Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella LI
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Novella LI
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Isabella da Luna spagnuola fa una solenne burla
a chi pensava di burlar lei.
Chi volesse far il catalogo de le cose che fanno le cortegiane in tutti i luoghi ove si trovano, averebbe per mio giudizio troppo che fare, e quando si crederia d’aver finito, pur alora resteria piú a dire che quanto detto si fosse. Ma vegnamo a qualche atto particolare, e narriamo alcuna facezia di quelle che queste barbiere fanno. Tra l’altre che a Roma sono, ce n’è una detta Isabella da Luna, spagnuola, la quale ha cercato mezzo il mondo. Ella andò a la Goletta e a Tunisi per dar soccorso ai bisognosi soldati e non gli lasciar morir di fame; ha anco un tempo seguitata la corte de l’imperadore per la Lamagna e la Fiandra e in diversi altri luoghi, non si trovando mai sazia di prestar il suo cavallo a vettura, pure che fosse richiesta. Se n’è ultimamente ritornata a Roma, ove è tenuta da chi la conosce per la piú avveduta e scaltrita femina che stata ci sia giá mai. Ella è di grandissimo intertenimento in una compagnia, siano gli uomini di che grado si vogliano, perciò che con tutti si sa accommodare a dar la sua a ciascuno. È piacevolissima, affabile, arguta, e, in dare a’ tempi suoi le risposte a ciò che si ragiona, prontissima. Parla molto bene italiano, e se è punta, non crediate che si sgomenti e che le manchino parole a punger chi la tocca, perché è mordace di lingua e non guarda in viso a nessuno, ma dá con le sue pungenti parole mazzate da orbo. È poi tanto sfacciata e presuntuosa che fa professione di far arrossire tutti quelli che vuole, senza che ella si cangi di colore. Erano in Roma alcuni nostri gentiluomini mantovani molto vertuosi e gentili, tra i quali v’erano messer Roberto Strozzi, messer Lelio e messer Ippolito Capilupi fratelli. Messer Roberto è in Roma per suo piacere e messer Ippolito v’è tenuto per gli affari del nostro illustrissimo e reverendissimo cardinale di Mantova. Stanno tutti in una casa, ma ciascuno appartatamente vive del suo. È ben vero che il piú de le volte mangiano di compagnia, portando ciascuno la parte sua, e cosí menano una vita allegra e gioiosa. Con loro si trovano assai spesso alcuni altri, perché sono buon compagni, e nel loro albergo di continovo si suona e canta e si ragiona de le lettere cosí latine come volgari, e d’altre cose vertuose, di modo che mai non si lasciano rincrescere. Praticava con questi signori molto domesticamente e spesso anco ci mangiava un Rocco Biancalana, il quale aveva nome d’agente d’un illustrissimo e reverendissimo cardinale, il quale, per esser stato lungo tempo in Roma ed esser piacevole e non meno mordace d’Isabella, ogni dí era a romore di parole con lei. D’essa Isabella, la quale anco spesso si trovava con i suddetti signori, era messer Roberto un poco, come si dice, guasto, e volentieri la vedeva. Ma tra Rocco e lei era una perpetua gara, e contendevano tra loro chi fosse tra lor dui piú maledico, piú calcagno e piú presuntuoso, di maniera che sempre erano a le mani. Del che quei signori, veggendo la prontezza del dire di tutti dui e le scommunicate ingiurie che si dicevano, ne pigliavano meraviglioso piacere, e spesso, per piú accendergli a dirsi villania, gli aizzavano come si fanno i cani. E insomma tra la Luna a la Lana era crudel nemistá, non potendo Rocco sopportare che una sí publica e sfacciata meretrice, che aveva avute piú ferite ne la vita che non sono fiori a primavera, praticasse con quei gentilissimi spiriti, ed assai sovente ne garrí messer Roberto. Ora l’illustrissimo e reverendissimo