Il Canzoniere (Bandello)/Alcuni Fragmenti delle Rime/CCIV - Canzone del Bandello della bellezza e delle rarissime grazie della Divina Signora Lucrezia Gonzaga di Gazuolo
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Canzone del Bandello
della bellezza e delle rarissime grazie
della divina signora
Lvcrezia Gonzaga di Gazvolo.
CCIV.
Il Canzoniere è finito: si è conchiuso col sonetto CCIII.
Questa Canzone — come quella che precede la raccolta delle rime alla Mencia — è dedicata ad altra donna: entrambe sono di omaggio devoto, di ossequio gentile.
Ritornano tuttavia in questa Canzone per la «divina Lucrezia» da lui, si legge nel Novelliere, «santamente amata», con uniformità monotona, non poche delle lodi già prodigate alla Mencia mantovana. Essa è detta donna superiore a tutte l’altre dell’età sua e che rende questa età gloriosa; è vantata anch’ella, come la fanciulla mantovana per gli occhi belli dove ha sua dimora Amore, figlio di Venere; e anche qui, per sua mercè, il poeta gusta, adorandola, gioia eterna ed infinita.
Ma — si avverta — la psicologia è diversa. La somiglianza degli attributi rivolti alla donna amata in riva al Mincio, e quelli diretti a Lucrezia Gonzaga sono tali unicamente per povertà d’inspirazione e d’arte del poeta, chiuso, irrigidito quasi, nelle formule tradizionali e viete della poetica del petrarchismo cinquecentesco. Basti rilevare che sempre la Mencia è ritrosa, perfino beffarda verso il Bandello, e sempre disdegna il di lui amore. Lucrezia accetta invece il platonico omaggio amoroso; e il maestro e l’alunna godono di questi loro mutui e onesti sentimenti d’affetto. Per essi saranno «Egli beato, Ella felice». Lucrezia non solo non irride come fa ognora la Mencia al suo seguace adoratore, ma ella è colei che «Pace porge[te] a chi [l’] adora e segue». Tutta la Canzone è pervasa dal rammarico del poeta di non saper dire di lei quanto vorrebbe: tanto, che in sul finire egli fa proponimento di dedicarle altri canti particolari.
Così il Canzoniere prelude e si riallaccia direttamente ai successivi Canti XI in lode appunto di Lucrezia, op. cit., editi poi in Francia nel 1545.
Amor più volte mostro1
M’ha nei begli occhi della Donna mia,
Come per lor trionfa e spiega l’ali;
E dicemi: i’ ti mostro,
5Amante, cosa, ch’impossibil fia,
Che mai si veggia più fra voi mortali.
Che quante sono, o fûr mai donne uguali
Non vedi a questa, ond’io men vado altiero,
Che senza il suo favor nulla sarei.
10Poi scopre agli occhi miei
Cose, che dir altrui poter non spero.2
Ma tant’è quel desìo,
Ch’accende questo dolce lusinghiero
Di scoprir ciò, ch’ognor in lei vegg’io,
15Che di parlarne alquanto, almen desìo.
Ma come posso, Amore,
Mostrar parlando tanta maestate
Se l’intelletto non la scorge a pena?
Che ciò che splende fuore
20(Non pur l’interna, e sacra chiaritate3
Al volgo ascosa, e d’alte doti piena)
Ogn’alto ingegno abbaglia, avanza e affrena,
E ratto falla andar fuor di se stesso,
Per tant’eccelse, e rare meraviglie.
25E pur tu vuoi ch’io piglie
Ardir di palesar, e far espresso
Ciò, ch’impossibil parme
Ch’io dica, e dove indarno mi son messo?
I’ nol potrò scoprir, che ’l ciel levarme
30Non vuol tant’alto, ov’io potrei bearme.
Che s’io potessi, o Donna,
Tanto di Voi parlar, quant’è ’l desire,
E quanto meco, e con Amor ragiono.
Voi diverreste Donna
35Di quanto vuol Iddio, che ’l ciel rimire.
Tante in Voi doti, e tante grazie sono,
Che un sol de’ vostri discoperto dono,
Come l’indica pietra il ferro fura4,
Tirerebbe ciascuno a contemplarvi,
40E china ad adorarvi
Vedreste in terra ogni opra di natura.
Ond’io che vosco a lato
Sempre mi trovo5 (oh forte mia ventura!)
A dito mostro, lieto e fortunato
45(Vostra mercè) sarei talor chiamato.
Indi avverrebbe poi,
Ch’al vostro pregio, e all’alta gloria vostra
Ed al mio bene invidia il mondo avrebbe.
Così posta per Voi
50In colmo d’ogni gloria l’età nostra
Vedrei che tanta grazia mai non ebbe.
E fôra il grido tal, ch’ogni uom direbbe,
Oh ben divino, oh grazia mai non vista,
Nè sotto il ciel da riveder più mai!
55Questa coi santi rai
Ch’escon sì ardenti dalla vaga vista,
A’ corpi l’alme invola:
E questi col suo dir ognor le acquista
Eterna fama, e seco al ciel sen vola6:
60Egli beato, Ella felice sola.
