneta genovese, le quali devesseno multiplicar e di quelle si pagassero i debiti de la Republica, e particolarmente di quella parte che si noma il «capitolo» o sia la «compra del capitolo de la pace», a pagato questo debito, devesseno multiplicar a beneficio del commune. Restò di lui un nipote, figliuolo d’un suo figliuolo, il quale essendo giovine e ricchissimo viveva molto splendidamente. Andando egli un giorno a diporto per la cittá, vide una bellissima giovanetta di circa quindici anni, la quale parve a Luchino, – ché cosí egli aveva nome, – la piú bella, la piú gentile ed avvenevole che veduta avesse giá mai. E non sapendo levarle la vista da dosso, sí fieramente di lei s’accese che, nel partir che fece da lei, conobbe che in effetto non era piú in libertá e che il cor suo era rimaso negli occhi de la bella fanciulla. Cominciò adunque, gioiendo mirabilmente de la vista di lei, a passarle molte fiate il dí dinanzi la casa, e quando la vedeva affettuosamente salutarla; a cui ella onestamente rispondeva e rendeva il saluto, non pensando a malizia nessuna. Ma non passò molto che la giovanetta, ancor che semplice fosse, s’accorse molto bene a che fine Luchino la salutava e sí spesso le passava dinanzi facendole la rota del pavone. Onde cominciò rade volte a lasciarsi vedere, e se pur talora Luchino a l’improviso sovragiungeva e la salutava, ella faceva vista nol sentire, a con gli occhi bassi a terra faceva suoi lavori o ragionava con le sue compagne. E se da lontano vedeva venir Luchino, si ritirava in casa fin ch’egli fosse passato via. Accortosi l’amante di questi contegni di quella, si trovò molto di mala voglia. È consuetudine ne la patria mia che un giovine innamorato, trovandosi in mano un mazzo di fiori, ora di gelsomini, ora di cedri, di naranci a simili fiori, di garoffoli od altri che porta alora la stagione, incontrando per la strada od in porta la sua innamorata, a quella senza rispetto veruno lo donerá; ed ella medesimamente quei fiori che in seno o in mano si troverá avere, al suo intendiò dará. Né vi meravigliate di questo vocabolo genovese, perciò che secondo voi dite: – La tal donna ha per «amante» il tale, – le donne nostre, che schiettamente parlano la lingua genovese senza mischiarvi vocaboli strani, sogliono dire: – Il tale è il mio intendiò; – che anco usò messer Giovanni Boccaccio ne la novella di fra Rinaldo e di madonna Lisetta da ca’ Quirina, ben che alquanto il mutasse, quando la buona donna che poco sale aveva in zucca a la commare disse: – Commare, egli non si vuol dire, ma l’«intendimento» mio è l’agnolo Gabriello. – Ma torniamo a l’infiammato Luchino, il quale miseramente si struggeva veggendo quanto la giovane, che Gianchinetta era chiamata, se gli mostrava ritrosa. Aveva egli un giorno un bellissimo mazzo di garoffoli fuor di stagione, perché ci sono assai che con arte gli conservano e quando non se ne trovano gli vendono agl’innamorati un ducato l’uno e piú. Questo suo mazzo egli, essendo il tempo de la neve, appresentò con molte amorevoli parole a la giovane, la quale, tutta divenuta rossa, gli disse: – Messer Luchino, io son povera figliuola e a me non sta bene ad esser innamorata, – e si ritirò ne la sua casetta né volle il mazzo. Ella era