cardinale che in Roma teneva Rocco, avendo forse da trattar negozii di grandissimo momento, mandò a Roma messer Antonio Romeo, uomo di grandissimo maneggio, e atto a trattar ogni difficil ed intricato affare, quantunque intralacciato fosse. Ed in effetto era il Romeo un compíto uomo, se non avesse avuto una taccherella che tutto lo guastava, perché era fuor di misura misero ed avaro. Come egli fu venuto a Roma, Rocco mancò alquanto del suo grado, perciò che stava sotto al Romeo, e tanto e non piú negoziava quanto gli era da Romeo imposto, di modo che pareva negoziatore del Romeo, non del cardinale, e in casa con lui viveva non come compagno ma quasi come servidore. Ma non era cosa che a Rocco piú premesse che la miseria del Romeo, di maniera che ogni picciolo avantaggio che trovato avesse, averia piantato, come si suol dire, il suo cardinale e si sarebbe accordato con altri, ancor che fossero stati privati e senza grado veruno, perciò che esso Rocco teneva forte del parasito e averebbe sempre voluto la tavola piena. In questa sua mala contentezza, egli spesso si ritrovava a desinare e a cena con i suddetti signori, e quivi, dicendo male de la estrema avarizia di messer Antonio, si disfogava; ed ancora che ci fosse Isabella, non se ne curava. Cominciava egli a dire che il pane si comprava tanto duro che non si poteva con i denti masticare né tagliar con coltello, e che aveva la muffa e che ben ispesso lo faceva biscottare, allegando che asciugava il catarro; che inacquava il vino, prima che venisse a tavola, tanto forte che ne averia potuto bere uno ch’avesse mille ferite in capo; che altra carne non si vedeva che di bue, la quale prima che si finisse aveva fatto tre o quattro brodi; che ci era un gambetto che piú di venti volte era stato in tavola né mai fu da persona tócco, perché era un osso ignudo senza carne, e che come la tavola era messa, da se stesso saltava in tavola. Diceva che ’l formaggio era tutto roso da le tarme e guasto, e che le frutte si compravano mal mature e venivano in tavola cinque e sei volte. Queste cose diceva egli senza rispetto veruno, né si curava che da tutti fosse udito. Avvenne un dí che tra lui ed Isabella furono di male parole e vennero sui criminali, di modo che Rocco gli disse che se non fosse stato il rispetto di messer Roberto, le averia detto cose che l’averebbero fatta arrossire. – E che mi puoi tu dire, – soggiunse Isabella, – se non ch’io sono una puttana? Questo giá si sa, né io per questo arrossirò. – Riscaldato Rocco da la còlera, s’offerse di pagar una cena lauta e magnifica, e che oltra l’altre vivande ci fossero duo para di fagiani, ed ella si contentasse che a la presenza sua dicesse tutte quante le poltronerie che di lei sapeva; al che s’accordarono per il giovedí seguente. In quel tempo, ancora che Rocco sapesse assai ribalderie di lei, nondimeno da molti che la conoscevano intese cose assai piú che non sapeva e, a ciò che di memoria non gli uscissero, ne scrisse un lungo memoriale di tre fogli di carta. Egli era bello scrittore e tutte le cose aveva con bellissimo ordine scritte. Or giunta la sera che la cena era messa ad ordine, messer Antonio Romeo, che aveva inteso la cosa e si trovava mezzo ammalato, si condusse a casa dei signori mantovani, per prender alquanto di ricreazione de la disputa che si deveva fare. Erano tutti con Isabella in una sala a torno al fuoco. Cacciò mano Rocco al suo libretto e ad Isabella dise: – Puttana sfacciataccia, questa è la volta che non solamente io ti farò arrossire, ma ti farò crepare. – Ella se ne stava alquanto malinconica e diceva: – È egli possibile, Rocco, che tu mi voglia morta? Ceniamo in pace, e dopo cena tu leggerai il tuo processo