Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XLV
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Novella XLV
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Narra messer Filippo Baldo come Anna reina d’Ungaria amata da uomo
di basso legnaggio quello magnificamente rimeritò, con molti belli accidenti.
Poi che cosí affettuosamente, amorevoli donne e voi costumati gentiluomini, per vostra grande umanitá pregato m’avete che io, con qualche novella, cosí bella e onorata compagnia voglia intertenere e insiememente ancora dilettare, fin che venga l’ora che voi, belle donne, montando in carretta andiate per la cittá a diporto e noi vi accompagniamo, ben che a l’uno e a l’altro fare non mi conosca bastevole; nondimeno parendomi assai minor male di quanto mi richiedete a la meglio ch’io potrò ubidirvi, che nol facendo mostrarmi ai vostri onesti desii ritroso e poco cortese, intendo dirvi una novella o sia un nuovo accidente avvenuto ad un amico mio, il quale molti che qui sono domesticamente conoscono e dal qual accidente potrete tutti diversamente trarre qualche profitto. Io vi diceva poco fa, e il mio dire con qualche diritto e saldo fondamento v’ho approvato, esser ragionevole che sí come negli uomini è cosa di gran senno far servitú con donna di piú nobil sangue che egli non sia, che parimente ne le donne sará sempre tenuto saggio avvedimento il saper schifar d’amar uomo di maggior grado che ella non è. Onde vi dico che non è ancora gran tempo che la reina Anna, sorella di Lodovico che fu re d’Ungaria e moglie di Ferdinando arciduca d’Austria, che oggi re degli ungari e dei boemi si dice, insieme con madama Maria, figliuola di Filippo re di Spagna e giá moglie del detto Lodovico si ritirò in Ispruc, terra tra’ tedeschi molto famosa e dove assai sovente si vedeva che la corte lungamente dimorava. Era la stanza di queste due reine dentro il palazzo del re Massimigliano eletto imperadore, il quale è tanto vicino a la chiesa maggiore che senza esser dal popolo vedute potevano a lor bel grado, per via d’una coperta galleria che congiunge il palazzo con la chiesa, andar ad udir le messe ed altri divini uffici che in quella celebrar si costumano. E cosí quasi ogni dí insiememente con le lor damigelle ed altri signori e gentiluomini de la corte le reine v’andavano. Medesimamente era stato fabricato dentro la chiesa un alquanto elevato e magnificamente apparato tribunale, ove di brigata agiatamente tutte capevano. Ora avvenne che messer Filippo di Nicuoli cremonese, che in quei dí per la recuperazione del ducato di Milano fatta da’ francesi s’era di Lombardia partito, si trasferí in Ispruc e s’acconciò per segretario col signor Andrea Borgo, perciò che era giovine assai dottrinato e bellissimo scrittore e uomo intromettente ed avvenevole. Questo, molto frequentando la detta chiesa tutto il dí, e veggendo la reina Anna sovra tutte l’altre donne che alora tra’ tedeschi fossero bellissima e di leggiadri e signorili costumi ornata, non accorgendosi, riguardandola, de l’amoroso veleno che egli con gli occhi beveva, credendosi al suo piacer sodisfare mirandola ed intentamente considerandola, se stesso fuor d’ogni convenevolezza miseramente impacciò, di lei ardentissimamente innamorandosi; perciò che tanto e sí fieramente s’accese che prima si sentí piú in poter d’altrui essere che punto s’accorgesse de la perdita di se stesso e de la propria libertá. E ancor che avesse riguardo a l’altezza ed eccellenza dí tanta donna ed al basso grado del legnaggio ove egli era nato e che considerasse la fortuna dove in quel tempo viveva, nondimeno tanto non seppe fare che egli non si trovasse in tutto aperto il petto a le perigliose fiamme d’amore, e quelle in tal maniera dentro vi ricevve che giá avevano tanto in alto profondate le radici e quelle di modo abbarbicate che non v’era pur via di poterle quindi piú diradicare. Essendo adunque messer Filippo di questa sorte che udita avete da’ lacci d’amore annodato e giudicando ogni opera che facesse per disciogliersi esser gettata via, si dispose con tutto il core e con ogni sollecitudine e diligenza questa cosí alta ed onorata impresa, avvenissene ciò che si volesse, sempre seguitare. Il che con effetto cominciò, imperciò che ogni volta che le reine erano agli officii divini egli medesimamente ci andava, e fatto loro la convenevole riverenza a loro dirimpetto si metteva, e quivi la bellezza de la sua reina vagheggiando, piú di giorno in giorno infiammandosi, tanto se ne stava che elle di chiesa partivano. E se talora per qualche accidente che le disturbasse, le reine a la chiesa non venivano, non rimaneva pertanto messer Filippo che egli, secondo che piú in destro gli veniva, non andasse almeno a visitar il luogo ove la sua donna soleva vedere. Quivi l’impaniato giovine ai suoi amori pensando, ora di speme armandosi e ora in disperazione cadendo, rivolgeva per l’animo mille pensieri; e quantunque conoscesse la sua scala non aver gradi per salir tant’alto, nondimeno egli non si puoté dal suo fiero proponimento rimuover giá mai, anzi gli pareva che quanto piú difficile e perigliosa fosse l’impresa che tanto piú gli crescesse il desio di seguirla e di mettersi ad ogni rischio. Se talora per via di diporto andavano le reine spaziando per le contrade e giardini d’Ispruc, egli di brigata con gli altri cortegiani le accompagnava, non gli parendo mai aver ora di riposo se non quel poco di tempo che egli o vedeva essa reina Anna o le era vicino. Erano in quei medesimi tempi molti gentiluomini nostri fuorusciti di Lombardia in Ispruc, i quali per la maggior parte seguivano il signor Francesco Sforza secondo, col cui mezzo speravano, recuperando egli la duchea di Milano, esser a le loro patrie restituiti. V’era