Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXIII

Seconda parte
Novella XXIII

../Novella XXII ../Novella XXIV IncludiIntestazione 30 luglio 2010 75% novelle

Seconda parte - Novella XXII Seconda parte - Novella XXIV

Un abbate si libera da un grave giudizio


con una pronta e faceta risposta data ai signori senatori.


Verissimo essere che le pronte e facete risposte date in tempo rechino utile e spesso cavino di fastidio chi le dice, ancor che piú volte si sia per isperienza visto, io non reputo se non bene ricordarsi sovente simili essempi e dirvene uno che non è molto che avvenne. Uno dei tesorieri de la Francia detto Morenes dimorava per lo piú a Poittieres vi teneva la moglie, giovane, bella, e molto gentile. A Poittieres è l’universitá o sia studio generale d’ogni sorte di scienza, e vi concorrono scolari assai. Era quivi scolare un giovine che era nobile, il quale teneva in commenda una abbadia assai ricca e viveva molto splendidamente, sempre con buona compagnia. Con questo abbate prese il tesoriero una stretta domestichezza e piú volentieri con lui che con altri teneva pratica, di maniera che cominciò a invitarlo seco a mangiare. Non aveva ancora messer l’abbate vista la moglie del tesoriero, la quale, venutagli a l’incontro, quello graziosamente raccolse e secondo la costuma del paese basciò. Era l’abbate bellissimo giovine, e la donna, come s’è detto, oltra la beltá, era leggiadra molto, il perché meravigliosamente l’uno a l’altro in quel primo aspetto piacque. Desinarono di compagnia allegramente e tennero tra loro diversi propositi. Ragionando, l’abbate tuttavia considerava le bellezze de la donna, la quale anch’ella non teneva gli occhi troppo sovra le vivande, ma quanto poteva quelli pasceva de la vista del bello abbate. Finito il desinare, si mise Morenes a giuocar a toccadiglio con l’abbate, e giuocando fu esso tesoriero astretto a lasciar il giuoco e andar a ricever una somma di danari, onde pose in luogo suo la moglie. Pensate se a tutti dui fu grato. E non v’essendo persona a vedergli giuocare, cominciarono ad entrare in ragionamenti amorosi e scoprirsi insieme i lor amori. Né ad accordarsi vi bisognarono troppe parole, di modo che posto l’ordine ai casi loro, si trovarono poi insieme e molti mesi goderono amorosamente l’un de l’altro. Ed usando non troppo celatamente il lor amore, uno di casa se n’avvidde e n’avvisò Morenes. Di che egli, entrato in còlera grandissima, s’armò e fece armar gli scrivani e servidori suoi, e di lungo se n’andò a la casa de l’abbate, che, desinando la famiglia, giuocava al tavoliero con un gentiluomo che seco aveva desinato. Entrato Morenes in sala, cominciò a dire le piú villane parole a l’abbate che sapeva, ma non s’accostava a la tavola. Conobbe l’abbate la viltá del tesoriero, che non averebbe ferito una mosca, e gli diceva: – Signor tesoriero, voi sète mal informato. Io vi son buon amico e la donna vostra io la tengo onestissima. Beviamo e lasciamo andar queste ciancie. – Pur alora Morenes bramava, nomandolo traditore, di che l’abbate si rideva. Si partí Morenes, parendogli d’aver cacciati gli inglesi di Bologna. Si deliberò l’abbate di far una beffa al tesoriero, e un giorno presi alcuni scolari e tutti i suoi servidori, essendo ciascuno armato, andò a la casa del tesoriero, il quale subito se ne fuggí in alto a nascondersi, e i suoi di casa chi andò in qua e chi andò in lá. Mentre che gli scolari saliti di sopra facevano romore con l’arme, l’abbate con la donna fece un fatto d’arme amoroso, il qual finito, scesero gli armati a basso e veggendo la donna che faceva vista di piangere, le dicevano che deveva dar un’accusa al marito per averla svergognata. Partito che fu l’abbate con i suoi, il tesoriero tutto tremante venne a basso e se n’andò a la giustizia, a la quale diede l’accusa contra l’abbate, dicendo che a mano armata gli era entrato in casa per rubargli i danari del re. L’abbate fece rivocar la lite al parlamento di Parigi ed ivi se n’andò. Morenes andò a Fontanableo per aver favore da monsignor di Orliens. E conosciutosi in corte che era uomo di poca levatura, alcuni che volentieri viveno a le spese del compagno si misero con lui, promettendogli far e dir gran cose, e seco a Parigi se n’andarono. Ora essendo poi tutte due le parti dinanzi ai signori consiglieri, e facendo il tesoriero dal suo procurator proponere come monsignor l’abbate gli era ito a la casa per rubargli il tesoro del re, e in questo con molte parole aggravando il caso e chiedendo a quei signori che ne facessero severissima giustizia, fu poi detto a l’abbate ciò che rispondeva a sí enorme e vituperoso delitto come Morenes gli imponeva. Alora l’abbate, dette alcune cose in escusazione de l’innocenzia sua e mostrando che non era ladrone, disse sorridendo: – Signori miei, se il conno de la moglie di Morenes è segnato del cunio del re, io vi confesso esser quivi ito per impatronirmene. – Questa piacevol risposta risolse il tutto in riso e piú del caso non si parlò.