criminale. – No, no, – rispondeva Rocco, – io ti vo’ far parer la cena piú amara che fele. – E veggendo Isabella che egli era pur disposto di legger prima che si cenasse, pregò molto quei gentiluomini che le facessero far grazia che ella fosse quella che leggesse almeno la prima carta di ciò che Rocco aveva scritto, promettendo non partirsi né straziare o abbrusciare la scrittura, ma letta la prima carta, renderla ad esso Rocco. Parve la domanda non incivile, onde tutti astrinsero Rocco che le compiacesse; il che egli fece. Come ella ebbe in mano la scrittura, ne lesse piano otto o diece linee; poi disse: – Ascoltate, signori, e udirete se mai fu al mondo la piú mala lingua di quella di Rocco. – E secondo che deveva leggere il male di se stessa, mostrando non sapere che quivi fosse il Romeo, disse ordinatamente tutte le cose che Rocco aveva in tante volte in vituperio d’esso Romeo, biasimando con agre parole la miseria di quello. Pareva proprio che ella ciò che diceva lo leggesse su la scrittura. E quando ebbe detto assai, serrata la scrittura, disse: – Che vi pare, signori, di questo ribaldo? non vi pare egli che meriti mille forche? Io non conosco questo Romeo, ma io intendo che è gentilissima persona e che in casa sua si vive molto civilmente. E questo ribaldo non si vergogna dir male d’un uomo da bene e d’uno ne la cui casa egli ha il vivere. Pensate se è tristo. – Era Rocco tutto fuor di sé, mezzo stordito, né sapeva che dirsi. Medesimamente il Romeo, che sapeva esser vere le cose che de la sua miseria s’erano dette, senza prender congedo se n’andò, e il simile fece Rocco; di sorte che né l’uno né l’altro assaggiò boccone de la preparata cena, dove si disse che Rocco aveva fatta la zuppa, come si dice, per le gatte. Cenarono quelli che rimasero e con Isabella istessa risero pur assai, che sí bene avesse saputo beffar Rocco e salvar se stessa.
Il Bandello al gentilissimo signore
il signor Angelo dal Bufalo
Essendo noi, come sapete, questi dí passati a Casalmaggiore, la valorosa eroina, la signora Antonia Bauzia marchesa di Gonzaga, avendo dal re cristianissimo comprato con danari de la sua dote quel castello, quivi fece le suntuose nozze de la molto gentile sua figliuola la signora Camilla Gonzaga nel marchese de la Tripalda, de l’onorata e real famiglia dei Castrioti che molti secoli ha l’Epiro signoreggiato. Erano quivi i tre fratelli de la sposa, tre veramente magnanimi eroi, il signor Lodovico di Sabioneda, il signor Federico di Bozolo e la bontá ed amorevolezza del mondo, il signor Pirro di Gazuolo, con una onorevole compagnia di molti signori e gentiluomini. E per esser il caldo grandissimo, dopo che si fu desinato, essendo tutti in una gran sala terrena assai, secondo la stagione, fresca, o almeno de l’altre stanze assai men calda, s’entrò in un bellissimo ragionamento de la liberalitá e magnificenza d’alcuni grandissimi prencipi, e massimamente di quelli che, avuti i proprii nemici ne le mani, non solamente loro avevano perdonato e donatogli la vita, ma gli avevano rimessi nei regni e dominii giá perduti o datogli aiuto a ricuperargli. Dagli antichi si venne ai moderni e fu con general lode da tutti sommamente lodato Filippo Maria Vesconte, terzo duca di Milano, il quale, avendo ne le mani per prigioni Alfonso di Ragona con altri re e tanti prencipi, baroni e signori, non solamente non fece lor pagare riscatto alcuno, ma onoratamente fece albergar ciascuno secondo il grado che aveva, e con lauti e luculliani conviti molti dí festeggiò, dando loro di feste e giuochi ogni trastullo che fosse possibile. Poi liberamente tutti lasciò ritornar a casa, ed aiutò Alfonso a ricuperar il regno di Napoli. Fu anco meravigliosamente celebrato