anco cameriero d’esso signor Francesco messer Girolamo Borgo veronese, giovine molto gentile e costumato col quale messer Filippo teneva stretta domestichezza. E perché di rado avviene che un fervente amore si possa tanto tener celato e coperto che in qualche parte non si scopra e non dia di sé alcun segno, il veronese di leggero de le fiamme di messer Filippo s’accorse. Io altresí che era di continovo in corte e spesso era di brigata col Borgo e con esso messer Filippo m’avidi troppo bene del suo amore; non perciò che il Borgo o io ci apponessimo al vero o che avessimo saputo indovinare di qual donna egli fosse invaghito. Ma veggendolo piú del solito astratto e molto sospiroso, e avendo avvertito che come poteva da la compagnia si rubava e tutto solo andava a’ suoi fieri accidenti pensando, e che per questa cagione egli era fatto malinconico e magro avendone il sonno ed il cibo perduto, che altro si poteva dei casi suoi giudicare se non che gli amorosi vermi acerbamente il core gli rodevano e con fieri morsi lo trafiggevano? Essendo adunque tutti tre un dí insieme e d’uno in altro ragionamento entrando, avvenne che si cominciò a ragionar d’amore; di modo che il Borgo ed io dicendo a messer Filippo che senza dubio tenevamo per fermo ch’egli fosse stranamente innamorato, avendo la mente a la nuova vita che menava, con calde preghiere quello astringemmo che a noi come a suoi fedelissimi compagni e cari amici volesse questo suo amor manifestare, perciò che poteva esser certo che quivi non aveva persona alcuna de la quale piú che di noi devesse confidarsi. Gli promettemmo oltra ciò ogni nostro aiuto e favore, se in questo l’opera nostra gli poteva recar giovamento alcuno. Egli alora quasi con le lagrime sugli occhi dopo alcuni focosi sospiri ne disse cosí: – Fratelli miei cari, essendo io certo che di quanto adesso da me udirete voi, la vostra mercé, mi terrete credenza come il caso ricerca, dicovi che negar non vi posso né voglio che io ardentissimamente e fuor d’ogni misura non ami, perciò che il negar sarebbe tuttavia senza pro, né vi poteria aver luogo ove chi non è ceco può chiaramente vedere come io mi stia. E ancor che le mie parole dicessero ostinatamente di no, il mio viso e la nuova e strana maniera del mio vivere che da qualche tempo in qua ho cominciato a fare, a mal mio grado accennano che io non sia piú quello che esser soleva; di modo che se altro in breve non ritrovo piú di quello che fin qui m’abbia ritrovato, spero che quella che a tutti quanti che ci nascono mette fine finirá medesimamente questa mia acerbissima vita, se vita in me si può ella chiamare e non piú tosto una viva morte. Aveva io fatto proponimento e in tutto conchiuso la cagione del mio fierissimo tormento a persona del mondo non discoprir giá mai, non potendola far manifesta a quella che io unicamente amo, ma tacendo ed amando morire. Nondimeno a voi ai quali io non debbo cosa alcuna celare, aprirò il secreto de l’animo mio, non perché io creda a le mie passioni ritrovar conforto o refrigerio alcuno, o speri che quelle narrandole divengano minori, ché sensibilmente ogni punto d’ora diventano assai maggiori; ma dirollo a fine che sapendo voi la cagione del mio morire, quando io sarò morto e non prima possiate ridirlo, a ciò che se per caso mai fosse rapportato a l’orecchie di colei che io oltra ogni credenza amo, ella sappia che io quanto amar si possa l’amai. Il che se dopo la morte potrò risapere, ovunque lo spirito mio sará, non potrò se non riceverne infinita contentezza. Devete dunque sapere che il primo dí che agli occhi miei la divina bellezza ed il supremo valore de la reina Anna apparsero, e che io piú che d’uopo non era le singulari ed eccellentissime sue maniere e l’altre innoverabili doti di lei considerai, che cosí oltra ogni misura di quella m’accesi che mai piú non è stato in mio potere non dirò d’ammorzare cosí fervente amore, ma pure in parte minima intepidirlo. Ho fatto quanto m’è stato possibile per macerar questo mio sfrenato disio, ma il tutto è stato indarno: le mie forze sono state a cosí potente avversario troppo deboli. Né crediate giá che lo stato mio a par di tanta altezza io non conosca e che altresí non sia certissimo questo mio amore, a ciò non dica pazzia, esser fuor d’ogni convenevolezza, ché son ben chiaro tanto alto e nobile amore a la mia bassezza non convenirsi. Io non sono, compagni miei, a me medesimo caduto di mente, perciò che ottimamente la mia condizione e quella di madama la reina a pieno conosco. La prima volta che io mi sentii dai lacci d’amore irretito, quella conobbi esser reina de le prime de’ cristiani e me povero giovine fuoruscito di casa mia, e male a me convenirsi in cosí nobile ed alto luogo i miei pensieri dirizzare. Ma chi potrá por freno o dar legge ad Amore? Chi è che secondo la debita elezione s’innamori? Certo, che io mi creda, nessuno, perciò che Amore come piú gli aggrada il piú de le volte scocca le sue quadrella, né ha riguardo a grado o condizione di persona. Non s’è egli giá visto eccellentissimi uomini, duci, regi ed imperadori essersi accesi d’amore di donne di bassa e vilissima schiatta? Non s’è anco inteso bellissime ed altissime donne, sprezzate le grandezze degli stati, abbandonati i mariti, non curato l’amore dei figliuoli, aver ardentissimamente amato uomini sozzi e d’infima sorte? Tutte le istorie ne sono piene, e le memorie dei nostri avi e padri ed altresí le nostre quando bisognasse ne potrebbeno render testimonio. Dicovi adunque questo a ciò che non vi paia cosa nuova se io mi sono lasciato vincere dai miei pensieri. Ché non alterezza od il non conoscere l’una e l’altra parte a questo m’ha condotto, ma Amore che può molto piú che non possiamo noi e fa sovente