Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LV

Terza parte
Novella LV

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Terza parte - Novella LIV Terza parte - Novella LVI

Infinita malvagitá d’un dottore in beffarsi del demonio,


come se non fosse inferno né paradiso.


La lezione che il nostro da bene messer Desiderio ci ha per sua cortesia letta, come voi tutti, signori miei, potete aver notato, contiene in sé vie piú di male che di bene, anzi in sé nessuna buona cosa ha. Io per me mi fo a credere, e credo senza dubio aver compagni assai, che al mio parere acconsentiranno, cioè non esser mala cosa a saper il male, ma bene esser degno d’eterno biasimo chi il male mette in opera e medesimamente chi altrui l’insegna. Egli si vuol insegnare, predicare ed imparare ciò che è giusto e buono, e i mezzi, con i quali le regolate e buone opere si deveno operare, sono da essere notati e posti in effetto. E per questo sono stati ordinati i predicatori, a ciò che c’insegnino suso i pergami la buona e dritta via di vivere cristianamente, e che riprendino e vituperino le operazioni malvagie e che fuor di ragione si fanno. Ma l’insegnar il modo e la via che una perversa e da Dio e dal mondo vietata cosa si faccia, è nel vero ufficio diabolico e consequentemente meritevole d’eterno biasimo e di vituperio immortale. Egli è pur troppo, miseri noi! la condizione de la debole e fragilissima natura umana inclinata e pronta al vizio, senza che abbia maestri che ce lo insegnino; ove con una gran difficultá e fatica e lunghezza di tempo il bene se le insegna, e tutto il dí ci convien tener rinfrescata la memoria del ben operare, e con gran pena l’uomo si può tener dritto. Io non posso nel vero se non ammirare, lodare e commendare l’acutezza de l’ingegno del Macchiavelli; ma desidero in lui un ottimo giudicio e vorrei che fosse stato alquanto piú parco e ritenuto e non cosí facile ad insegnar molte cose triste e malvage, da le quali molto leggermente se ne poteva e deveva passare, tacendole e non mostrandole altrui, come fa in diversi luoghi. Ora io non voglio giá, secondo che egli ha discorso in parte l’istorico padovano ed instituito un prencipe, discorrere i suoi Discorsi e meno instituir lui, che non so se viva o sia morto. Ben dirò a proposito di quanto egli ha scritto in quel vigesimo settimo capo del suo primo libro dei Discorsi, che a me non può entrar nel capo né so come sia possibile che uno possa esser onoratamente tristo e far una sceleraggine, che da da’ buoni sia reputata onorevole. Meno anco so come Gian Paolo Baglione, che il Macchiavelli noma nel precetto capo facinoroso, incesto e publico parricida, devesse esser da uomini di sano giudicio stimato leale, fedele e buono in opprimendo un suo signore del quale era vassallo, e non solamente che gli era signore, ma che era de la santa romana Chiesa capo e sommo pontefice e in terra vicario del nostro Redentore messer Giesu Cristo. Medesimamente, che si poteva di lui dire, se opprimeva e dirubava tanti cardinali, tanti vescovi ed altri prelati ecclesiastici, coi quali nulla aveva che fare? Sarebbe egli stato onoratamente tristo? Invero io mi crederei che non si possa mai dire che la tristizia sia lodevole e che uno, sia chi si voglia, mentre che è tristo e sgherro ed usa le ribalderie, non si possa dire se non tristo e scelerato, e che egli non meriti se non agre riprensioni, severi gastigamenti e continovo biasimo. Questi tali devriano tutti esser senza rispetto veruno mostrati vituperosamente ad ogni gente col dito di mezzo per piú loro scorno. Dico col dito di mezzo, ché era manifestissimo segno appo gli antichi, quando volevano mostrar uno scelerato e facinoroso uomo, che, complicando ne la mano tutti gli altri diti, quello di mezzo distendevano, a ciò che ciascuno si guardasse di praticare con quelli che in tal modo erano notati. Insomma io vi conchiudo che non si può esser onoratamente ribaldo. Ben si potrá dire: – Il tale è un eccellente ladro, un perfetto adulatore, un gran ribaldo ed un finissimo ghiotto; – ma non giá mai che il nome d’onore se gli possa propriamente aggiungere. Ma io mi sono lasciato trasportare, non so come, contra la consuetudine e natura mia, a riprendere il Macchiavelli; tuttavia, parendomi aver detto la veritá, sia con Dio. Ora, lasciando la cura ad altri di meglior ingegno e di piú invenzione ed eloquenza che io non sono, che né de l’una né de l’altra faccio professione, di