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Introduzione | 27 |
italiana, la marchesa Isabella d’Este. I suoi idillii rientrano tutti nelle consuetudini correnti, che non vietano affatto a personaggi di alta dignità, dalla vita proba, relazioni mondane, e men che mai interdicono loro di cantare in versi la donna prediletta, trasumanata, come figurazione dugentesca, in creatura sovrana. Applicabili al Bandello medesimo sono quelle stesse sue parole dove egli afferma che «sono uomini il cui debito naturalmente è d’amare, onorare, riverire e celebrare tutte le donne e massimamente quelle che lo vagliono»; e anche a lui può riferirsi il suo commento: «Ma per dir vero sempre de le lodi che gli uomini cantano de le donne, portano di continovo con loro un poco di sospetto..... che non si passi alquanto il termine de la verità» (III-17). Egli è nel novero di costoro. Egli intona la sua canzone d’amore con perfetta devozione cavalleresca — qual si conviene ad un amico dell’autor del Cortegiano — e informa la propria lirica alle teoriche dell’amore allora in auge. Per questo il suo Canzoniere impallidisce ai nostri occhi. Il poeta lascia in ombra la palpitante umanità della Mantovana, per esaltarla divina. La Mencia è idolo, anzi icona da porre sugli altari: non è persona salda, ma larva lucente.
Alcune rime ignote all’edizione Costa, o perchè sfuggite alle ricerche fatte dal Bandello (II-26) quando allestì l’autografo, o perchè ad esso posteriori, o perchè estranee al disegno del Canzoniere costituiscono un manipoletto di Rime estravaganti, che raccogliamo in fondo a questo volume, indicandone a suo luogo la provenienza. Ad esse possono, legittimamente,