lecito quel che piace e non lece, ed impregionata la ragione fa donno e signore il talento, le cui forze sono molto maggiori che le leggi de la natura. E ben che io di questo mio magnifico amore lieto fine non sperassi giá mai e meno di giorno in giorno lo speri, non è però che io possa altrove rivolger l’animo. E giurovi per quel leal e ferventissimo amore che io porto a la reina, che io mi sono sforzato quanto mi è stato possibile levarmi da questa mal cominciata impresa e metter i miei pensieri in altro luogo; ma ogni mio sforzo è stato vano, ogni deliberazione che io ci abbia fatta è riuscita indarno. Io altro fare piú non so né posso. E sallo Iddio che se non fosse la téma de l’eterna dannazione, io con le proprie mani giá averei a questo mio appetito dato fine. Sommi adunque deliberato, poi che a questo termine mi son lasciato trasportare e che Iddio ha permesso che oltra modo di cosí alta, nobile, generosa e bella donna io sia, ahi misero e lasso me, acceso, contentarmi de la vista sola di quei begli occhi suoi, e servendola, amandola e onorandola fin che io starò in vita, che certo per quel ch’io mi creda sará poco, pascer solo con il chiaro splendore di quelle vaghe e divine luci tutte le mie speranze, perciò che non son cosí fuor di me che manifestamente io non conosca altro guiderdone di tanto alto amore sperar non possa, ché sarebbe estrema pazzia. – Al fine di queste sue parole caddero di molte lagrime dagli occhi del povero amante, e da quelle e da molti singhiozzi impedito e da certo non so che sovra preso, non puoté piú oltra dire. E in vero chi visto l’avesse in viso, l’averebbe giudicato che da mordace e penosa passione era il suo cor trafitto. Ora essendo noi stati molto attenti a quanto egli detto ci aveva, sí come la cosa richiedeva, essendoci infinitamente di tal accidente meravigliati e parendoci piú tosto sognare ch’esser ove eravamo, ci guardammo buona pezza l’un l’altro in viso senza motto alcuno dire. Raccolta poi la lena che per l’estrema ammirazione era smarrita, messer Girolamo e io con evidentissime ragioni ci sforzammo persuadergli che da questo suo folle pensiero rappellasse l’animo e altrove lo rivolgesse, mostrando lui l’impossibilitá de l’impresa ed il grandissimo pericolo che ne poteva seguire. Ma noi cantavamo a’ sordi, perciò ch’egli non voleva e diceva non poter ritirarsi da questo amore, avvenissene mò ciò che si volesse. Né alora solamente con agre riprensioni di tal alterezza lo riprendemmo e sgridammo, ma molte altre volte che insieme ci trovammo ne gli facemmo gran romore per far che conoscesse il suo manifesto errore. Ma il tutto era opera gettata via, di maniera che il Borgo ed io pigliammo per espediente non parlargli piú di tal materia, ma star a veder ciò che ne seguirebbe. Perseverando adunque messer Filippo nel suo fiero proponimento e di continovo presentandosi a la chiesa quando sapeva che le reine v’erano, avvenne che elle s’accorsero de l’amor di lui, perciò che avendo piú volte messo mente tutte due al modo ch’egli teneva, agli atti, al frequentar del luogo, al veder che sempre dirimpetto a loro si poneva e gli occhi da dosso a loro mai non levava, giudicarono ch’egli senza dubio d’una di lor due o almeno di qualche damigella quivi entro fosse innamorato. E di questo le due reine insieme ne tennero ragionamento: al vero perciò non s’apposero giá mai. Nacque nondimeno nei cori loro un desiderio di chiarir questa cosa, ed aspettavano che qualche occasione a la giornata accadesse che levasse loro questo dubio di mente. Fra questo mezzo messer Filippo cercando con la vista dei begli occhi de la sua donna scemare il fuoco che miseramente le midolle e l’ossa gli ardeva, ove a le sue passioni qualche compenso e refrigerio cercava, quelle d’ora in ora sentiva farsi maggiori. E certo tutti quelli che ardentissimamente amano, vengono pur a questo passo, che altro mai far non vorrebbero che vedere le donne che amano, non s’accorgendo che quanto piú mirano le bellezze amate piú cresce il disio di mirarle e col disio la pena. Non lasciava adunque mai messer Filippo occasione alcuna che pigliar potesse per contemplar madama la reina, o fosse in chiesa od in corte o che s’andasse diportando per la terra. Ora avvenne che essendo la cosa in questo termine, mentre che le reine volentieri averebbero spiato altrui de l’amore di messer Filippo, che la fortuna se le parò dinanzi de la maniera che udirete. Egli era la stagione che i fiori e le rose cominciavano a prestar odorato ornamento a le piagge ed ai giardini. E perché nel principio che si veggiono fiorire sono in piú prezzo che quando ve n’è piú copia, quasi in ogni luogo e massimamente ne le corti si costuma i primi fiori o prime rose che si cogliono presentare a le madame e ai maggiori de le case. Aveva adunque in quei dí la reina Anna certi fiori in mano, ed era insieme con la reina Maria e altre dame e damigelle a diporto in un lor bellissimo giardino, in quell’ora che il sole volando verso occidente quasi comincia a nascondersi dietro ai monti occidentali. Quivi tra gli altri de la corte era anco messer Filippo. La reina Anna come veduto l’ebbe, deliberò far una prova per veder se si poteva chiarire di qual donna egli fosse innamorato. E cosí per il giardino leggiadramente diportandosi e ora con questi e ora con quelli, come è la costuma di simili madame, con belli e piacevoli motti scherzando, s’incontrò in messer Filippo, il quale ancora che ragionasse con alcuni gentiluomini de la nazione italiana, nondimeno aveva l’animo e gli occhi a la reina rivolti. Ché ogni volta che la vedeva, gli occhi nel viso di lei di maniera fisi teneva che chi v’avesse avuto riguardo si sarebbe di leggero avveduto che il volto di madama la reina era