discorrere i Discorsi macchiavelleschi, vi dirò ciò che da principio mi mosse a parlarvi, e vi narrerò una breve novella d’alcuni detti d’un uomo sceleratissimo, il quale, per mio giudicio, mai non si potrebbe chiamar onoratamente scelerato, ma sí bene re d’ogni sceleraggine e ribaldissimo in carmesino di grana ne l’ultimo grado. Credo poi che ser Ciappelletto da Prato non fosse peggior di lui giá mai. Erano in una cosa simili, che cosí come pareva a ser Ciappelletto di scherzar con messer Domenedio, a burlarsi di lui, il medesimo faceva costui del quale intendo ragionarvi in questa novella. Erano poi in questo differenti molto, perché ser Ciappelletto, essendo una sentina di vizii, voleva buono e santo esser tenuto, e questi, sí come vizioso e ribaldo si conosceva, voleva per tale da chi seco conversava esser istimato. E giovami di credere che si sarebbe riputato a grandissima villania ed ingiuria che altri l’avesse per leale ed uomo da bene creduto, tanto era egli ne abisso profondissimo d’ogni vizio immerso. Oramai, per non tenervi piú a bada e venir al fatto, vi dico che io, essendo una volta in Bologna, intesi che, nel tempo che i signori Bentivogli governavano quella magnifica ed opulenta cittá, fu in essa un gentiluomo dei beni de la fortuna assai ricco, il quale era dottore iureconsulto molto dotto, e fuor d’ogni misura si mostrava affezionato a la fazione d’essi signori Bentivogli; ma era di tanta scelerata vita e di cosí enormi vizii pieno, che è incredibile cosa a dirlo: di modo che non solamente in Bologna, ma né anco altrove un tanto scelerato non si saria trovato giá mai. Egli aveva il suo studio pieno di libri in una camera terrena, ove ai suoi clientoli dava udienza, e quivi teneva l’imagine del Crocifisso, che forse dagli avi suoi era stato attaccato. E perché si gabbava di Dio e de’ santi, come colui che poco gli credeva, fece dipingere a qualche ribaldo dipintore le gambe del detto Crocifisso con l’assisa o sia livrea bentivogliesca in gamba, come se Cristo fosse fazioso e parziale. Onde il ribaldone non si vergognava spesso publicamente dire che, se Cristo voleva abitare in Bologna, era necessario che portasse la divisa dei signori Bentivogli. Né solamente era egli scelerato, ma voleva che le sue sceleratezze e sconce operazioni da tutto il mondo si sapessero, e se ne teneva da molto piú. Se intendeva talora alcuno aver lite con poca ragione e che dagli altri dottori, uomini da bene, era essortato a lasciar cotal litigio o di cercar di comporsi col suo avversario, egli piú volentieri simili liti pigliava che le giuste e liquide, e con sue gherminelle e inganni, de’ quali n’era divizioso, menava di modo la lite a la lunga, che ben sovente colui che ragione aveva, dal fastidio del piatire vinto, si componeva. Se poi alcuna volta avveniva che qualche suo parente o amico lo riprendesse e garrisse di cosa che sceleratamente fatta avesse, egli se ne rideva, e scherzando diceva loro che avevano buon tempo e che erano uomini fatti a l’antica e non si sapevano governare, di modo che tuttavia se n’andava di male in peggio. Onde, avendo una volta tra l’altre in una lite di grandissima importanza usate certe sue baratterie, falsificate alcune scritture e produtti testimoni falsi, fu a gran pericolo de la vita. Alora messer Galeazzo Calvo Mariscotto, uomo di grande autoritá, agramente lo sgridò e riprese acerbissimamente, ed essortandolo che oramai a tante sue sceleratezze volesse por fine e non tener sempre la conscienza sotto i piedi, perché il gran diavolo infernale un giorno, non s’emendando, il porterebbe via in anima e in corpo. Sorrise a questo il malvagio dottore e disse che non sapeva ove fosse la conscienza e che cosa faceva il demonio che non veniva. E di piú disse: – Messer Galeazzo, io vi vo’ dire la veritá. La sera, quando io mi corco per dormire, io mi fo il segno de la croce, di meraviglia che questo vostro diavolo, che mi predicate esser sí terribile, non m’abbia il dí portato via. La matina poi, destandomi, mi levo e di meraviglia anco mi segno, che mi ritrovo pur vivo e sano. Ma io lo scuso, ché deve aver altro che fare. Ma che! tutte sono favole di frati, ché non ci è né diavolo né inferno. – Udendo messer Galeazzo cosí scelerata risposta, stette un poco sopra di sé; poi gli disse: – Voi ve n’accorgerete a la fine dove i peccati vostri vi meneranno. – Né altro mai piú volle dirgli, parendoli che sarebbe pestar acqua in mortaio.