di basso legnaggio e mal di roba in arnese. Ora qual fosse l’animo di Luchino, pensilo chi ama. Egli ebbe di doglia ad impazzire. Tentò vie assai per renderla pieghevole a’ suoi piaceri, ma il tutto fu indarno; le mandò messi ed ambasciate, a il tutto indarno; le fece far offerta di maritarla con dote di mille ducati d’oro, e nulla gli giovò. Di modo che quanto piú egli abbrusciava, ella piú agghiacciava e a tutti i desiri de l’amante si mostrava piú ritrosa. Passarono in queste pratiche circa dui anni, che mai il povero amante non ne puoté cavar frutto alcuno. Si maritò Gianchinetta in un povero compagno, il quale si guadagnava il vivere navigando or su galere ed or su altri legni; né per questo cessò il Vivaldo da la sua mal cominciata impresa, ma né piú né meno fece come di prima fatto aveva. Fu poi astretto dai parenti a prender moglie ed ebbe una de le nobili giovani di Genova con dote a la ricchezza sua convenevole. Ed ancor che si fosse maritato e la moglie potesse tra l’altre belle stare, nondimeno egli non poteva non che smorzare, ma scemar le fiamme che la bellezza de la Gianchinetta accese nel core gli aveva. Il perché né piú né meno faceva, amandola a seguendola, secondo che cominciato aveva. Era questo suo amore con l’onestá de la giovane a tutta Genova notissimo, ma di cosa che detta gli fosse egli non si curava. Aveva giá avuti di suo marito la Gianchinetta tre figliuoli, e con le fatiche sue e del suo marito, a la meglio che poteva, sé e i suoi figliuoli nodriva. Avvenne in questo, né dir saprei come, che suo marito essendo navigato in Sardegna, fu fatto a Callari prigione, in tempo che in Genova era una estrema carestia di grano, di modo che il sacco del grano si vendeva nove ducati d’oro, a con gran difficultá se ne poteva avere. Mancando adunque a Gianchinetta il soccorso del marito e non avendo modo di poter sostener sé ed i figliuoli, dopo molti pensieri, non trovando altra via da vivere, deliberò darsi in preda al suo amante. E fatta questa deliberazione, andò a trovarlo a casa e lo trovò che scendeva a basso, e con stupore grandissimo di Luchino se gli gettò lagrimando ai piedi a gli disse: – Messere, io sono qui presta a compiacervi di quanto volete da me, che tante volte indarno avete ricercato. Io metto il corpo mio in vostra balía, ed altro da voi non chieggio se non che per cortesia vostra vi piaccia aver me e i miei figliuoli per raccomandati, a ciò che non moriamo di fame. – Luchino alora la sollevò e con buone parole la confortò a star di buona voglia, e le disse: – Gianchinetta mia, Dio non voglia che ciò che non ha potuto l’amore che t’ho portato da che prima ti vidi e porterò eternamente, mai d’altra maniera lo possa la fame. – E dettole queste parole, la condusse di sopra a la moglie, che piú volte con lui di questo amore s’era doluta; e narratole la venuta e la cagione, volle che la moglie medesima, per levar via ogni sinistra openione, provedesse ai bisogni di Gianchinetta e dei suoi figliuoli. E in tutto cangiò il libidinoso amore in buono ed onesto, e largamente sempre del viver gli provide. Ora siate tutti voi giudici a giudicate chi meriti piú lode, o i dui di cui s’è questionato od il Vivaldo, ché io per me non sarò mai dei cacatocci.