il vero albergo di tutti i pensieri di messer Filippo. Egli come vide quella a lui avvicinarsi, cosí con gentil e convenevole riverenza le fece onore, e con gli occhi in lei piegati pareva che pietosamente le dimandasse mercede. E certamente chiunque di nascosto e con perfetto cor ama, piú con gli occhi innanzi a la sua donna che con lingua parla. Giunta che fu la reina appo lui, con grave e onesta leggiadria umanamente cosí gli disse: – Giovine lombardo, se questi fiori che ora noi abbiamo in mano vi fossero donati a fine che voi liberamente ne facessi ciò che piú vi aggradisse, o vi fosse detto che voi ne faceste cortese dono a quella di noi altre donne che qui o altrove siano che piú vi piace, diteci, di grazia, a cui voi gli donareste o vero ciò che ne fareste; e diteci, vi preghiamo, liberamente e senza rispetto veruno l’animo vostro, perciò che ne farete cosa che molto ci piacerá. E a questo vi astringiamo per quanto amor portate a quella donna che piú amate, ché pure pensiamo che, essendo giovine, non si debbia credere che siate senza amore. – Quando messer Filippo sentí la soavissima voce de la reina cosí dolcemente ferirli l’orecchie, ed udí astringersi per amor di colei che egli amava da chi unicamente e infinitamente non solo amava ma riveriva e adorava, andò quasi fuor di se stesso, tanta fu la dolcezza e tanto il piacer che si sentí nel core, e di mille colori si tinse nel viso, e da soverchia e non piú gustata gioia ingombrato, fu quasi per isvenire e non poter rispondere. Pure, raccolte le forze e a la meglio che puoté preso ardire, a la reina rispose con bassa e tremante voce cosí: – Poi che, madama serenissima, la vostra mercé, vi degnate di comandarmi, oltre che infinitamente vi ringrazio e sempre vi resterò con eterna obligazione, son presto a dire sincerissimamente l’animo mio, perciò che debbo aver di sommissima grazia di poterlo palesare; onde essendo cosí vostro piacere, pur lo dirò. Dico adunque con ogni debita riverenza che non solamente qui e al presente, ma in ogni tempo e luogo ove io mi ritrovassi, altro di essi fiori non disporrei se non tali quali fossero, e quanto fossero piú belli e cari tanto piú volentieri, che quelli senza fallo sempre a voi sarebbero umilmente da me presentati, non perché voi siate reina e d’altissimo legnaggio, che tuttavia è grandissima cosa, ma perché sète donna rarissima anzi unica e d’infinite doti ornata, ed altresí perciò che per vertú e per meriti il valete, e molto piú che esser onorata di cosí picciolo dono, come quella che piú che altra donna ch’oggi viva, – siami lecito con veritá questo dire, – è l’onore e l’unica gloria del sesso feminile di questa etá. – E cosí detto si tacque. La reina, udita con gran piacere la pronta risposta del giovine: – E noi,– disse, – vi ringraziamo di tante lodi che date ci avete e del vostro buon animo verso noi. – Cosí dettogli questo senza piú, se ne passò innanzi, tuttavia con questi e con quelli per via di diporto motteggiando. Parve pertanto a lei e simigliantemente a la reina Maria che d’ogni cosa era consapevole, aver in grandissima parte spiato l’animo del giovine, e quasi per fermo tenesse sé esser quella che il giovine lombardo tenesse per sua suprema donna. Del che punto non si sdegnò, anzi assai ne l’animo suo lo commendò e tennelo per molto da piú che prima non lo teneva, e come discreta e valorosa gli diede infinite lodi. Ella non fece giá ciò che molte far sogliono, le quali come si veggiono esser di legnaggio piú nobile o pur uguale di quel de l’amante che il cielo loro averá dato, quello non degnano, anzi di lui e de la sua fedel servitú si beffano, e sovente con finti visi e parole tutte simulate il levano in alto, e poi tutto ad un tratto le loro finte maniere cangiando, lo lasciano da la cima e colmo d’ogni speranza nel basso abisso d’ogni disperazione senza alcun ritegno cadere, di modo che colei che piú ne schernisse piú si tiene scaltrita. Ma quanto meglio e piú lodevole impresa sarebbe che non avendo la donna a caro l’amore e la servitú d’un uomo, liberamente gli dicesse: – Amico, tu non fai per me, – che pascerlo di vane speranze, tenendolo un tempo a bada, dandogli parole e sguardi e poi sí miseramente, come spesso si fa, da sé cacciarlo? Io per me, ancora che ferventissimamente amassi una donna e che mi fosse d’estrema doglia cagione il vedermi cacciare e non esser da quella amato, mi saria nondimeno men grave l’essermi apertamente detto che io altrove mi procacciassi una padrona, che mostrar d’aver a grado la mia servitú e pascermi qualche tempo di vane speranze, e poi trovarmi beffato e schernito. Ché in vero in simil caso io non sarei forse men rigido e severo contra chi di questa maniera mi trattasse di quello che si fosse lo scolar da Parigi tornato in Firenze a la male aventurata madonna Elena. Ma torniamo al nostro messer Filippo. Il quale ancora che niente potesse imaginarsi de l’animo de la reina Anna né a che fine ella gli avesse tal domanda fatta, pure questo atto gli fu troppo caro ed accetto, e ogni volta che ci pensava, sentiva grandissimo piacere e n’aveva una certa contentezza che lo faceva star piú allegro del solito. Da l’altra parte madama la reina che discretissima e la cortesia stessa era, quando ne la chiesa o altrove messer Filippo se le inchinava e rendeva il debito onore de la riverenza, ella molto umanamente lo raccoglieva, e col capo alquanto chino, – cosa che solo a gran baroni e signori era usa di fare, – mostrava aver caro il riverire ed onorare che egli le faceva. Del che egli ne prendeva estrema contentezza, né piú oltre osando di sperare, di continovo a le bellezze e onesti modi che in lei vedeva pensava. Passarono in questo alcuni dí, sempre egli di lei piú infiammandosi