Il Bandello al dotto giovine


messer Cristoforo Cerpelio bresciano


La vostra elegante e latinamente cantata elegia, Cerpelio mio, che, in lode mia composta, m’avete mandata, ho io lietamente ricevuta e con non picciolo mio piacere letta e riletta. E chi è colui che sia cosí stoico ed alieno da le passioni, a cui le proprie lodi sempre non siano care, e che con diletto non le senta? Certamente, che io mi creda, nessuno. Quegli stessi filosofi, che nei libri loro essortarono gli uomini a disprezzare la gloria e non si curar de le lodi, andarono con gli scritti loro cercando la gloria e desiderando d’esser lodati. Egli è troppo appetibile e dolce l’esser lodato, e tanto, che non solamente gli uomini, ma bene spesso si sono veduti animali irrazionali, de le lodi che loro erano date, allegrarsi. Non nego adunque che la elegia vostra mirabilmente m’abbia dilettato, anzi liberamente lo confesso. Ed ancora ch’io non conosca esser in me quelle vertuose doti e quelle parti che di me cosí leggiadramente cantate, e porti ferma openione che tale mi predicate quale, amandomi, vorreste ch’io fossi; tuttavia il sentirmi da voi lodare m’è stato molto caro. Onde sommamente vi ringrazio che di me abbiate sí buona openione e che a le mie rime volgari attribuiate ciò che a la vostra dotta e polita elegia meritamente si conviene, e vie piú assai che a me. Ma per non parere ch’io voglia rendervi il contracambio di parole, perciò per ora non dirò altro circa essa elegia. Io al presente assai poco attender a le muse posso, per i continovi affari del mio signore. Nondimeno, come io ho modo di rubar alquanto di tempo, mi sforzo pure di tornar con loro in grazia. Scrivo poi talora de le novelle che sento narrare, o di cui dagli amici m’è il soggetto mandato. E perché so che vi piace legger de le mie composizioni, vi mando una breve novelletta, che qui in Verona nel suo palagio narrò il generoso ed umanissimo signor conte Alberto Sarrego in una piacevole compagnia. Essa novella ho dedicato al vostro dotto nome, a ciò che resti sempre appo chi la vedrá per testimonio de la nostra cambievole benevoglienza. State sano.