Or lasso, il ciel mi nega
Ingegno, e forza a tant’eccelsa impresa,
E resta sol ardita in me la voglia.
Ma sotto ’l peso piega
65La debil forza sì, che l’è contesa
Quell’alta guida, ch’a cantar l’invoglia.
E questo è quel che fa, che sempre in doglia
Vivendo stommi, e resto fuor di speme
D’aver al vostro merto uguale il canto.
70Che ciò che mai da canto
Mette il pensier, ch’al mio voler s’attiene,
Com’egli è sculto in mente
Così perfetto poi di fuor non viene.
Perciò la lingua sì confusamente
75Parla, ch’al par del ver nulla si sente.
Almen mi desse il cielo,
Che come in chiaro, fresco e puro rivo7
Si vede tutto quel, che serba al fondo,
Così ’l terrestre velo
80Ciò che nel cor pensando formo, e scrivo,
Non mi togliesse rimirar profondo.
Ivi vedreste allor, ch’amante al mondo
Non ha pensier uguali a’ miei pensieri,
Ch’affina Amor8 nel vostro vago viso.
85Ivi mirando fiso
Quanti ho di Voi concetti santi e altieri,
E ciò che ’n verso, e ’n prosa9
Di dir la lingua par che si disperi,
Direste sospirando: questa è cosa
90Da farmi eterna, chiara e gloriosa.
E ben ch’ognor m’avveggia
Come non giungo di tant’opra al segno,
Che non la scerne appena l’intelletto,
Lo spirto pur vaneggia
95D’eccelse voglie, e d’alto desir pregno,
Sforzandosi scoprir ciò ch’ho nel petto;
Ma non segue al desir ugual l’effetto.
Ond’appo Voi il non poter mi vaglia
A giusta scusa, acciò ch’al mondo avaro
100Sia manifesto e chiaro,
Che sì il vostro valor mi preme e abbaglia,
Che di quell’il gran carco
Contende, che di fuor lo stil non saglia,
Come la mente ognor m’informo, e carco,
105Tal che nel dir, or resto vinto or parco.
A che dunque s’ammira,
Chi vede ’n mezzo ai bei vostr’occhi ognora
Trovarsi Amor dalla sua madre Dea,
Se chi ben fiso mira
110Vede ch’Amor Voi senz’Amor non fôra,10
Che quella sete, dov’Amor si crea?
Voi d’Amor madre, Voi del mondo Idea
Che fra i fastidi dell’umana vita
Pace porgete11 a chi v’adora, e segue.
115E tanto si consegue,
Che gioia date eterna ed infinita,
Che d’ogni ben n’appaga,
Tant’è il favor di vostra dolce aita.
Onde la fama ognor gridando vaga
120La divina LUCREZIA di Gonzaga.
Se forza al mio desir. Donna, darete,
I’ canterò di Voi cose sì belle
123Che fermerò col sol tutte le stelle.12
Note
- ↑ V. 1. Mostro, mostrato, mi ha svelato che trionfa negli occhi di Lucrezia.
- ↑ V. 11. Per tutta questa Canzone, e per le analogie con gli elogi fatti alla Mencia, è da tener presente particolarmente la Canz. LIX dedicata a quest’ultima; a questo verso ad es. fa riscontro il v. 30, di quella: «Che quanto bella sete non so dire».
- ↑ V. 20. Sacra chiaritate, il candor dei sentimenti onesti e puri.
- ↑ V. 38. Fura, ruba, attrae.
- ↑ Vv. 42-43. Vosco a lato sempre mi trovo; già dicemmo che Lucrezia fu sua discepola dal 1537 al 1541.
- ↑ V. 59. E seco al ciel sen vola, nei Canti XI al C. III si legge questa strofe: «Or tu che ’n poco, tosto ti vedrai | Arso da le bellezze di costei | L’alte sue lode e gratie canterai | Ch’altra cantar al mondo più non dei, | Seco volando chiaro n’anderai | Ben che poeta basso e incolto sei; | Ma chi canta di questa, chi ne scrive, | Eternamente glorioso vive».
- ↑ V. 77. Rivo, va corretto l’evidente errore di stampa, vivo, dell’edizione Costa. E ritorna qui il petrarchesco: «Chiare fresche e dolci acque», Canz., CXXVI, v. 1.
- ↑ V. 84. Amor, è soggetto, e fa sì che guardandovi in viso il mio pensiero si ingentilisca, si affini.
- ↑ V. 87. In verso e in prosa. Per la Mencia, per quanto ci risulta mai non scrisse in prosa. Non così per Lucrezia della quale è frequente il ricordo nelle Novelle.
- ↑ V. 110. Verso già ripetuto due volte; cfr. nota al v. 14, son. L.
- ↑ V. 114. Pace porgete. Concetto importante. L’onesto affetto di Lucrezia placa e rasserena l’animo del poeta. Non così opera su di lui l’ardore inquieto della passione per la Mencia «nemica».
- ↑ Vv. 122-123. I’ canterò. Annunzia quelli che poi furono i Canti XI in lode di Lucrezia Gonzaga, in particolar modo il C. III che comincia, e che promette di dir di lei: «Cose mirande e non udite ancora». — Fermerò, per errore il Costa stampò formerò.