quanto piú chiusamente ardeva piú accendendosi. Eravamo un giorno alcuni di noi italiani innanzi a la camera e la reina Anna, che quivi avevano accompagnata madonna Barbara moglie di messer Pietro Martire Stampa, che con due sue figliuole era ita a far riverenza a le due reine, che insieme erano. Quivi era ancora messer Filippo, col quale il Borgo ed io di varie cose ragionavamo. Né guari avevamo favellato quando le reine amendue uscirono di camera; il che fu cagione che tutti quei signori e gentiluomini che la venuta di quelle attendevano, si levarono da sedere e col capo scoperto aspettavano riverentemente dove amendue le reine volessero inviarsi. La reina Anna in questo si spiccò da la reina Maria e dritto venne ove erano gli italiani ed umanissimamente a molti dei nostri gentiluomini domandò il nome e la patria loro, di modo che pervenne ove noi tre eravamo ragionando. Quivi con bel modo richiese prima messer Girolamo che le dicesse il nome, la patria e se era gentiluomo. Al che egli disse con ogni riverenza che nome aveva Girolamo Borgo, gentiluomo di Verona. Io altresí da quella domandato con la medesima domanda, quanto piú modestamente seppi le risposi ch’io era gentiluomo nato di antica stirpe di Milano e che tutti mi chiamavano Filippo Baldo. Avuta la mia risposta, ella con allegro e quasi ridente viso, cortese e leggiadramente a messer Filippo rivolta, lo richiese che come noi il nome suo, la patria e se egli era gentiluomo le facesse manifesto. A cui messer Filippo dopo il debito inchino riverentemente cosí rispose: – Madama, signora e padrona mia, ciascuno che mi conosce mi domanda Filippo dei Nicuoli cremonese, e son gentiluomo. – La reina che a nessuno degli altri da lei domandati non aveva cosa alcuna detta, a messer Filippo rispose in questo modo: – Voi ben dite il vero che sète gentiluomo, e chi volesse il contrario dire egli dimostreria assai apertamente aver poco giudicio. – Né piú disse, ma insieme con la reina Maria quindi uscita, ne andò a la chiesa. Tutti quelli che le parole de la reina udirono, restarono pieni d’una infinita ammirazione non sapendo imaginarsi ciò che si fosse, e ugualmente fu da tutti giudicato la reina aver a messer Filippo fatto un favore singolarissimo. Egli, come era il suo consueto, pieno d’infiniti e varii pensieri andò a la chiesa e nel solito luogo si pose, rivolgendo tuttavia le parole de la reina che ella dette gli aveva, tra sé. E ancora che non potesse discernere a che fine tanta e cosí onorata reina gli avesse simili parole risposte, nondimeno a lui pareva questa cosa ovunque fosse saputa cedergli a grand’onore. E certamente senza fine è da commendar l’umanitá di tanto eccellente e nobil donna, la quale essendo di cosí alto legnaggio e moglie d’un sí gran prencipe di stirpe imperiale, non solamente non si sdegnò da uomo di bassa condizione e fuoruscito di casa sua esser amata, ma volle anco con ogni cura e diligenza spiare e con effetto chiarirsi se ella era quella che il giovine italiano amasse, come in parte s’è visto, non per altro, credo io, se non per potere circa questo magnificamente operare ciò che paruto le fosse convenevole a la grandezza di lei e al fervente amore del giovine innamorato, come poi fece. Ma quante ce ne sono oggidí, non dico reine o prencipesse, ma semplici e private gentildonne, che levatole un poco d’apparenza di bellezza sono senza costumi e vertú, le quali accorgendosi de l’amore di qualche gentiluomo che non sia a lor talento dei beni de la fortuna dotato, quello scherniscono e beffano? Quante medesimamente ce ne vivono da cotal alterezza inebriate, le quali si riputerebbero che grandissima ingiuria fosse loro fatta se altri che ricchissimo e gran gentiluomo si mettesse ad amarle? E nel vero una gran parte de le donne, (di quelle parlo che sono d’animo basso e vile e non curano né fama né onore, ma solo l’utile e il diletto), a tale vive che non guarda se gli amanti sono discreti, costumati, vertuosi e gentili, ma attende solamente se la borsa è piena e piú prezza un poco di bellezza che come un còlto fiore in breve tempo si guasta, che non fa il valore e generositá de l’animo e l’altre mille belle parti che saranno in uno gentiluomo, le quali di giorno in giorno piú s’abbelliscono e diventano di maggior perfezione. Altre poi sono che perdute dietro a qualche giovine che paia lor bello, ancor che sia senza vertú o costumi, amano solamente un pezzo di carne con dui occhi in capo. Né crediate per questo che per l’ordinario gli uomini siano piú saggi in questo de le donne. Ben deverebbero essere, per aver piú di senno il sesso nostro che il feminile; ma per dire il vero, tutti siamo macchiati d’una pece mercé del guasto mondo. Indi avviene che ai nostri dí veggiamo pochi amori che abbiano lunga durata, perciò che come manca l’origine de l’amore, medesimamente manca l’amore; come cessano i doni, come quel poco fiore de la beltá si secca, piú non v’è né conoscenza né amore. Onde avviene bene spesso, quando gli amori non sono fondati se non sovra il godimento di queste bellezze caduche e di poca stima, che come nebbia al vento si fanno; avviene, dico, che non solo quel poco ardore che v’era s’intepidisce, ma in tutto s’aggela, e sovente l’amore in odio e nemicizia crudele si converte. Ed evvi poi di peggio, che molti i quali vogliono esser creduti e detti gentiluomini per esser nati di antica e nobile schiatta, ma cresciuti senza vertú e privi d’ogni leggiadro e lodato costume, perciò che non sanno né mai appararono che cosa sia gentilezza, si pensano d’esser gran sabatani quando in cerchio d’animali a loro simili si mettono la giornea e dicono: – Io ebbi la tal donna e la tale, e cotale è amica del mio compagno, – di maniera che molto spesso