Il Bandello a la magnanima e generosa madama


la signora Gostanza Rangona e Fregosa


Piú volte ragionandosi, come si suole, a la presenza vostra di varie materie, signora e padrona mia molto illustre e valorosa, sovviemmi aver udito ad alcuni dire che lo scrivere i fortunevoli e diversi casi che a la giornata si veggiono in varii luoghi accascare, oltra che sarebbe opera perduta e di pochissimo profitto, che sarebbe anco in tanto accrescer il libro che di simiglianti accidenti si componesse, che l’etá d’un uomo a leggerli non basterebbe, perciò che tanti e tali talora in un tempo n’accadono, che stancherebbero le mani e le penne di tutti gli scrittori. Ricordomi che a questi tali alora convenevole risposta data. Né io ora voglio questionare quanto sia lodevol di tener memoria d’ogni cosa che occorra, ché almeno crederei che non potesse recar nocumento alcuno; ma porto ben ferma openione che descrivendo alcuni accidenti che ai mortali sovente sogliono avvenire e quelli consacrando a l’eternitá, che sarebbe opera molto lodata e di non poco profitto a chiunque le cose descritte leggesse. E chi dubita che non sogliano mirabilmente restar ne la memoria fitti tutti quei casi ed accidenti che si leggono, quando hanno in loro qualche atto degno di compassione e di ricordanza? Chi non sa medesimamente che colui che gli ha letti, quantunque volte quelli va tra sé rammentando, tanto si sente di dentro moversi, o a compassione se il caso n’è stato degno, od a lodar gli atti se ve ne sono meritevoli di lode, od a biasimargli se tali sono che di biasimo abbiano di bisogno? Suole anco assai sovente ciascuno con la rimembranza di quello che legge discorrer la sua vita propria e quella con giudizioso occhio essaminare e, come fanno i saggi, con giusta bilance pesare tutte le sue azioni. Da questo senza dubio ne nasce che l’uomo, se si vede d’un diffetto macchiato il quale senta dagli scrittori vituperare, con l’altrui lezione diventa a se stesso ottimo pedagogo e maestro, e di cosí fatta maniera se stesso corregge che, in tutto messa da parte la mala consuetudine che prima aveva d’andare ne l’operazioni sue morali di male in peggio, si sforza mettersi nel camino de la vertú, e tanto vi s’affatica che in poco di tempo egli si spoglia i tristi e cattivi costumi che aveva, e come il serpe ringiovinisce ne la buccia novella, cosí egli si rinuova ne la buona e costumata vita. Onde secondo che grandissimo piacere pigliava ne l’operar le vietate da la natura e da Dio disconcie e abominevoli opere, le comincia di modo aver in odio e biasimare che le aborre e fugge vie piú forte che non fa l’agnello il lupo. Per il contrario trovando sempre l’opere vertuose esser sommamente da tutti i buoni scrittori lodate, se in sé vede cosa alcuna vertuosa e degna di commendazione, mirabilmente gode e molto se ne rallegra, e con tutto il core ringrazia e loda il datore d’ogni bene Iddio onnipotente, che gli abbia messo in core di seguir la via de la vertú. E se prima v’era fervente a seguitarla, ora si fa ferventissimo e va tutto il giorno di bene in meglio, pregando tuttavia la bontá divina che gli conceda la perseveranza. Ecco adunque, signora mia, che nasce da le lezioni de le cose occorrenti che si descriveno, per l’ordinario, buono ed odorifero frutto. Per questo avendo io, come ben sapete, scritto molte novelle che a questa etá ed anco a l’altre sono accadute e di giá postone assai insieme, non manco, ogni volta che qualche accidente degno di memoria intendo, quello porre appo gli altri. E tanto piú volentieri gli scrivo, quanto ch’io sento quelli da persone degne di fede esser stati narrati. Onde essendo venuti alquanti gentiluomini e gentildonne a Bassens, ove voi fuggendo i caldi estivi in questa freschissima e assai agiata stanza vi diportate, udii raccontar un caso degno di compassione che il mio da me tanto amato e dai dotti riverito Giulio Cesare Scaligero, uomo in ogni dottrina eminentissimo, narrò, e disse per quanto ne aveva contezza esser stato prima detto da madama Margarita di Francia, oggidí reina di Navarra, donna che in sé sola contiene la chiarezza, con le lodi ed eccellenze a tutte le famose eroine da’ saggi scrittori per il passato date. Ora come l’ebbi ascoltato, parvemi che potesse per molte cagioni esser giovevole la scrittura di quello a chiunque la sentisse, e per questo fra me deliberai, nel modo che inteso l’aveva, di scriverlo. E cosí avendolo a la meglio che ho saputo scritto, a fine che se ne possa cavar quel frutto che si ricerca, m’è paruto non disdicevole, avendo egli avuta cosí alta origine, darlo fuori, a ciò che essendo per commune utilitá di tutti scritto, possa anco esser da tutti veduto e letto. Sapendo poi io quanta voi sète divota e serva d’essa madama la reina e continova e chiara divolgatrice de le sue rare doti, – ché altro mai non fate che predicare, lodare e senza fine essaltar l’ingegno, la facondia, la cognizione di tante cose, l’umanitá, la liberalitá, la religione, i santissimi costumi, quella sí bella moderata destrezza del governo e tante altre sue vertuti, – ed altresí essendo noto a tutta Europa com’ella per sua innata benignitá è fautrice de le cose vostre e dei signori vostri figliuoli, quando vi favorisce ed accarezza; ho deliberato questa mia novella, quale ella si sia, donarvi come cosa vostra e al vostro nome consecrare. La quale almeno per questa vi sará, e giovami cosí credere, cara ed accetta, perciò che contiene quello che la tanto da voi amata, onorata e riverita reina ha narrato. E se io quelle affettuose e limate sue parole non ho saputo cosí puntalmente esprimere come ella le ha dette, scusimi appo voi la debolezza del mio ingegno che tanto alto non è potuto salire. E a la vostra buona grazia umilmente mi raccomando, e prego nostro signor Iddio che vi doni il compimento d’ogni vostro disio.