il magno Lorenzo Medici, padre di Lione decimo, sommo pontefice, il quale fu moderatore e capo sapientissimo de la republica fiorentina, e quella con tanta riputazione sempre resse. Aveva Ferrando vecchio di Ragona, re di Napoli, con papa Sisto quarto fatta collegazione per levar in ogni modo Lorenzo de’ Medici dal governo di Firenze. E messosi un grosso essercito insieme col quale fu assalita la Toscana, ed avendo giá occupate molte terre e castella del dominio dei fiorentini, Alfonso duca di Calabria, con astuzia e favore d’alcuni cittadini, era con parte de l’essercito entrato in Siena, tuttavia guerreggiando i fiorentini. Lorenzo, che si vedeva abbandonato da’ veneziani, e da Milano non isperava poter esser soccorso per la morte del duca Galeazzo Sforza e discordia dei governatori del pupillo, poi che molti pensieri ebbe fatto per liberar la patria, deliberò, poi che i nemici dicevano non ricercar altro se non che Lorenzo non governasse, andar egli in persona a Napoli a ritrovar Ferrando. E messo in Firenze quell’ordine che gli parve il meglio, andò giú per l’Arno a Pisa, ove, preso un bregantino, navigò a Napoli. Giunto quivi con prospera navigazione e smontato in terra, se n’andò di lungo, senza dar indugio al fatto, a trovar nel castello il re Ferrando, al quale, trovatolo in sala con i suoi baroni, fece la convenevol riverenza e gli disse: – Sacro re, io son Lorenzo de’ Medici, venuto al tuo cospetto come a tribunale giustissimo, e ti supplico che degni prestarmi grata udienza. – Ferrando si riempí d’estremo stupore al nome di Lorenzo Medici, e non poteva imaginarsi come egli fosse stato oso venirgli a l’improviso, senza salvocondutto né sicurezza veruna, ne le mani. Tuttavia, mosso da non so che, lo ricevette umanamente e, ritiratosi ad una finestra, li disse che parlasse quanto voleva, ché pazientemente l’ascolterebbe. Era il magno Lorenzo non solamente di varie scienze dotato, ma era bel parlatore ed eloquentissimo. Di tale adunque maniera propose il caso suo al re, e sí bene gli seppe le ragioni sue dimostrare, che avendo poi piú volte insieme le cose de l’Italia discorse e disputato Lorenzo degli umori dei prencipi italiani e dei popoli, e quanto si poteva sperar ne la pace e temer ne la guerra, Ferrando si meravigliò molto piú che prima de la grandezza de l’animo e de la destrezza de l’ingegno e de la gravitá e saldezza del buon giudizio d’esso Lorenzo, e quello stimò essere de le segnalate persone d’Italia. Il perché conchiuse tra sé esser piú tosto da lasciar andar Lorenzo per amico che da ritenerlo per nemico. Cosí, tenutolo alcun tempo appo sé, con ogni generazione di beneficio e dimostrazione d’amore se lo guadagnò, che fra loro nacquero accordi perpetui e commune conservazione degli stati loro. E cosí Lorenzo, se da Firenze s’era partito grande, vi tornò grandissimo. In questi ragionamenti siccome il duca Filippo e Ferrando furono lodati, fu per lo contrario notato di poca liberalitá Ludovico decimosecondo che usò contra Ludovico Sforza, che egli in prigione lasciò morire. Era a questi ragionamenti presente messer Bartolomeo Bozzo, uomo genovese, il quale a proposito di ciò che si parlava narrò una bella istoria a’ giorni nostri avvenuta. E perché mi parve degna di memoria e poco tra i latini divolgata, io la scrissi. Pensando poi a cui donar la devessi, voi subito a la mente mi occorreste, come uno dei cortesi e liberali gentiluomini che io mi conosca a questi tempi. E perché vi conosco, per la lunga pratica che insieme abbiamo avuto, uomo nemico de le cerimonie, non vi dirò altro. L’istoria adunque al nome vostro dedico e consacro, cominciando con effetto a riconoscer le molte cortesie e piaceri da voi ricevuti.