levano la fama a questa ed a quella. E nondimeno vi sono de le gentildonne cosí pazzarelle e di sí poco cervello che, ancora che questo sappiano e chiaramente conoscano, si persuadeno o con la beltá o con che altro si sia a cotali sfrenati cavalli porre il freno, e non s’avveggiono, scioccarelle, che in pochi dí non sono piú aventurose de l’altre, ma cadeno in bocca del volgo e ne sono con perpetua infamia e gran scorno mostrate a dito; ove chi amante discreto, costumato, vertuoso e gentile elegge, non teme di ricever biasimo alcuno. Né perché tutte le donne non siano valorose e gentili e savie si dee ritirare un vero amante, se altamente le sue speranze ha poste, che ardentissimamente non ami ed onori la sua donna, imperciò che tutte non sono fatte ad un modo. Ché pure questa nostra etá ha di molte valorose e bellissime donne le quali di saggi ed onesti costumi, di leggiadre e belle maniere ornate, per la loro generositá, magnanimitá e grandezza de l’animo meritano infinitamente esser riverite ed onorate. E chi s’abbatte in donna gentile e vertuosa, come fará che eternamente non l’ami e che per rispetto di lei tutte le donne non onori? Ma noi ci siamo troppo dilungati da l’istoria nostra. A la quale ritornando, vi dico che la fortuna aveva preso a favorire messer Filippo, perciò che oltre che madama la reina mostrava aver caro questo amore, pareva che anco ogni cosa s’accordasse a profitto di questa sua impresa. Era governatrice de la reina madonna Paola dei Cavalli gentildonna veronese, donna assai attempata, e creata de la felice memoria di madama Bianca Maria Sforza giá moglie di Massimigliano Cesare. A costei impose la reina Anna che desse opera d’aver qualche rime toscane o altre composizioni ne la lingua italiana. E questo ella lo faceva per potersi meglio far famigliare e domestico il nostro parlare, con ciò sia cosa che molto s’essercitava in apparare l’italico idioma, e tanto giá e cosí chiaro ne parlava che da tutti noi era ottimamente intesa. Ora come volle la buona sorte di messer Filippo, egli quel dí si ritrovò a corte tutto solo, ché da ogn’ora s’ingegnava se possibile era di veder la reina. Quivi come madonna Paola lo vide, perciò che domesticamente lo conosceva, se gli avvicinò e gli disse: – Caro messer Filippo, perciò che madama la reina molto si diletta di apparare la lingua nostra e di giá v’ha fatto assai buon principio, ché come potete aver sentito, ella ne parla assai, questa matina levandosi ella m’ha caldamente imposto che io le ritrovi qualche bella rima toscana; che oltra quei libri in lingua italiana stampati che ci sono, ella vederia volentieri qualche bella cosa di quelle persone dotte che ai nostri tempi compongono, e massimamente averebbe caro veder de le belle rime, de le quali io so che voi ve ne dilettate e penso ne debbiate aver copia. Pertanto m’è parso ricorrermi a voi e strettamente pregarvi che voi vogliate far parte de le belle rime che avete a essa madama, perché le ne farete cosa molto grata ed accetta, ed io ve ne resterò per sempre obligatissima, oltra che a quella farò sapere, quando a lei le presenterò, che io da voi le averò avute. Il che, amando essa reina la nazion nostra come ella fa, ché ci vuol gran bene e molto ci favorisce, non potrá se non qualche occasione esservi di profitto. – Messer Filippo come seppe il meglio ringraziò la donna e sí le disse: che egli poche cose in Ispruc aveva di quelle che ella ricercava, ma che portava ben ferma credenza di ritrovarne pur assai appo quei gentiluomini che a la corte seguivano, e che ci userebbe ogni diligenza per ricuperarne piú che fosse possibile; ma che fra questo mezzo le daria quelle poche che aveva e che quella sera medesima le recheria. E pregandola che lo tenesse in buona grazia di madama la reina, si accommiatò da lei e andossene diritto a l’albergo ove era alloggiato e quivi cominciò con diligenza a rivolger le sue scritture. Egli era tutto pieno d’allegrezza per cotal occasione. Ora egli tra le sue carte altre rime che a quello paressero degne d’andar in mano di tanta donna non ritrovò se non una terza rima o capitolo, come dir vogliamo, che aveva composto il molto gentil e vertuoso dottore di leggi e poeta eccellente messer Niccolò Amanio da Crema, il quale tutti devete mentre visse aver conosciuto o almeno per fama sentito ricordare, il quale ne le composizioni de le rime volgari fu in esprimer gli affetti amorosi a questa nostra etá senza pare. E perché questo capitolo de l’Amanio era tanto a proposito di messer Filippo e del suo amore quanto si possa desiderare, egli che bellissimo scrittore era, in un foglio politamente lo trascrisse. Diceva adunque cosí:
Quanto piú cresce Amor l’aspro tormento
struggendo questa mia trist’alma e accesa,
tanto piú sono ognor d’arder contento.
Se mille volte il dí la tien sospesa
tra speranza e timor, ogni dolore
dolce fa questa glorïosa impresa.
Tant’altro è ’l fuoco ond’io m’accendo il core
che tra fiamme d’amor null’altro mai
ebbe principio da tant’alto ardore.
Dolci dunque tormenti e dolci guai,
dolce lume d’amor, dolce pensiero,
che in me scendeste da tant’alti rai,
tant’alta maiestá, tant’alto impero
pavento a contemplar, e so ben ch’io
son basso oggetto a l’alto ben ch’io spero.
Ma piú che la ragion può in me ’l disio
e i begli occhi, ov’Amor pur mi conforta,
armato di quel guardo onesto e pio;
sguardo che l’alma e ’l cor al ciel mi porta
e d’ogn’intorno l’aria rasserena,
ch’a mille paradisi apre la porta.
Alma mia diva, angelica sirena,
reale venustá, sacra bellezza,
passa ogni ben la mia felice pena.
S’a sí alto poggio il mio sperar si spezza,
dirá almen il mio cor: – Io fui tant’alto,
ch’agli occhi dei mortali ogn’altra altezza
è bassa a par di questa ond’io m’essalto.