Il Bandello al molto illustre e reverendo signore


monsignor Paolo Marchese del Carretto vescovo e conte di Caors salute


Egli suole, monsignor mio, esser a ciascuno di grandissimo sodisfacimento e contentezza d’animo il saper l’origine del suo legnaggio, a quanto piú da alto e nobil ceppo viene tenersene da molto piú. Chi poi non ha chiarezza che la sua schiatta abbia avuto alta ed illustre origine, ma sa almeno che sono qualche centinaia d’anni che i suoi antecessori sono vivuti nobilmente, prende di questo non mezzano piacere. E nel vero per isperienza si vede che quando s’ha certezza del principio di qualche parentado che sia da nobilissimi progenitori disceso, o che siano molti secoli che duri, che appo tutti resta in grandissima riverenza, e tanto piú quanto s’avviene che ci siano in ogni etá uomini eccellenti o per degnitá o per lettere o per arme e che si mantenga la giurisdizione sovra le terre e castella. Siamo bene tutti venuti per continova successione dal nostro protoparente Adamo ed Eva sua moglie, e il nostro signor Iddio a tutti dona l’anime razionali d’una spezie, rimettendo la cura a le seconde cause di formar i corpi umani, uno meglio organizzato che l’altro, come tutto il dí veggiamo che molti nascono variamente diversi. Perciò che alcuni vengono in questa luce sordi, altri mutoli, altri guerci, altri gobbi, altri zoppi ed altri con visi e membri contrafatti, e spesso ancora si veggiono dei parti mostruosi. Ma ben che il nostro principio venga da un capo, veggiamo nondimeno la grandissima differenza che ora è tra gli uomini, e quanto piú sono stimati e riveriti i nobili che gli ignobili e plebei; e perciò che alquanti ci sono stati quali hanno saputo non solamente mantener il grado dagli avi loro acquistato, ma quello hanno accresciuto. Alquanti poi, o per fortunevoli casi o per dapocaggine loro o per soverchia forza lor usata o che che se ne sia stata cagione, non si sono saputi conservare, anzi hanno miseramente da la grandezza dei lor maggiori tralignato, e di nobili e ricchi che erano, sono divenuti poveri ed ignobili. Ora perché un gentiluomo per disgrazia perda le sue antiche ricchezze e da grande stato caschi in bassezza, per questo non si deve creder che perda la sua nobiltá se vive vertuosamente. I suoi anco che da lui discenderanno, non saranno chiamati vili giá mai se con animo generoso a la vertú si daranno, essercendo quegli uffizii che a la vera nobiltá si ricerca. Ma non mi par ora tempo di dever ragionar su questa questione che qui nascer potrebbe. E seguitando di quelli che per casi fortunevoli rovinano da alto a basso, si vede a questi tempi e spezialmente ne la conquassata ed oppressa Lombardia, per cagione de le continove e crudelissime guerre che tanto tempo guerreggiate se le sono, molte nobili famiglie aver perduti i lor beni e andarsene per tutta Europa mendicando il pane, che Dio sa se piú ritornaranno a posseder le lor antiche facultá. Per il contrario anco si ponno veder degli altri, che per ingegno e per vertú il titolo di nubile e ricco s’hanno guadagnato, i cui padri con la zappa e con la falce il vivere si procacciavano. Altri, o per rubamenti o per favor di prencipi levati dal sucidume e feccia de la stalla, si fanno grandi secondo che la Fortuna, se ella v’è, va cangiando stile e deprime i buoni e in alto leva i rei. Ora in tutte queste mutazioni dico esser grande e compíta contentezza di chi si truova di nobil schiatta, antica ed illustre disceso, e non teme d’arrossire se l’origine sua sará ventilata, ché sa e vede che persevera ne la chiarezza e splendore dei suoi avi, e tale egli si dimostra che non solamente riceve onore da la gloria dei suoi passati, ma con le sue vertuose azioni ed opere de la vita aggiunge lume a la nativa luce de la sua antica parentela. E disputandosi un giorno de l’antichitá di molte nobilissime famiglie d’Italia a la presenza de la sempre onorata signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, essendo ella in Milano, il molto gentile e facondo dottor di leggi messer Benedetto Tonso, avvocato di Milano graziosissimo, narrò una bella istoria ove si contiene l’origine di molte; la quale io scrissi e nel libro de le mie novelle riposi, e cosí è restata fin al presente. Ora che io mi truovo un poco d’ozio, mercé de la cortesia de l’eccellentissima eroina senza parangone, madama Gostanza Rangona e Fregosa, che mi dá il modo di vivere a me stesso