Come messer Filippo ebbe trascritto questi versi, subito se ne tornò a corte, e fatta chiamar madonna Paola da uno dei camerieri, le disse: – Madonna, io per ora vi reco queste poche rime che sono molto belle e leggiadre. Voi le darete a la vostra padrona, ed io mi darò a torno d’averne de l’altre e tutte recherovvele. – Madonna Paola le pigliò, e andata in camera e trovato che la reina era senza compagnia ed intertenimento di forestieri, inchinevolmente le disse: – Madama, voi stamane mi diceste che io vi ritrovassi qualche rima di quelle che compongono i nostri italiani, ed io ricercandone ho ora avuto questi pochi versi da messer Filippo dei Nicuoli segretario del signor Andrea Borgo, il quale m’ha promesso farmene aver degli altri. – La reina udito questo, mezzo sorridendo prese la carta e, lette le rime, il senso de le quali ella ottimamente apprese, pensò che messer Filippo fosse stato il compositor di quelle e che a posta per lei le avesse fatte. Onde levatosi da l’animo ogni velame di dubitazione, tra sé conchiuse e tenne per certo sé esser quella che messer Filippo ardentemente amasse, e tanto piú in questa sua openione si confermò e tennela vera quanto che sotto le rime erano queste poche parole: – A tale e da tale a chi si conviene. – E considerata la grandezza de l’animo del giovine, incolpò la natura che in uomo bassamente nato avesse sparso seme che cosí generoso ed alto core avesse fruttato, e molto il giovine tra sé ne lodò. Indi conferito il tutto con sua cognata la reina Maria, che è savia ed avvenente donna, e sovra questo amore fatti varii discorsi e sempre da piú tenendone il giovine, deliberò essa reina Anna, quando onestamente potesse, dare a messer Filippo, di questo suo cosí alto e nobile amore, onesto e convenevole guiderdone. E mentre che ella era intenta a ciò aspettando che qualche occasione se le parasse dinanzi, quando vedeva messer Filippo, tutti quei favori e grate accoglienze gli faceva che da valorosa ed onestissima reina debbia ciascun gentiluomo e vero amante che de la ragione s’appaghi aspettare, e tanto piú dove fosse tanta diseguaglianza de le parti come qui era. Del che esso messer Filippo viveva il piú contento uomo del mondo, né piú oltre di quello che aveva osava sperare, continuando la solita vita e pascendosi de l’amata vista. E cosí andò la bisogna che molti cortegiani gli portavano invidia grandissima veggendolo di tal maniera favorir da madama la reina; piú oltra però nessuno pensando, ma imaginandosi ciascuno che madama tanti favori gli facesse perciò che egli era giovine vertuoso e scienziato, e quella era per il continovo avvezza agli uomini, che per lettere o per altra dote d’ingegno erano bene qualificati ed il valevano, a far onore e carezze assai, e quelli, ove l’occasione occorreva, favorire ed onestamente guiderdonare. Avvenne in quei dí che Massimigliano Cesare passò a l’altra vita, ritrovandosi Carlo suo nipote esser in Ispagna. Per la morte d’esso Massimigliano deliberò il signor Andrea Borgo mandar un suo uomo al re Carlo per ottener da quello la confermazione di quanto aveva per la sua lunga e fedel servitú e per la liberalitá di Massimigliano acquistato. E fatta elezione di mandarvi messer Filippo, per averlo egli piú volte conosciuto uomo avveduto e pratico per cotal maneggio, se n’andò a far la debita riverenza a le signore reine, e fece loro intendere come in breve egli voleva mandare il suo segretario in Spagna e la cagione per la quale lo mandava, supplicandole umilmente che amendue in favore de la confermazione ch’egli ricercava degnassero scrivere con quella piú caldezza che fosse possibile. Le reine che sapevano quante fatiche egli sotto Massimigliano aveva durato e quanti perigli aveva trascorso, dissero di farlo volentieri. Parve alora a la reina Anna d’esser il tempo di dar conveniente guiderdone al lungo amore di messer Filippo. E perché ella era gentilissima ed una de le piú larghe e liberali prencipesse del mondo e che a chieder a lingua sapeva molto bene onorare cui ne l’animo le capiva che il valesse, conchiuso quanto far intendeva, impose al signor Andrea che le mandasse il suo segretario al tempo del partire, perciò che oltra le richieste lettere voleva commettergli alcuna cosa da spedire a la corte di Spagna. Partito che fu il signor Andrea, la reina Anna communicò il suo pensiero circa messer Filippo con la reina Maria, la quale trovatolo buono, poi che l’ebbe commendato la essortò a darli compimento. E circa questo amendue scrissero molte lettere in Spagna al re Carlo, al gran cancegliero e ad altri a chi lor parve che a tal effetto qual desideravano fossero atti e convenienti ministri. Dapoi che il signor Andrea ebbe le cose sue ad ordine, disse a messer Filippo, che giá s’era messo in punto per quello che gli bisognava a cosí lungo viaggio: – Filippo, anderai oggi a la reina Anna e fa intender a quella che tu sei quello che io mando in Spagna a la corte. Ella ti vuol commettere alcune cose da spedire col re catolico. Oltra che tu prometterai a quella di far quanto ella t’imporrá, le dirai anco che cosí hai da me in special commissione. – Non poteva piú dolce suono penetrar l’orecchie di messer Filippo di questo, perciò che intendendo egli che vederia e parleria innanzi al dipartire a la sua donna e che quella gli voleva imporre alcuni affari da negoziare, ne fu oltra modo lieto e contento. Onde venuta l’ora che a lui parve convenevole, quivi se n’andò e fece saper a essa reina che egli quivi era presto a quanto quella degneria comandargli. Come la reina questo seppe, cosí subito ordinò che entrasse in camera. Egli con tremante core entrato, dopo le convenevoli e debite inchinazioni, tutto riverente e timido a la reina s’appresentò e sí le disse: – Sacra madama, io son Filippo servidor vostro che il signor Andrea Borgo manda al re catolico nostro signore, presto a far tutto ciò che voi degnarete di comandarmi, sí perché vi sono divotissimo servidore e desidero sovra tutte le cose del mondo che voi di me come di vostro minimo che vi serva vi prevagliate, ed altresí perciò che il signor Andrea me l’ha commesso. – La reina alora con lieto viso a lui guardando, gentilmente gli parlò: – E noi con fiducia che debbiate far quanto vi diremo vi abbiamo fatto qui venire, perciò che conoscendovi gentiluomo e tenendo per certo che volentieri farete cosa che ci sia a grado, n’è paruto far elezione di voi. Ciò adunque che da voi vogliamo è che voi diate queste lettere, che sono per affari nostri di grandissimo peso, in mano al re catolico e che gli basciate le mani riverentemente in nome nostro. Poi