ed a le muse, le dette novelle vo rivedendo ed emendando per apporle l’ultima mano, a ciò che si possano dal pubblico vedere. Ed avendo a ciascuna di quelle ne la fronte posto un padrone o padrona tutelare, ho giudicato esser cosa ben fatta che questa che il dottore narrò, ove si contiene l’origine dei sette nobilissimi e ricchi marchesati che in Italia per il piú regnano, abbia voi per suo scudo; non mi parendo poterla meglio collocare né darle padrone di voi piú convenevole, essendoci compresa la nobilissima ed imperial origine de la vostra illustrissima casata. Voi ben potete senza menzogna, monsignor mio, gloriarvi d’aver tutte quelle parti che a la vera nobiltá si ricercano, perciò che l’origine di casa vostra ha avuto tal principio che poche ce ne sono di simili, essendo da tutti dui i lati discesa da sangue regio e cesareo, e poi essendo per molti secoli sempre perseverata chiarissima con successione d’uomini eccellentissimi in ogni sorte di vertú, ed oggi quanto giá mai fiorisce, non tralignando punto da la grandezza antica. Chi è che non sappia i marchesi del Carretto, – che prima furono nomati marchesi di Savona, perciò che da Ottone secondo imperador romano ne furono investiti, – esser tra le illustri e generose famiglie d’Italia? Io non vo’ ora raccordar tanti vostri avi quanti la vostra stirpe ha produtti, che in ogni secolo sono stati famosi, perciò che nel vero il cavallo troiano tanti eroi non mandò fuori, quanti dal vostro ceppo son uomini per chiara fama gloriosi usciti. E per non raccontar la veneranda antichitá, ché troppo lunga istoria sarebbe, bastivi dirne dui o tre che tutti abbiamo conosciuti. Ha veduto la nostra etá il signor Fabrizio vostro zio, gran maestro di Rodi, il cui valore, ingegno, autoritá e prodezza furono di tal sorte che mentre ch’egli ebbe il governo de l’isola e visse, l’imperador de’ turchi non ardí Rodi assalir giá mai, essendo piú che certo che indarno averebbe tanta impresa fatta. Che dirò io de l’altro vostro zio, il cardinale di santa romana Chiesa, a Giulio secondo sommo pontefice e a Lodovico decimosecondo re cristianissimo, del valore e fede degli uomini giudicioso conoscitore, tanto caro e accetto, che da l’uno fu nel numero dei cardinali ascritto e da l’altro in faccende di grandissimo affare sempre onoratamente adoperato? Lascio star il terzo vostro zio che veduto ho marchese di Finario, ed Alfonso vostro padre che altresí fu di Finario marchese, Giovanni vostro fratello che fu giovine in nessuna parte agli avi e maggiori suoi inferiore. Ahi, che se morte innanzi il tempo rapito non ce l’avesse, egli averebbe dati di sé non bassi essempi! Ma ne l’impresa contra i nemici di Cristo a Tunisi mortalmente ferito, passò a meglior vita, e piú gloria da le sue piaghe sparse che sangue. Ci ha poi lasciato di sé e de la sua carissima moglie, la signora Ginevra Bentivoglia, molti figliuoli, i quali, ottimamente allevati, in breve ne rappresenteranno il valor paterno ed antico. Grandissima adunque deve esser, monsignor mio, la contentezza vostra trovandovi da cosí generosa, nobile e onorata famiglia procreato. Ma molto maggior contento penso io, e cosí giovami di credere che sia il vostro, conoscendovi esser tale, qual a la grandezza dei vostri passati si conviene. E se io ad altri di voi scrivessi che a voi di voi stesso, so io bene ciò che veritevolmente de le vostre chiare vertú e rare doti dir potrei e quali panegirici comporre, se in me fosse il dire e l’eloquenza al valor vostro eguale. Ma io non voglio esser tenuto adulatore lodandovi in faccia, essendo io sempre stato da simil vizio lontano. Venga pur il tempo che io possa veder le vostre sacre chiome coperte di vermiglio cappello, e alora mi sforzerò in lode vostra asciugar tutto il fonte d’Elicona. Degnarete adunque per ora questo picciol dono da me accettare, dandovi tanto quanto dar vi posso; e se il dono vi parrá di poco valore, non guardate a la grandezza e merito vostro, ma rivolgete il pensiero a la mia bassezza e deboli forze, e pensate che i poveri uomini, che innanzi a Dio oro ed argento offerir non ponno, si sforzano almeno adornar i sacri altari di frondi e fiori; i quali io imitando, questi pochi frutti del mio steril ingegno al vostro sacrario offerisco. Feliciti nostro signor Iddio tutti i vostri pensieri, dandovi quanto desiderate; ed a la vostra grazia, basciandovi le sacre mani, umilmente mi raccomando. State sano.