tutte queste lettere darete secondo che noi le indrizziamo, che del tutto ve ne averemo grado. E se per voi possiamo alcuna cosa a vostro onore e profitto, fateci liberamente intender l’animo vostro, ché vi promettiamo che da noi sarete con buon core sodisfatto. E questo per sempre ed in ogni luogo vi sia offerto, ché cosí ne pare e parrá di continuo che la fede, il valore e la grandezza de l’animo vostro il vagliano. – Il buon messer Filippo, pieno di tanta dolcezza che gli pareva d’esser in paradiso, si sentiva nòtar il core in un profondo mar d’ogni gioia, e a la meglio che puoté la ringraziò di tanta cortesia, e che quantunque si conoscesse indegno de la grazia di lei, che pure tal qual era se le offeriva e donava per schiavo e fedelissimo servidore. Cosí inchinevolmente basciatele con piacer grandissimo le mani, da lei che di grado se le lasciò basciare prese riverentemente licenza. Uscito che egli fu di camera, s’abbatté nel tesoriero de la reina che l’attendeva, il quale per parte d’essa reina gli pose in mano una borsa con cinquecento fiorini renesi, e il maestro de la stalla gli presentò una chinea motto bella e buona. Del che esso messer Filippo si tenne per ottimamente sodisfatto e di gioia a pena capeva ne la pelle. Messosi adunque in viaggio, tanto andò per sue giornate che arrivò a la corte del re catolico in Ispagna, ove pigliata l’oportunitá si presentò al re Carlo, e fattogli la reverenza e l’ambasciata de la reina Anna gli diede le lettere che aveva. E data espedizione a l’altre lettere, attese a negoziare le cose del signor Andrea. Il re visto quanto da la cognata e da la sorella gli era scritto, e dal gran cancegliero, che alora era messer Mercurino da Gattinara, e da altri a cui le reine avevano con loro lettere tal ufficio commesso, solecitato ed anco attese le buone condizioni di messer Filippo che gli era negoziando paruto assai discreto ed avveduto molto e di buona maniera, un dí se lo fece avanti venire. Venne subito messer Filippo e avanti al re Carlo per commissione del gran cancegliero inginocchiato, attendeva quanto egli volesse dirgli, non sapendo a che fine fosse stato richiesto. Quivi il re catolico gli disse: – Il testimonio che di voi ne rendono tanto onoratamente le due reine di cui le lettere a la venuta vostra portaste, e la speranza che abbiamo che da voi averemo leale e profittevole servigio ne astringono a mettervi nel numero dei nostri segretarii, onde in man nostra giurarete d’esserne sempre leale e fedele. – Messer Filippo pieno di meraviglia ed allegrezza, quanto volle il gran cancegliero che le parole gli prediceva, giurò. Cosí fu spedito il suo decreto e cominciò a far l’ufficio suo con sodisfacimento di tutti e con grazia del re. E dopo che il re Carlo fu eletto imperadore, conoscendo la pratica che messer Filippo aveva ne le faccende de l’Italia e massimamente de la Lombardia, gli pose in mano tutti gli affari che a le cose d’Italia appartengono. Del che sí bene a messer Filippo ne avvenne che egli, oltra che la sua vertú e prudenza dimostrò, ne acquistò di molte ricchezze, e di continovo piú divenne servidore de la sua reina, quella come cosa santa adorando. Che diremo noi, donne mie belle e vertuose, del valore e magnificenza di questa splendidissima reina? Veramente per mio giudicio, quale egli si sia, ella merita tutte quelle lodi che a donna eccellentissima dar si possano, perciò che ella magnificamente operando ha il suo fedelissimo servidore rimeritato. Ed in vero come il sole è di tutto il cielo e di quanto sotto quello si contiene bellezza ed ornamento, cosí la magnificenza in ciascheduna persona è veramente la chiarezza e lo splendidissimo lume d’ogni altra vertú che in quella risplenda, e massimamente in quei personaggi che di maggior grado sono. Ma facendo fine attenderò che voi a questa cortesissima reina diate quelle lodi che le convengono e che ciascuno dica circa questo il parer suo, perciò che a me pare che tanto dire non se ne possa che molto piú non ne resti a dire. Ed io invero parole non trovo che la sua grandezza in parte, non che in tutto, sappiano agguagliare.
Il Bandello a l’illustre e gentil signora
la signora Maddalena Sanseverina
Se io, molto cortese e magnanima signora mia, mentre che lo spirito mio informerá questo corpo non mi dimostrassi verso voi e tanti da voi ricevuti beneficii con tutto il cor grato, veramente d’eterno biasimo degno mi giudicherei. Ma perché io, qual io mi sia, mi do a credere e non senza ragione che la ingratitudine sia uno degli sconci, enormi e vituperosi vizii che caschino in qualsivoglia persona, mi son sempre sforzato di fuggirlo e tuttavia me ne sforzo, cercando quanto piú si può da quello allontanarmi. Ora perciò che io non posso di pari gratitudine a la vostra infinita cortesia e reale liberalitá corrispondere, ché sempre avete con la generositá de l’animo vostro quale voi sète ne l’opere da voi magnificamente fatte dimostrato; questo almeno farò io, che confessandomi di gran somma debitor vostro e cominciando quanto per me si può a sodisfarvi, farò noto al mondo che io non voglio esser ingrato dei ricevuti da voi beneficii, parendomi che sola la confessione del debito sia quasi un principio di pagamento. Onde con quelle picciole forze che io posso cominciando a sodisfarvi, una mia novelletta molto breve, recitata questi dí dal nostro vertuoso messer Girolamo Cittadino in casa del signor Lucio Scipione Attellano a la presenza di molte belle donne e da me al numero de l’altre accumulata, v’appresento e dono, portando ferma openione che voi quella con allegro viso accettarete. E a darvi questa mi son mosso parendomi che a voi meglio che ad altri convenga, perciò che quella sète che oltra la liberalitá e cortesia che in voi sono grandissime e tra l’altre vostre doti in voi risplendono come ne la serena notte la luna fra le minori stelle, onorate e senza fine guiderdonate i vertuosi che conoscete. So anco che piú i frutti de l’ingegno vi aggradiscono e dilettano che non fanno le gemme, l’oro e le ricche vestimenta, de le quali cose, la Dio mercé, copiosa ed altrui tanto liberal ne sète che non solo al bisogno di chi vi richiede liberamente allargate le mani, ma assai sovente le aspettazioni e speranze altrui col largo e sontuoso vostro donare prevenite. Degnarete adunque prestar l’orecchie a ciò che il nostro gentil Cittadino ci dice d’un leggiadro e vertuoso atto usato verso un vertuoso uomo da una nora di Carlo, di questo nome settimo re di Francia. E riverentemente supplicandovi che vi piaccia tenermi ne la vostra buona grazia, umilmente vi bascio le mani. State sana.